XV (XIV) – Le due anime, contro i Manichei, un libro
15.1 Dopo questo libro, mentre ero ancora semplice sacerdote , scrissi contro i Manichei trattando delle due anime. Di queste affermano che l’una sarebbe una parte di Dio, l’altra deriverebbe dalla stirpe delle tenebre, una realtà che non rientrerebbe nel novero delle creature di Dio e sarebbe a lui coeterna. Vanno anche dicendo nel loro delirio che entrambe queste anime, delle quali l’una buona e l’altra malvagia, coesisterebbero in uno stesso uomo, affermano cioè che cotesta anima malvagia sarebbe propria della nostra componente carnale – componente che, sempre a loro dire, apparterrebbe alla stirpe delle tenebre – mentre quella buona sarebbe costituita da una parte, sopravvenuta dall’esterno, della stessa sostanza divina che sarebbe entrata in contrasto con la stirpe delle tenebre e risulterebbe unita e mescolata alla prima. Di qui l’attribuzione di tutti i beni dell’uomo all’anima buona e di tutti i mali a quella malvagia. In questo libro ho scritto: Non esiste alcuna vita, qualunque essa sia, che per il fatto stesso di essere vita e in quanto è veramente vita, non si ricolleghi alla suprema fonte ed origine della vita. Ho affermato questo perché si intenda che la vita, in quanto creatura, si ricollega al suo Creatore, non già che tragga origine da lui come sua parte.
15.2 Ho anche detto che non v’è peccato se non nella volontà. I Pelagiani possono pensare che questa affermazione sia a loro favore in considerazione dei bambini non ancora in grado di usare del libero arbitrio della volontà che perciò, a loro dire, sarebbero esenti dal peccato che vien loro rimesso nel battesimo. Ma affermare questo è come sostenere che il peccato – quel peccato che i bambini, a nostro avviso, hanno ereditato da Adamo e per il quale risultano implicati nel suo delitto e, per conseguenza, soggetti a pena – possa essersi verificato in qualcosa di diverso dalla volontà, la volontà con la quale fu commesso quando si verificò la trasgressione del comandamento divino. La nostra affermazione che non v’è peccato se non nella volontà può anche essere ritenuta falsa, ove si considerino le parole dell’Apostolo: Se faccio proprio ciò che non voglio, non sono più io ad agire, ma il peccato che abita in me. A tal punto questo peccato è estraneo alla volontà da indurre l’Apostolo a dichiarare: Faccio proprio ciò che non voglio. In che senso dunque non ci sarebbe peccato se non nella volontà? Va però considerato che questo peccato del quale l’Apostolo ha parlato in tali termini prende il nome di peccato per la ragione che è determinato dal peccato e ne costituisce la punizione. In realtà ciò di cui qui si parla è la concupiscenza della carne, come l’Apostolo stesso chiarisce subito dopo dicendo: So che in me, cioè nella mia carne, non alberga il bene: ho infatti la possibilità di volere, ma non di fare il bene. La compiuta realizzazione del bene consiste nell’assenza dall’uomo della stessa concupiscenza del peccato, quella concupiscenza cui la volontà si oppone quando si conduce una vita retta. Non attua però completamente il bene perché c’è ancora in lui la concupiscenza cui s’oppone la volontà. La colpa legata a tale concupiscenza viene mondata nel battesimo, ma resta la debolezza con la quale ogni fedele ben avviato sulla via della perfezione tenacissimamente lotta fino a completa guarigione. Quanto al peccato che non esiste se non nella volontà si deve intendere con esso soprattutto quello cui ha fatto seguito una giusta condanna: trattasi in realtà di quello che è entrato nel mondo per colpa di un solo uomo. Eppure anche questo peccato, in conseguenza del quale si dà l’assenso alla concupiscenza del peccato, non vien commesso se non nella volontà. Per questo anche in un altro passo ho detto: Non si può dunque peccare se non volontariamente.
