S. Agostino: La Città di Dio: Capp. XII - XVI

Libro dodicesimo

DIO HA CREATO BUONI GLI ANGELI E UNA SOLA VOLTA L'UOMO NEL TEMPO

 

Bene e male negli angeli e nel mondo [1-9]

 Comune società di angeli e uomini.
1. 1. Prima di parlare dell'origine dell'uomo, con cui avviene nel tempo l'inizio delle due città per quanto attiene al genere degli esseri ragionevoli e mortali, come è già dimostrato che è avvenuto per gli angeli nel libro precedente 1, penso di dover esporre ancora alcuni concetti sugli angeli stessi. Si deve dimostrare, cioè, per quanto mi è possibile, che non si può considerare assurda e non conveniente una comune società di angeli e di uomini. Quindi si può parlare con proprietà non di quattro città, ossia società, cioè due di angeli e altrettante di uomini ma di due soltanto, una composta di buoni e l'altra di cattivi, tanto angeli che uomini.

 Essere o non essere con Dio uno vero buono.
1. 2. Non si può dubitare che le opposte tendenze degli angeli buoni e cattivi non sono derivate da opposti fattori e princìpi, poiché Dio, autore e creatore buono di tutti gli esseri, ha creato gli uni e gli altri, ma dalle rispettive volontà e inclinazioni. Alcuni infatti si mantengono stabilmente nel bene universale, che per loro è lo stesso Dio, e nella sua eternità, verità e carità. Altri invece, smaniosi di un proprio potere, come se fossero un bene a se stessi, sono scesi dal sommo beatificante bene universale ai beni particolari e, sostituendo l'ostentazione dell'orgoglio alla più alta eternità, l'inganno della menzogna alla verità più evidente, il gusto della fazione all'unificante carità, divennero superbi, menzogneri, portatori di odio. Categoria dunque della loro felicità è l'essere uniti a Dio e pertanto la categoria della infelicità dei ribelli si deve rilevare dal contrario che è il non essere uniti a Dio. Perciò se la giusta risposta alla domanda perché gli uni sono felici è che sono uniti a Dio, e alla domanda perché gli altri sono infelici è che non sono uniti a Dio, e perché soltanto Dio è il bene della creatura ragionevole o intelligente in ordine alla felicità. Non ogni creatura è capace di felicità perché le bestie, le piante, le pietre e altre del genere non hanno e non conseguono questo dono. Tuttavia quella che ne è capace, non lo può da sé, poiché è stata creata dal nulla, ma da lui che l'ha creata. Raggiungendolo è felice, perdendolo è infelice. Ed egli che è felice non da altri, ma perché è bene a se stesso, non può divenire infelice perché non può perdere se stesso.

 Vero bene essere con Dio.
1. 3. Affermiamo dunque che il bene non diveniente è soltanto Dio uno, vero, felice e che le cose da lui create sono certamente dei beni, perché sono da lui, ma divenienti, perché non sono state create dal suo essere ma dal nulla. Dunque quantunque non siano il bene più grande, perché Dio è un bene superiore a loro, tuttavia sono grandi beni quelli che, pur divenienti, possono in ordine alla felicità esser uniti al bene non diveniente, che è il loro bene, al punto che senza di lui sono necessariamente infelici. Ma non perché non possono esser infelici, le altre cose nell'attuale universo sono più perfette, come non si deve dire che le altre parti del corpo sono più perfette degli occhi perché non possono essere cieche. Come infatti l'essere dotato di sensazione, anche quando soffre, è più perfetto della pietra che non può assolutamente soffrire, così la creatura ragionevole anche se infelice, è più nobile di quella che è priva di pensiero e di sensazione ed è quindi incapace di infelicità. Questa è la verità. L'essere ragionevole quindi creato in un grado tanto alto, sebbene sia nel divenire, unendosi al bene che non diviene, cioè a Dio sommo, raggiunge la felicità e colma la propria insoddisfazione soltanto se è felice e Dio soltanto può colmarla. Dunque è per lui un'imperfezione non unirsi a Dio. Ma l'imperfezione danneggia l'essere e perciò si oppone all'essere. Quindi quello che non è unito a Dio differisce da quello che gli è unito non nell'essere ma a causa della imperfezione. Tuttavia, malgrado l'imperfezione, l'essere intelligente ci si presenta molto perfetto e dotato di grande dignità. Il giusto biasimo dell'imperfezione di un essere è indubbiamente riconoscimento della sua dignità. Infatti è ragionevole il biasimo dell'imperfezione perché con essa si rende abietto l'essere dotato di dignità. Quando si dice che la cecità è una imperfezione degli occhi, si dichiara che la vista è funzione competente dell'occhio e quando si dice che la sordità è imperfezione dell'orecchio, si dichiara che l'udito è funzione competente dell'orecchio. Allo stesso modo quando si dice che imperfezione della creatura angelica è il non essere unita a Dio, si dichiara apertamente che l'essere uniti a Dio è formale al suo essere. Infine è impossibile pensare o dire qual grande dignità è essere unito a Dio in maniera da vivere per lui, da attingere sapienza da lui, da beatificarsi di lui e da godere un bene così grande nell'immunità dalla morte, dall'errore e dalla sofferenza. Pertanto anche dall'imperfezione degli angeli ribelli, cioè che non sono uniti a Dio, dato che l'imperfezione di per sé danneggia l'essere, appare evidente che Dio ha creato il loro essere tanto buono che per esso è un danno non essere con Dio.

Contro i sostenitori dei due principi.
2. Siano ben precisi questi concetti, affinché non si pensi, quando parliamo degli angeli ribelli, che abbiano potuto avere l'essere da un altro principio e che del loro essere non è autore Dio. Ci si libererà più speditamente e più agevolmente dalla irreligiosità di questo errore, quanto più profondamente si potrà intendere ciò che mediante un angelo Dio disse quando inviava Mosè ai figli d'Israele: Io sono Colui che sono 2. Poiché Dio infatti è essenza somma, cioè è nel grado sommo e perciò non diviene, diede alle cose create dal nulla l'essere, ma non l'essere nel grado sommo, come è lui. Diede ad alcune di essere di più, ad altre di meno e così ordinò le essenze in vari gradi. A proposito di essenza, come da sapere si ha sapienza, così da essere si ha essenza, un termine certamente nuovo, che gli antichi scrittori latini non hanno usato, ma usuale ai giorni nostri. E affinché non mancasse alla nostra lingua il termine che i Greci dicono , dal verbo è stata coniata la parola di essenza. Dunque, fatta eccezione per ciò che non esiste, non esiste un essere contrario all'essere che è nel grado sommo e da cui sono tutte le cose che sono. All'essere è infatti contrario il non essere. E pertanto non esiste una essenza contraria a Dio, cioè alla somma essenza e creatore di tutte le essenze qualunque esse siano.

L'essere e la sua imperfezione.
3. Nella Scrittura sono chiamati nemici 3 di Dio quelli che non con l'essere ma con le imperfezioni sono contrari al suo dominio, sebbene non riescano a far male a lui ma a se stessi. Sono nemici infatti con la volontà di opporsi, non con la possibilità di danneggiarlo. Dio infatti è fuori del divenire e assolutamente immune da alterazione. Quindi l'imperfezione con cui resistono a Dio quelli che sono considerati suoi nemici non è un male a Dio ma ad essi, ed altera in loro il bene dell'essere. Dunque non l'essere è contrario a Dio ma l'imperfezione, perché in quanto male è contraria al bene. Non si può negare che Dio è il bene nel grado sommo. L'imperfezione è pertanto contraria a Dio come il male al bene. Inoltre è un bene anche l'essere reso imperfetto e l'imperfezione è dunque contraria anche a questo bene. Ma a Dio è contraria soltanto come un male al bene, invece all'essere che rende imperfetto non soltanto come un male, ma anche come male che danneggia. Non ci sono mali che danneggiano Dio, ma gli esseri soggetti al divenire e alla corruzione, sebbene siano buoni anche per l'attestazione delle loro imperfezioni. Se non fossero buoni, le loro imperfezioni non potrebbero danneggiarli. Infatti danneggiandoli, non fanno altro che togliere loro interezza, bellezza, sanità, virtù e tutto ciò che di bene viene solitamente sottratto o diminuito nell'essere mediante l'imperfezione. Che se manca costitutivamente, non è un male che nuoce perché non toglie nulla e perciò neanche è imperfezione. È impossibile l'essere imperfezione e non danneggiare. Se ne conclude che, sebbene l'imperfezione non possa danneggiare il bene che non diviene, tuttavia può danneggiare soltanto un essere buono, perché esiste solamente nell'essere che danneggia. Il concetto si può esprimere anche in questa forma: l'imperfezione non può esistere nel sommo bene e può esistere soltanto in un qualche bene. Il solo bene può essere dunque in qualche essere, il solo male in nessuno. Anche gli esseri che sono stati resi imperfetti da un iniziale cattivo volere sono un male in quanto imperfetti, sono un bene in quanto esseri. E quando un essere imperfetto subisce la pena, a parte che è sempre un essere, si ha un bene anche nel fatto che non rimane impunito. Questo è giusto e ciò che è giusto è indubbiamente un bene. Infatti non si subisce la pena per le imperfezioni naturali ma per quelle volontarie. Anche il fatto che l'imperfezione si rinvigorisce quasi naturalmente per l'assuefazione e per continuità ha avuto inizio dalla volontà. Sto parlando infatti delle imperfezioni dell'essere che ha l'intelligenza capace della luce intelligibile con cui si distingue il giusto dall'ingiusto.

Perfezione e imperfezione nel tutto.
4. D'altronde è assurdo ritenere meritevoli di condanna le imperfezioni delle bestie, degli alberi e delle altre cose soggette al divenire e alla morte che sono prive del pensiero, della sensazione o anche della vita, il cui essere soggiace al dissolvimento. Queste creature hanno ricevuto un determinato limite dal volere del Creatore in modo che, scomparendo nel succedersi le une alle altre 4, svolgano la meno perfetta armonia del tempo che conviene nel suo genere alle varie parti di questo mondo. Non si dovevano rendere eguali alle celesti le cose terrene, ma non è giusto che esse mancassero all'armonia dell'universo, perché le altre sono più perfette. Nello spazio, dove dovevano trovarsi le cose terrene, le une vengono all'essere succedendosi ad altre che scompaiono, le cose più piccole soccombono alle più grandi con la trasformazione di quelle che scompaiono nelle caratteristiche di quelle che sopravvivono. È questo l'ordinamento delle cose divenienti. Ma non ci diletta la bellezza di questo ordinamento, perché noi, inseriti in una parte secondo la condizione del nostro continuo morire, non possiamo percepire il tutto, nel quale si armonizzano con adeguata proporzione le singole particelle che quindi ci appaiono irrazionali. Per questo molto giustamente ci si insegna di accettare con la fede la provvidenza del Creatore, in ordine alle cose in cui non riusciamo a scorgerla con la ragione. Non dobbiamo osare cioè di biasimare nella leggerezza dell'umana presunzione l'opera di un sì grande ideatore. Per lo stesso motivo anche le imperfezioni, non volontarie e non meritevoli di pena, delle cose terrene, se le consideriamo con saggezza, confermano che gli esseri stessi hanno tutti come autore e creatore Dio. Infatti ci riesce sgradito che in essi sia sottratto dall'imperfezione naturale ciò che nell'essere è gradito. Si eccettua il caso che spesso agli uomini sono sgraditi gli esseri quando diventano dannosi, perché allora non considerano le cose ma il proprio interesse. Si ha un esempio in quegli animali, la cui eccedenza colpì la tracotanza degli Egiziani 5. Ma a questo titolo possiamo biasimare anche il sole, perché alcuni trasgressori o insolventi sono condannati dai giudici ad essere esposti al sole. Quindi l'essere, non valutato secondo il nostro vantaggio o svantaggio ma per se stesso, rende gloria al suo ideatore. Così anche l'essere del fuoco eterno rientra senza dubbio nell'ordine, quantunque sarà la pena dei dannati. Infatti niente è più bello del fuoco perché è fiamma, forza e luce, niente è più utile perché riscalda, sana e cuoce, sebbene niente è più doloroso di una scottatura. Dunque esso, che se è accostato in una certa maniera è anche dannoso, se è usato convenientemente è molto utile. Non è possibile esporne a parole l'utilità nell'universo. Non si devono quindi ascoltare quelli che nel fuoco apprezzano la luce e deprezzano il calore, non giudicano cioè dal punto di vista delle proprietà dell'essere ma del proprio vantaggio o svantaggio. Costoro vogliono vedere ma non vogliono aver caldo. Riflettono poco che la luce, la quale certamente a loro è piacevole, dà fastidio per contrasto a una vista inferma e il caldo che dà loro fastidio è per conformità condizione di vita di molti animali.

Tutto rientra nell'ordine.
5. Tutti gli esseri dunque, per il fatto che sono ed hanno perciò la propria misura, la propria forma e una determinata pace con se stessi, sono certamente buoni. Essendo inoltre dove devono essere secondo la finalità della natura, conservano il proprio essere nelle proporzioni in cui lo hanno ricevuto. E poiché non hanno ricevuto di essere per sempre, acquistano e perdono perfezioni, secondo l'esigenza e il movimento delle realtà, alle quali per legge del Creatore sono soggetti, perché per divina provvidenza tendono a quel risultato che il razionale ordinamento dell'universo implica. Inoltre il dissolvimento, che conduce alla fine gli esseri divenienti e mortali, non è tale che mentre fa cessare d'esistere ciò che era, implichi necessariamente come conseguenza, che non venga all'esistenza ciò che doveva cominciare ad esistere. Questa è appunto la verità. Dio dunque è l'essere perfettissimo e per questo è da lui creata ogni essenza che non è perfettissima. Essa non può infatti essere a lui eguale, perché è creata dal nulla e non potrebbe assolutamente esistere se non fosse creata da lui. Egli perciò non si deve biasimare perché siamo contrariati dalle varie imperfezioni e si deve lodare nella valutazione di tutti gli esseri.

Non c'è essere essenzialmente cattivo.
6. Risulta quindi che causa vera della felicità degli angeli buoni è l'essere uniti all'essere perfettissimo. Quando invece si cerca la causa dell'infelicità degli angeli ribelli si presenta ragionevolmente quella che, essendosi essi distolti dall'essere perfettissimo, si sono volti a se stessi che non sono perfettissimi. Questo vizio si chiama superbia. Infatti: Inizio di ogni peccato è la superbia 6. Non vollero mantenere in ordine a lui il proprio valore 7 ed essi che sarebbero più perfetti se fossero uniti all'essere perfettissimo, anteponendosi a lui, scelsero di essere meno perfetti. Questo è l'iniziale disfacimento, l'iniziale impoverimento, l'iniziale imperfezione di quell'essere che non fu creato per essere perfettissimo ma per beatificarsi nell'essere perfettissimo e così ottenere la felicità. Essendosi da lui distolto, non ha cessato di essere, ma è regredito nella perfezione e per questo è divenuto infelice. E se si cerca la causa efficiente di questa cattiva volontà, non la si trova. Che cosa infatti produce la volontà cattiva, se è essa a compiere l'azione cattiva? Perciò la volontà cattiva è efficiente dell'azione cattiva e non si ha causa efficiente della volontà cattiva. Infatti se questa causa è un essere, o ha o non ha la volontà; se l'ha, o l'ha buona o cattiva; se l'ha buona, è assurdo dire che la volontà buona è efficiente della volontà cattiva. Nell'ipotesi la volontà buona sarebbe causa del peccato. Niente di più assurdo. Se poi l'essere che nell'ipotesi sarebbe efficiente della volontà cattiva, ha anche esso una volontà cattiva, chiedo qual essere ne è causa efficiente e affinché si abbia un limite nella ricerca, torno a ricercare la causa della prima volontà cattiva. Non vi fu una prima volontà cattiva che ebbe per causa una volontà cattiva; è prima quella increata. Infatti se è esistita prima quella da cui l'altra doveva esser causata, la prima è quella che ha causato l'altra. Se si risponde che la volontà cattiva non è stata causata e che pertanto è sempre esistita, chiedo se è esistita in un qualche essere. Se non è esistita in alcun essere, non è esistita affatto; se invece è esistita in un essere, lo rendeva imperfetto, era per esso un male e lo privava di un bene. Pertanto una volontà cattiva non poteva esistere in un essere cattivo ma in uno buono, diveniente però in modo che l'imperfezione lo danneggiasse. Se non lo danneggiò, non fu neanche una imperfezione e non si può quindi dire che fosse una volontà cattiva. D'altronde se lo danneggiò, certamente lo danneggiò togliendogli o diminuendone il bene. Quindi non poté esistere un'eterna volontà cattiva in quella cosa in cui prima era esistito un bene connaturato, che la volontà cattiva potesse sottrarre danneggiandolo. E se non era eterna, torno a chiedere chi l'ha creata. Resta da dire che un essere, in cui non esisteva la volontà, creò la volontà cattiva. Chiedo se questo essere era superiore, inferiore o eguale. Se superiore, era anche più perfetto, dunque aveva la volontà anzi la volontà buona. Lo stesso si dica se era eguale. Finché due esseri sono egualmente dotati di volontà buona, l'uno non rende cattiva la volontà dell'altro. Rimane che un essere inferiore, privo di volontà, creò la volontà cattiva dell'essere angelico che per primo ha peccato. Ma qualunque sia la cosa inferiore fino alla più bassa terrenità, dal fatto che è essere ed essenza, indubbiamente è buona perché ha una propria misura e forma nel suo ordine specifico. Come dunque una cosa buona può essere efficiente di una volontà cattiva? Come, insisto, il bene può essere causa del male? Infatti quando la volontà, abbandonato l'essere superiore, si volge alle cose inferiori, diventa cattiva, non perché è male l'oggetto a cui si volge ma perché il suo volgersi implica un pervertimento. Perciò non è la cosa inferiore che ha reso cattiva la volontà; essa stessa, essendosi resa cattiva, ha appetito sconvenientemente e disordinatamente una cosa inferiore. Se infatti due individui con eguale disposizione spirituale e fisiologica vedono l'avvenenza di un medesimo corpo e a tale vista uno si lascia sedurre al godimento illecito, l'altro si mantiene costante in un sentimento pudico, qual è la causa, a nostro avviso, che nel primo si ha una volontà cattiva e nel secondo non si ha? Quale cosa ha causato la cattiva volontà nell'individuo in cui è stata causata? Non l'avvenenza del corpo perché non l'ha causata in entrambi, sebbene si sia offerta egualmente allo sguardo d'entrambi. Oppure è in causa la disposizione fisiologica di chi vede? Allora perché non quella dell'altro? Oppure la disposizione spirituale? E allora non perché dell'uno e dell'altro? Abbiamo premesso appunto che entrambi erano in un'eguale disposizione spirituale e fisiologica. O dobbiamo dire che uno dei due è stato tentato da un'occulta suggestione dello spirito maligno, come se non con la sua volontà abbia acconsentito a quella suggestione o ad altra istigazione. Chiediamo dunque chi ha causato in lui questo consenso, questa cattiva volontà che ha messo a disposizione di chi lo istigava al male. Ma per eliminare anche questa difficoltà del problema, supponiamo che entrambi abbiano la medesima tentazione e uno ceda e consenta e l'altro rimanga fermo nel proprio proposito. In tal caso è chiaro forse che uno non ha voluto e l'altro ha voluto mancare alla castità e certamente con la personale volontà, poiché eguale era in entrambi la disposizione fisiologica e spirituale. La medesima creatura avvenente si è presentata alla vista di entrambi, una tentazione occulta ha sollecitato entrambi. Dunque a coloro che vogliono sapere quale cosa ha reso cattiva in uno di loro la volontà, se ben riflettono, non se ne presenta alcuna. Se si dicesse che egli stesso l'ha resa cattiva, si deve rispondere che anteriormente alla volontà cattiva egli era un essere buono e che suo autore è Dio, bene immutabile. Qualcuno potrebbe dire appunto che l'individuo, il quale, a differenza dell'altro, ha acconsentito alla suggestione della tentazione per abusare della bellezza di un corpo che si è presentato alla vista di entrambi, sebbene l'uno e l'altro prima di vedere ed essere tentati fossero in eguale disposizione spirituale e fisiologica, da sé ha reso cattiva la propria volontà, anche se prima della volontà cattiva era buono. Chi la pensa così rifletta perché l'ha fatto, se cioè perché era un essere, ovvero perché è stato creato dal nulla e si accorgerà che la volontà cattiva non ha la sua origine dal fatto che è un essere ma dal fatto che è un essere creato dal nulla. Infatti se l'essere è causa della volontà cattiva, si è costretti a dire che il male è prodotto soltanto dal bene e che il bene è causa del male, perché la volontà cattiva sarebbe causata da un essere buono. Ma è veramente impossibile che un essere buono, sebbene nel divenire, causi prima di avere la volontà cattiva qualche cosa di cattivo, cioè la stessa volontà cattiva.

