Le Confessioni di S. Agostino: Libro decimo

DOPO LA RICERCA E L’INCONTRO CON DIO

NUOVE CONFESSIONI E LORO SCOPO

Dio unica speranza

1. 1. Ti comprenderò, o tu che mi comprendi; ti comprenderò come sono anche compreso da te. Virtù dell’anima mia, entra in essa e adeguala a te, per tenerla e possederla senza macchia né ruga. Questa è la mia speranza, per questo parlo, da questa speranza ho gioia ogni qual volta la mia gioia è sana. Gli altri beni di questa vita meritano tanto meno le nostre lacrime, quanto più ne versiamo per essi, e tanto più ne meritano, quanto meno ne versiamo. Ecco, tu amasti la verità, poiché chi l’attua viene alla luce. Voglio dunque attuarla dentro al mio cuore: davanti a te nella mia confessione, e nel mio scritto davanti a molti testimoni.

La confessione a Dio

2. 2. A te, Signore, se ai tuoi occhi è svelato l’abisso della conoscenza umana potrebbe essere occultato qualcosa in me, quand’anche evitassi di confessartelo? Nasconderei te a me, anziché me a te. Ora però i miei gemiti attestano il disgusto che provo di me stesso, e perciò tu splendi e piaci e sei oggetto d’amore e di desiderio, cosicché arrossisco di me e mi respingo per abbracciarti, e non voglio piacere né a te né a me, se non per quanto ho di te. Dunque, Signore, io ti sono noto con tutte le mie qualità. A quale scopo tuttavia mi confessi a te, già l’ho detto. E una confessione fatta non con parole e grida del corpo, ma con parole dell’anima e grida della mente, che il tuo orecchio conosce. Nella cattiveria è confessione il disgusto che provo di me stesso: nella bontà è confessione il negarmene il merito, poiché tu, Signore, benedici il giusto, ma prima lo giustifichi quando è empio. Quindi la mia confessione davanti ai tuoi occhi, Dio mio, è insieme e tacita e non tacita. Tace la voce, grida il cuore, poiché nulla di vero dico agli uomini, se prima tu non l’hai udito da me; e tu da me non odi nulla, se prima non l’hai detto tu stesso.

La confessione agli uomini

3. 3. Ma cos’ho da spartire con gli uomini, per cui dovrebbero ascoltare le mie confessioni? La guarigione di tutte le mie debolezze non verrà certo da questa gente curiosa di conoscere la vita altrui, ma infingarda nel correggere la propria. Perché chiedono di udire da me chi sono io, ed evitano di udire da te chi sono essi? Come poi sapranno, udendo me stesso parlare di me stesso, se dico il vero, quando nessuno fra gli uomini conosce quanto avviene in un uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui?. Udendoti parlare di se stessi, non potrebbero dire: "Il Signore mente"; poiché udirti parlare di se stessi che altro è, se non conoscere se stessi? e chi conosce e dice: "È falso" senza mentire a se stesso? Ma poiché la carità crede tutto, in coloro almeno che unifica legandoli a se stessa, anch’io, Signore, pure così mi confesso a te per farmi udire dagli uomini. Prove della veridicità della mia confessione non posso fornire loro; ma quelli, cui la carità apre le orecchie alla mia voce, mi credono.