15.3 In un altro passo così ho definito la stessa volontà: La volontà è un impulso dell’anima a non perdere o a conseguire qualcosa senza alcuna costrizione. Mi ero espresso così perché con tale definizione si stabilisse una distinzione fra l’azione volontaria e quella involontaria e si facesse riferimento a coloro che per primi nel paradiso costituirono per il genere umano l’origine del male. A ciò essi giunsero peccando senza che nessuno li costringesse, peccando cioè liberamente e volontariamente. Lo dimostra il fatto che non solo agirono scientemente contro un ordine ricevuto, ma colui che li tentò (perché ciò avvenisse) lo fece ricorrendo alla persuasione, non alla costrizione. Non sarebbe infatti un’incongruenza considerare peccatore involontario chi compisse un’azione peccaminosa senza essere a conoscenza della sua peccaminosità, anche se, a ben considerare la cosa, non si può dire che chi ha agito senza sapere abbia agito anche senza volere, con la conseguenza che nemmeno il suo peccato poté aver luogo senza l’intervento della volontà. La sua volontà dunque, secondo la definizione che se n’è data, è stata un impulso dell’anima a non perdere o a conseguire qualcosa senza alcuna costrizione. Non fu infatti costretto a fare ciò che avrebbe potuto non fare se l’avesse voluto. Lo ha dunque fatto poiché l’ha voluto, anche se non ha peccato per averlo voluto, visto che ignorava la peccaminosità della sua azione. Neppure a tale peccato perciò fu estranea la volontà, pur trattandosi della volontà di fare e non di peccare; e pur tuttavia quel fare è stato un peccato, dato che s’è fatto ciò che non si sarebbe dovuto fare. Chiunque invece pecca scientemente e, pur potendo resistere senza peccare a chi vorrebbe costringerlo al peccato, non esercita tale resistenza, pecca in ogni caso volontariamente poiché chi può resistere non è costretto a cedere. Chi poi non è in grado di resistere con la sua buona volontà a una passione che lo costringe e perciò agisce contro i comandamenti della giustizia, commette un peccato che lo è a tal punto da essere anche la punizione del peccato. È pertanto perfettamente conforme a verità sostenere che non ci può essere peccato senza volontà.
15.4 Ho anche dato questa definizione del peccato: Peccato è la volontà di conservare o di conseguire ciò che la giustizia vieta e da cui ci si può liberamente astenere. Essa è vera in quanto si limita a definire ciò che è semplicemente peccato, non quella che è anche una punizione del peccato. Quando infatti il peccato è tale da costituire nel contempo anche la punizione del peccato stesso, quale possibilità ha la volontà, posta sotto il dominio della passione, se non quella di chiedere aiuto ove sia intrisa di spirito religioso? In tanto è libera in quanto è stata liberata, e solo a tale patto può essere denominata volontà. Altrimenti sarebbe più corretto chiamarla senz’altro passione, anziché volontà. Questa poi non costituisce, come vanno dicendo i Manichei nella loro follia, l’aggiunta di una natura estranea, bensì un difetto della nostra, difetto del quale può guarirci solo la grazia del nostro Salvatore. Se poi qualcuno afferma che la passione altro non è che la stessa volontà, quando però sia viziosa e schiava del peccato, non c’è da opporsi né da farne una questione di parole, visto che quella è la sostanza : anche in questo modo si dimostra che senza volontà non può esservi peccato, intendendo per peccato sia quello attualmente compiuto sia quello compiuto all’origine.
15.5 Ho anche detto: Avrei potuto chiedermi se quella categoria di anime malvagie avesse avuto una qualche volontà prima di unirsi a quelle buone. Se non ne aveva era senza peccato ed innocente, quindi in nessun modo malvagia. Perché dunque – ci si obietta – parlate del peccato dei bambini dei quali non ritenete colpevole la volontà? Si risponde ch’essi sono ritenuti tali non perché posseggano una volontà, ma per la loro origine. Chi è in effetti, quanto all’origine, ogni uomo che vive sulla terra se non Adamo? Ma Adamo aveva senz’altro una volontà e proprio perché ha peccato con quella volontà il peccato per opera sua è entrato nel mondo.