Oggetto e sua privazione nel conoscere.
7. Non si cerchi dunque la causa efficiente della volontà cattiva. Essa non è causa che produce ma distrugge, perché anche essa non è un fare ma un disfare. Avviarsi al disfacimento dalla condizione più elevata del proprio essere a quella meno perfetta, questo è cominciare ad avere la cattiva volontà. Voler trovare dunque le cause di questi processi di disfacimento, giacché, come ho detto, non fanno ma disfanno, è come se si volesse vedere le tenebre o ascoltare il silenzio. Eppure le une e l'altro ci sono noti, le prime con la vista, l'altro con l'udito, non tuttavia nella forma sensibile, ma nella privazione della forma. Non si chieda dunque di conoscere da me questi concetti che io conosco di non conoscere, a meno che non si chieda di apprendere a non conoscere ciò che si deve conoscere di non poter conoscere. Infatti gli oggetti, che non si conoscono nella loro forma ma nella privazione di essa, in certo senso, se così si può dire o pensare, si conoscono con la non conoscenza per non conoscerli con la conoscenza. Quando la facoltà visiva osserva le forme sensibili, in nessuna parte vede le tenebre se non in quel punto in cui comincia a non vedere. Così non ad altro senso ma al solo udito compete percepire il silenzio che tuttavia si percepisce soltanto non ascoltando. Allo stesso modo la nostra intelligenza si rappresenta le forme intelligibili col pensiero, ma appena diventano irrazionali, le apprende nell'atto stesso che non le capisce. Chi infatti ha l'idea del delitto? 8.

Bene e sua privazione nel volere.
8. Questo invece io conosco, che l'essere di Dio mai, in nessun luogo, da nessuna parte può disfarsi e che possono disfarsi soltanto le cose create dal nulla. Ma queste hanno cause efficienti quanto sono più perfette e quanto più fanno il bene perché solo allora fanno qualche cosa. Hanno al contrario cause che disfanno in quanto si muovono al disfacimento e per questo fanno il male perché allora fanno soltanto cose prive di significato. Conosco inoltre che nell'individuo, in cui si verifica la volontà cattiva, si verifica in modo che se non volesse non si verificherebbe e perciò la giusta pena è conseguenza di imperfezioni non necessarie ma volontarie. L'imperfezione non si ha col tendere al male, perché non si danno esseri che sono un male, ma con un atto che è male, perché contro l'ordine degli esseri si tende dall'essere perfettissimo all'essere meno perfetto. L'avarizia non è un'imperfezione dell'oro ma dell'uomo, che rovesciando l'ordine dei fini, ama l'oro abbandonando la giustizia che doveva essere valutata incomparabilmente superiore all'oro. E la lussuria non è un'imperfezione dei corpi belli e avvenenti ma dell'anima pervertita che ama i piaceri sensibili abbandonando la temperanza, con cui ci adeguiamo a cose spiritualmente più belle e immaterialmente più avvenenti. Così l'orgoglio non è imperfezione della buona reputazione ma dell'anima pervertita, che ama essere esaltata dagli uomini disprezzando la voce della coscienza. E la superbia non è imperfezione di chi dà il potere o anche del potere stesso, ma dell'anima pervertita che ama il proprio potere disprezzando il potere più giusto di chi è più potente. Perciò chi alla rovescia ama il bene di qualsiasi essere, anche se lo consegue, nel bene egli è malvagio e infelice perché privato di un bene migliore.

 Dio ha creato negli angeli la buona volontà...
9. 1. Ora non esiste una causa efficiente naturale, o, se si può dire, essenziale della volontà cattiva. Da lei infatti ha origine il male degli spiriti posti nel divenire, perché da questo male viene diminuito e deformato il bene dell'essere. Soltanto la defezione, con cui si abbandona Dio, produce la volontà cattiva ed anche la causa di tale defezione è una defezione. Se si dice quindi che neanche della volontà buona esiste una causa efficiente, si eviti di credere che la volontà buona degli angeli buoni non è stata creata, ma che è coeterna a Dio. Se essi sono stati creati, non si può affermare che la loro volontà non è stata creata. Dunque, dato che è stata creata, è stata creata assieme a loro ovvero essi esistettero prima senza di lei? Se è stata creata assieme ad essi, fu creata indubbiamente da colui che ha creato anche loro. E nell'atto stesso che furono creati si unirono a colui dal quale sono stati creati con l'amore col quale erano stati creati. In questo appunto gli angeli buoni si distinsero dal gruppo degli altri perché si mantennero nella medesima buona volontà, mentre i ribelli derogando da essa degenerarono mediante la volontà cattiva nell'atto stesso che vennero meno alla volontà buona. Però non sarebbero venuti meno se non avessero voluto. Supponiamo che gli angeli buoni fossero all'inizio senza la volontà buona e che essi stessi la producessero in sé senza l'azione di Dio. Ebbero dunque maggiore perfezione da sé che da lui? No, senza la volontà buona sarebbero stati indubbiamente cattivi. Ma se non erano cattivi perché non avevano la volontà cattiva, dato che non erano venuti meno alla volontà buona che ancora non avevano ricevuto, certamente non erano tali e non ancora tanto buoni come quando cominciarono ad avere la volontà buona. Ma non poterono rendersi più perfetti di come egli li aveva creati, perché non si ha operazione che più della sua produca perfezione. Quindi soltanto con l'intervento operativo del Creatore poterono avere volontà buona, con cui furono più perfetti. La loro volontà buona fece che non si volgessero a se stessi, che erano meno perfetti, ma a lui che è perfettissimo e si unissero a lui per divenire più perfetti e per vivere nella partecipazione a lui in sapienza e beatitudine. E da ciò si rende evidente che qualsiasi volontà buona era sterile qualora si fosse acquietata nel solo desiderio se egli, che dal nulla aveva creato l'essere buono disposto a riceverlo, non lo rendesse più perfetto riempiendolo di se stesso perché prima l'aveva reso più anelante incitandolo ad elevarsi.

 ... non priva della libertà di scelta.
9. 2. In relazione all'argomento se gli angeli buoni causarono essi stessi in sé la volontà buona, si deve esaminare anche questo problema: se la causarono con una qualche volontà o senza alcuna. Se senza alcuna, neanche la causarono. Se con una qualche volontà, si chiede se buona o cattiva. Se cattiva, come poté una cattiva volontà essere principio efficiente di una volontà buona? Se buona, dunque già l'avevano. E l'aveva potuta causare soltanto colui che li ha creati dotati di volontà buona, cioè con l'amore ordinato con cui unirsi a lui, producendo a un tempo il loro essere e donando la grazia. Perciò si deve credere che gli angeli santi mai sono stati senza la volontà buona che è amore di Dio. Gli altri creati buoni divennero cattivi con la loro individuale volontà cattiva, non creata da un essere buono, ma nell'atto che venne meno volontariamente al bene, perché causa del male non è il bene ma il venir meno al bene. Essi o ebbero una minore elargizione della grazia di amore divino a differenza di quelli che in essa si mantennero; oppure se entrambi furono creati ugualmente buoni, mentre i ribelli peccavano con la volontà cattiva, i fedeli più largamente favoriti giunsero alla pienezza della felicità, divenendo assolutamente certi di non venir meno ad essa. Ne abbiamo parlato anche nel libro precedente 9. Si deve dunque ammettere col dovuto ringraziamento al Creatore che non appartiene soltanto agli uomini in grazia ma si può dire anche degli angeli santi che l'amore di Dio è stato versato in essi per mezzo dello Spirito Santo che è stato loro dato 10. Si deve inoltre riconoscere che il bene, non solo degli uomini ma primieramente e principalmente degli angeli, è quello di cui è stato scritto: Il mio bene è essere unito a Dio 11. E coloro che comunicano di questo bene hanno con colui, cui sono uniti, e fra di sé una società santa e sono una sola e medesima città di Dio, vivo suo sacrificio e vivo suo tempio. Ma osservo che si deve cominciare a parlare, come è stato fatto per gli angeli, dell'origine per creazione da Dio di quella parte della città di Dio che per congiungersi agli angeli immortali si aduna dagli uomini mortali ed è ancora esule nel divenire della terrenità, ovvero ha raggiunto, in quegli uomini che hanno subito la morte, il riposo nelle invisibili dimore che accolgono le anime. Da un solo uomo che Dio ha creato all'inizio ha avuto origine il genere umano secondo la testimonianza della sacra Scrittura. Ed essa ha giustamente una grande autorità presso tutte le nazioni del mondo, anche perché fra le altre verità ha predetto con divina verità che esse avrebbero creduto 12.

Teorie sui tempi della creazione dell'uomo [10-13]

 Opinioni sulle antichissime condizioni dell'uomo.
10. 1. Omettiamo dunque le ipotesi di individui che non hanno scienza delle proprie affermazioni sulla condizione e sull'origine del genere umano. Alcuni infatti, come hanno supposto per il mondo, sono d'opinione che gli uomini siano sempre esistiti. Per questo anche Apuleio nel trattare questo genere di viventi ha detto: Individualmente sono mortali ma nell'insieme di tutta la specie vivono da sempre 13. E qualora loro si chiedesse, nell'ipotesi che da sempre sia esistito il genere umano, a che titolo la loro storia dice la verità, quando narra degli inventori dei vari utensili, dei pionieri delle discipline liberali e delle altre arti, dei primi abitanti di quella o di un'altra regione e parte della terra, di quella o di un'altra isola, rispondono che a causa di diluvi e cataclismi per un certo tempo non tutti i territori ma molti si spopolarono 14. Così gli uomini si ridurrebbero ad un esiguo numero, dalla cui discendenza viene ristabilito il ripopolamento. Quindi certi dati, che a causa dei cataclismi erano interrotti o scomparsi, si presenterebbero e si formerebbero come originari, mentre sono soltanto riemersi. Del resto, aggiungono, l'uomo soltanto dall'uomo può venire all'esistenza. Ma dichiarano una loro ipotesi e non una conoscenza scientifica.

 Confronto fra cronologia greca ed egiziana.
10. 2. Li inducono in errore anche alcuni scritti menzogneri che, secondo la loro tradizione, riportano nella cronologia molte migliaia di anni, sebbene secondo le sacre Scritture dall'origine dell'uomo si calcolano seimila anni non ancora compiuti. Per non discutere a lungo nel ribattere la infondatezza di quei libri, in cui si riporta un numero ben maggiore di migliaia di anni e nel dimostrare che in essi non è reperibile l'autorevolezza richiesta dall'argomento, adduco la lettera di Alessandro il Grande alla madre Olimpiade. La scrisse per comunicare la narrazione di un sacerdote egiziano che egli aveva allegato dalle scritture considerate sacre presso di loro. Contiene fra l'altro i regni che anche la storia greca conosce. Fra di essi il regno degli Assiri nella medesima lettera di Alessandro supera i cinquemila anni, mentre nella storia greca ha mille e trecento anni a partire dal regno di Belo, che anche il sacerdote egiziano pone all'inizio del regno assiro 15. Inoltre ha calcolato più di ottomila anni le monarchie dei Persiani e dei Macedoni fino allo stesso Alessandro, al quale si rivolgeva, mentre negli scrittori greci per il regno dei Macedoni si hanno fino alla morte di Alessandro quattrocentoottantacinque anni e per quello dei Persiani fino a che ebbe tempo termine, con la vittoria di Alessandro, se ne calcolano duecentotrentatré. Dunque in questa cronologia gli anni sono molti di meno che in quella egiziana e non li raggiungerebbero anche se fossero moltiplicati per tre. Si dice appunto che gli Egiziani nei tempi antichi avessero degli anni tanto brevi che si compivano ogni quattro mesi; quindi l'anno intero e vero, che ora abbiamo noi ed essi, ne abbracciava tre dei loro di una volta. Ma neanche così, come ho detto, è concorde la cronologia greca con quella egiziana. Quindi è più attendibile quella greca perché non va al di là della veridicità cronologica, indicata dalla nostra Scrittura che è veramente sacra. Inoltre se la lettera di Alessandro, largamente conosciuta, per quanto riguarda i periodi, è molto lontana da una plausibile veridicità storica, quanto meno si deve credere a quelle scritture che, sebbene zeppe di leggendari fatti antichi, i nostri avversari hanno voluto produrre contro l'autorità dei nostri conosciutissimi Libri divini. Tale autorità ha preannunziato che tutto il mondo le avrebbe creduto e il mondo, come aveva preannunziato 16, le ha creduto. E dai fatti che ha previsto come futuri, quando essi si avverano tanto fedelmente, ha la conferma di avere descritto veridicamente i passati.

Ipotesi dei fautori della generazione spontanea.
11. Altri, i quali non ritengono eterno il mondo, sia che non ne pongano uno solo ma infiniti, sia che ne pongano uno solo ma destinato a nascere e morire infinite volte, sono costretti ad ammettere che il genere umano all'inizio ha cominciato ad esistere senza la generazione umana. Costoro infatti non sostengono che a causa di alluvioni o fenomeni vulcanici i quali, secondo loro, non si verificherebbero in tutta la terra, sopravvivano pochi individui, da cui si abbia il ripopolamento. È impossibile per loro supporre che alla fine del mondo rimanga un certo numero di uomini. Ma come sostengono che il mondo sorge di nuovo dalla propria materia, così in esso dai suoi elementi si propaga il genere umano e in seguito dai genitori la discendenza degli uomini al pari degli altri viventi 17.

Confronto in termini di cronologia fra tempo ed eternità.
12. Ho già risposto, quando si trattò il problema dell'origine del mondo, a coloro i quali si rifiutano di ammettere che non è sempre esistito ma che ha cominciato ad esistere, come ammette apertamente lo stesso Platone, quantunque da taluni è interpretato in senso contrario a quanto dice. La medesima cosa vorrei rispondere sulla prima apparizione dell'uomo per coloro che allo stesso modo si domandano perché l'uomo non sia stato creato durante gli incalcolabili e infiniti tempi passati e sia stato creato tanto tardi che sono meno di seimila anni da quando, come dice la Scrittura, cominciò ad esistere. Se li offende la brevità del tempo, perché sembrano loro tanto pochi gli anni da che si dice che ha avuto inizio l'uomo nei nostri testi autorevoli, considerino che non si ha lunga durata se si ha un termine e che tutte le limitate estensioni dei tempi, se si confrontano con l'eternità infinita, non si devono considerare piccole ma inesistenti. E per questo se non fossero cinque o seimila ma sessantamila o seicentomila anni ed essi si avessero per sessanta, per seicento, per seicentomila volte e questa somma si moltiplicasse per tante volte fino a non avere più un numero concepibile, da che Dio ha creato l'uomo, si potrebbe ancora chiedere perché non l'ha creato prima. Lo stato di riposo in cui Dio non creò l'uomo, che risalendo all'indietro è eterno per mancanza d'inizio, è così immenso che se gli si raffronta una serie numerica di tempi, per quanto grande e incalcolabile, la quale abbia tuttavia un termine perché chiusa nel limite di una determinata estensione, non dovrebbe esser considerata più grande che se si confronti la più minuta stilla di umidità con tutti i mari, anche quanti ne abbraccia l'oceano. Infatti delle due quantità una è piccolissima, l'altra incomparabilmente grande, ma l'una e l'altra limitate. Invece l'estensione di tempo che parte da un inizio ed è limitata da una fine, per quanto si estenda in quantità, confrontata con l'essere che non ha inizio, non so se si deve considerare piccolissima o piuttosto inesistente. Pertanto se a partire dal termine si eliminano a uno a uno attimi anche brevissimi man mano che il numero, anche tanto grande che non abbia un nome, decresce e si risale indietro, come se si eliminassero i giorni di vita di un individuo, dall'attuale fino a quello della nascita, a un certo punto la eliminazione sarà ricondotta all'inizio. Supponiamo invece che si eliminassero risalendo indietro attraverso una estensione di tempo che non ha avuto inizio, non dico a uno a uno spazi limitati di ore, di giorni, di mesi, di anni, ma anche estensioni così grandi, quante ne racchiude una somma di anni che diviene incalcolabile per qualsiasi matematico, la quale tuttavia si raccorci con l'eliminazione attimo per attimo di porzioni di tempo e si eliminino quelle enormi estensioni non una volta o due o più ma sempre. Non si fa nulla, non si ottiene nulla, perché mai si giunge all'inizio che non esiste assolutamente. Pertanto il problema che ci poniamo noi oggi dopo cinquemila anni e rotti, con la medesima curiosità se lo potrebbero porre i posteri anche fra seicentomila volte quegli anni, se per tanto tempo continuassero la soggezione degli uomini al nascere e al morire e la debolezza della nostra esperienza. Anche quelli che vissero prima di noi, nei tempi più vicini alla creazione dell'uomo, potevano porsi questo problema. Alfine anche il primo uomo l'indomani o il giorno stesso della sua creazione poteva chiedersi perché non fosse stato creato prima. Comunque in qualsiasi tempo fosse stato creato, questa controversia sull'origine delle cose temporali non avrebbe trovato allora argomenti validi diversi da quelli di oggi o anche dell'avvenire.

 Falsa teoria dei cicli e delle palingenesi.
13. 1. I filosofi naturalisti ritennero di poter o dovere risolvere la suddetta controversia introducendo dei cicli di tempo. Affermarono che con essi tornavano a ripetersi in natura sempre i medesimi eventi e che allo stesso modo per il futuro si sarebbero avuti senza fine i ritorni degli avvenimenti che vengono e vanno, sia che i cicli si verifichino in un mondo senza tramonto, sia che il mondo sorgendo e tramontando a determinate distanze di tempo offrisse come nuovi sempre gli stessi avvenimenti sia passati che futuri. Così questi filosofi non riescono a considerar libera da questa beffa del destino l'anima immortale, anche se ha acquisito la sapienza, poiché va senza sosta verso una falsa felicità e senza sosta ritorna a una vera infelicità. Non può infatti essere vera felicità perché non si ha sicurezza della sua eternità e perché in quello stato l'anima o per radicale inesperienza non conosce nella realtà l'infelicità del mondo o la teme con angoscia pur essendo nella felicità. Ma se essa non dovrà più tornare all'infelicità terrena, passa da questa alla felicità. Avviene dunque nel tempo qualcosa che prima non era avvenuto e che non ha il limite del tempo. Questo si può dire dunque anche del mondo ed anche dell'uomo creato nel mondo. Quanto dire che con la sana dottrina attraverso una via dritta si devono evitare gli assurdi ritorni ciclici inventati da filosofi assurdi e impostori.

 Il Qoèlet non è a favore dei cicli.
13. 2. Alcuni ritengono che si debba interpretare nel senso dei suddetti cicli che ritornano al medesimo e fanno tornare tutto al medesimo anche quel che si legge nel libro di Salomone, intitolato L'Ecclesiaste: Che cos'è ciò che è stato? Quello stesso che sarà. E che cos'è ciò che è avvenuto? Quello stesso che avverrà. Non v'è nulla di nuovo sotto il sole. Non si potrà dire: Guardate che questo evento è nuovo, perché è avvenuto nei secoli che furono prima di noi 18. Ma egli ha detto quelle parole riferendosi agli eventi di cui parlava in precedenza, cioè alle generazioni che vanno e vengono, ai giri del sole, al fluire dei corsi d'acqua e infine a tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Vi furono infatti uomini prima di noi, vi sono assieme a noi, vi saranno dopo di noi. Altrettanto si dica degli altri animali e delle piante. Perfino i fenomeni straordinari, che si verificano fuori dell'aspettativa, sebbene siano diversi fra di loro e di alcuni si dica che siano avvenuti una sola volta, nel senso che sono in genere fatti meravigliosi e straordinari, tuttavia vi sono stati e vi saranno e non è un fatto nuovo che si verifichino eventi straordinari sotto il sole. Però alcuni interpretano quelle parole nel senso che quel grande sapiente voleva far intendere che tutto è stabilito nell'ordinamento divino e che quindi niente v'è di nuovo sotto il sole. Comunque secondo le norme della retta fede non dobbiamo credere che con le parole di Salomone furono indicati i cicli con cui si hanno, come pensano costoro, i medesimi ritorni di tempi e di avvenimenti nel tempo; ad esempio, come il filosofo Platone in quel tempo ha insegnato agli allievi nella città di Atene, nella scuola detta l'Accademia, così il medesimo Platone, la medesima città, la medesima scuola, i medesimi alunni sarebbero tornati attraverso le infinite successioni di tempo nel passato a fasi molto lunghe ma determinate e tornerebbero nelle infinite successioni che verranno. Non dobbiamo, dico, credere a queste fandonie. Infatti Cristo è morto una sola volta per i nostri peccati 19, ma risorgendo dai morti non muore più e la morte non l'assoggetterà più nell'avvenire 20, e noi dopo la risurrezione saremo sempre col Signore 21, al quale nel tempo presente diciamo quel che ci suggerisce il sacro Salmo: Tu, o Signore, ci custodirai e ci difenderai dalla generazione presente, fino nell'eternità. Penso infine che a questi filosofi si adatti molto bene il versetto seguente: Gli empi si muoveranno in giro 22, non nel senso che la loro vita ritornerà ai cicli da loro immaginati, ma perché nel tempo presente la via del loro errore è un circolo vizioso, cioè una falsa dottrina.