Confessioni del passato e del presente

– 4. Tu però, medico della mia intimità, spiegami chiaramente i frutti della mia opera. Le confessioni dei miei errori passati, da te rimessi e velati per farmi godere la tua beatitudine dopo la trasformazione della mia anima mediante la tua fede e il tuo sacramento, spronano il cuore del lettore e dell’ascoltatore a non assopirsi nella disperazione, a non dire: "Non posso"; a vegliare invece nell’amore della tua misericordia, nella dolcezza della tua grazia, forza di tutti i deboli divenuti per essa consapevoli della propria debolezza. I buoni, poi, godono all’udire i mali passati di chi ormai se ne è liberato; godono non già per i mali, ma perché sono passati e non sono più. Con quale frutto dunque, Signore mio, cui si confessa ogni giorno la mia coscienza, fiduciosa più della speranza nella tua misericordia, che della propria innocenza, con quale frutto, di grazia, confesso anche agli uomini innanzi a te, attraverso queste pagine, il mio stato presente, non più il passato? Il frutto di quelle confessioni l’ho capito e ricordato; ma il mio stato presente, del tempo stesso in cui scrivo queste confessioni, sono molti a desiderare di conoscerlo, coloro che mi conoscono come coloro che non mi conoscono, ma mi hanno sentito parlare di me senza avere il loro orecchio sul mio cuore, ove io sono comunque sono. Dunque desiderano udire da me la confessione del mio intimo, ove né il loro occhio, né il loro orecchio, né la loro mente possono penetrare; desiderano udirmi, disposti a credere, ma come sicuri di conoscere? Glielo dice la carità, per cui sono buoni, che non mento nella mia confessione di me stesso. È la carità in loro a credermi,

Frutti delle confessioni del presente tra gli uomini

4. 5. Ma quale frutto si ripromettono da questo desiderio? Aspirano a unirsi al mio ringraziamento, dopo aver udito quanto mi avvicina a te il tuo dono, e a pregare per me, dopo aver udito quanto mi rallenti il mio peso? Se è così, a loro mi mostrerò. Non è piccolo il frutto, Signore Dio mio, quando molti ti ringraziano per noi, e molti ti pregano per noi. Possa il loro animo fraterno amare in me ciò che tu insegni ad amare, deplorare in me ciò che tu insegni a deplorare. Il loro animo, fraterno, lo potrà fare; non così un animo estraneo, dei figli di un altro, la cui bocca ha detto vanità, la cui mano è mano iniqua. Un animo fraterno, quando mi approva, gode per me; quando invece mi disapprova, si contrista per me, poiché, nell’approvazione come nella disapprovazione, sempre mi ama. Se è così, a loro mi mostrerò. Traggano un respiro per i miei beni, un sospiro per i miei mali. I miei beni sono opere tue e doni tuoi, i miei mali colpe mie e condanne tue. Respiri per gli uni, sospiri per gli altri, e inni e pianti salgano al tuo cospetto da questi cuori fraterni, turiboli d’incenso per te; e tu, Signore, deliziato dal profumo del tuo santo tempio, abbi misericordia di me secondo la grandezza della tua misericordia, in grazia del tuo nome. Tu che non abbandoni mai le tue imprese a metà, completa ciò che è imperfetto in me.

– 6. Questo frutto mi attendo dalle confessioni del mio stato presente e non più del passato. Perciò farò la mia confessione non alla tua sola presenza, con segreta esultanza e insieme apprensione, con segreto sconforto e insieme speranza; ma altresì nelle orecchie dei figli degli uomini credenti partecipi della mia gioia e consoni della mia mortalità, miei concittadini e compagni di vita, alcuni più innanzi, altri più indietro, altri a pari di me. Sono questi i tuoi servi e i miei fratelli, che volesti fossero tuoi figli e miei padroni, che mi ordinasti di servire, se voglio vivere con te di te. Insufficiente sarebbe stato il precetto se il tuo Verbo me l’avesse dato a parole, quando non me ne avesse dato prima l’esempio con gli atti. Ed eccomi allora ubbidiente con atti e parole, sotto le tue ali perché troppo grande è il pericolo, se la mia anima non stesse chinata sotto le tue ali e la mia debolezza non ti fosse nota. Io sono un bambinello, ma è sempre vivo il Padre mio, e adatto a me il mio tutore. Infatti la medesima persona è il mio genitore e il mio tutore. Tu, tu solo sei tutti i miei beni, tu, onnipotente, che sei con me anche prima che io sia con te. Se così, mi mostrerò a chi mi ordini di servire, non più quale fui, ma quale sono ormai e sono tuttora. Però io neppure giudico me stesso. Così mi ascoltino anche gli altri.