15.6 Ho anche detto: Le anime non possono in alcun modo essere malvagie per natura. Se ci si chiede come intendiamo, in riferimento con questa nostra affermazione, le parole dell’Apostolo: Eravamo anche noi per natura figli dell’ira come tutti gli altri, rispondiamo che nelle mie parole ho voluto che per natura s’intendesse quella che vien detta natura in senso proprio e nella quale siamo stati creati senza difetto. Quella infatti di cui parla l’Apostolo è detta natura in funzione della sua origine, un’origine comunque corrotta da un difetto che è contro natura. Ho detto inoltre: È segno di somma iniquità e di follia che si consideri qualcuno reo di peccato per non aver fatto ciò che non poteva. Perché dunque – mi si obietta – i bambini sono ritenuti colpevoli? Si risponde: Lo sono in quanto traggono origine da colui che non fece quello che avrebbe potuto fare, rispettare l’ordine divino. Ho poi detto: Qualunque cosa facciano quelle anime, se lo fanno in conseguenza della loro natura e non per volontà, se cioè vien loro a mancare un libero moto dell’anima a fare o a non fare, se infine non viene loro concessa alcuna possibilità di astenersi dalla loro azione, non possiamo in alcun modo considerarle in peccato A questo però non fa difficoltà la questione dei bambini in quanto la loro colpevolezza trae origine da colui che peccò volontariamente quando non gli venne a mancare il libero impulso dell’anima a fare o a non fare e aveva al massimo grado il potere di astenersi da un’azione malvagia. Non è questo che affermano i Manichei della stirpe delle tenebre, che introducono ricorrendo a fandonie, e sostengono che la sua natura è sempre stata malvagia e mai buona.
15.7 Mi si potrà chiedere di chiarire il senso di queste mie parole: Anche ammesso che vi siano delle anime – cosa d’altronde incerta – legate alle operazioni del corpo non in conseguenza del peccato, ma per natura e che, nonostante la loro inferiorità, ci tocchino per una qualche affinità interiore, non converrà considerarle malvagie solo perché lo siamo noi quando le seguiamo e amiamo le cose materiali. La domanda potrebbe essermi rivolta in considerazione del fatto che le mie affermazioni riguardano quelle medesime anime delle quali in precedenza così avevo incominciato a parlare: Ciononostante, anche se si concede loro che noi siamo indotti ad azioni vergognose da un altro genere inferiore di anime, non per questo giungono alla conclusione o che quelle per natura siano malvagie o che queste costituiscano il sommo bene. Di queste ho continuato a discutere fino al passo in cui ho detto: Anche ammesso che vi siano delle anime – cosa d’altronde incerta – legate alle operazioni del corpo non in conseguenza del peccato, ma per natura, con quel che segue. Mi si potrà dunque chiedere perché abbia detto: cosa d’altronde incerta, mentre non avrei dovuto aver dubbi che tali anime non esistono. Ho detto però questo per aver avuto esperienza di persone a sentire le quali il diavolo e i suoi angeli sarebbero buoni nel loro genere e in quella natura nella quale Dio li ha creati così come essi sono secondo il loro rango, mentre per noi sarebbe un male lasciarsi sedurre e vincere da loro, ma motivo di onore e di gloria l’evitarli e l’avere il sopravvento su di loro. E coloro che affermano questo ritengono di poter trarre dalle Scritture testimonianze idonee a provare il loro assunto, come ciò che si legge nel libro di Giobbe laddove è descritto il diavolo: Questa è la prima delle creature plasmate dal Signore che l’ha creata perché fosse lo zimbello dei suoi angeli; o l’altra del Salmo 103: Questo serpente che hai plasmato per prenderti gioco di lui. Per non rendere il libro troppo più lungo di quanto avrei voluto rinunciai allora a trattare esaustivamente e a sviluppare questa questione che andrebbe affrontata e risolta non contro i Manichei, che non la pensano così, ma contro altri che son di questa opinione. D’altra parte vedevo che, anche se avessi fatto questa concessione, i Manichei dovevano e oramai potevano essere convinti d’errore al momento in cui nella loro deviante follia introducevano la natura del male come coeterna all’eterno bene. Perciò io ho detto: cosa d’altronde incerta, non perché personalmente ne dubitassi, ma perché tra me e coloro che sapevo pensarla in questo modo la questione non era ancora stata definita. L’ho però risolta sulla base delle Sacre Scritture nel modo più chiaro che ho potuto in altri miei libri scritti molto dopo su L’interpretazione letterale della Genesi.