Contro i ritorni ciclari unità e bontà originaria dell'uomo [14-27]

Ineffabile l'opera di Dio.
14. Non c'è da meravigliarsi poi se, vagando per questi cicli, non trovano né l'entrata né l'uscita perché non sanno come hanno avuto inizio e quale fine avranno il genere umano e la sua esistenza terrena. Non possono infatti conoscere la trascendenza di Dio, perché egli, pur essendo eterno e senza inizio, da un determinato inizio ha dato origine al tempo e all'uomo, che prima non aveva creato e che ha creato nel tempo non con un disegno subitaneo, mai avuto prima, ma immutabile ed eterno. Nessuno può indagare su questa trascendenza di Dio perché è arcana, né esprimerla perché è ineffabile. Difatti nel rispetto ad essa Dio, con volontà non diveniente nel tempo, creò nel tempo l'uomo, prima di cui non era esistito alcun uomo, e da un solo individuo fece moltiplicare il genere umano. Il Salmo citato premette queste parole: Tu, o Signore, ci custodirai e ci difenderai dalla generazione presente e fino nell'eternità. Confuta poi coloro, nella cui insipiente ed empia dottrina non è contemplata l'eternità di una liberazione e felicità dell'uomo. Infine con le parole: Gli empi si muoveranno in giro, suppone che gli si chieda: "Che cosa presumi di conoscere tu con l'opinione, il senso, l'intelligenza? Si può forse ritenere che all'improvviso Dio decise di creare l'uomo, sebbene non l'avesse creato nella sterminata eternità anteriore e sebbene in lui è impossibile una modificazione e non esista alcun divenire?", e risponde rivolgendosi a Dio stesso: Nel rispetto della tua trascendenza hai fatto moltiplicare i figli degli uomini 23. Gli uomini, dice, pensino quel che vogliono, suppongano e sostengano quel che loro piace: Nel rispetto della tua trascendenza (che l'uomo non può conoscere) hai fatto moltiplicare i figli degli uomini. Ed è infatti veramente trascendente e che sia sempre esistito e che per quanto riguarda l'uomo, che anteriormente non aveva creato, abbia creato il primo in un determinato tempo e che ciò nonostante non abbia mutato né disegno né volere.

 Dio è Signore in ogni tempo.
15. 1. Io come non oso dire che Dio Signore non sia stato sempre signore, così non devo dubitare che l'uomo non è sempre esistito e che il primo uomo è stato creato in un determinato tempo. Ma quando rifletto di che cosa Dio fu eternamente signore se la creatura non è esistita eternamente, temo di affermare qualcosa, mi esamino e rammento il detto della Scrittura: Chi degli uomini può conoscere il disegno di Dio o chi potrà pensare l'oggetto del suo volere? I pensieri dei mortali temono di errare e incerti sono i nostri procedimenti. Infatti il corpo che è materia appesantisce l'anima e la terrenità costringe la nostra facoltà a formulare molteplici pensieri 24. Dunque in questa terrenità io formulo molti pensieri. E ne formulo molti perché non riesco a raggiungere quell'uno che, o fra di essi o al di là di essi e che forse io non formulo, è il vero. Ma supponiamo che, scegliendo fra di essi, io dico che la creatura, di cui Dio fosse signore, è sempre esistita, perché egli è eternamente signore e non vi fu tempo in cui non lo fosse, ma che sono esistite ora l'una ora l'altra in diverse dimensioni di tempo. Questo per non affermare che alcuna sia coeterna al Creatore, giacché la fede e la vera ragione condannano questa tesi. In tale ipotesi si deve evitare l'assurdo, contrario alla verità rivelata, che la creatura, mortale per il mutare del tempo, è sempre esistita con lo scomparire di una e il succedere dell'altra e che ha cominciato ad essere immortale soltanto quando si è giunti all'attuale successione di tempi, nella quale sono stati creati anche gli angeli. Infatti se la luce creata al principio indica esattamente loro o piuttosto il cielo, di cui è detto: In principio Dio creò il cielo e la terra 25, si deve ammettere che non sono esistiti prima di essere creati, per non dover ammettere, se si dice che sono sempre esistiti, che esseri immortali siano coeterni a Dio. Se poi dirò che gli angeli non sono stati creati nel tempo ma che sono esistiti prima di tutti i tempi, affinché Dio fosse il loro signore perché sempre è stato signore, mi si chiederà anche, nell'ipotesi che siano stati creati prima di tutti i tempi, se è possibile che, pur essendo stati creati, siano sempre esistiti. Ma in proposito mi sembra che forse si può rispondere: E perché non da sempre, se non è assurdo dire che l'essere il quale esiste in ogni tempo da sempre esiste? Essi sono esistiti in ogni tempo appunto perché sono stati creati prima di tutti i tempi, se i tempi hanno avuto inizio col cielo ed essi esistevano prima del cielo. Ma supponiamo che il tempo non ha avuto inizio dal cielo ma che si ebbe prima del cielo, non certamente in ore, giorni, mesi ed anni. Infatti queste misure di dimensioni di tempo, che nel parlare comune propriamente si chiamano tempo, hanno avuto inizio, come è evidente, dal movimento degli astri. Dio stesso, nell'assegnare loro uno spazio, disse: E siano come distinzioni di tempi e di giorni e di anni 26. Il tempo si intende invece come il divenire del movimento secondo il prima e il poi, dato che le sue parti non possono essere simultaneamente. Dunque prima del cielo una simile condizione si verificava nel divenire degli angeli e quindi il tempo già esisteva e gli angeli, dal momento in cui furono creati, divenivano nel tempo. Ma anche in questo senso sono esistiti in ogni tempo, perché il tempo ebbe inizio con loro. E chi potrebbe dire che non è sempre esistito ciò che è esistito in ogni tempo?

 Gli angeli sempre esistiti ma nel tempo.
15. 2. Ma se darò questa soluzione, mi si chiederà: "Come dunque non sono coeterni al Creatore, se egli è sempre esistito ed essi egualmente? Come si potrà affermare che sono stati creati se si deve pensare che sono sempre esistiti? Che cosa si risponderà a questa obiezione? Si dovrà forse dire che sono sempre esistiti perché sono esistiti in ogni tempo, dato che o sono stati creati col tempo o assieme ad essi ha avuto inizio il tempo e che tuttavia sono stati creati?". Non possiamo negare che il tempo ha avuto un inizio, quantunque nessuno mette in dubbio che in ogni tempo si è avuto il tempo. Infatti se il tempo non si è avuto in ogni tempo, c'era dunque il tempo quando non c'era il tempo. Neanche uno sciocco lo potrebbe dire. Dunque è ragionevole dire: C'era il tempo quando non c'era Roma; c'era il tempo quando non c'era Gerusalemme; c'era il tempo quando non c'era Abramo; c'era il tempo quando non c'era l'uomo e così via; infine nell'ipotesi che il mondo non sia stato creato all'inizio del tempo ma dopo un certo tempo, possiamo dire che c'era il tempo quando non c'era il mondo, ma è assurdo dire che c'era il tempo quando il tempo non c'era. È come se si dicesse: "Esisteva l'uomo quando nessun uomo esisteva"; ovvero: "Esisteva questo mondo quando questo mondo non esisteva". Se invece si intendesse parlare di due condizioni diverse, ci si può esprimere per analogia, cioè: "Esisteva un uomo diverso quando non esisteva l'uomo attuale"; e così si può dire ragionevolmente: "Si aveva un altro tempo quando non si aveva il tempo attuale"; ma neanche un insensato può dire: "C'era il tempo quando il tempo non c'era". Si afferma dunque che il tempo ha avuto inizio, sebbene si ammetta che sempre c'è stato perché in ogni tempo il tempo c'è stato. Non ne consegue che se gli angeli sono sempre esistiti, non siano stati creati. Si afferma che sono sempre esistiti appunto perché sono esistiti in ogni tempo e sono esistiti in ogni tempo appunto perché senza di essi era assolutamente impossibile che si avesse il tempo. Infatti se non esiste una creatura, dal cui divenire nel movimento si svolga il tempo, non è possibile in senso assoluto che si abbia il tempo. E per questo anche se sono sempre esistiti, sono stati creati ma non ne consegue che se sono sempre esistiti siano coeterni al Creatore. Egli infatti è sempre esistito per non diveniente eternità; essi invece sono stati creati ma dire che sono sempre esistiti significa che sono esistiti in ogni tempo, dato che era assolutamente impossibile che senza di essi si avesse il tempo. Il tempo invece, dato che trascorre col divenire, non può essere coeterno all'eternità che non diviene. Pertanto anche se l'immortalità degli angeli non trascorre nel tempo e non è passata, come se non si avesse più, e non è futura, come se ancora non si avesse, tuttavia i loro movimenti, con cui si svolge il tempo, passano dal futuro al passato. Quindi è impossibile che siano coeterni al Creatore, perché non è concepibile che nel suo muoversi ci sia stata qualche cosa che non c'è più o ci sarà qualche cosa che ancora non c'è.

 Limite della ragione di fronte al mistero.
15. 3. Per la qual cosa se Dio è stato sempre signore, ha avuto sempre una creatura soggetta alla sua signoria, non da lui generata ma creata dal nulla e non a lui coeterna. Era prima di lei, sebbene in nessun tempo senza di lei, perché non la precedeva per una dimensione del tempo che trascorre, ma in una immobile indefettibilità. Ma se do questa soluzione a coloro che mi chiedono come è stato sempre creatore, sempre signore, se non esisteva una creatura a lui soggetta, ovvero perché è stata creata e non piuttosto è coeterna al Creatore se è sempre esistita, temo di esser giudicato come uno che afferma con leggerezza ciò che non sa, anziché come uno che insegna ciò che sa. Ritorno dunque alla dottrina che il nostro Creatore ha voluto che conoscessimo e confermo che sono al di là delle mie capacità le nozioni che egli ha concesso di conoscere ai più sapienti in questa vita o ha riservato alla conoscenza dei perfetti nell'altra vita. Ma ho ritenuto di esporle senza sostenerle affinché i lettori sappiano da quale pericolosa problematica debbono guardarsi, non pensino di essere capaci di tutto, anzi intendano che si deve ubbidire all'Apostolo il quale ci dà questo salutare ammonimento: Dico a tutti i componenti della vostra comunità, in base alla grazia che mi è stata data, di non pretendere di capir più di quanto conviene, ma di volerlo nel giusto limite, secondo la misura della fede che Dio ha distribuito a ciascuno 27. Se infatti il bambino viene nutrito secondo le sue forze, avverrà che col crescere comprenderà di più; se al contrario oltrepasserà le forze della propria capacità, verrà meno prima di crescere.

I tempi eterni non sono l'eternità.
16. Confesso di non sapere quali successioni dei tempi passarono prima che avesse inizio il genere umano. Non dubito tuttavia che non si dà nulla di coeterno fra creatura e Creatore. L'Apostolo parla di tempo eterno, e non futuro ma passato; e questo desta maggior meraviglia. Ha detto: Verso la speranza della vita eterna che Dio, il quale non mente, ha promesso prima dei tempi eterni ma ha manifestato la sua parola nel tempo suo 28. Ha detto dunque che vi sono stati in passato tempi eterni che tuttavia non furono coeterni a Dio, giacché egli non solo esisteva prima dei tempi eterni ma ha anche promesso la vita eterna che ha manifestato nel tempo suo, cioè conveniente. E non è altro che il suo Verbo perché egli è la vita eterna. E come ha fatto a promettere giacché ha promesso agli uomini che ancora non esistevano prima dei tempi eterni? Perché nella sua eternità e nello stesso suo Verbo a lui coeterno era definito con un atto della provvidenza ciò che a suo tempo sarebbe avvenuto.

 Sofismi dei sostenitori del ritorno dell'identico.
17. 1. Non ho dubbi neanche sul fatto che prima della creazione dell'uomo non sia esistito in qualche tempo alcun uomo e che non è stata restituita all'esistenza attraverso non so quali cicli e non so quante volte una umanità della medesima specie o altra simile nella natura. Non mi distolgono da questa credenza gli argomenti dei filosofi, anche se è considerata molto profonda la loro teoria che l'infinito non si può rappresentare come oggetto di scienza. Pertanto Dio, dicono essi, contiene in sé tutte le ragioni finite del tutto delle cose finite che crea. Inoltre, soggiungono, non si deve pensare che la sua bontà sia rimasta per qualche tempo senza agire per non affermare che la sua azione sia nel tempo, giacché il suo riposo sarebbe nell'eternità e poi, come se si fosse pentito del precedente suo riposo senza inizio, avrebbe dato inizio alla sua opera. Pertanto è necessario, dicono, che ritornino sempre i medesimi eventi e trascorrano identici nel loro perpetuo ripetersi. Quindi il mondo o si perpetuerebbe nel divenire perché, sebbene sia sempre esistito senza avere inizio nel tempo, è stato creato, ovvero, nonostante il suo sorgere e tramontare, sarebbe tornato e tornerebbe sempre a ripetersi mediante quei cicli. Col dire, cioè, che le opere di Dio hanno avuto un inizio nel tempo, si verrebbe ad affermare che egli abbia in qualche modo condannato il precedente suo riposo senza inizio come inerte e ozioso e perciò riprovevole e che pertanto sia passato al movimento. Se al contrario si afferma che dall'eternità ha creato le cose nel tempo, ma diverse, e che così è giunto una buona volta a creare anche l'uomo, che anteriormente non aveva creato, potrebbe sembrare, a sentir loro, che ha creato le cose che ha creato non con la scienza, con cui a loro avviso non ci si può rappresentare l'infinito, ma così secondo l'opportunità, come gli veniva in mente con una intermittenza dovuta al caso. Quindi, secondo loro, se si ammettono quelle palingenesi con cui tornano i medesimi eventi nel tempo o in un mondo perpetuo o in un mondo che inserisce in cicli identici il ripetersi del suo sorgere e tramontare, non si attribuiscono a Dio né un ozio indolente, tanto più che è di una lunghezza senza inizio, né un'inconsapevole sprovvedutezza nell'agire. Se non si dà il ritorno dell'identico, è impossibile, dicono, che sia colta da una sua scienza o prescienza la realtà differenziata con infinita diversificazione.

 Vengono confutati.
17. 2. Se la ragione non riesce a confutare queste elucubrazioni, con cui pensatori miscredenti tentano di stornare la nostra religiosità semplice dalla via dritta per farci girare con loro attorno ai cicli 29, la fede dovrebbe farsene beffe. Si aggiunge che con l'aiuto del Signore Dio nostro una dimostrazione apodittica riesce a spezzare questi cicli periodici che la suddetta teoria si affanna a rappezzare. Costoro errano, al punto da preferire un circolo vizioso alla via vera e dritta, principalmente in questo che dall'angolazione della mutevole e angusta intelligenza umana misurano l'intelligenza divina assolutamente immutabile, comprensiva di qualsiasi infinità e che dispone in una successione, senza passare da un pensiero all'altro, l'infinita serie dei numeri. Capita loro quel che dice l'Apostolo: Non capiscono perché confrontano se stessi a se stessi 30. Essi infatti devono eseguire con una decisione nuova tutto ciò che loro capita in mente di dover fare poiché hanno la mente posta nel divenire. Proponendosi quindi al pensiero non Dio, che non possono rappresentarsi, ma in vece di lui se stessi, confrontano non Dio ma se stessi e non a lui ma a se stessi. Noi non dobbiamo ritenere che Dio si trovi in una condizione quando è in riposo e in un'altra quando è in attività. È perfino inconcepibile che sia condizionato, come se nel suo essere si verifichi qualche cosa che prima non c'era. Chi è condizionato infatti subisce una modificazione e ogni essere che subisce una modificazione è nel divenire. Nel suo riposo dunque non si devono ravvisare pigrizia, ozio, inerzia, come nella sua attività lavoro, sforzo, fatica. Sa agire nel riposo e riposare nell'azione. Può applicare ad un'opera nuova una determinazione non nuova ma eterna e non ha cominciato a fare ciò che non aveva fatto perché si è pentito di essere stato anteriormente in riposo. Ma supponiamo che fosse prima in riposo e poi in attività, anche se io non so come questi concetti siano accessibili al pensiero umano. Ovviamente le nozioni del prima e del poi si riferirono alle cose che prima non esistevano e poi sono esistite. In Dio al contrario non si ebbe un volere successivo che mutò o sostituì il volere antecedente, ma un solo medesimo eterno immutabile atto della volontà fece sì che le cose create non esistessero finché non esistettero e che poi esistessero quando cominciarono ad esistere. Mostrò così a coloro che potevano conoscere queste verità, rivelandole forse con un intervento straordinario, che non aveva bisogno delle cose ma che le aveva create per disinteressata bontà, giacché anche senza di esse era rimasto in una felicità non minore da un'eternità senza inizio.

Dottrina su trascendenza e creazione nel tempo.
18. Riguardo poi all'altra loro teoria che neanche con la scienza di Dio può essere rappresentato l'infinito, rimane loro che osino affermare, immergendosi nell'abisso profondo della irreligiosità, che Dio non conosce il tutto del numero. È assolutamente certo che il numero è infinito, perché qualunque sia il numero che si prende come limite, non dico che è possibile aumentarlo di un'unità, ma per quanto sia grande e comprensivo di una indefinita quantità numerica, in base all'idea stessa del numero, non solo si può raddoppiare, ma anche moltiplicare per se stesso. Infatti qualsiasi numero è così determinato dalle sue proprietà che non v'è numero eguale ad un altro. Sono dunque disuguali per quantità e qualità, ognuno è finito, il tutto dei numeri è infinito. Dio dunque non conoscerebbe a causa dell'infinità l'intero dei numeri e la sua scienza arriverebbe fino a una certa quantità numerica e ignorerebbe il resto? Non lo potrebbe dire neanche il più insensato. E costoro non vorranno sottovalutare il numero e affermare che non è oggetto della conoscenza di Dio, perché nella loro tradizione Platone con parole veramente autorevoli presenta Dio che concepisce il mondo mediante i numeri 31. E nella nostra Scrittura si legge che viene detto a Dio: Hai ideato tutte le cose nella misura, nel numero e nel peso 32. E di lui dice il Profeta: Egli fa scorrere la durata nel numero 33; e il nostro Salvatore dice: Tutti i vostri capelli sono stati numerati 34. Non si può dubitare che gli sia noto l'intero dei numeri, perché, come dice un Salmo, la sua intelligenza non si può calcolare col numero 35. Dunque l'infinità del numero, quantunque non si dia calcolo numerico del numero infinito, può essere oggetto di conoscenza unificante per colui, la cui intelligenza non si può calcolare col numero. Pertanto se l'oggetto di una rappresentazione unificante mediante scienza ha finitezza nella rappresentazione del soggetto, certamente ogni infinità in un modo ineffabile a Dio è finita, perché per la sua scienza è oggetto rappresentabile. Dunque se l'infinità del numero non può essere infinita per la scienza di Dio che se la rappresenta come oggetto, che razza di omucci siamo noi che pretendiamo di porre limiti alla sua scienza, dicendo che, se non tornano i medesimi eventi nel tempo attraverso i medesimi cicli, Dio non può o aver prescienza di tutte le cose che ha creato per crearle o scienza dopo averle create? Infatti la sua sapienza molteplice nell'unità e multiforme nella uniformità ha rappresentazione unificante del tutto degli oggetti per noi irrappresentabili con un atto di conoscenza per noi irrappresentabile. Ne consegue che se volesse creare sempre cose nuove e le cose che seguono dissimili dalle precedenti, esse non sarebbero per lui fuori dell'ordinamento e della provvidenza e non le ordinerebbe a partire dal tempo più vicino ma le accoglierebbe in una eterna prescienza.

Vita eterna nelle successioni dei tempi.
19. Io non oso determinare se Dio agisce in quel modo e se quelli che sono detti secoli dei secoli 36 si avvicendano in un nesso di continuità, sebbene si svolgano diversificandosi con razionale dissomiglianza, e questo soltanto per quelli che sono liberati dalla schiavitù terrena ed esistono nella loro felice immortalità; ovvero se per secoli dei secoli s'intendano le successioni che esistono nella sapienza di Dio con indefettibile stabilità e che sono cause esemplari delle successioni che scorrono nel tempo. Forse si potrebbe dire secolo invece di secoli sicché il secolo del secolo verrebbe a significare soltanto i secoli dei secoli, come il cielo del cielo 37 non significa altro che i cieli dei cieli. Infatti Dio ha chiamato cielo il firmamento sopra il quale vi sono le acque 38 e tuttavia un Salmo dice: E le acque, che sono sopra i cieli, lodino il nome del Signore 39. Quale dei due significati o un terzo eventuale abbia il concetto dei secoli dei secoli è un problema molto profondo e, se per adesso viene rimandato senza risolverlo, non compromette l'argomento che sto trattando, tanto se nell'esaminarlo riuscissi a chiarire qualche nozione, quanto se un'approfondita discussione mi rendesse più cauto. Non oserei infatti in così grande oscurità di concetti affermare qualche cosa pregiudizialmente. Ora sto ribattendo la teoria dei cieli con i quali, come coloro sostengono, tornerebbero necessariamente attraverso periodi di tempo sempre i medesimi eventi. Ora qualunque delle due opinioni sui secoli dei secoli sia vera, non ha riferimento ai cicli suddetti. Infatti tanto se i secoli dei secoli non tornino all'identico ma si svolgano l'uno dall'altro in un ordinato avvicendarsi, rimanendo così assicurata la felicità dei liberati dalla carne senza il ritorno alla schiavitù terrena, quanto se i secoli dei secoli siano eterni e paradigmatici di subalterne successioni nel tempo, i cicli che ricondurrebbero l'identico sono un non senso, tanto più che li rifiuta la vita eterna degli eletti 40.