Conoscenza di Dio e dell’uomo

5. 7. Tu, Signore, mi giudichi. Nessuno fra gli uomini conosce le cose dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui. Vi è tuttavia nell’uomo qualcosa, che neppure lo spirito stesso dell’uomo che è in lui conosce; tu invece, Signore, sai tutto di lui per averlo creato. Anch’io, per quanto mi avvilisca al tuo cospetto, stimandomi terra e cenere, so qualcosa di te, che di me ignoro. Noi ora vediamo certamente attraverso uno specchio in un enigma, non ancora faccia a faccia; quindi, finché pellegrino lontano da te, sono più vicino a me, che a te. Eppure ti so assolutamente inviolabile, mentre non so a quali tentazioni possa io resistere, a quali no. C’è speranza, perché tu sei fedele e non permetti che siamo tentati al di là delle nostre forze, offrendo con la tentazione anche lo scampo, affinché possiamo sostenerla. Confesserò dunque quanto so di me, e anche quanto ignoro di me, perché quanto so di me, lo so per tua illuminazione, e quanto ignoro di me, lo ignoro finché le ime tenebre si mutino quale il mezzodì nel tuo volto.

RICERCA DI DIO

L’oggetto dell’amore verso Dio

6. 8 Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse. Più profonda misericordia avrai di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso. Altrimenti cielo e terra ripeterebbero le tue lodi a sordi. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio.

Ricerca di Dio oltre la materia

– 9. Che è ciò?. Interrogai sul mio Dio la mole dell’universo, e mi rispose: "Non sono io, ma è lui che mi fece". Interrogai la terra, e mi rispose: "Non sono io"; la medesima confessione fecero tutte le cose che si trovano in essa. Interrogai il mare, i suoi abissi e i rettili con anime vive; e mi risposero: "Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi". Interrogai i soffi dell’aria, e tutto il mondo aereo con i suoi abitanti mi rispose: "Erra Anassimene, io non sono Dio". Interrogai il cielo, il sole, la luna, le stelle: "Neppure noi siamo il Dio che cerchi", rispondono. E dissi a tutti gli esseri che circondano le porte del mio corpo: "Parlatemi del mio Dio; se non lo siete voi, ditemi qualcosa di lui": ed essi esclamarono a gran voce: "È lui che ci fece". Le mie domande erano la mia contemplazione; le loro risposte, la loro bellezza. Allora mi rivolsi a me stesso. Mi chiesi. "Tu, chi sei?"; e risposi: "Un uomo". Dunque, eccomi fornito di un corpo e di un’anima, l’uno esteriore, l’altra interiore. A quali dei due chiedere del mio Dio, già cercato col corpo dalla terra fino al cielo, fino a dove potei inviare messaggeri, i raggi dei miei occhi? Più prezioso l’elemento interiore. A lui tutti i messaggeri del corpo riferivano, come a chi governi e giudichi, le risposte del cielo e della terra e di tutte le cose là esistenti, concordi nel dire: "Non siamo noi Dio", e: "È lui che ci fece". L’uomo interiore apprese queste cose con l’ausilio dell’esteriore; io, l’interiore, le ho apprese, io, io, lo spirito, per mezzo dei sensi del mio corpo.