15.8 E altrove: Per questo – dico – pecchiamo quando amiamo le realtà materiali perché la giustizia ci ordina e la natura ci rende possibile amare quelle spirituali ed è a questo punto che raggiungiamo, nel nostro genere, il massimo grado di perfezione e di felicità. A questo punto mi si potrebbe chiedere perché tale possibilità sarebbe dovuta alla natura e non alla grazia. Ma nella controversia contro i Manichei era in questione la natura. E la grazia in ogni caso fa in modo che la natura, una volta sanata, sia in grado di far ciò che non le è permesso nel suo stato di abbrutimento per merito di colui che venne a cercare e a salvare ciò che era perduto. Già allora facevo riferimento a questa grazia nella preghiera da me formulata a favore dei miei amici che ancora erano stretti da quel mortale errore: Dio grande, Dio onnipotente, Dio di suprema bontà, che la fede religiosa ci impone di credere e di concepire come inviolabile e incorruttibile, Unità Trina oggetto di culto da parte della Chiesa cattolica, ti prego e ti supplico, dopo aver sperimentato in me la tua misericordia, di impedire che uomini coi quali fin dalla fanciullezza fui sempre in perfetto accordo in ogni occasione di vita in comune, dissentano da me per quanto attiene al culto a te dovuto. Sicuramente mentre pregavo così già ritenevo certo per fede non solo che i convertiti a Dio traggono vantaggio dalla sua grazia per progredire e raggiungere la perfezione – a questo proposito si potrebbe ancora dire che la grazia vien concessa per merito della loro conversione – ma anche che la conversione a Dio è da ascrivere alla sua grazia. È per questo che ho pregato per loro che erano troppo lontani da Lui ed è per la loro conversione che ho pregato.
Questo libro incomincia così: Con l’aiuto della misericordia di Dio.
XVI (XV) – Atti della disputa contro Fortunato Manicheo, un libro
16.1 Sempre nel tempo del mio sacerdozio mi capitò di discutere contro un certo Fortunato appartenente all’ordine dei preti manichei. Costui era vissuto a lungo ad Ippona ed aveva sedotto un così gran numero di persone da prediligere quella residenza per il legame che lo univa a loro. La disputa fu registrata da notai nel corso del suo svolgimento sotto forma di atti pubblici, come si evince dall’indicazione del giorno e del console in carica. Ci siamo perciò premurati di trasferirla in un libro perché se ne conservi la memoria. Vi si affronta il problema dell’origine del male, e mentre io asserisco che il male dell’uomo trae origine dal libero arbitrio della volontà, il mio avversario si sforza di dimostrare che la natura del male è coeterna a Dio. Il giorno seguente però ammise di non riuscire ad oppormi alcun argomento. Non divenne certo cattolico, ma si allontanò da Ippona.
16.2 In quel libro ho scritto: L’anima è stata creata da Dio come tutte le sue creature e, fra tutte le cose ch’egli ha creato nella sua onnipotenza, all’anima è stato dato il primo posto. Mi sono espresso così perché la mia affermazione si intendesse riferita a tutte le creature razionali, anche se, come già osservato, nelle Sacre Scritture o non si parla affatto di anime in riferimento agli angeli o non è facile trovarne menzione. In un altro passo ho detto: Affermo che non esiste peccato se non si pecca di propria volontà. In quel passo però ho voluto intendere per peccato solo quello che non è anche punizione del peccato: di tale punizione ho infatti detto altrove, nell’ambito della stessa discussione, tutto ciò che andava detto. Ho anche detto: Perché questa medesima carne, che ci ha tormentato e fatto soffrire mentre eravamo nel peccato, sia a noi sottomessa al momento della risurrezione e non ci turbi con alcuna azione contraria che ci impedisca di osservare la legge e i precetti di Dio. La frase non va però intesa nel senso che in quel regno di Dio, in cui avremo un corpo incorruttibile e immortale, si dovranno ancora ricavare dalle divine Scritture la legge e i precetti. Ivi la legge eterna sarà compiutamente osservata e, per conseguenza, rispetteremo i due noti precetti sull’amore di Dio e del prossimo non per averli letti, ma nell’amore perfetto e senza fine.