 Dio nell'insipiente teoria ciclare.
20. 1. Le orecchie dei credenti infatti non sopportano di udire che li attende un simile destino dopo aver trascorso in mezzo a tante sventure la vita, seppure si può considerare vita questa che è piuttosto una morte, e tanto grave, che la morte che da essa ci libera si teme per amore di questa morte. Dunque dopo sì grandi, molteplici e orribili mali, superati nella purificazione mediante la sapienza della vera religione, si giungerebbe alla visione di Dio e così si diventerebbe beati nella contemplazione della luce ideale mediante la partecipazione alla sua immutevole immortalità, obiettivo finale del nostro amore ardente, per poi abbandonarla in base a una fatale necessità. E coloro che l'abbandonano, scagliati fuori da quella immortalità, verità, felicità, sarebbero risommersi nella mortalità terrena, nella avvilente insipienza, nelle esecrabili passioni, in cui si perde Dio, in cui si ha in odio la verità, in cui si cerca la felicità attraverso i piaceri contaminanti. E questo sarebbe avvenuto in passato e avverrebbe in futuro sempre alla stessa maniera incessantemente, a determinati periodi e lunghezze delle durate antecedenti e successive. E tutto questo perché sia possibile a Dio conoscere le sue opere con cicli stabiliti che eternamente vanno e vengono, attraverso la nostra falsa felicità e vera infelicità, sia pure alternate, ma eterne per l'incessante ripetersi. E questo perché Dio non potrebbe cessare dall'agire e perché non potrebbe cogliere con la scienza l'infinito. Chi potrebbe ascoltare simili idee, chi crederle, chi sopportarle? Ed anche se queste palingenesi fossero vere, non solo sarebbe più prudente non parlarne, ma anche più filosofico ignorarle. Esprimo il mio pensiero come posso. Infatti se nell'aldilà non le conserveremo nella memoria e per questo saremo felici, perché qui dalla loro conoscenza viene resa più pesante la nostra infelicità? Se al contrario di là necessariamente le conosceremo, ignoriamole per lo meno di qua, in maniera che sia più felice di qua l'attesa del sommo bene che di là il suo conseguimento, dato che di qua si attende di conseguire la vita eterna, di là si sa che la vita felice ma non eterna a un certo momento si deve perdere.

 Il destino dell'uomo.
20. 2. Ma essi dicono che non si può giungere alla felicità nell'aldilà, se non si conosceranno con la cultura di questo mondo quei cicli, in cui si avvicendano felicità e infelicità. Perché ammettono allora che quanto più si amerà Dio tanto più facilmente si giungerà alla felicità, se poi insegnano queste teorie da cui tale amore è illanguidito?. Chi infatti non amerebbe più fiaccamente e più tiepidamente un essere che sa di dover ineluttabilmente abbandonare e opporsi alla sua verità e sapienza, e questo dopo esser giunto, secondo la propria capacità, alla piena conoscenza di lui nella perfezione della felicità? Non si riesce ad amare fedelmente neanche un amico, se si sa che diventerà nemico. Ma non sono vere quelle palingenesi le quali ci minacciano una vera infelicità che non finirà mai ma che s'interromperà spesso e incessantemente con intervalli di falsa felicità. Non v'è nulla infatti di più falso e ingannevole di una felicità, durante la quale, pur nella immensa luce della verità, ignoriamo, ovvero, pur nel più alto grado della felicità, temiamo di tornare ad essere infelici. Se infatti di là ignoreremo la futura disgrazia, ha maggior conoscenza di qua la nostra infelicità, perché conosciamo la futura felicità. Se poi di là non ci sarà nascosta la sventura imminente, trascorre più serenamente il tempo l'anima afflitta perché, quando esso sarà passato, sarà elevata alla felicità, che l'anima felice perché, trascorso il periodo, dovrà tornare all'afflizione. In tal modo l'attesa della nostra infelicità sarebbe felice e l'attesa della nostra felicità infelice. Ne consegue che sopportando di qua i mali presenti e temendo di là i futuri, siamo destinati ad essere sempre infelici, anziché una volta felici.

 Novità contro il ritorno dell'identico.
20. 3. Ma queste teorie sono false. Lo proclama la pietà, lo dimostra la verità. A noi infatti è veracemente promessa quella vera felicità che implica la tranquillità che sempre si deve conservare e mai interrompere. Seguendo dunque la via dritta, che per noi è Cristo 41, con la sua guida che è salvezza, volgiamo il razionale cammino della fede lontano dai futili e insignificanti giri ciclici dei miscredenti. Il platonico Porfirio non volle seguire l'opinione della sua scuola su questi cicli e sulle andate e ritorni delle anime, alternatisi senza fine, sia per reazione all'insignificanza della teoria, sia in ossequio alla cultura cristiana. Preferì sostenere, come ho già detto nel libro decimo 42, che l'anima è stata mandata nel mondo per conoscere il male, affinché liberatasene con la catarsi, una volta tornata al Padre, non torni a subirlo. A più forte ragione noi dobbiamo biasimare ed evitare questo errore contrario alla fede cristiana. Considerate dunque vuote di senso queste palingenesi, nulla ci costringe a pensare che il genere umano non ha un inizio nel tempo da cui è cominciato ad esistere, mentre, secondo questa teoria, nella realtà in base a non saprei quali cicli non ci dovrebbe esser nulla di nuovo che non si sia avuto prima e non si avrà dopo attraverso determinati intervalli. Se infatti l'anima viene liberata per non tornare alla schiavitù, in una forma in cui prima non era stata liberata, avviene in lei qualcosa di nuovo che prima non era mai avvenuto, e questo avvenimento sublime è una felicità eterna che non verrà mai meno. E se nell'essere immortale avviene una novità tanto grande, non ricondotta nel passato e non riconducibile in futuro da alcun ciclo, perché si sostiene che nelle cose mortali ciò non può avvenire? Affermano che non avviene nell'anima il fatto nuovo della felicità perché torna a quella in cui è sempre vissuta. Al contrario la liberazione stessa diviene un fatto nuovo perché l'anima si libera dalla infelicità in cui mai è vissuta e in lei si ha anche il fatto nuovo della infelicità che mai si era avuto. Se poi questa novità non rientra nell'ordinamento delle cose, dirette al fine dalla divina provvidenza, ma avviene fatalmente, dove sono andati a finire quei cicli determinati nel periodo, nei quali non si verificherebbero eventi nuovi ma tornerebbero sempre i medesimi che furono? Se poi questa novità non esula dall'ordinamento della provvidenza, tanto nell'ipotesi della immediata creazione come in quella della caduta, è possibile che avvengano eventi nuovi i quali prima non avvennero e tuttavia non sono estranei all'ordinamento della realtà. È stato possibile per l'anima procacciarsi per impreveggenza una infelicità nuova, che tuttavia non era imprevista per la divina provvidenza, tanto che l'ha inclusa nell'ordinamento della realtà e ne ha liberato l'anima con disegno provvidenziale. Con quale sfrontata leggerezza umana si osa affermare dunque che è impossibile per la divinità creare cose nuove non per sé ma per il mondo, che prima non ha creato e che mai ha tenuto fuori del disegno provvidenziale? Se poi affermano che le anime liberate dalla carne non torneranno più all'infelicità, ma che con questo evento non avviene nulla di nuovo perché sempre anime diverse le une dalle altre sono state liberate, sono liberate e saranno liberate, per lo meno concedono, se questo è il loro pensiero, che nuove anime sono create, per le quali vi sono una nuova infelicità e una nuova liberazione. Se dicono infatti che sono anteriori al tempo e che sono sempre esistite per l'addietro, inoltre che da esse continuamente sono formati nuovi uomini e che, se costoro vivranno nella sapienza, saranno liberati dai loro corpi in maniera da non essere più ricondotti alla schiavitù terrena, vengono necessariamente a sostenere che le anime sono infinite. Infatti per quanto esteso fosse un numero finito di anime, non basterebbe nelle infinite durate anteriori perché da esso derivassero sempre uomini nuovi, nell'ipotesi che le anime, una volta liberate dalla soggezione alla morte, non vi sarebbero mai più tornate in seguito. Quindi non potranno spiegare come sia infinito il numero delle anime nella realtà che, a sentir loro, per essere nota a Dio, deve essere finita.

 Inizio e aumento contro l'identico.
20. 4. Dunque quelle palingenesi sono state dimostrate assurde, perché con esse si sostiene che l'anima necessariamente tornerà alle medesime sventure. Quindi la cosa più conveniente che rimane per la pietà è credere che è compossibile a Dio produrre esseri mai prodotti prima e, data la ineffabile prescienza, non porre il proprio volere nel divenire. Riguardo al problema se il numero delle anime liberate e destinate a non tornare alla schiavitù terrena possa sempre aumentare, se la vedano quei tali che fanno discorsi tanto profondi sulla limitazione dell'infinità delle cose. Io per me chiudo questo mio discorso con un dilemma. Nell'ipotesi che l'aumento sia possibile, perché negare che poté esser creato ciò che non era mai stato creato, se il numero delle anime redente, che anteriormente non si era avuto, non si verifica soltanto una volta ma non cessa mai di crescere? Se al contrario è necessariamente stabilito che si dia un determinato numero delle anime liberate destinate a non tornar mai più nell'infelicità e che questo numero non venga accresciuto ulteriormente, anche esso indubbiamente, qualunque sia, prima certamente non si aveva. Difatti senza un inizio non poteva esser accresciuto e giungere alla dimensione della sua grandezza. E tale inizio in questi termini prima non si ebbe. E affinché esso si desse, è stato creato un uomo, prima del quale non ce n'era stato un altro.

Motivi provvidenziali della monogenesi.
21. Dopo aver esaminato, come ho potuto, il problema molto difficile a causa dell'eternità di Dio che crea cose nuove senza alcuna novità del suo volere, non è difficile capire che è stato molto meglio quanto di fatto avvenne e cioè che Dio moltiplicasse il genere umano da un solo individuo, creato per primo, anziché derivarlo da più individui. Infatti sebbene abbia stabilito che alcuni animali vivano solitari e per così dire solivaghi, cioè che preferiscono viver da soli, come le aquile e gli sparvieri, i leoni e i lupi e simili, ed altri uniti da un istinto gregario che preferiscono vivere a stormi o nel branco, come i colombi e gli storni, i cervi, le gazzelle e simili, tuttavia non li ha fatti derivare da un solo individuo ma ha comandato che più individui contemporaneamente venissero all'esistenza. Ha invece creato un solo individuo uomo, perché ne aveva ideata la natura come qualche cosa di mezzo fra gli angeli e le bestie. Quindi se rimanendo soggetto al Creatore come a vero Signore avesse osservato con religiosa obbedienza il suo comando, sarebbe passato nel consorzio degli angeli e avrebbe conseguito senza passare per la morte una felice immortalità senza fine. Se al contrario usando la volontà libera con atti di superba ribellione avesse offeso Dio suo Signore, divenuto soggetto alla morte e schiavo delle passioni, sarebbe vissuto da bestia e destinato dopo la morte a una pena eterna. Ma l'uomo non doveva vivere da solo fuori dell'umana società, che anzi proprio in quel modo gli venivano inculcati l'unità dell'umana società e il vincolo della concordia, se gli uomini si sentivano avvinti non solo dalla somiglianza della natura ma anche dal sentimento della comune origine. Infatti non volle neanche creare la femmina da unirsi all'uomo come creò lui ma da lui la estrasse in modo che il genere umano si propagasse da un solo individuo in senso assoluto.

Confronto fra genesi umana e belluina.
22. Dio non ignorava che l'uomo avrebbe peccato e che soggetto alla morte avrebbe propagato individui destinati a morire e che i mortali sarebbero giunti al punto estremo nella disumanità del peccare. Al contrario le bestie di ogni singola specie che cominciarono a esistere germinando in più dall'acqua e dalla terra, sebbene prive di razionale volontà, sarebbero vissute fra di loro con più tranquilla sicurezza degli uomini, sebbene la specie di questi ultimi si è propagata, ad inculcare la concordia, da un solo individuo. Infatti neanche i leoni e i rettili si combattono fra di sé come fanno gli uomini. Ma Dio prevedeva anche di chiamare in adozione con la sua grazia un popolo di fedeli e, giustificatolo nello Spirito Santo con la remissione dei peccati, di farlo partecipe della società degli angeli santi nella pace eterna, dopo aver eliminato l'ultima nemica, la morte 43. E a questo popolo avrebbe giovato la considerazione del fatto che da un solo individuo Dio ha dato origine al genere umano per inculcare agli uomini quanto gli è gradita l'unità dei molti.

Provvidenza nella creazione dell'uomo.
23. Dio fece dunque l'uomo a sua immagine 44. Infatti egli ha creato l'anima con tali doti per cui mediante l'intelligenza capace di pensiero fosse superiore a tutti gli animali della terra, dell'acqua e dell'aria, privi di una mente simile. Prima dalla polvere della terrenità formò l'uomo e poi alitando infuse l'anima intelligente 45, sia che l'avesse creata prima o piuttosto nell'atto di alitare e volle che fosse anima umana quell'alito che produsse alitando, giacché alitare significa produrre un alito. E poi gli produsse, operando da Dio, con un osso levato dal suo fianco, la moglie come comparte per la generazione 46. Questi fatti non si devono giudicare in base all'esperienza sensibile, come di solito avviene nell'osservare gli artigiani che da una materia terrena con le membra del corpo producono l'oggetto competente all'esercizio dell'arte. La mano di Dio è la potenza di Dio che produce immaterialmente anche le cose materiali. Ma coloro che dai dati dell'esperienza immediata misurano la potenza e la sapienza di Dio, con cui sa e può anche senza i semi produrre i semi, ritengono questi fatti favolosi e non veri. Inoltre giacché non possono conoscere le istituzioni avutesi in origine, se le rappresentano da una falsa prospettiva, come se le leggi stesse della genetica, che essi conoscono, non sembrassero più incredibili, qualora venissero esposte a persone che non le conoscono. Eppure parecchi di essi le attribuiscono più a cause fisiche che all'intervento della mente divina.

L'atto creativo è soltanto di Dio.
24. Ma non mi posso occupare in questo libro di coloro i quali non credono che la mente divina produca ed ordini queste leggi. Quelli della scuola di Platone credono che tutti i viventi mortali sono stati prodotti non dal Dio sommo, che ha creato il mondo, ma per sua permissione o comando da altri dèi inferiori 47, che egli ha creato e che l'uomo occuperebbe fra i viventi un posto eminente e di origine comune con gli dèi stessi. Se i platonici si libereranno dalla superstizione, in base alla quale tentano di giustificare feste e riti sacri in onore degli dèi come a loro creatori, si libereranno anche da questa erronea dottrina. Non è lecito credere e dire, anche prima che se ne possa avere conoscenza razionale, che ci sia, oltre Dio, altro creatore di qualsiasi essere per quanto piccolo e mortale. Gli angeli, che essi preferibilmente chiamano dèi, anche se applicano per comando o permissione la loro azione ai fenomeni del mondo, non sono considerati da noi creatori dei viventi, come delle biade e delle piante gli agricoltori.

Atto creativo e provvidenza nel mondo.
25. Altra è la forma esterna che si applica all'esterno alle varie strutture dei corpi, come fanno i vasai e gli artigiani e operatori simili, che dipingono anche o foggiano raffigurazioni di animali; ed altra è la forma che all'interno contiene le cause efficienti per un segreto e occulto ordinamento di un essere vivente e intelligente, il quale non solo crea, perché non è creato, la forma fisica dei corpi ma anche l'anima dei viventi. La prima forma va attribuita a vari operatori, la seconda ad un solo operatore Dio, datore dell'essere e dell'esistenza, che senza alcun intervento del mondo e degli angeli ha creato il mondo e gli angeli. Mediante un potere divino e, per così dire, produttivo, che non conosce l'esser fatto ma il fare, hanno ricevuto la forma, nell'atto che era creato il mondo, la orbicolarità del cielo e quella del sole. E col medesimo potere divino e produttivo, che non conosce l'esser fatto ma il fare, ha ricevuto la forma la orbicolarità dell'occhio e quella del pomo e le altre figure fisiche che, come possiamo osservare nei vari fenomeni naturali, non sono applicate dall'esterno ma dalla potenza intimamente penetrante del Creatore. Egli ha detto appunto: Io riempio il cielo e la terra 48, ed è sua la sapienza che giunge da un termine all'altro con forza e dispone tutte le cose con dolcezza 49. Non so quale cooperazione gli angeli creati per primi abbiano offerto al Creatore che creava il resto e non oso loro attribuire un compito impossibile e non devo loro limitare un compito possibile. Tuttavia per quanto riguarda la produzione iniziale degli esseri, con cui avviene che esistono in quanto esseri, l'attribuisco soltanto a Dio, col plauso anche degli angeli, perché anche essi riconobbero con gratitudine di dovere a lui il proprio essere. Noi dunque non consideriamo creatori dei vari frutti gli agricoltori perché troviamo scritto: Né chi pianta né chi irriga è qualche cosa ma Dio che fa crescere 50. Né possiamo considerare tale la terra, sebbene ci appaia come la madre feconda di tutti gli esseri che fa nascere dai semi e nutre attraverso le radici, perché troviamo scritto egualmente: Dio dà un corpo al seme secondo un suo disegno e ad ogni seme un proprio corpo 51. Così non dobbiamo considerare creatrice del suo feto la femmina ma piuttosto colui che ha detto a un suo servo: Ti conosco prima che ti formassi in un grembo 52. E sebbene l'anima impressionata, in un senso o nell'altro, della pregnante possa quasi provvedere il feto di alcuni caratteri, come fece Giacobbe con i ramoscelli variamente striati per far nascere bestie diverse nel colore 53, tuttavia la madre non ha prodotto l'essere che viene generato come non ha prodotto se stessa. Dunque qualunque siano le cause fisiche o seminali che si applicano alla produzione dei fenomeni, tanto se essi sono operazioni di angeli, di uomini o di altri viventi, quanto se sono le unioni di maschi e femmine, qualunque siano inoltre i desideri e i sentimenti della madre che valgano a imprimere fattezze o colori nei feti teneri e impressionabili, soltanto Dio sommo crea gli esseri stessi che assumeranno l'una o l'altra determinazione nel proprio genere. Il suo potere non fenomenico, penetrando tutte le cose con una presenza metempirica, fa che esista tutto ciò che in qualunque modo esiste in quanto esiste. Se egli non lo producesse, non solo non sarebbe questo o quell'altro essere, ma non potrebbe affatto esistere. Il fatto che gli artigiani impongono la forma agli oggetti sensibili non significa che sono stati gli artigiani e gli architetti a fondare Roma e Alessandria, ma i re per cui volontà, decisione e comando sono state costruite, e cioè Romolo e Alessandro. A più forte ragione dunque soltanto Dio dobbiamo considerare Creatore degli esseri, perché egli non li produce da una materia che non abbia creato egli stesso e non impiega cooperatori che egli non abbia creato e se sottrae alle cose il suo potere, per dire così, produttivo, non esisteranno più come non esistevano prima che fossero prodotte. Intendo il "prima" secondo eternità e non secondo tempo. Ed è Creatore del tempo soltanto colui che creò le cose, dal cui divenire si svolse il tempo.

I Platonici sul mondo perfetto.
26. Platone dunque insegnò che gli dèi creati dal Dio sommo sono produttori degli altri viventi, così che hanno da lui la parte immortale ed essi assestano la parte mortale. Insegnò quindi che non sono creatori della nostra anima ma del corpo 54. Ora Porfirio in vista della purificazione dell'anima afferma che il corpo si deve assolutamente fuggire e, assieme al suo maestro Platone e agli altri platonici, ritiene che coloro che conducono una vita immorale per scontare la pena tornano in corpi mortali, anche di bestie secondo Platone, soltanto di uomini secondo Porfirio 55. Ne consegue che gli dèi i quali, secondo la loro teoria, si devono onorare come datori della nostra vita e del nostro essere, non sono altro che fabbricatori dei nostri ceppi e prigioni, non esseri che ci hanno dato l'esistenza ma che ci hanno chiuso in carceri pieni d'affanni e ci hanno legato con catene molto pesanti. Quindi i platonici o la smettano di minacciare le pene mediante i corpi oppure non vengano a inculcarci che dobbiamo adorare quegli dèi, giacché esortano a fuggire e liberarci, per quanto ci è possibile, dalla loro opera in noi. Tuttavia l'una e l'altra affermazione è assolutamente falsa. Infatti le anime non scontano la pena con l'essere ricondotte alla vita terrena e l'unico Creatore di tutti i viventi in cielo e in terra è colui dal quale cielo e terra sono stati creati. Se non esiste altra ragione del vivere in questo corpo che scontare la pena, perché proprio Platone afferma che non poteva esserci mondo più bello e perfetto se non aveva la pienezza dei generi di tutti i viventi, cioè mortali e immortali? 56. Se poi il nostro avere l'esistenza, sia pure come mortali, è un dono divino, perché sarebbe pena ritornare al corpo, cioè a un oggetto della munificenza divina? E se Dio (e questo è un motivo ricorrente in Platone 57) conteneva nell'eterna intelligenza non solo le forme dell'universo ma anche quelle di tutti i viventi, perché egli stesso non ha creato tutte le cose? Oppure non volle essere l'ideatore di alcuni esseri, sebbene la sua mente ineffabile e ineffabilmente lodevole avesse l'idea per crearli? 58.