– 10. Non appare a chiunque è dotato compiutamente di sensi questa bellezza? Perché dunque non parla a tutti nella stessa maniera? Gli animali piccoli e grandi la vedono, ma sono incapaci di fare domande, poiché in essi non è preposta ai messaggi dei sensi una ragione giudicante. Gli uomini però sono capaci di fare domande, per scorgere quanto in Dio è invisibile e comprendendolo attraverso il creato. Senonché il loro amore li asservisce alle cose create, e i servi non possano giudicare. Ora, queste cose rispondono soltanto a chi le interroga sapendo giudicare; non mutano la loro voce, ossia la loro bellezza, se uno vede soltanto, mentre l’altro vede e interroga, così da presentarsi all’uno e all’altro sotto aspetti diversi; ma, pur presentandosi a entrambi sotto il medesimo aspetto, essa per l’uno è muta, per l’altro parla; o meglio, parla a tutti, ma solo coloro che confrontano questa voce ricevuta dall’esterno, con la verità nel loro interno, la capiscono. Mi dice la verità: "Il tuo Dio non è la terra, né il cielo, né alcun altro corpo"; l’afferma la loro natura, lo si vede, essendo ogni massa minore nelle sue parti che nel tutto. Tu stessa sei certo più preziosa del tuo corpo, io te lo dico, anima mia, poiché ne vivifichi la massa, prestandogli quella vita che nessun corpo può fornire a un altro corpo. Ma il tuo Dio è anche per te vita della tua vita.

Ricerca di Dio oltre la forza vitale e la sensibilità

7. 11. Che amo dunque, allorché amo il mio Dio? Chi è costui, che sta sopra il vertice della mia anima? Proprio con l’aiuto della mia anima salirò fino a lui, trascenderò la mia forza che mi avvince al corpo e ne riempie l’organismo di vita. Non con questa forza potrei trovare il mio Dio; altrimenti anche un cavallo e un mulo, privi d’intelligenza, ma dotati della medesima forza, per cui hanno vita anche i loro corpi, potrebbero trovarlo. C’è un’altra forza, quella con cui rendo non solo viva, ma anche sensitiva la mia carne, che mi fabbricò il Signore, prescrivendo all’occhio di non udire, all’orecchio di non vedere, ma all’uno di farmi vedere, all’altro di farmi udire, e così a ciascuno degli altri sensi prescrizioni proprie secondo le loro sedi e le loro attribuzioni; e così io, unico spirito, compio azioni diverse per loro mezzo. Trascenderò anche questa mia forza, poiché ne godono anche un cavallo e un mulo, che infatti hanno essi pure la sensibilità fisica.

LA MEMORIA

Nei quartieri della memoria:

8. 12. Trascenderò dunque anche questa forza della mia natura per salire gradatamente al mio Creatore. Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto. Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all’istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti. Alcune si precipitano a ondate e, mentre ne cerco e desidero altre, balzano in mezzo con l’aria di dire: "Non siamo noi per caso?", e io le scaccio con la mano dello spirito dal volto del ricordo, finché quella che cerco si snebbia e avanza dalle segrete al mio sguardo; altre sopravvengono docili, in gruppi ordinati, via via che le cerco, le prime che si ritirano davanti alle seconde e ritirandosi vanno a riporsi ove staranno, pronte a uscire di nuovo quando vorrò. Tutto ciò avviene, quando faccio un racconto a memoria.

a) le sensazioni avute;

– 13. Lì si conservano, distinte per specie, le cose che, ciascuna per il proprio accesso, vi furono introdotte: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi attraverso gli occhi; attraverso gli orecchi invece tutte le varietà dei suoni, e tutti gli odori per l’accesso delle nari, tutti i sapori per l’accesso della bocca, mentre per la sensibilità diffusa in tutto il corpo la durezza e mollezza, il caldo o freddo, il liscio o aspro, il pesante o leggero sia all’esterno sia all’interno del corpo stesso. Tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue, come dire, pieghe segrete e ineffabili, per richiamarle e rivederle all’occorrenza. Tutte vi entrano, ciascuna per la sua porta, e vi vengono riposte. Non le cose in sé, naturalmente, vi entrano; ma lì stanno, pronte al richiamo del pensiero che le ricordi, le immagini delle cose percepite. Nessuno sa dire come si siano formate queste immagini, pongono nel nostro interno. Anche immerso nelle tenebre e nel silenzio io posso, se voglio, estrarre nella mia memoria i colori, distinguere il bianco dal nero e da qualsiasi altro colore voglio, la mia considerazione delle immagini attinte per il tramite degli occhi non è disturbata dalle incursioni dei suoni, essi pure presenti, ma inavvertiti, come se fossero depositati in disparte. Ma quando li desidero e chiamo essi pure, si presentano immediatamente, e allora canto finché voglio senza muovere la lingua e con la gola tacita; e ora sono le immagini dei colori che, sebbene là presenti, non s’intromettono a interrompere l’azione che compio, di maneggiare l’altro tesoro, quello confluito dalle orecchie. Così per tutte le altre cose immesse e ammassate attraverso gli altri sensi: le ricordo a mio piacimento, distinguo la fragranza dei gigli dalle viole senza odorare nulla, preferisco il miele al mosto cotto, il liscio all’aspro senza nulla gustare o palpare al momento, ma col ricordo.