Quest’opera incomincia così: Primo di agosto dell’anno nel quale erano consoli Arcadio Augusto per la seconda volta e Rufino, uomini di segnalata fama.
XVII (XVI) – La fede e il Simbolo, un libro
17.1 In quel medesimo periodo, per incarico dei vescovi che tenevano in Ippona un concilio plenario di tutta l’Africa , discussi alla loro presenza, pur essendo ancora un semplice sacerdote, Della fede e del simbolo. Furono poi le insistenti pressioni di alcuni amici affezionati che mi indussero a farne un libro. In esso però i contenuti sono trattati senza ricorrere a quel tessuto di parole che viene affidato ai competenti perché lo memorizzino. In questo libro, trattando della risurrezione della carne, dico: Il corpo risorgerà secondo la fede cristiana che non può ingannare. Chi ritiene incredibile questo evento si limita a considerare la carne nel suo stato attuale e non quale sarà in futuro. In quel tempo di trasformazione angelica non ci saranno più la carne e il sangue, ma solo il corpo. A queste parole faccio seguire una discussione sulla trasformazione dei corpi terrestri in corpi celesti, sulla base dalle parole dell’Apostolo che, parlando di questo argomento, così si esprime: La carne e il sangue non possederanno il regno di Dio. Chiunque però intende questa espressione nel senso che il corpo terreno, quale noi lo possediamo, si trasformerà in corpo celeste grazie alla risurrezione e non avrà più né le membra attuali né consistenza carnale, va indubbiamente corretto. Sarà sufficiente ricordargli il corpo del Signore che, dopo la risurrezione, si presentò non solo alla vista ma anche al tatto con la medesima conformazione e assicurò anche espressamente di avere una carne dicendo: Palpate e vedete, poiché uno spirito non possiede carne ed ossa come potete constatare di me. Ne risulta che l’Apostolo non ha negato che nel regno di Dio vi sarà la sostanza carnale: ha solo designato con i vocaboli sangue e carne o gli uomini che vivono secondo la carne o la corruzione stessa della carne che a quel tempo non avrà più ragione di esistere. Dopo aver detto: La carne e il sangue non possederanno il regno di Dio, ben si comprende che è a mo’ di chiarimento di quanto già detto ch’egli ha aggiunto immediatamente dopo le parole: Né la corruzione possederà ciò che è incorruttibile. Di questa verità, della quale è difficile convincere gli infedeli, ho già discusso col maggiore impegno possibile, come potrà constatare chiunque leggerà l’ultimo libro della mia Città di Dio.
Il libro incomincia così: Poiché è scritto.
XVIII (XVII) – Libro incompiuto sull’interpretazione letterale della Genesi
18 Avevo già scritto due libri su La Genesi per difenderla contro i Manichei. In essi avevo illustrato le parole della Scrittura secondo il senso allegorico, non osando esporre i tanti misteri relativi alla natura attenendomi alla lettera di quanto leggevo, non osando cioè chiarire come possano essere interpretati in chiave storica i contenuti di quel testo. Volli allora mettere alla prova le mie possibilità anche in questa laboriosissima e difficilissima impresa , ma in questo mio primo confronto con l’esegesi scritturistica finii col soccombere sotto il peso di una mole così grande e, senza giungere alla fine di un solo libro, posi termine alla mia fatica che non riuscivo a sostenere. Il libro, incompleto così come si trovava, è caduto nelle mie mani al momento in cui, nell’elaborazione del presente scritto, stavo procedendo alla revisione dei miei opuscoli. A suo tempo non l’avevo pubblicato e avevo deciso di distruggerlo in considerazione del fatto che successivamente avevo composto un’opera in dodici libri recante come titolo: L’interpretazione letterale della Genesi. In esso sono più le questioni poste che le soluzioni, ma non è comunque possibile un confronto fra quei libri e l’opuscolo di cui ci stiamo ora occupando. Dopo la revisione volli però che anche questo libro rimanesse quale testimonianza, a mio avviso non inutile, dei miei primi rudimenti nella spiegazione e nell’approfondimento delle parole divine e volli che il suo titolo fosse: Libro incompleto sulla interpretazione letterale della Genesi. Ho trovato il libro dettato fino alle parole: Il Padre è soltanto il Padre e il Figlio altro non è se non il Figlio; e anche quando è chiamato somiglianza del Padre, pur risultando provato che non v’è alcuna dissimiglianza, non si può dire che vi sia solo il Padre, visto che c’è qualcuno cui è simile. Dopo queste parole ho ripetuto quelle della Scrittura per esaminarle e commentarle di nuovo: E disse Dio: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. Avevo lasciato il libro incompleto avendone interrotto la dettatura a questo punto. Ciò che segue ritenni di doverlo aggiungere al momento della revisione. Tuttavia non lo portai a termine e, nonostante questa aggiunta , lo lasciai incompleto. Se l’avessi completato avrei dovuto trattare almeno di tutte le operazioni e le parole di Dio relative al sesto giorno. Mi è sembrato superfluo censurare tutto ciò che non approvo in questo libro e difendere ciò che altri potrebbe disapprovare per non averlo ben compreso. Per dirla in breve, chiedo piuttosto che si leggano quei dodici libri che composi molto tempo dopo quando ero già vescovo e si giudichi questo libro sulla base di quelli.