 Motivi sociali nella monogenesi.
27. 1. Giustamente quindi la vera religione lo riconosce e afferma Creatore non solo dell'universo ma di tutti i viventi, cioè delle anime e dei corpi. Fra le creature, in un grado superiore, è stato creato da lui a sua immagine l'uomo, uno solo, per la ragione che ho detto, salvo che me ne sfugga una maggiore, un solo uomo ma non destinato a essere solo. La razza umana è appunto la più incline alla discordia per passione e la più socievole per natura. E la natura umana non potrebbe addurre qualche cosa di più vantaggioso contro la passione della discordia, per evitarla se non esiste, per guarirla se già esistesse, che il ricordo del progenitore. Dio ha voluto appunto crearne uno solo per propagare la razza 59 affinché con questo monito si mantenesse il vincolo della concordia fra i molti. Il fatto poi che la femmina è stata fatta esistere per lui dal suo stesso fianco sta ad indicare quanto salda deve essere l'unione di marito e moglie. Queste opere di Dio sono fuori della norma perché sono all'origine. E coloro che non credono a questi fatti dovrebbero ammettere anche che non sono mai avvenuti interventi straordinari perché, se fossero avvenuti secondo il corso normale della natura, neanche essi sarebbero considerati eventi straordinari. Nulla sotto l'ordinamento sublime della divina provvidenza si verifica irrazionalmente, anche se la ragione è nascosta. Ha detto un Salmo: Venite e vedete le opere del Signore che ha fatto avvenire come eventi straordinari sopra la terra 60. Si dirà in altro luogo con l'aiuto di Dio perché la femmina è stata creata dal fianco dell'uomo e che cosa questo primo evento straordinario prefigurò per analogia.

 Creazione dell'uomo proemio alle due città.
27. 2. Ora poiché questo libro è alla fine, dobbiamo ritenere che, mediante l'uomo creato in principio, nel genere umano avevano avuto origine le due città, non ancora nell'esperienza storica ma nella prescienza divina. Da lui infatti sarebbero sorti uomini, alcuni per un giudizio occulto ma giusto di Dio, da associarsi nella pena con gli angeli ribelli, altri nel premio con gli angeli buoni. È stato scritto infatti: Tutte le vie del Signore sono bontà e verità 61. Quindi non può essere ingiusta la sua grazia né crudele la sua giustizia.

LIBRO XIII

SOMMARIO

1. Con la caduta dei progenitori si è avuta la soggezione alla morte.

2. V'è una morte che può incogliere all'anima che comunque vivrà per sempre e una morte cui è soggetto il corpo.

3. Se la morte, che col peccato dei progenitori è sopraggiunta a tutti gli uomini, anche nei santi è pena del peccato?

4. Perché la morte, cioè la pena del peccato, non viene risparmiata a coloro che mediante la grazia della rigenerazione sono stati assolti dal peccato?

5. Come i disonesti usano male della legge, che è un bene, così gli onesti usano bene della morte che è un male.

6. La morte è un male di tutti perché con essa si scinde l'unione di anima e corpo.

7. Sulla morte che alcuni non ancora rigenerati sostengono come testimonianza a Cristo.

8. Nei santi l'accettazione della morte per la verità è annullamento della seconda morte.

9. Se il tempo della morte, con cui si sottrae la coscienza della vita, è proprio di coloro che stanno morendo o dei morti?

10. La vita dei soggetti a morire si deve considerare morte anziché vita?

11. Se si può essere insieme vivi e morti?

12. Quale morte Dio comminò ai progenitori se avessero trasgredito il suo comando?

13. Quale pena per prima provò la trasgressione dei progenitori?

14. In quale condizione da Dio fu creato l'uomo e in quale destino cadde con il libero uso del proprio volere?

15. Adamo peccando abbandonò Dio prima di essere da lui abbandonato e la prima morte dell'anima fu allontanarsi da Dio.

16. Alcuni filosofi ritengono che la separazione dell'anima dal corpo non sia dovuta alla pena, eppure Platone propone il Dio sommo il quale promette agli dèi minori che giammai dovranno essere liberati dal corpo.

17. Contro coloro i quali affermano che i corpi terreni non possono divenire incorruttibili ed eterni.

18. Alcuni filosofi circa i corpi terreni affermano che non possono essere nel cielo perché ciò che è terreno per naturale gravità torna alla terra.

19. Contro i sistemi di coloro i quali non credono che i progenitori, se non avessero peccato, sarebbero stati immortali e sostengono che l'immortalità dell'anima esige l'immunità dal corpo.

20. La carne dei santi, che ora riposa nella speranza, dovrà essere restituita a una forma migliore di quella che fu dei progenitori prima del peccato.

21. Il paradiso, nel quale furono i progenitori, ragionevolmente mediante un significato simbolico s'intende come qualche cosa che riguarda la coscienza, salva la verità della narrazione storica sul luogo.

22. Il corpo dei santi dopo la risurrezione sarà così spirituale che la carne non diverrà spirito.

23. Che cosa si deve intendere per corpo spirituale e chi sono coloro che muoiono in Adamo e saranno restituiti alla vita in Cristo?

24. Come si deve intendere l'alito di Dio con cui il primo uomo divenne anima che vive o quello che il Signore emise dicendo: Ricevete lo Spirito Santo?

 

Libro tredicesimo

L'UOMO FRA VITA, PECCATO, MORTE E VITA

 

Il mistero della morte [1-11]

Peccato e morte.
1. Ho trattato i problemi assai difficili della nostra comparsa nel tempo e dell'origine del genere umano. Ora lo svolgimento regolare richiede la discussione da me stabilita sulla caduta del primo uomo, anzi dei primi uomini e sull'avvenimento originario della morte umana. Dio infatti non aveva creato gli uomini nella condizione degli angeli, cioè che per natura non potessero morire anche se avessero peccato 1. L'immortalità e la felice eternità propria degli angeli, senza la soggezione alla morte, sarebbero derivate dall'adempimento del dovere della obbedienza e al contrario la morte li avrebbe colpiti, come giusta condanna, se avessero disobbedito. Ne ho parlato anche nel libro precedente 2.

Le due morti.
2. Osservo che si deve trattare un po' più esaurientemente il genere di morte. Sebbene infatti l'anima umana sia secondo verità considerata immortale, ha tuttavia anche essa un certo suo morire. È considerata immortale perché in una dimensione sua per quanto limitata non cessa di vivere e intendere. Il corpo invece è soggetto alla morte perché può essere privato della vita e non vive in alcun senso da se stesso. La morte dell'anima avviene quando Dio l'abbandona, come quella del corpo quando lo abbandona l'anima. Dunque si ha la morte dell'una e dell'altra componente, cioè di tutto l'uomo, quando l'anima abbandonata da Dio abbandona il corpo. In tale condizione essa non vive di Dio né di lei il corpo. A una simile morte fa seguito quella che l'autorità della Scrittura definisce la seconda morte 3. La indicò il Salvatore quando disse: Temete colui che ha il potere di condannare alla geenna il corpo e l'anima 4. Essa non avviene prima che l'anima sia così fortemente unita al corpo che non siano disgiunti da alcuna separazione. Perciò può sembrare incredibile l'affermazione che il corpo è stroncato da una morte per cui non è abbandonato dall'anima, ma è nei tormenti dotato di vita e sensitività. Infatti in riferimento all'ultima pena che dura eternamente, di cui a suo tempo si dovrà trattare più esaurientemente 5, giustamente si parla di morte dell'anima perché non vive di Dio. Ma in qual senso si parla della morte del corpo se vive dell'anima? Non altrimenti infatti esso potrebbe subire i tormenti sensibili che avverranno dopo la risurrezione. Ma c'è il problema che se la vita è un bene, la sofferenza un male, non si può parlare della vita del corpo se in esso l'anima non è causa del vivere ma del soffrire. Dunque l'anima vive di Dio quando conduce una vita buona, e non può vivere bene se Dio non opera in lei il bene. Il corpo invece vive dell'anima quando essa vive nel corpo, sia che viva o non viva di Dio. Infatti la vita dei malvagi nei corpi non è delle anime ma dei corpi. La possono comunicare loro le anime, anche se morte, ossia abbandonate da Dio, perché non cessa una loro propria vita, per quanto limitata, da cui sono immortali. Nella condanna definitiva l'uomo non perde la sensitività. Tuttavia poiché essa non è sorgente di diletto nell'attività né di distensione nello stato di quiete, ma di dolore nella pena, giustamente è stata considerata morte anziché vita. È stata inoltre definita seconda perché avviene dopo la prima, con cui si verifica la secessione di esseri strettamente uniti, cioè di Dio e dell'anima come dell'anima e del corpo. Della prima morte del corpo si può dire che è buona per i buoni, cattiva per i cattivi. La seconda senza dubbio non è buona per alcuno poiché non è dei buoni 6.

Peccato e pena nella discendenza.
3. Si profila un problema che non si può eludere. Davvero la morte, da cui l'anima è separata dal corpo, è buona per i buoni e se è così, come si potrà dimostrare che anche essa è pena del peccato? Certo se i primi uomini non avessero peccato, non l'avrebbero subita. Come dunque può essere buona per i buoni se non poteva incogliere che ai cattivi? 7. Ancora: se poteva incogliere solo ai cattivi, non dovrebbe essere buona per i buoni ma non esservi affatto. Perché infatti ci sarebbe una pena per soggetti in cui non si avessero delitti da punire? Perciò si deve ammettere che i primi uomini furono così conformati che, se non avessero peccato, non avrebbero subito alcun genere di morte. Però essi come primi peccatori furono colpiti da una morte tale che ogni individuo proveniente dalla loro discendenza fu soggetto alla medesima pena. Da loro non poteva provenire un essere diverso da quel che essi erano stati. La condanna che seguì alla gravità della colpa deteriorò la natura dell'uomo. Così la condizione che precedette per condanna nei progenitori seguì anche per natura nei discendenti. Non è eguale la discendenza dell'uomo dall'uomo e la provenienza dell'uomo dalla polvere. La polvere infatti fu materia per creare l'uomo; l'uomo invece è padre nel generare l'uomo. La terra non è la medesima cosa che la carne sebbene la carne sia stata tratta dalla terra e la specie umana dell'uomo padre è la medesima che nell'uomo figlio. Nel primo uomo dunque vi era tutto il genere umano che mediante la donna doveva passare nella discendenza quando quella coppia di coniugi ricevette il divino verdetto della propria condanna. E ciò che l'uomo divenne, non quando fu creato, ma quando peccò e fu punito, lo trasmise, per quanto riguarda l'inizio del peccato e della morte. L'uomo non fu ridotto dal peccato e dalla condanna alla menomazione dell'intelligenza e debolezza del corpo che osserviamo nei bimbi. Dio volle che queste condizioni infantili si adeguassero alla prima età dei piccoli degli animali, perché aveva degradato i progenitori alla vita e morte delle bestie. È stato scritto infatti: L'uomo, quando era nella piena dignità, non comprese, si comportò come le bestie prive d'intelligenza e divenne simile a loro 8. Anzi osserviamo che i bimbi sono più deboli dei piccoli degli animali nell'uso e movimento delle membra e nella facoltà di conseguire e di evitare. Sembrerebbe che il vigore dell'uomo si levi con tanta superiorità sugli altri animali allo stesso modo che una saetta, tirata indietro mentre si tende l'arco, potenzia il proprio slancio. Dunque, dicevamo, il primo uomo non precipitò o fu spinto in condizioni infantili da una colpevole pretesa e da una giusta condanna 9, ma in lui l'umana natura fu viziata e mutata al punto da subire nelle membra la contrastante ribellione delle inclinazioni e da essere vincolato dalla necessità di morire. Così generò ciò che egli era divenuto per la colpa e la pena, cioè individui soggetti al peccato e alla morte. Se dunque i bimbi vengono sciolti dal vincolo del peccato mediante la grazia di Cristo Mediatore, possono subire soltanto la morte che separa l'anima dal corpo, ma non soggiacciono alla seconda che comporta la pena eterna, perché liberati dal debito del peccato.

Morte nei bambini e nei martiri.
4. Il fatto che la subiscono, se anche essa è pena del peccato, può turbare qualcuno, poiché la loro soggezione alla colpa viene annullata mediante la grazia. La questione è stata trattata e risolta in un'altra mia opera che intitolai: Il battesimo dei piccoli. In essa fu data la spiegazione che, sebbene tolta la soggezione al peccato, viene conservata per l'anima la prova della separazione dal corpo, poiché se l'immortalità del corpo seguisse immediatamente al sacramento della rigenerazione, verrebbe infiacchita la fede. Ed essa è fede quando si attende nella speranza ciò che non si percepisce nella realtà 10. Col vigore combattivo della fede, soltanto nell'età più adulta doveva essere superato il timore perfino della morte. Risultò soprattutto nei santi martiri. Non si avrebbero certamente né vittoria né gloria di questo combattimento, che in definitiva non sarebbe combattimento, se immediatamente dopo il lavacro della rigenerazione 11 i rigenerati non potessero subire la morte del corpo. Ognuno piuttosto si recherebbe a ricevere la grazia di Cristo con i piccoli da battezzare per sfuggire alla morte. Così la fede non sarebbe apprezzata in vista di un premio al di là dell'esperienza, anzi non sarebbe neanche fede, se cercasse e ricevesse immediatamente la ricompensa della sua azione salutare. Ora con una più grande e straordinaria grazia del Salvatore la pena del peccato si è volta a favore della rettitudine. Allora infatti fu detto all'uomo: Morirai se peccherai 12; ora si dice al martire: Muori per non peccare. Allora fu detto: Se trasgredirete il comando, morirete; ora si dice: Se rifiuterete la morte, trasgredirete il comando. Ciò che allora si doveva temere per non peccare, ora si deve accettare affinché non si pecchi. Così per dono dell'ineffabile misericordia di Dio anche la pena della colpa si trasforma in strumento di virtù e diviene merito del giusto anche il castigo del peccatore. Allora si ottenne la morte col peccare, ora si raggiunge la giustizia col morire. Ma soltanto nei santi martiri, ai quali dal persecutore si propone una scelta, o che abbandonino la fede o che subiscano la morte. I giusti infatti, perché credono, preferiscono soffrire ciò che i primi peccatori hanno sofferto perché non credettero. Se essi non avessero peccato, non sarebbero morti; questi peccheranno, se non muoiono. Dunque quelli sono morti perché peccarono, questi non peccano perché muoiono. Avvenne per la colpa dei primi uomini che si giungesse alla condanna, avviene mediante la condanna dei martiri che non si giunga alla colpa. E questo non perché la morte è diventata un bene sebbene prima fosse un male. È Dio che ha conferito alla fede tanta grazia che la morte, evidentemente opposta alla vita, divenisse mezzo col quale tornare alla vita.

Legge e peccato.
5. L'Apostolo, volendo evidenziare quale vigore ha per nuocere il peccato senza il soccorso della grazia, non esitò ad affermare che la legge stessa, con cui è vietato il peccato, è un potere del peccato. Pungiglione, dice, della legge è il peccato e potere del peccato è la legge 13. Assolutamente vero. Il divieto infatti aumenta lo stimolo all'azione disonesta, se l'onestà non è apprezzata al punto che la brama del piacere sia superata dalla sua attrattiva. Ma soltanto la grazia divina viene in aiuto perché abbia pregio e attrattiva la vera onestà. Affinché la legge, definita potere del peccato, non fosse considerata un male, l'Apostolo, trattando la medesima questione in un altro testo, scrive: Dunque la legge è santa e il precetto santo, giusto e buono. Tuttavia ciò che è buono è divenuto morte per me? No. Ma il peccato, per manifestarsi come peccato, ha causato a me la morte mediante il bene, affinché mediante il precetto il peccatore o il peccato siano al di là di ogni misura 14. Ha detto: al di là di ogni misura, perché si aggiunge la disumanizzazione quando per l'aumento della inclinazione al peccare viene disprezzata la legge stessa. Ma perché ho pensato a citarvi questo testo? Per la verità, la legge non diviene un male quando accresce la brama di chi pecca, così la morte non diviene un bene quando accresce la gloria di chi soffre. La legge infatti è trasgredita per disonestà, e produce i trasgressori, la morte è accettata per la verità e produce i martiri. Perciò la legge è un bene perché è divieto del peccato, la morte un male perché tributo del peccato 15; ma come la disonestà nuoce non solo ai disonesti ma anche agli onesti, così l'onestà giova non solo agli onesti ma anche ai disonesti. Ne consegue che i cattivi usano male della legge, anche se è un bene, e i buoni muoiono bene, anche se la morte è un male.

Esperienza ed accettazione della morte.
6. La morte fisica in se stessa considerata, cioè la separazione dell'anima dal corpo, quando la subiscono coloro che sono considerati in punto di morte, non è un bene per nessuno 16. La violenza stessa, con cui viene separato ciò che nel vivente era intimamente congiunto, finché dura, causa uno stato di coscienza tormentoso e contro natura, fino al momento in cui scompare la coscienza derivante dalla stessa unione dell'anima e del corpo. Talora un colpo apoplettico o il distacco improvviso dell'anima impediscono tutto quel tormento e non permettono che si subisca perché lo previene la rapidità. Qualunque nei morienti sia lo stato che con penosa coscienza strappa via la coscienza, se si sopporta con pietà e fede, accresce il merito della pazienza ma non elimina il significato di pena. Poiché dunque la morte indubbiamente è la pena di chi nasce dalla discendenza ininterrotta del primo uomo, se si subisce nella pietà e giustizia, diviene merito per rinascere; e pur essendo la morte retribuzione del peccato, talora ottiene che non venga retribuito nulla al peccato.

La morte per martirio e il battesimo.
7. La morte che qualsiasi persona, anche senza aver ricevuto il lavaggio di rigenerazione, subisce per rendere testimonianza a Cristo, ha efficacia per la remissione dei peccati come se fossero rimessi al fonte battesimale. Gesù ha detto: Se qualcuno non avrà la rinascita nell'acqua e nello Spirito non entrerà nel regno dei cieli 17. Ma in un altro testo fece eccezione per i martiri, perché non meno in generale disse: A chi mi avrà reso testimonianza davanti agli uomini anche io renderò testimonianza davanti al Padre mio che è nei cieli 18. In un altro passo dice: Chi perderà la sua anima per me, la ritroverà 19. Per questo motivo è stato scritto: Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi santi 20. Nulla quindi è più prezioso della morte per cui sono rimessi i peccati e sovrabbondano i meriti. Non hanno infatti molto merito coloro che non potendo rimandare la propria morte sono stati battezzati e ricevuta la remissione dei peccati sono usciti da questa vita. Maggiore benemerenza hanno coloro che, pur potendo rimandare la morte, hanno scelto di terminare la vita rendendo testimonianza a Cristo che rinnegandolo giungere al battesimo. Con esso, se l'avessero rinnegato, sarebbe stata loro rimessa anche questa colpa di aver rinnegato Cristo per timore della morte. Col battesimo fu rimesso anche l'orrendo delitto di coloro che uccisero il Cristo. Ma senza la ricchezza di grazia dello Spirito che spira dove vuole 21 non avrebbero potuto amare Cristo al punto da non rinnegarlo in così grave rischio della morte e malgrado la grande fiducia nell'annullamento della pena. Si ha dunque l'inclita morte dei martiri, per i quali è stata preordinata e prestabilita la morte del Cristo con tanta efficacia che per raggiungerlo non hanno esitato a consacrare la propria morte. Ed essa ha dimostrato appunto che la condizione anteriormente stabilita per pena del peccato fu ricondotta a risultati tali che ne derivasse un più ricco rendimento di giustizia. La morte dunque non deve essere considerata un bene, giacché non si è volta a vantaggio così distinto per suo influsso ma con l'aiuto divino. Essa quindi, prestabilita perché nel timore di lei non si commettesse il peccato, ora si deve prestabilire di accettarla affinché non si commetta il peccato e una volta commesso sia rimesso e sia resa alla giustizia la palma dovuta alla sua grande vittoria.

Bene e male nella morte.
8. Se consideriamo più attentamente, anche quando con sincerità e onore si muore per la verità, ci si garantisce dalla morte. Infatti se ne accetta una parte affinché non sia totale e non si aggiunga la seconda che non ha fine. Si accetta infatti la separazione dell'anima dal corpo affinché essa non sia separata dal corpo quando Dio è separato da lei. Così avvenuta la prima morte di tutto l'uomo, incoglie la seconda che è eterna. Perciò la morte, come ho detto 22, mentre i morienti la subiscono e mentre essa attua il loro morire, non è un bene per nessuno, ma si tollera con dignità per conservare o raggiungere un bene. Se poi si considera in quelli che sono già morti, non è assurdo dire che è un male per i cattivi e un bene per i buoni. Le anime dei buoni separate dal corpo sono infatti nella pace e quelle dei cattivi subiscono la pena, fino a che il corpo delle prime risorga alla vita eterna e quello delle altre alla morte eterna che è considerata la seconda morte.