b) le esperienze.

– 14. Sono tutte azioni che compio interiormente nell’enorme palazzo della mia memoria. Là dispongo di cielo e terra e mare insieme a tutte le sensazioni che potei avere da essi, tranne quelle dimenticate. Là incontro anche me stesso e mi ricordo negli atti che ho compiuto, nel tempo e nel luogo in cui li ho compiuti, nei sentimenti che ebbi compiendoli. Là stanno tutte le cose di cui serbo il ricordo, sperimentate di persona o udite da altri. Dalla stessa, copiosa riserva traggo via via sempre nuovi raffronti tra le cose sperimentate, o udite e sulla scorta dell’esperienza credute; non solo collegandole al passato, ma intessendo sopra di esse anche azioni, eventi e speranze future, e sempre a tutte pensando come a cose presenti. "Farò questa cosa, farò quell’altra", dico fra me appunto nell’immane grembo del mio spirito, popolato di tante immagini di tante cose; e l’una cosa e l’altra avviene. "Oh, se accadesse questa cosa, o quell’altra!", "Dio ci scampi da questa cosa, o da quell’altra!", dico fra me. e mentre lo dico ho innanzi le immagini di tutte le cose che dico, uscite dall’unico scrigno della memoria, e senza di cui non potrei nominarne una sola.

Meravigliosa potenza della memoria

– 15. Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia ch’io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l’Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. Eppure non li inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali, ma le loro immagini, e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me.

c) le nozioni apprese;

9. 16. Ma non è questo l’unico contenuto dell’immensa capacità della mia memoria. Vi si trovano anche tutte le nozioni apprese dall’insegnamento delle discipline liberali, che non ho ancora dimenticato. Esse stanno relegate, per così dire, in un luogo più interno, che non è un luogo, come non sono le loro immagini, ma le nozioni stesse, che porto. Cosa è la letteratura? e la dialettica? e quanti sono i tipi di problemi esistenti? Tutte le mie conoscenze in materia stanno nella mia memoria non quali immagini là trattenute, mentre ho lasciato fuori l’oggetto: non come un suono echeggiato e trascorso, come una voce, che imprime nell’orecchio un’orma che la fa ricordare quasi ancora echeggiasse, mentre ormai si tace; o come un odore, che nel passare e disperdersi al vento colpisce l’olfatto e trasmette così alla memoria una rappresentazione di sé, che la reminiscenza rievoca; o come un cibo, che certo nel ventre non si assapora più, eppure quasi lo si assapora nella memoria; o un oggetto, che percepiamo col tatto corporeo e che la nostra memoria immagina anche quando è separato da noi. In tutti questi casi non s’introducono nella memoria le cose, ma soltanto le loro immagini sono colte con una rapidità portentosa, riposte in una sorta di portentose cellette, ed estratte in modo portentoso dal ricordo.