Questo libro incomincia così: Occorre trattare dei misteri dei fenomeni naturali, che avvertiamo essere opera dell’onnipotenza e dell’arte divina, non facendo delle affermazioni, ma ponendo dei problemi.
XIX (XVIII) – Il discorso del Signore sulla montagna, due libri
19.1 Nel medesimo periodo ho scritto due libri Sul discorso del Signore sulla montagna secondo Matteo. Nel primo dei due libri, a proposito della frase: Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio, ho detto: La sapienza si addice ai pacifici nei quali ogni cosa è già nell’ordine e nessun impulso è ribelle contro la ragione, ma tutto obbedisce allo spirito dell’uomo che, a sua volta, obbedisce aDio. Provoca in me giustamente una certa preoccupazione il modo con cui ho espresso il concetto. A nessuno in realtà può capitare in questa vita che non vi sia nelle sue membra una legge che si oppone alla legge della ragione. E anche nel caso che lo spirito dell’uomo esercitasse una resistenza tale da evitare qualsiasi cedimento, non per questo mancherebbe il contrasto. Pertanto l’affermazione che nessun impulso è ribelle contro la ragione può essere accettato solo in quanto coloro che oggi tengono una condotta pacifica, domando la concupiscenza della carne, si comportano così per raggiungere un giorno quella pace nella sua forma più piena.
19.2 In un altro passo, alla ripresa della formula evangelica: Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio, ho fatto seguire queste parole: Tutto questo può già realizzarsi nella vita presente come pensiamo che si sia già realizzato negli Apostoli. La frase non va però intesa nel senso che gli Apostoli, durante la loro vita terrena, non abbiano sperimentato nessun impulso carnale in contrasto con lo spirito. Abbiamo solo voluto affermare che in questa vita è possibile giungere là dove sono giunti gli Apostoli, è cioè possibile raggiungere quel limite dell’umana perfezione quale può realizzarsi quaggiù. Non ho detto: Tutto questo può realizzarsi nella vita presente in quanto pensiamo che si sia già realizzato negli Apostoli. Ho invece detto: come pensiamo che si sia già realizzato negli Apostoli, auspicando cioè che si realizzi come si è già realizzato in loro, con quel grado di perfezione di cui è capace codesta vita; non come dovrà realizzarsi in quella pienezza di pace in cui poniamo le nostre speranze, quando si dirà: Dov’è, o morte, la tua battaglia?.