La morte e l'attesa della morte.
9. Il tempo in cui le anime separate dal corpo sono nel bene o nel male si deve considerare dopo la morte o nella morte? Se è dopo la morte, non già la morte che è trascorsa nel passato, ma la vita che viene dopo di essa è un bene o un male per le anime. La morte era un male per esse quando avveniva, cioè quando la subirono nella esperienza del morire, poiché ad essa era congiunta una emozione penosa e opprimente. Di questo male i buoni traggono profitto per il bene. Ma in qual senso la morte ormai trascorsa è un bene o un male se non c'è più? Se consideriamo ancor più accuratamente, ci sembrerà evidente che neanche quella è morte la quale, come abbiamo detto, genera in coloro che stanno morendo una emozione penosa e opprimente. Finché essi sono coscienti vivono e se vivono ancora, si deve dire che si trovano prima della morte e non nella morte. Essa, quando arriva, elimina ogni percezione che, al suo avvicinarsi, è opprimente. Perciò è difficile spiegare il nostro modo di concepire coloro che stanno morendo, perché non sono morti ma sono sconvolti da un ultimo mortale tormento. Però rettamente si dice che stanno morendo perché quando arriva la morte che li sovrasta sono considerati morti e non morienti. Non sta per morire se non chi vive. Difatti, sebbene al margine estremo della vita, come quelli di cui si dice che stanno rendendo l'anima, un individuo, se non è ancora privo dell'anima, è in vita. È a un tempo nella morte e nella vita, perché si accosta alla morte e si discosta dalla vita. Tuttavia è ancora in vita perché l'anima è nel corpo, non ancora nella morte perché non ha ancora lasciato il corpo. E quando l'avrà lasciato anche allora non sarà nella morte ma dopo morte. Né è possibile dire quando è nella morte. Infatti non si può dare il morente, se non possono coesistere morente e vivente. Finché l'anima è nel corpo, non si può negare che si ha un vivente. E se si preferisce considerarlo morente, perché nel suo corpo si sta verificando che muore e nessuno può essere contemporaneamente vivente e morente, non so quando è vivente.

L'uomo fra vita e morte.
10. Infatti dal momento in cui un individuo comincia ad essere nel corpo che dovrà morire, sempre si sta verificando in lui il sopraggiungere della morte. La sua soggezione al divenire per tutto il tempo della vita, se vita può esser considerata, opera che si arrivi alla morte. Non v'è alcuno che non le sia più vicino l'anno dopo che l'anno prima, domani che oggi e oggi che ieri, poco dopo che ora e ora che poco prima. Tutto il tempo che si vive si defalca dalla dimensione del vivere e ogni giorno diviene sempre meno quel che rimane. In definitiva il tempo di questa vita non è altro che una corsa alla morte, perché a nessuno è concesso di soffermarvisi un tantino o di camminare più lentamente, ma tutti sono incalzati da un eguale impulso al muoversi e sospinti da una non diversa proporzione nell'avvicinarsi. Anche l'individuo che ha avuto vita breve non ha trascorso il giorno più velocemente di chi la ha avuta più lunga ma, sebbene gli eguali spazi di tempo fossero con egual misura sottratti ad ambedue, uno ha avuto più vicino, l'altro più lontano il traguardo a cui con velocità non dissimile tutti e due correvano. Una cosa è aver percorso un cammino più lungo e un'altra camminare più adagio. Chi dunque fino alla morte percorre spazi di tempo più lunghi non cammina più lentamente, ma compie un viaggio più lungo. Supponiamo che l'uomo comincia a morire, cioè ad essere nella morte dal momento in cui comincia a verificarsi la morte, cioè ad accorciarsi la vita, poiché quando essa con l'accorciarsi sarà finita, egli sarà dopo la morte non nella morte. Nell'ipotesi egli è nella morte dal momento in cui inizia ad essere in questo corpo 23. Difatti altro non si fa nei singoli giorni ore e minuti fino a che sia esaurita la logorata condizione di morte che si conduceva e cominci il tempo dopo morte il quale, mentre veniva detratta la vita, era nella morte. Dunque mai l'uomo è in vita da quando è in questo corpo più morente che vivente, se non può essere contemporaneamente in vita e in morte. O piuttosto è nello stesso tempo in vita e in morte, cioè nella vita in cui vive fino a che non sia del tutto detratta, nella morte perché muore già mentre la vita viene detratta. Se non è in vita, non si ha la dimensione che si detrae fino al suo intero esaurirsi. Se poi non è nella morte, non v'è l'esaurirsi della vita. Infatti non illogicamente si dice dopo morte quando la vita è interamente detratta al corpo giacché la vita, mentre veniva detratta, era morte. Se l'uomo, con la detrazione totale della vita, non è nella morte ma dopo morte, soltanto mentre si detrae sarà nella morte.

 Se si può esser morenti...
11. 1. Ma è assurdo dire che l'uomo è già nella morte prima che giunga alla morte. A quale stato allora si avvicina trascorrendo il tempo della propria vita se è già nella morte? È poi del tutto irragionevole dire che è contemporaneamente vivente e morente, come non può essere contemporaneamente sveglio e dormiente. Si deve dunque indagare quando sarà morente. Prima che giunga alla morte, non è morente ma vivente, quando vi giungerà sarà morto non morente. Quella condizione è ancora prima della morte, questa ormai dopo la morte. Quando dunque nella morte? Si avrebbe il morente se nel dire che sono tre le condizioni: "prima della morte, nella morte, dopo la morte", s'intendesse attribuirle separatamente ai tre soggetti: "vivente, morente e morto". È assai difficile circoscrivere il limite di tempo in cui un tale sia morente, cioè nella morte, e perciò non sia vivente perché lo è prima della morte, né morto perché lo è dopo la morte, ma morente, cioè nella morte. Finché l'anima è nel corpo, soprattutto se permane la facoltà sensitiva, indubbiamente l'uomo, il quale è composto di anima e di corpo, ancora vive. Si deve perciò considerare prima della morte, non nella morte. Quando invece l'anima si sarà allontanata e avrà sottratto totalmente la facoltà sensitiva, l'uomo è dopo la morte ed è considerato morto. Scompare fra l'uno e l'altro lo stato per cui è morente, cioè nella morte perché, se ancora vive è prima della morte, se ha cessato di vivere è dopo morte. Dunque non si può mai ritenere che è morente, cioè nella morte. Allo stesso modo nella successione del tempo si attende il presente e non si ottiene, perché non v'è estensione attraverso la quale si passa dal futuro al passato 24. Si deve dunque indagare in base a tale considerazione se ha un senso la morte fisica e cioè se avviene, quando avviene, qual è in un soggetto e in quale un soggetto non può trovarsi. Se si vive infatti, ancora non v'è perché si è prima della morte e non nella morte, se si è cessato di vivere, non v'è più perché si è dopo la morte e non nella morte. Ma ancora se non v'è morte né prima né dopo un certo avvenimento, che cosa è quel che si dice prima o dopo la morte? È un discorso vuoto se la morte non è un qualche cosa. E magari avessimo agito con onestà nel paradiso terrestre affinché realmente non avvenisse la morte. Adesso non solo avviene, ma è tanto spaventosa che non si può spiegare a parole né in alcun modo evitare.

 ... cioè esser nella morte.
11. 2. Esprimiamoci dunque secondo l'uso, perché altrimenti non ci comprendiamo, e diciamo avanti la morte prima che essa avvenga. È stato scritto a proposito: Non lodare alcun uomo prima della sua morte 25. Quando è avvenuta, possiamo dire pure: "Dopo la morte di questo o quel tale è avvenuto questo o quel fatto". Anche del presente possiamo parlare come ci è possibile. Si dice infatti: "Nel morire ha fatto testamento", e: "Nel morire ha lasciato a questi e a quelli questo e quel bene". In verità non poteva farlo assolutamente se non in vita e lo ha fatto certamente prima della morte, non nella morte. Possiamo parlare anche come parla la sacra Scrittura, la quale non esita a dire che anche i morti sono non dopo morte ma nella morte, come in questo passo: Non è nella morte chi si ricorda di te 26. Infatti giustamente si dice che sono nella morte finché non risorgono. Allo stesso modo si dice che un tale è nel sonno finché non si sveglia, sebbene siano considerati dormienti coloro che sono nel sonno ma non nel medesimo senso morenti coloro che sono già morti. Non muoiono tuttora coloro che, in attinenza alla morte fisica di cui stiamo parlando, sono già separati dal corpo. Ma è proprio questo concetto che, come ho detto, non si può spiegare a parole, cioè in qual senso si dice che i morenti vivono e che i morti anche dopo morte sono nella morte. Non ha senso il dire dopo la morte se sono ancora nella morte, tanto più che non li consideriamo morenti nel senso in cui consideriamo dormienti coloro che sono nel sonno, infermi coloro che sono nell'infermità, dolenti coloro che sono nel dolore, viventi coloro che sono in vita. Dei morti invece, prima che risorgano, si dice che sono nella morte e tuttavia non possono essere considerati morenti. Penso quindi che non senza motivo e ragionevolezza è avvenuto, non per umana riflessione ma forse per giudizio divino, che nella lingua latina neanche i grammatici siano stati in grado di coniugare il verbo moritur con la regola con cui sono coniugati gli altri verbi. Infatti dal verbo oritur deriva il passato ortus est ed anche gli altri deponenti sono coniugati col participio passato. Se cerchiamo invece le forme del passato di moritur, si suole rispondere mortuus est, cioè con la lettera u raddoppiata. Quindi si dice mortuus come fatuus (sciocco), arduus (ripido), cospicuus (notevole) e simili che non hanno il passato ma, essendo nomi aggettivi, si declinano senza tempo. Invece quasi a coniugare quella parola che è inconiugabile, a posto del participio passato viene usato un nome aggettivo. È avvenuto quindi quasi per correlazione che come il suo significato non si può avverare di fatto, così il verbo non si può coniugare nel discorso. Si può invece avverare con l'aiuto della grazia del nostro Redentore che si possa declinare almeno la seconda morte. Essa è più grave e il peggiore dei mali perché non avviene con la separazione dell'anima dal corpo ma nel congiungimento di entrambi per la pena eterna. In quello stato al contrario non si avranno uomini prima e dopo morte, ma sempre nella morte, perciò mai viventi, mai morti, ma morenti senza fine. Giammai per l'uomo vi sarà nella morte uno stato peggiore di quello in cui la morte stessa sarà senza morte.

Implicanze di peccato e morte [12-18]

Prima e seconda morte.
12. Quando dunque si chiede quale morte Dio minacciò ai primi uomini se trasgredivano il suo comandamento e non osservavano l'obbedienza, se quella dell'anima o del corpo o di tutto l'uomo o quella che viene denominata seconda, si deve rispondere: tutte. La prima infatti risulta di due, la seconda è l'insieme di tutte. Come la terra intera risulta di molte terre e la Chiesa intera di molte Chiese, così la morte intera di molte morti. La prima morte risulta di due, una dell'anima e l'altra del corpo. Avviene la prima dell'uomo intero quando l'anima senza Dio e senza il corpo sconta la pena per un certo tempo, avviene la seconda quando l'anima senza Dio e con il corpo sconta la pena eterna. Dio aveva detto al primo uomo sul cibo vietato, quando lo aveva collocato nel paradiso terrestre: Il giorno in cui ne mangerete certamente morirete 27. Quindi la sanzione include non solo la prima fase della prima morte in cui l'anima è privata di Dio e non solo la fase successiva in cui il corpo è privato dell'anima, né soltanto tutta la prima fase in cui l'anima separata da Dio e dal corpo viene punita, ma ha incluso tutto ciò che è morte fino all'ultima denominata seconda che è definitiva.

Peccato e ribellione.
13. Appena avvenuta la trasgressione del comando, i progenitori rimasero sconvolti dalla nudità dei propri corpi 28, perché la grazia divina li aveva abbandonati. Perciò con foglie di fico, che eventualmente per prime si offrirono al loro sbigottimento, coprirono le parti che suscitavano il loro pudore. Erano le stesse di prima ma non erano oggetto di pudore. Provavano un nuovo stimolo della propria carne ribelle, quasi uno scambio del castigo dovuto alla loro ribellione. Ormai l'anima, che si compiaceva della propria libertà all'insubordinazione e sdegnava di sottomettersi a Dio, era privata della connaturale sottomissione del corpo. Poiché aveva abbandonato di suo arbitrio il Padrone a lei superiore, non conteneva più al proprio arbitrio il servo a lei inferiore e non riusciva in alcun modo a sottomettere la carne, come avrebbe sempre potuto se lei fosse rimasta sottomessa a Dio. La carne cominciò a rivoltarsi contro lo spirito 29. Siamo nati con questo dissidio da cui deriviamo la primitiva soggezione alla morte e per cui dalla prima disobbedienza portiamo sempre nelle nostre membra e nella natura viziata il suo contrasto o trionfo.

La trasmissione del peccato.
14. Dio ha creato onesto l'uomo perché è principio dell'essere e non della depravazione. L'uomo volontariamente pervertito e giustamente condannato ha generato individui pervertiti e condannati. Tutti fummo in quell'uno quando tutti fummo quell'uno che cadde nel peccato tramite la donna che da lui era stata prelevata prima del peccato. Non ancora per noi singolarmente era stata data all'esistenza e distribuita la forma in cui ognuno doveva vivere, ma vi era già la natura seminale da cui dovevamo provenire. Poiché essa era viziata per il peccato, irretita nel laccio della morte e giustamente condannata, l'uomo non poteva provenire dall'uomo in condizione diversa. Dal cattivo uso del libero arbitrio ebbe inizio la trasmissione di questa condanna. Essa, poiché è depravata l'origine, come una radice marcita, conduce il genere umano in un contesto d'infelicità alla rovina della seconda morte che non ha fine, fatta eccezione soltanto per quelli che sono stati liberati dalla grazia di Dio.

Gli effetti della seconda morte.
15. Nella frase: Incorrerete nella morte, dal momento che non è stato detto "nelle morti", possiamo intendere soltanto quella che avviene quando l'anima è abbandonata dalla sua vita che per lei è Dio. E Dio è questo per lei. Infatti non è stata abbandonata per abbandonare ma ha abbandonato per essere abbandonata perché in riferimento al male c'è prima la sua volontà, in riferimento al bene c'è prima la volontà del suo Creatore, tanto per crearla perché non esisteva, come per restituirla alla vita perché si era estinta con la caduta. Dunque, dicevamo, possiamo interpretare che Dio indicasse la seconda morte con le parole: Il giorno in cui ne mangerete, incorrerete nella morte 30, come se dicesse: "Nel giorno in cui mi abbandonerete con la disobbedienza, io vi abbandonerò mediante la giustizia". In tal senso in quella morte sono state indicate anche le altre che senza dubbio dovevano seguire. Però dal movimento ribelle, manifestatosi nella carne dell'anima ribelle, per cui i progenitori coprirono le parti che suscitavano pudore, appare che fu avvertita una sola morte, quella per cui Dio abbandonava l'anima. Fu indicata dalle sue parole quando disse all'uomo che si nascondeva per un insensato timore: Adamo, dove sei? 31. Certamente non chiese perché ignorava ma lo ammonì per stimolarlo ad avvertire che si trovava in una condizione che lo privava di Dio. Quando l'anima ha abbandonato il corpo deperito dall'età e sfinito dalla vecchiaia, approda all'esperienza di un'altra morte. Di essa Dio, nel punire il peccato, aveva detto all'uomo: Sei terra e tornerai alla terra 32. Si costituiva così dalla morte del corpo e dell'anima la prima morte che è di tutto l'uomo, a cui in ultimo segue la seconda, se l'uomo non è salvato dalla grazia. Il corpo poi, che proviene dalla terra, non tornerebbe alla terra se non con la propria morte che gli sopraggiunge quando è abbandonato dalla propria vita, l'anima. È noto perciò fra i cristiani, i quali professano sinceramente la fede cattolica, che anche la morte fisica ci è stata inflitta non per legge di natura, da cui Dio non derivò alcuna morte per l'uomo, ma a causa del peccato. Dio, appunto per punire il peccato, disse all'uomo nel quale tutti allora eravamo inclusi: Sei terra e tornerai alla terra.

 Teoria platonica sull'anima...
16. 1. I filosofi, contro le cui maligne interpretazioni difendiamo la città di Dio, cioè la sua Chiesa, s'illudono di schernire la nostra affermazione che la separazione dell'anima dal corpo si deve valutare fra le sue pene. Essi sostengono al contrario che la piena felicità sopraggiunge a lei quando, spoglia da ogni residuo materiale, tornerà a Dio non congiunta, sola e, per così dire, nuda. Se non avessi trovato nelle loro opere uno spunto per confutare questa teoria, con maggiore impegno dovrei polemizzare per dimostrare che non il corpo ma il corpo soggetto a corruzione è un peso per l'anima. Di questo senso è la frase della Scrittura che ho citato nel libro precedente 33: Il corpo soggetto a corruzione appesantisce l'anima 34. Aggiungendo soggetto a corruzione ha mostrato che non da qualsiasi corpo l'anima è appesantita ma dal corpo reso corruttibile dalla pena conseguente al peccato. Ed anche se non l'avesse aggiunto non dovremmo intendere diversamente. Platone apertamente insegna che gli dèi posti nell'esistenza dal Dio supremo hanno corpi immortali e fa promettere come grande favore dallo stesso Dio, dal quale sono posti nell'esistenza, che in eterno rimarranno col proprio corpo e che da esso non saranno separati con la morte. Non v'è ragione dunque per cui i platonici, per attaccare la fede cristiana, fingono di non sapere ciò che sanno oppure, disdicendosi, preferiscono teorizzare contro se stessi pur di non smettere la polemica contro di noi. Sono di Platone le parole seguenti tradotte in latino da Cicerone con cui presenta il Dio supremo mentre si rivolge agli dèi che ha dato all'esistenza in questi termini: Voi che provenite dalla stirpe degli dèi ascoltate: gli esseri, di cui sono generatore e artefice, rimangono per mio volere indistruttibili, sebbene ogni composto possa essere disgregato. Ma non è bene disunire ciò che è avvinto nell'unità da un ordine provvidenziale. Ma voi, poiché avete avuto origine, non potreste essere immortali e imperituri. Tuttavia non perirete né vi sopprimeranno destini di morte. Quelli con cui siete stati dati all'esistenza nella vostra origine non saranno più efficaci del mio volere che è la garanzia più valida alla vostra perennità 35. Dunque Platone afferma che gli dèi, data l'unione dell'anima e del corpo, sono mortali e tuttavia immortali per un intervento della volontà di Dio. Se dunque la pena dell'anima è essere unita a un corpo qualsiasi, non sarebbe ragionevole che Dio, rivolgendosi agli dèi, come se fossero turbati di dover morire, cioè d'essere sciolti dal corpo, li rassicuri sulla loro immortalità. E questo non in virtù della loro essenza, che non sarebbe semplice ma composta di parti, ma in virtù del suo insuperabile volere con cui può effettuare che gli esseri dati all'esistenza non periscano, i composti non siano disuniti ma continuino in un perenne esistere.

 ... e sul corpo e l'anima.
16. 2. Un altro problema ancora è la verità della teoria di Platone sui corpi celesti. Non gli si deve accordare senza discussione che le sfere luminose ovvero cerchi risplendenti giorno e notte sopra la terra di luce naturale vivano di una loro propria anima dotata inoltre d'intelligenza e felicità. Egli lo sostiene con decisione anche del mondo intero, come fosse il solo più grande essere animato, nel quale sarebbero accolti tutti gli altri esseri animati. Ma questo, come ho detto, è un altro argomento che per il momento ho deciso di non discutere. Ho ritenuto opportuno far menzione soltanto di questa teoria contro i platonici, che si vantano di denominarsi o di esser platonici e che per il vanto di questo appellativo si vergognano di essere cristiani. Non sia mai che una denominazione comune con la massa renda di poco valore il piccolo numero di avvolti nel pallio filosofale, tanto più tronfi quanto più di numero limitato. Essi dandosi da fare per confutare qualche tema della dottrina cristiana si scatenano contro l'eternità del corpo, come se fosse contraddittorio affermare la felicità dell'anima e sostenere che è per sempre nel corpo come avvinta a un legame affannoso. Eppure Platone, loro fondatore e maestro, afferma che dono concesso dal Dio supremo agli dèi, da lui dati all'esistenza, è che non muoiano, cioè non siano separati dal corpo, cui li aveva uniti.