L’acquisizione del sapere

10. 17. Quando però mi si dice: "Tre tipi di problemi vi sono: dell’esistenza, dell’essenza e della qualità di una cosa", io afferro, sì, l’immagine dei suoni che queste parole compongono, so che passarono per l’aria risuonando e ora non esistono più; ma le cose in sé, che quei suoni indicano, non le toccai con nessuno dei sensi corporei, né le vidi fuori dallo spirito. Nella memoria riposi non già le loro immagini, bensì le cose stesse. Ma da dove entrarono in me? Lo dicano esse, se possono. Io, per quanto passi in rassegna tutte le porte della mia carne, non ne trovo una, per cui siano entrate. Gli occhi dichiarano: "Se hanno colore, le abbiamo trasmesse noi"; le orecchie dichiarano: "Se produssero suono, furono segnalate da noi"; le nari dichiarano: "Se avevano odore, sono passate da noi"; dichiara anche il senso del gusto: "Se non c’è sapore, non chiedere nulla a me"; il tatto dichiara: "Se non c’è corpo, non ho palpato, e se non ho palpato, non ho segnalato". Da dove, dunque, e per dove entrarono queste cose nella mia memoria? Non lo so. Le appresi non già affidandomi a un’intelligenza altrui, ma nella mia riconoscendole e apprezzandone la verità, per poi affidarle ad essa come a un deposito, da cui estrarle a mio piacere. Dunque là erano anche prima che le apprendessi; ma non erano nella memoria. Dove dunque, o perché al sentirne parlare le riconobbi e dissi: È così, è vero"? Erano forse già nella memoria, però tanto remote e relegate, per così dire, in cavità più segrete, di modo che forse non avrei potuto pensarle senza l’insegnamento di qualcuno, che le estraesse?

La riflessione

11. 18. Da ciò risulta che l’apprendimento delle nozioni di cui non otteniamo le immagini attraverso i sensi, ma che senza immagini vediamo direttamente dentro di noi quali sono, altro non è, se non una sorta di raccolta, da parte del pensiero, di elementi sparsi, contenuti disordinatamente dalla memoria, e di lavorio da parte della riflessione, affinché nella stessa memoria, ove prima si nascondevano qua e là negletti, si tengano, diciamo così, a portata di mano per presentarsi d’ora in avanti facilmente alla considerazione familiare dello spirito. Quante nozioni di questo genere contiene la mia memoria, nozioni ormai ritrovate e, secondo l’espressione usata sopra, quasi a portata di mano! In tal caso si dice che le abbiamo imparate e le conosciamo. Se però tralascio di evocarle anche per brevi intervalli di tempo, esse vengono sommerse di nuovo e dileguano, si direbbe, in più remoti recessi, tanto che poi il pensiero le deve estrarre da capo, quasi nuove e appunto di là, perché non hanno altra sede, e di nuovo raccoglierle, per poterle sapere, come adunandole dopo una sorta di dispersione. Da questa operazione deriva il verbo cogitare, essendo cogo per cogito ciò che ago è per agito, facio per factito. Senonché lo spirito si appropriò di questo verbo, in modo che ormai si dice propriamente cogitare l’azione di raccogliere, ossia di cogere, nell’animo e non altrove.

d) i numeri;

12. 19. La memoria contiene anche i rapporti e le innumerevoli leggi dell’aritmetica e della geometria, senza che nessun senso corporeo ve ne abbia impressa alcuna, poiché non sono dotate di colore né di voce né di odore, né si gustano o si palpano. Udii i suoni delle parole che le designano quando se ne discute, ma altro sono le parole, altro le cose: le prime suonano diversamente in greco e in latino, le seconde non appartengono né al greco né al latino né ad altra lingua. Vidi le linee sottilissime tracciate dagli artigiani, simili a fili di ragnatela; ma altro sono le linee geometriche, altro le loro rappresentazioni riferitemi dall’occhio della carne: ognuno le conosce riconoscendole dentro di sé, senza pensare a un corpo qualsiasi. Percepii, anche, con tutti i sensi del corpo i numeri che calcoliamo; ma quelli usati per calcolare sono tutt’altra cosa. Non sono nemmeno le immagini dei primi, e proprio per questo essi sono veramente. Rida delle mie parole chi non li vede, e io mi dorrò che rida di me.

 

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