19.3 Quanto alla testimonianza addotta in un altro passo in cui si dice: Dio non concede lo spirito con misura, non avevo ancora compreso che propriamente e con grado maggiore di verità quelle parole si riferivano al Cristo. Se infatti agli altri uomini lo Spirito non fosse dato con misura, Eliseo non ne chiederebbe il doppio di quello concesso ad Elia. Così, nel commentare il passo della Scrittura in cui si legge: Un solo iota o un solo apice non passerà dalla legge finché tutto non sarà compiuto, avevo detto che non poteva essere interpretato che come un modo assai efficace di esprimere la perfezione. C’è però da chiedersi se tale perfezione possa intendersi in senso tale che resti comunque vero che nessuno che fruisca dell’arbitrio della volontà vive quaggiù senza peccato. Chi infatti può dar completa esecuzione alla legge se non colui che esegue tutti i comandamenti divini? Fra gli stessi comandamenti però v’è anche quello che ci impone di dire: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, che è poi la preghiera di tutta la Chiesa valida fino alla fine del mondo. Tutti i comandamenti si ritiene dunque che abbiano avuto esecuzione, dal momento che vien perdonato ciò che non si fa.
19.4 Consideriamo le seguenti parole del Signore: Chi dunque violerà uno solo di questi comandamenti anche minimi e insegnerà in questo modo, e tutto ciò che segue fino al passo in cui dice: Se la vostra giustizia non sarà superiore a quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli. Ho già spiegato questo passo assai meglio e in modo più conveniente in altri discorsi da me scritti successivamente e sarebbe troppo lungo ripetermi anche qui su questo punto. Il senso da dare alle parole del Signore si riduce a questo, che la giustizia maggiore di quella degli scribi e dei farisei appartiene a coloro che dicono e fanno. Altrove infatti il Signore, a proposito degli scribi e dei farisei, si esprime così: Dicono e non fanno. Abbiamo compreso meglio più tardi anche l’altra frase della Scrittura: Chi si adira contro suo fratello. I codici greci non aggiungono: senza motivo , come si legge qui, benché il senso sia lo stesso. Abbiamo infatti detto che occorre considerare che cosa significhi adirarsi contro il proprio fratello, dal momento che non si adira contro il fratello chi si adira contro il suo peccato. Chi dunque si adira contro il fratello e non contro il peccato, si adira senza motivo.
19.5 Ho anche detto: Il riferimento al padre, alla madre e agli altri consanguinei va inteso nel senso che noi dobbiamo odiare in loro ciò che il genere umano ha avuto in sorte attraverso la nascita e la morte. È come se avessi detto che non sarebbero esistiti questi legami qualora, in mancanza di un precedente peccato del genere umano, nessuno morisse. Ho però già in precedenza rifiutato questa interpretazione In realtà questi rapporti di parentela e di affinità esisterebbero ugualmente anche nel caso che, mancando il precedente del peccato originale, il genere umano crescesse e si moltiplicasse senza dover morire. Analogamente va diversamente spiegato perché il Signore, che ci ordina di amare i nemici, ci abbia in un’altra occasione comandato di avere in odio genitori e figli. La soluzione non è quella che si legge in quest’opera, ma quella proposta più volte in seguito: dobbiamo amare i nemici per ottener loro il regno di Dio e odiare nei parenti ciò che ce ne tiene lontani.
19.6 In questo libro mi sono anche molto impegnato a discutere sulla proibizione di rimandare una donna tranne che nel caso di fornicazione. Occorre però meditare e indagare molto a lungo su che cosa il Signore voglia che si intenda per fornicazione che rende lecito il ripudio di una donna. Si tratta di stabilire se il riferimento è a quella che è condannata nell’impurità o a quella di cui si dice: Hai perduto chiunque ha fornicato lontano da te, nella quale è compresa anche la prima: Non si può infatti dire che non fornichi lontano dal Signore qualunque donna prenda le membra di Cristo facendone membra di prostituta. Non voglio però che in una questione così importante e di così difficile comprensione il lettore pensi che sia sufficiente quanto da me discusso in questa sede. Lo invito a leggere sia quanto io stesso ho scritto in epoca successiva sia le più meditate e meglio condotte trattazioni di altri. Oppure a riconsiderare personalmente, con la maggiore attenzione e penetrazione possibile, quanto in ciò che qui si è detto su questo tema, può a buon diritto stimolare il suo spirito critico. In realtà non ogni peccato è fornicazione né perde tutti i peccatori quel Dio che ascolta ogni giorno i suoi santi che lo invocano dicendo: Rimetti a noi i nostri debiti. Perde invece chi fornica lontano da lui. Ma come debba essere intesa e delimitata questa forma di fornicazione e se anche per questa sia lecito rimandare la donna è questione assai oscura. Non c’è comunque dubbio che il ripudio sia lecito nel caso di fornicazione commessa nell’impurità. Quanto alla mia osservazione che il ripudio è permesso, ma non ordinato, non avevo fatto attenzione alle altre parole della Scrittura: Chi tiene presso di sé un’adultera è stolto ed empio. Non direi però che potesse essere considerata un’adultera la donna del Vangelo anche dopo che udì dal Signore le parole: Neppure io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più (sempre, naturalmente, che le abbia ascoltate in atteggiamento di obbedienza).