 I platonici si contraddicono sulla teoria del corpo...
17. 1. I platonici sostengono inoltre l'impossibilità che i corpi terrestri siano eterni. Eppure non esitano a dire che la terra intera è una parte posta nel mezzo ed eterna di un loro dio, non del supremo, grande tuttavia, cioè di tutto questo mondo. Dunque il Dio supremo ha prodotto, secondo loro, un altro dio, cioè questo mondo, superiore agli altri dèi a lui subalterni. Ritengono anche che esso dà vita con un'anima, come dicono, ragionevole e intelligente, rinchiusa nella mole immensa del suo corpo. Affermano poi che il Dio supremo ha disposto i quattro elementi, collocati e distribuiti nelle proprie sfere quali membra del dio cosmico, e che la loro concatenazione e insolubilità è perenne affinché non muoia questo loro dio tanto grande. Non v'è ragione dunque che la terra sia perenne, come parte di mezzo nel corpo dell'essere vivificante più grande, e il corpo degli altri esseri vivificanti terrestri non sia perenne, se Dio li ideasse l'uno simile all'altro. Ma la terra, dicono, si deve restituire alla terra perché da essa è stato formato il corpo terrestre degli esseri animati. Ne deriva, continuano, la necessità che esso si scomponga e svanisca e così sia restituito alla terra perennemente stabile da cui era stato tratto. Qualcuno potrebbe sostenere una simile teoria anche del fuoco e dire che si devono restituire al fuoco della sfera i corpi che ne sono stati tratti perché esistessero gli esseri animati del cielo. In tal caso l'immortalità che Platone ha promesso a questi dèi, facendo parlare il Dio supremo, non svanirà forse se si sta alla ostinatezza di questa polemica?. Ma questo forse in essi non avviene perché Dio non vuole e nessuna forza può piegare, come dice Platone, il suo volere? Che cosa impedisce infatti che Dio possa operare questo effetto anche dai corpi terrestri? Stando infatti all'opinione di Platone Dio può effettuare che gli esseri posti nell'esistenza non periscano, che gli uniti insieme non si disciolgano, che i derivati dagli elementi non siano restituiti e che le anime assegnate al corpo non lo abbandonino e con esso godano immortalità e felicità perenne. Perché dunque non potrebbe effettuare che anche i corpi terrestri non muoiano? Ovvero Dio non ha tale potere nell'ambito della fede dei cristiani ma solo in quello delle congetture dei platonici? A sentir loro, i filosofi hanno potuto conoscere il disegno e il potere di Dio, e non hanno potuto conoscere i Profeti. Al contrario lo Spirito di Dio ha ispirato i Profeti a rivelare, nei limiti che ha stabilito, il suo volere, mentre l'umana opinione ha ingannato i filosofi nelle pretese di conoscerlo.

 ... e sul cielo e immortalità.
17. 2. Non dovevano però ingannarsi, non soltanto per ignoranza ma anche per ostinazione, al punto da contraddirsi molto palesemente. Essi affermano infatti con grande vigore polemico che l'anima, per essere felice, deve fuggire non solo il corpo fatto di terra ma ogni corpo 36. Ma si contraddicono dicendo che gli dèi hanno un'anima colma di beatitudine sebbene vincolata a un corpo che dura in eterno, che gli dèi del cielo l'hanno vincolata ai corpi di fuoco, che l'anima dello stesso Giove, che confondono con questo mondo, è interamente avviluppata a tutti gli elementi corporei con i quali il cosmo intero si eleva dalla terra al cielo. Platone ritiene che quest'anima, dal punto più profondo della terra, nel mezzo che i geometri chiamano centro, si allarga e si prolunga, mediante misure armoniose, in tutte le sue parti verso il punto più alto del cielo e il più lontano di lato. Per lui dunque questo mondo è l'essere animato più grande, più felice ed eterno. La sua anima conserverebbe la perfetta felicità della saggezza senza abbandonare il proprio corpo ed esso vivrebbe perennemente di lei e, quantunque non semplice ma composto di tanti e sì grandi corpi, non la renderebbe inabile al pensiero e al movimento. Dato che con le proprie dimostrazioni giustificano tali teorie, non si comprende il loro rifiuto di credere che, per disposizione sommamente potente di Dio, i corpi terreni possono divenire immortali e che le anime, non separate da essi con la morte, non oppresse dal loro peso, possono vivere in perenne felicità. I platonici affermano che ciò è possibile per i propri dèi nei corpi di fuoco e per Giove loro re in tutti gli elementi del corpo. Se l'anima, per esser felice, deve fuggire ogni corpo, fuggano i loro dèi dalle sfere delle stelle, fugga Giove dal cielo e dalla terra o, se non lo possono, siano considerati soggetti alla infelicità. Ma i filosofi non vogliono né l'uno né l'altro. Non osano concedere ai loro dèi la separazione dal corpo perché non sembri che onorano dèi mortali né ammettere la privazione della felicità per non concedere che sono infelici. Dunque non si devono fuggire tutti i corpi per conseguire la felicità ma quelli soggetti alla corruzione, alla sofferenza, alla pesantezza, alla morte, non quali cioè ha fatto la bontà di Dio per i primi uomini ma quali ha reso la pena del peccato.

Condizione dei corpi nella risurrezione.
18. Ma è legge inevitabile, dicono, che il peso naturale trattenga o spinga a terra i corpi terrestri ed essi perciò non possono levarsi al cielo. I primi uomini in verità erano in una terra ricca di alberi da frutto che ebbe il nome di paradiso. Tuttavia si deve rispondere alla obiezione tanto riguardo al corpo di Cristo col quale è salito al cielo come riguardo alla condizione di quello dei beati nella risurrezione. Perciò considerino un po' più accuratamente i pesi terrestri. L'artigianato umano ottiene che rimangano a galla vasi ricavati con determinati procedimenti dai metalli i quali affondano appena posti in acqua. Con maggior certezza ed efficacia ottiene l'effetto un misterioso procedimento dell'azione di Dio. Platone afferma appunto che non possono andare in rovina né scomporsi gli elementi uniti dall'onnipotente volere di Dio, poiché è molto più stupendo il congiungimento di esseri incorporei con corporei che di esseri corporei fra di loro. Quindi l'azione di Dio può garantire a masse terrestri di non essere fatte precipitare in basso da alcun peso e ad anime in uno stato di consumata felicità di collocare il proprio corpo, terrestre ma incorruttibile, in posizione agevole e di spostarlo con un movimento altrettanto agevole. Se lo facessero gli angeli e spostassero rapidamente qualsiasi animale terrestre da dove loro piace e lo collocassero dove loro piace, si deve credere che è loro possibile e che non ne sentono il peso. Non v'è motivo dunque di non credere che gli spiriti perfetti e felici possano per dono divino senza alcuna difficoltà spostare e collocare il proprio corpo dove vogliono. Nel portare i carichi dei corpi terrestri noi abbiamo sperimentato che quanto più grande è la massa tanto più grande è la pesantezza sicché i più gravano con un peso maggiore dei meno. Tuttavia l'anima sente più leggere le membra del proprio corpo quando sono gagliarde di salute che gracili per malattia. E, sebbene un individuo sano e robusto sia più pesante per chi lo trasporta che uno esile e gracile, tuttavia è più agile nello spostare il proprio corpo col movimento quando ha maggior peso in un periodo di salute che quando in tempo di epidemia o carestia ha il minimo di forza. Nel trattare i corpi anche terrestri, sebbene soggetti a corruzione e morte, ha molta efficienza non il peso della massa ma la condizione di conveniente benessere. E non si può spiegare a parole la differenza fra l'attuale così detto stato di salute e l'immortalità futura. Dunque è vana l'obiezione dei filosofi contro la nostra credenza sul peso dei corpi. Non voglio poi esaminare il motivo per cui non ammettono la possibilità che un corpo di terra sia in cielo quando tutta la terra si bilancia nel nulla. Forse si potrebbe avere una dimostrazione più verosimile dal centro del mondo, perché verso di esso si muovono insieme i corpi di maggior gravità. Dico una cosa. Gli dèi minori, che Platone ha incaricato di produrre fra gli altri esseri animati anche l'uomo, hanno potuto, egli dice, rimuovere dal fuoco la proprietà di bruciare e conservarvi quella di splendere riflettendosi negli occhi. In tal modo egli ha concesso al volere e potere del sommo Dio che non periscano gli esseri che hanno avuto un'origine e che esseri tanto diversi e dissimili, come i corporei e gli incorporei, se formano un composto, non siano separati da disgregazione alcuna. E noi dubiteremo di accordargli che elimini la corruzione dal corpo dell'uomo, cui dona l'immortalità, vi conservi l'essenza, ne mantenga l'accordo della figura e dei lineamenti e gli sottragga la gravezza del peso? Ma della fede nella risurrezione dei morti e della immortalità dei loro corpi si deve discutere più diligentemente, se Dio lo consentirà, alla fine di questa opera 37.

Riscatto dalla morte e dal peccato [19-24]

Il corpo dopo morte e la metemsomatosi.
19. Ora trattiamo l'argomento che ci siamo proposti, relativo al corpo dei progenitori. La morte considerata buona per i buoni è nota non solo ai pochi intellettuali o credenti ma a tutti, perché con essa avviene la separazione dell'anima dal corpo, e con tale separazione il corpo dell'essere animato, che palesemente viveva, palesemente si estingue. Ma non sarebbe sopraggiunta ai progenitori se non come conseguenza del peccato. Non è giusto dubitare che non sia nel riposo l'anima dei defunti che furono onesti e devoti. Tuttavia sarebbe auspicabile per loro che continuassero a vivere col proprio corpo in piena salute 38 affinché coloro, i quali ritengono felicità somma vivere senza corpo, rifiutino, con un parere contrario, questa loro opinione. Nessuno di essi oserebbe infatti anteporre agli dèi immortali i loro saggi, sia che attendano la morte o siano già morti, cioè o già privi del corpo o in attesa di esserne privi. Eppure in Platone il Dio supremo promette agli dèi un regalo straordinario, cioè la vita imperitura, ossia una sorte comune col proprio corpo. E sempre Platone ritiene che le cose andranno benissimo per gli uomini se condurranno questa vita nella pietà e giustizia. In tal caso, separati dal proprio corpo, saranno accolti sul petto degli stessi dèi, che non abbandonano mai i propri corpi, ossia dimentichi di se stessi guarderanno di nuovo la volta celeste e cominceranno a voler tornare nel corpo 39. Così verseggia con originalità Virgilio alludendo alla dottrina platonica. Platone infatti ritiene che l'anima dei mortali non può essere per sempre nel proprio corpo, che si dissolve a causa dell'ineluttabile destino della morte, ma non persiste perennemente senza il corpo. Suppone appunto che si avvicendino ininterrottamente i vivi ai morti e i morti ai vivi. Sembrerebbe che i saggi differiscano dagli altri uomini perché dopo la morte sono condotti sulle stelle. Lassù ciascuno starebbe in pace un po' più a lungo nell'astro a lui conveniente. Da lì, di nuovo dimentico della infelice condizione di una volta e dominato dal desiderio di avere un corpo tornerebbe agli affanni e tribolazioni dei mortali. Quelli poi che avessero condotto una vita da insipienti tornerebbero in breve ai corpi di uomini o di bestie in corrispondenza alle loro colpe 40. Dunque Platone ha attribuito a questo stato molto penoso anche le anime eminenti per saggezza, alle quali non fu assegnato un corpo con cui vivere in una perenne immortalità. Non possono, meschine, né rimanere nel corpo né senza di esso continuare in una perenne condizione spirituale. Ho detto nei libri precedenti 41 che Porfirio ha dichiarato all'evo cristiano di arrossire di questa teoria platonica. Perciò non solo ha escluso il corpo belluino dall'anima umana ma ha anche affermato che l'anima dei saggi si libera dai legami terreni per rimanere, rifuggendo qualsiasi corpo, perennemente felice presso il Padre. Quindi affinché non sembrasse che era sconfitto da Cristo che promette ai beati la vita perenne, anche egli assegna all'eterna felicità le anime pure per catarsi senza alcun ritorno alle tribolazioni del passato. Ma per contraddire Cristo, negando la risurrezione dei corpi immuni dalla morte, afferma che vivranno per sempre non solo senza il corpo di terra ma assolutamente senza corpo 42. Tuttavia non ha suggerito, con questa teoria di così vaga derivazione, per lo meno che i suoi adepti non ossequiassero con culto religioso divinità con tanto di corpo. La teoria si spiega soltanto perché non ha ritenuto che le anime, anche se non unite al corpo, fossero migliori degli dèi. Dunque i platonici non oseranno, come penso che non oseranno, considerare le anime umane più nobili degli dèi sommamente felici anche se assegnati a un corpo indefettibile. Perché dunque la dottrina cristiana sembra loro un'assurdità? Essa insegna che i progenitori furono creati in tale condizione che, se non peccavano, da nessuna morte sarebbero stati disgiunti dal corpo ma, privilegiati con l'immortalità come premio dell'adempimento della obbedienza, sarebbero vissuti nel corpo per sempre. I beati inoltre avranno il medesimo corpo, nel quale qui in terra furono tribolati, in una forma tale che non possono avvenire corruzione o impedimento alla loro carne e dolore o afflizione alla loro felicità.

Anima e corpo nella risurrezione.
20. Pertanto ora l'anima dei defunti che sono beati non considera penosa la morte per cui è stata separata dal corpo, perché la loro carne, ormai priva di sensibilità, riposa nella speranza 43 anche se ha ricevuto molti maltrattamenti. I beati infatti non desiderano il corpo perché sono nell'oblio, come vorrebbe Platone, ma piuttosto perché ricordano il bene loro promesso da colui che non inganna e che ha dato loro sicurezza sul buono stato perfino dei loro capelli 44. Attendono quindi con fervore e costanza la risurrezione del corpo, nel quale hanno sofferto tante pene che ormai non soffriranno più. Se infatti non odiavano la propria carne 45 quando col potere spirituale la dominavano, se per debolezza resisteva all'intelligenza, molto più l'amano perché anche essa diverrà spirituale. Come infatti lo spirito sottomesso alla carne non impropriamente è considerato carnale, così la carne sottomessa allo spirito è considerata spirituale. Certamente non sarà mutata in spirito, come alcuni pensano interpretando questa frase: È seminato un corpo animale, risorgerà un corpo spirituale 46. Sarà però sottomessa allo spirito per straordinaria e stupenda compiacenza nell'obbedire fino a raggiungere la serena aspirazione alla indissolubile immortalità con la liberazione da ogni stimolo d'inquietudine, da qualsiasi decomposizione e gravezza. Non solo non sarà come è ora quando si trova in stato di ottima salute e nemmeno come fu nei progenitori prima del peccato. Essi, quantunque non sarebbero morti se non avessero peccato, si nutrivano tuttavia come tutti gli uomini, perché avevano un corpo di terra, ancora animale non spirituale. Certamente non invecchiavano in modo da essere inevitabilmente condotti a morire. Questo privilegio con straordinario favore divino era loro accordato dall'albero della vita che era nel mezzo del paradiso terrestre assieme all'albero vietato. Consumavano altri cibi salvo quelli dell'unico albero proibito, non perché fosse un male ma per raccomandare a loro il bene della schietta e sincera obbedienza che è una grande virtù della creatura ragionevole ordinata sotto il Creatore e Signore. Certamente se non si toccava una cosa cattiva, ma proibita, il peccato era soltanto di disobbedienza. Si tirava avanti dunque con altri cibi che adoperavano affinché il corpo non sperimentasse lo stento con la fame e la sete. Si assaggiava poi qualcosa dall'albero della vita affinché la morte non sopraggiungesse improvvisa per qualche malanno o essi non morissero sfiniti dalla vecchiaia col trascorrere del tempo, come se gli altri alberi fossero di nutrimento e quello avesse un significato misterico. Si deve intendere, cioè, che l'albero della vita era nel paradiso terrestre come in quello spirituale, ossia intelligibile, la Sapienza di Dio di cui è stato scritto: È l'albero della vita per coloro che l'accolgono 47.

Allegorie del paradiso terrestre.
21. Alcuni riducono a un'allegoria ciò che narra la Scrittura sul paradiso terrestre dove vissero i primi uomini, progenitori del genere umano, e considerano valori di vita e caratterizzazioni gli alberi e le piante da frutto. Ragionano come se queste cose non fossero visibili e materiali ma fossero dette e scritte per simboleggiare contenuti di pensiero. Parlano, cioè, come se il paradiso terrestre non fosse destinato al corpo poiché può essere inteso quale dimora dello spirito, come se Agar e Sara non fossero due donne da cui nacquero i due figli di Abramo, uno dalla schiava, l'altro da una donna libera, giacché in esse secondo l'Apostolo sono figurati i due Testamenti 48, come se infine non fosse sgorgata acqua dalla pietra colpita da Mosè 49 poiché in essa può essere indicato simbolicamente il Cristo secondo il citato Apostolo che dice: E la pietra era il Cristo 50. Non è certamente proibito intendere allegoricamente nel paradiso terrestre la vita degli eletti, nei suoi quattro fiumi le quattro virtù, cioè prudenza, fortezza, temperanza e giustizia, nelle piante tutte le conoscenze che servono per la vita, nei prodotti delle piante il comportamento delle persone dabbene, nell'albero della vita la sapienza che è madre di ogni bene e nell'albero della conoscenza del bene e del male l'esperienza che segue alla trasgressione del comando. Dio ha infatti stabilito la pena per i trasgressori in vista di un bene, quindi con giustizia, ma non per il proprio bene la sperimenta l'uomo. Questi simboli possono anche riferirsi alla Chiesa come indicazioni profetiche che precorrono il futuro. Così nel paradiso terrestre sarebbe indicata la Chiesa stessa, come se ne parla nel Cantico dei cantici 51, nei quattro fiumi del paradiso i quattro Vangeli, negli alberi da frutto gli eletti, nei prodotti le loro buone opere, nell'albero della vita il Santo dei santi, cioè il Cristo, nell'albero della conoscenza del bene e del male il libero arbitrio individuale. L'uomo appunto, dopo avere oltraggiato la volontà divina, anche di se stesso non può servirsi se non a proprio danno, così apprende la differenza fra il perseguire un bene universale e il dilettarsi di un bene individuale. Compiacendosi di se stesso in sé si chiude, perciò colmo di timore e di angoscia, se è consapevole del proprio male, dice le parole del Salmo: L'anima mia rientrando in sé ha provato il tormento 52 e ravveduto prosegue: Riprenderò vigore tornando a te 53. Queste figure e altre si possono convenientemente usare nell'interpretare simbolicamente il paradiso terrestre. Nessuno lo proibisce, purché si ammetta che la verità di quel racconto è garantita dalla fedele narrazione dei fatti.

Proprietà del corpo spirituale.
22. Il corpo degli eletti, come sarà nella risurrezione, non avrà bisogno di un albero per non morire di malattia o di decrepitezza, né di altri alimenti fisici con cui evitare il fastidio della fame e della sete. I beati saranno insigniti dell'onore certo e assolutamente inviolabile della immortalità. Hanno perciò la possibilità non il bisogno di nutrirsi se lo vogliono. Lo hanno fatto anche gli angeli manifestandosi in maniera da essere visti e toccati, non perché ne avevano bisogno ma perché potevano e volevano uniformarsi agli uomini nell'esercizio umanizzato del loro ministero. Non è da supporre infatti che essi abbiano mangiato in apparenza, quando gli uomini li accolsero come ospiti 54. A loro sembrò che mangiassero per bisogno perché ignoravano che fossero angeli. Perciò dice l'angelo nel Libro di Tobia: Mi vedevate mangiare, ma mi vedevate con la vostra vista 55; pensavate, cioè, che io consumassi il cibo per il bisogno di rifocillare il corpo, come fate voi. Ma se degli angeli si può proporre una ipotesi più attendibile, la fede cristiana non ha alcun dubbio sul Salvatore perché anche dopo la risurrezione, quindi in una carne spirituale ma reale, consumò cibo e bevanda assieme ai discepoli 56. Ai corpi risorti dunque non sarà tolto il potere ma il bisogno di mangiare e bere. Saranno anche spirituali non perché cessano di essere corpo, ma perché continueranno ad esistere nello spirito che dà loro la vita 57.