19.7 In un altro passo del peccato mortale di un fratello – quello del quale l’apostolo Giovanni dichiara: Non dico di pregare per lui – ho dato la seguente definizione: Credo che il peccato mortale di un fratello riguardi ogni uomo che, dopo aver conosciuto Dio per grazia del Signore nostro Gesù Cristo, respinge la fraternità e, in contrasto con questa grazia che l’ha riconciliato con Dio, è agitato dalle fiamme dell’odio. Non l’ho dato però per scontato, avendo presentato la cosa come una semplice opinione. Avrei dovuto aggiungere: sempre che abbia concluso la sua vita in questa scellerata perversità della mente. E ciò in considerazione del fatto che di nessuno che si trovi in questa vita si deve in ogni caso disperare, per malvagio ch’egli sia, né è segno di sprovvedutezza pregare per colui di cui non si dispera.
19.8 Nel secondo libro ho detto: A nessuno sarà lecito ignorare il regno di Dio, dal momento che il suo Figlio Unigenito scenderà dal cielo non solo intelligibilmente, ma anche sensibilmente, incarnandosi nell’uomo del Signore "·per giudicare i vivi e i morti·". Ma non vedo se sia giusto chiamare uomo del Signore l’uomo Gesù Cristo, Mediatore fra Dio e gli uomini, dato che egli stesso è il Signore. Chi v’è nella sua santa famiglia che non possa essere chiamato uomo del Signore? Sono stato indotto ad usare questa espressione per averla letta in alcuni commentatori cattolici delle parole divine , ma dovunque l’ho usata vorrei non averlo fatto. Più tardi mi sono reso conto che non andava usata, anche se c’è qualche argomento con cui difenderla. Analogamente mi accorgo che non avrei dovuto dire che quasi nessuna coscienza umana può odiare Dio; di molti infatti è stato scritto: La superbia di coloro che ti odiano.
19.9 In un altro passo ho detto: Il Signore ha detto che "·A ogni giorno basta la sua malizia·", riferendola alla necessità che abbiamo di assumere dei cibi; e penso che l’abbia chiamata malizia trattandosi per noi di una punizione conseguente alla fragilità che ci siamo meritati col peccato. Non avevo però rilevato che anche ai primi uomini furono dati nel Paradiso gli alimenti del corpo, prima ancora che col peccato si fossero meritati la morte come punizione. Erano certo immortali nel corpo – che non era però ancora spirituale, ma animale – e, pur trovandosi in questa condizione di immortalità, facevano uso degli alimenti del corpo. Analogamente, parlando della Chiesa gloriosa che Dio si è scelta senza una macchia e senza una ruga, non intendevo certo affermare ch’essa è già tale sotto ogni aspetto, anche se proprio a questo fine è stata senza dubbio scelta, perché sia tale al momento in cui si manifesterà Cristo, sua vita. Allora anch’essa apparirà con lui nella gloria ed è a motivo di questa gloria che le è stato dato l’appellativo di Chiesa gloriosa. Consideriamo inoltre le parole del Signore: Chiedete e riceverete, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Avevo ritenuto di dover accuratamente mostrare la differenza fra questi tre inviti. È però più opportuno riportarli tutti ad un’unica pressante istanza. È quanto emerge dalle parole stesse del Signore che, a conclusione, riporta le tre richieste ad un unico vocabolo: Quanto più il Padre vostro che è nei cieli concederà dei beni a coloro che glieli chiedono: non ha detto: "·a coloro che chiedono, cercano, bussano·".
Quest’opera incomincia così: Il discorso che il Signore ha pronunciato.