 Confronto fra corpo celeste e terrestre.
23. 1. Come i corpi, i quali hanno l'anima che è vita e non ancora lo spirito che dà vita, son detti corpi animali, non anime ma corpi, così quelli sono considerati corpi spirituali. Non si deve però credere che diverranno spirito, rimarranno corpi che avranno l'essenza della carne, ma non subiranno alcuna gravezza e corruzione perché lo spirito dà loro la vita. Non sarà più uomo terreno ma celeste, non perché non sarà più il medesimo corpo tratto dalla terra ma perché per divina generosità diviene tale da essere ammesso ad abitare in cielo non con la perdita dell'essenza ma con la trasformazione delle prerogative. Il primo uomo terreno, perché tratto dalla terra, divenne anima che è vita, non spirito che dà la vita 58, dote che gli era riservata dopo l'adempimento dell'obbedienza. Perciò non v'è dubbio che il suo corpo fosse animale non spirituale, perché aveva bisogno di cibo e bevanda per non essere estenuato dalla fame e dalla sete e non era dotato di immortalità incondizionata e definitiva, ma era difeso dalla ineluttabilità della morte ed era mantenuto nel fiore della giovinezza mediante il legno della vita. Tuttavia non sarebbe morto se non fosse incorso con la trasgressione nella sentenza di Dio che lo aveva preavvertito e minacciato e se, allontanato dall'albero della vita, non fosse destinato a morire di vecchiaia nel tempo, sebbene anche fuori del paradiso terrestre non gli fosse negato il cibo. E per lo meno era una vita che, se non peccava, l'uomo poteva avere perenne nel paradiso, sebbene in un corpo animale fino a che non divenisse spirituale come rimunerazione dell'obbedienza. Nelle parole dette da Dio: Nel giorno in cui mangerete dell'albero certamente morirete 59, si allude evidentemente a questa morte visibile, con cui avviene la separazione dell'anima dal corpo. Tuttavia non deve sembrare assurdo che i progenitori non siano stati separati dal corpo proprio in quel giorno in cui hanno consumato il cibo proibito apportatore di morte. Da quel giorno certamente la natura fu pervertita e depravata e con l'allontanamento dall'albero della vita avvenne in essi anche la giusta soggezione del corpo alla morte. Noi ci siamo nati con questa soggezione. L'Apostolo non dice: "Il corpo morirà a causa del peccato", ma: Il corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustizia. E ha soggiunto: Se lo Spirito di chi ha fatto risorgere il Cristo dalla morte abita in voi, chi ha fatto risorgere il Cristo dalla morte darà vita ai vostri corpi mortali per la mediazione del suo Spirito che abita in voi 60. Allora il corpo che ora è congiunto all'anima che vive sarà congiunto allo spirito che dà la vita. Tuttavia l'Apostolo lo considera morto perché già vincolato alla necessità del morire. Allora era congiunto all'anima che vive quantunque non ancora allo spirito che dà la vita. Non poteva però esser ragionevolmente considerato morto, perché la sua soggezione alla morte era possibile soltanto con l'azione peccaminosa. Dio, col dire: Adamo, dove sei? 61 indicò la morte dell'anima che avvenne perché egli l'aveva abbandonato; e col dire: Sei terra e tornerai nella terra 62 indicò la morte del corpo che gli sopraggiunge quando essa lo abbandona. Si deve ammettere che Dio non ha fatto allusioni alla seconda morte perché volle che rimanesse occulta a favore dell'economia del Nuovo Testamento, in cui la seconda morte è indicata con molta evidenza 63. Doveva essere segnalato che la prima morte, comune a tutti, deriva dal peccato che in un solo individuo è divenuto comune a tutti. La seconda morte invece non è comune a tutti a motivo di coloro che, come dice l'Apostolo, secondo un disegno provvidenziale sono stati chiamati perché antecedentemente Dio li ha conosciuti e preordinati ad essere conformi al ritratto di suo Figlio, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli 64. La grazia di Dio nel Mediatore li ha preservati dalla seconda morte.

 Corpo spirituale e animale in Paolo.
23. 2. Del primo uomo posto nel divenire in un corpo animale l'Apostolo parla come segue. Volendo infatti distinguere il corpo animale dallo spirituale che si avrà nella risurrezione, dice: Si semina soggetto al morire, risorgerà immune da morte, si semina nell'obbrobrio, risorgerà nell'onore, si semina nella debolezza, risorgerà nel vigore, si semina il corpo animale, risorgerà il corpo spirituale. Per provarlo dice: Se v'è il corpo animale, vi è anche lo spirituale. E per mostrare che cos'è il corpo animale soggiunge: Così anche è stato scritto: Il primo uomo divenne anima che vive. Con questa espressione ha voluto chiarire la proprietà del corpo animale. Ma la Scrittura, riguardo al primo uomo chiamato Adamo, quando la sua anima fu creata con l'alito di Dio, non ha detto: L'uomo fu posto nel divenire in un corpo animale, ma: L'uomo divenne anima che vive. Dunque con la frase: Il primo uomo divenne anima che vive l'Apostolo volle che s'intendesse il corpo animale dell'uomo. Ha indicato poi come si debba intendere il corpo spirituale soggiungendo: L'ultimo Adamo divenne spirito che dà la vita 65, perché senza dubbio indicò il Cristo risorto dalla morte in una condizione che gli fosse impossibile morire ancora 66. Prosegue col dire: Ma non è prima ciò che è spirituale ma ciò che è animale, poi lo spirituale 67. Con queste parole molto più esplicitamente ha dichiarato di avere alluso al corpo animale col dire: Il primo uomo divenne anima che vive, e allo spirituale col dire: L'ultimo Adamo come spirito che dà la vita. Prima infatti si ha il corpo animale nello stato in cui lo ebbe il primo Adamo, quantunque non destinato a morire se non peccava. Anche noi abbiamo un simile corpo però col cambiamento per depravazione del suo essere, in quanto in Adamo, dopo il suo peccato, si verificò una condizione da cui subì la soggezione a morire. Anche il Cristo nella prima esistenza si è degnato di averlo in quello stato, e non per destino ineluttabile ma per libera scelta. Poi il corpo spirituale, nello stato in cui si è avuto in Cristo in quanto nostro capo 68, si avrà nei suoi seguaci nella finale risurrezione dei morti.

 L'uomo terreno e celeste in Paolo.
23. 3. Di seguito l'Apostolo aggiunge una differenza molto evidente fra i due uomini con le parole: Il primo uomo tratto dalla terra è della terra, il secondo uomo è dal cielo. Qual è quello della terra, così gli altri della terra; quale quello del cielo, così gli altri del cielo. E come abbiamo assunto la somiglianza di quello della terra, così assumiamo la somiglianza di quello che è dal cielo 69. L'Apostolo ha così tratteggiato questa realtà che ora si avvera in noi mediante il sacramento della rigenerazione. In un altro passo dice infatti: Voi che siete stati battezzati in Cristo avete assunto il Cristo 70. E questo si realizzerà quando anche in noi ciò che era animale con la nascita diventerà spirituale con la risurrezione. Uso le sue parole sul medesimo concetto: Nella speranza siamo stati salvati 71. Abbiamo assunto la somiglianza dell'uomo della terra col trasmettersi della insubordinazione e della morte che ci ha apportato la generazione, ma assumeremo la somiglianza dell'uomo del cielo con la grazia del perdono e della vita eterna che ci accorda la rigenerazione. Essa avviene soltanto nel Mediatore di Dio e degli uomini, l'uomo Cristo Gesù 72. L'Apostolo vuol farci intendere che egli è l'uomo del cielo, perché è venuto dal cielo per rivestirsi del corpo della mortalità della terra e rivestirlo della immortalità del cielo. Considera celesti anche gli altri uomini, perché divengono mediante la grazia sue membra in modo che con esse sia un solo Cristo, capo e corpo 73. Nella medesima lettera esprime il concetto con maggiore evidenza: Da un uomo la morte e da un uomo la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti avranno la vita 74. Questo si verificherà senz'altro nel corpo spirituale che esisterà nello spirito che dà la vita. Certo non tutti quelli che muoiono in Adamo saranno membra del Cristo, che anzi molti di più saranno eternamente nel tormento della seconda morte. È stato detto: tutti e: tutti perché, come soltanto in Adamo si muore nel corpo animale, così soltanto in Cristo si ha la vita nel corpo spirituale. Perciò non si deve pensare che nella risurrezione avremo il corpo simile a quello che l'uomo ebbe prima del peccato e che le parole: Come l'uomo della terra così quelli della terra devono intendersi in riferimento a ciò che è avvenuto come conseguenza del peccato. Non si deve intendere, cioè, che prima di peccare avesse avuto il corpo spirituale mutato in animale per colpa del peccato. Per interpretare così non si fa attenzione alle parole del grande Dottore che dice: Se v'è un corpo animale, v'è anche quello spirituale; è anche scritto così: Il primo uomo Adamo divenne anima che vive 75. Questo modo di essere, essendo originario dell'uomo, non è avvenuto dopo il peccato. Riferendosi ad esso san Paolo ha scelto questa testimonianza della Scrittura per spiegare il corpo animale.

 Condizione originaria dell'uomo.
24. 1. Alcuni con scarso senso critico interpretano le parole: Dio infuse sul suo viso l'alito della vita e l'uomo divenne anima che vive 76 non nel senso che l'anima fu infusa in quel momento nel primo uomo, ma che l'anima già esistente fu data alla vita dallo Spirito Santo. Li convince il fatto che Gesù dopo la sua risurrezione alitò sui suoi discepoli mentre diceva loro: Ricevete lo Spirito Santo 77. Costoro ritengono che questo avvenimento sia simile a quello che avvenne al principio, come se l'Evangelista avesse dovuto aggiungere: "e furono nel divenire come anime viventi". Se fossero state dette queste parole, avremmo dovuto intendere che lo Spirito di Dio è in qualche maniera vita delle anime e che senza di lui le anime intelligenti si devono considerare prive di vita, sebbene emerga che i corpi hanno vita con la loro presenza. Ma non avvenne così quando l'uomo fu creato. Lo attestano chiaramente le parole della Genesi che suonano così: E Dio formò in uomo la polvere dal suolo. Alcuni, pensando d'interpretare più chiaramente la frase, hanno letto: E Dio modellò l'uomo dal fango della terra, perché in precedenza era stato detto: Una sorgente scaturiva dal suolo e ne inondava tutta la superficie 78. Può sembrare che con queste parole si debba intendere il fango che è rappreso di acqua e di terra. Infatti immediatamente dopo queste parole il testo continua: E Dio formò in uomo la polvere dal suolo. Così hanno i codici greci dai quali questo brano è stato tradotto nella lingua latina. Non importa se l'agiografo ha voluto dire: formò o: modellò che in greco è , che tuttavia in termini propri corrisponde a modellò. Però coloro che hanno preferito formò si preoccuparono di evitare un doppio senso, perché nella lingua latina l'uso ha fatto sì che il modellare si dica di coloro che attraverso la finzione danno forma a un oggetto. Questo dunque è l'uomo formato dalla polvere del suolo, o meglio dal fango giacché era una polvere acquosa. L'Apostolo insegna che questo uomo, lo ripeto per parlare più esplicitamente, divenne un corpo animale, quando, pur essendo polvere dal suolo, come dice la Scrittura, ricevette l'anima. Questo uomo, dice appunto, divenne anima che vive 79, cioè questa polvere modellata in uomo divenne come anima che vive.

 Rapporto di anima e corpo nell'uomo.
24. 2. Ma l'anima l'aveva già, dicono, altrimenti non sarebbe stato denominato uomo perché l'uomo non è soltanto corpo o soltanto anima, ma è composto di anima e di corpo. Ma certo che l'anima non è tutto l'uomo ma la sua parte migliore; e neanche il corpo è tutto l'uomo intero, ma la sua parte inferiore. L'una e l'altro uniti hanno l'appellativo di uomo, che, pur presi separatamente, non perdono, anche se parliamo dell'una o dell'altro. Per una determinata regola del modo di parlare di ogni giorno non è vietato dire: "Quell'uomo è morto ed ora è nella pace o fra i tormenti", sebbene il concetto si può attribuire soltanto all'anima. Così: "Quell'uomo è sepolto in questo o in quel luogo", anche se questo si può intendere soltanto del corpo. Obietteranno forse che la Scrittura abitualmente non si esprime in questi termini? Anzi essa ce lo conferma in modo tale che, anche quando le due parti sono unite e l'uomo è in vita, designa l'una e l'altra con l'appellativo di uomo. Denomina, cioè, l'anima uomo interiore e il corpo uomo esteriore come se fossero due uomini 80, sebbene l'una e l'altro insieme sono un solo uomo. Però si deve capire in quale senso si parla dell'uomo a somiglianza di Dio e dell'uomo che è terra e tornerà alla terra. Il primo concetto è espresso in relazione all'anima ragionevole nella forma in cui Dio la infuse nell'uomo, ossia nel corpo dell'uomo, soffiando o, per dire più convenientemente, alitando; il secondo concetto è in relazione al corpo nella forma dell'uomo che Dio modellò dalla polvere, al quale fu data l'anima affinché divenisse corpo animale, cioè uomo come anima che vive.

 Vari significati di spirito.
24. 3. Perciò col gesto che il Signore fece quando alitò dicendo: Ricevete lo Spirito Santo 81 volle farci intendere che lo Spirito Santo non è soltanto del Padre ma che è anche Spirito dello stesso Unigenito. Il medesimo Spirito è del Padre e del Figlio e con lui è la Trinità, Padre e Figlio e Spirito Santo, non creatura ma Creatore. Quell'alitare visibile che usciva dalla bocca non era la naturale essenza dello Spirito Santo. Era piuttosto una indicazione per farci intendere, come ho detto 82, che lo Spirito Santo è comune al Padre e al Figlio perché non è uno per ciascuno ma uno per entrambi. Lo Spirito Santo nella sacra Scrittura in greco viene sempre indicato con la parola . Anche Gesù lo ha chiamato così quando, raffigurandolo con l'alitare visibile della sua bocca, lo comunicò ai discepoli. A me personalmente non è mai occorso d'incontrare una diversa denominazione in tutti i passi della Scrittura. Nel testo: E Dio modellò in uomo la polvere dal suolo e soffiò (o alitò) sul suo viso lo spirito di vita 83, il traduttore greco non usa con cui abitualmente si indica Spirito Santo, ma , nome che denota piuttosto la creatura che il Creatore. Perciò anche alcuni latini, per rendere la differenza, hanno preferito tradurre la parola greca non spirito ma soffio. Il termine in greco è usato anche in quel passo di Isaia in cui Dio dice: Io ho prodotto ogni soffio 84. Senza dubbio allude all'anima. I nostri scrittori hanno tradotto il termine greco , ora soffio, ora alito, ora respiro o respirazione, anche quando è riferito a Dio. Hanno invece tradotto il termine sempre con spirito, tanto se si tratta dell'uomo di cui dice l'Apostolo: Chi degli uomini conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? 85; altrettanto di una bestia come nel libro di Salomone: Chi sa se lo spirito dell'uomo sale in alto verso il cielo e lo spirito della bestia scende in basso verso la terra? 86; altrettanto dello spirito dall'ambiente naturale che si chiama anche vento; difatti si usa il termine in un Salmo che dice: Fuoco e grandine, neve e ghiaccio, spirito di tempesta 87; così dello Spirito non creato ma Creatore, di cui dice il Signore nel Vangelo: Ricevete lo Spirito Santo e lo comunica con l'alito della sua bocca; così quando dice: Andate, battezzate tutti i popoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo 88, dove nella forma più chiara ed evidente è indicata la Trinità; e ancora dove si legge: Dio è Spirito 89 e in molti altri passi della sacra Scrittura. In tutti questi passi, nella versione dei greci non leggiamo ma e in quella latina non soffio ma spirito. Perciò se il traduttore greco nel testo: Alitò, o più esattamente, soffiò sul suo volto lo spirito di vita, non avesse usato , come vi si legge, ma , non ne conseguiva che dovessimo intendere lo Spirito creatore che nella Trinità con precisione si denomina Spirito Santo. È chiaro infatti che il termine come è stato già detto, si applica abitualmente non solo al Creatore ma anche alla creatura.

 Significato di spirito di vita e anima vivente.
24. 4. Ma, obiettano, avendo detto: spirito, non avrebbe aggiunto: di vita se non voleva indicare lo Spirito Santo. Così avendo detto: L'uomo divenne anima, non avrebbe aggiunto: che vive 90 se non per significare la vita dell'anima che le viene partecipata dall'alto col dono dello Spirito di Dio. Poiché l'anima vive, dicono, in una sua singolare dimensione, non c'era alcun bisogno di aggiungere: che vive se non per indicare quella vita che le viene data mediante lo Spirito Santo. Ma questa obiezione, si risponde, non è altro che litigare con diligenza a favore di una ipotesi umana e interpretare con negligenza la sacra Scrittura. Non era un grande sforzo non allontanarsi di molto da quella frase e leggere nel medesimo libro, un tantino più in alto, quando si parla della creazione degli animali terrestri: La terra produca l'anima che vive 91. Così non costava grande fatica, dopo alcune pagine ma sempre nel medesimo libro, quando esso informava che tutti gli esseri viventi sulla terra erano morti nel diluvio, fare attenzione alle parole: E tutti gli esseri che hanno lo spirito di vita ed ogni uomo che era sulla terra ferma morì 92. Dunque rileviamo che l'anima vivente e lo spirito di vita, nella terminologia abituale della sacra Scrittura, si hanno anche nelle bestie e che il testo greco, anche nel passo in cui si legge: Tutti gli esseri che hanno lo spirito della vita non ha usato pneu`ma ma pnohvn. Ci domandiamo allora: che bisogno c'era di aggiungere: vivente, giacché l'anima che non vive è un assurdo? Ovvero che bisogno c'era di aggiungere: di vita, giacché aveva premesso: spirito? Ma comprendiamo che la Scrittura, secondo un proprio criterio, ha usato le frasi: Anima che vive e: Spirito di vita, quando parla degli animali, cioè corpi animati, per evidenziare che in essi mediante l'anima funziona anche la facoltà sensibile capace di percezione. Per quanto riguarda la creazione dell'uomo noi dimentichiamo in quali termini si sia espressa abitualmente la Scrittura. Certamente ha parlato secondo un suo criterio con cui fa intendere che l'uomo, anche dopo avere ricevuto l'anima intelligente, non derivante dalla animazione di acqua e terra, come quella degli altri corpi animati, ma creata dall'alito di Dio, ha una costituzione tale da vivere, come gli altri animali in un corpo animato che è reso tale dall'anima che in esso vive. Degli esseri animati la Scrittura ha detto: La terra produca l'anima che vive e di essi ha egualmente detto che hanno in sé l'alito della vita. Anche nel testo greco non è usato pneu`ma ma pnohvn per indicare con tale appellativo, certamente non lo Spirito Santo ma la loro anima.

 Un soffio non necessariamente divino.
24. 5. Se si intende, obiettano ancora, che il soffio è uscito dalla bocca di Dio e si ammette che è l'anima, per coerenza dobbiamo consentire anche che è della medesima natura ed eguale alla Sapienza che dice: Io sono uscita dalla bocca dell'Altissimo 93. La Sapienza, si ribatte, non ha detto che è stata alitata ma che è uscita dalla sua bocca. Noi quando respiriamo, abbiamo la possibilità di trarre l'alito non dalla nostra essenza, da cui siamo uomini, ma dall'aria che ci avvolge e che inaliamo e restituiamo inspirando ed espirando. Dio invece ha la possibilità di emettere un alito non dalla sua essenza né da una creatura come sostrato ma dal nulla e con assoluta proprietà di linguaggio è stato detto che egli lo ha inspirato e soffiato infondendolo nel corpo umano, producendo così egli immateriale, non diveniente, increato un essere immateriale ma diveniente perché creato. Tuttavia affinché costoro che vogliono parlare dei testi scritturistici, senza prestare attenzione al loro modo di esprimersi, sappiano che dalla bocca di Dio non esce soltanto ciò che è di una eguale e medesima natura, ascoltino o leggano ciò che è stato detto in una frase attribuita a Dio: Perché sei tiepido, né caldo né freddo, comincerò a rigettarti dalla mia bocca 94.

 Condizione ultraterrena dell'uomo.
24. 6. Non v'è ragione dunque per contestare il brano molto chiaro dell'Apostolo in cui distingue il corpo animale da quello spirituale, cioè quello in cui ora siamo da quello in cui saremo. Egli dice: Si semina un corpo animale, risorgerà un corpo spirituale; se v'è il corpo animale, v'è anche quello spirituale; infatti è stato scritto: Il primo uomo Adamo fu nel divenire come anima che vive, l'ultimo Adamo come spirito che dà la vita. Ma non è prima il corpo spirituale, ma quello animale, poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è di terra. Il secondo uomo è dal cielo. Come quello di terra così quelli di terra e come quello celeste così i celesti. E come abbiamo assunto la somiglianza di quello di terra, assumiamo la somiglianza di quello che è dal cielo 95. Abbiamo vagliato in precedenza queste parole dell'Apostolo 96. Quindi il corpo animale in cui, come dice l'Apostolo, il primo uomo Adamo fu nel divenire non aveva una costituzione tale da rendergli impossibile il morire, ma non sarebbe morto se non avesse peccato. Infatti l'essere, che è spirituale e immortale per lo Spirito datore di vita, non può assolutamente morire, come non muore l'anima che è stata creata immortale. Essa, sebbene può essere considerata morta a causa del peccato, perché priva di una sua vita particolare, cioè dello Spirito di Dio, mediante il quale poteva anche vivere nella saggezza e felicità, tuttavia non cessa di avere una sua propria vita, per quanto miserabile, perché è stata creata immortale. Anche gli angeli ribelli, sebbene peccando siano in un certo senso morti, perché hanno abbandonato il fonte della vita che è Dio, in cui dissetandosi potevano vivere nella sapienza e felicità, tuttavia non potevano subire una morte tale da desistere dalla vita del pensiero perché sono stati creati immortali. Perciò dopo il giudizio finale precipiteranno nella seconda morte senza essere privi della vita, poiché neanche della sensibilità saranno privi quando subiranno i tormenti. Ma gli uomini, resi partecipi della grazia di Dio e concittadini degli angeli santi che hanno perseverato nella beatitudine, assumeranno corpi spirituali in modo da non peccare più e non morire. Saranno quindi dotati di una immortalità la quale, come quella degli angeli, non può essere sottratta dal peccato, sebbene rimanga la natura della carne, però senza la soggezione alla morte e al condizionamento nello spazio.

 Al seguente libro l'ipotesi se Adamo non peccava.
24. 7. Rimane un problema che deve necessariamente esser proposto e avere una soluzione con l'aiuto del Signore Dio della verità; e cioè se la soggezione alla passione delle parti ribelli del corpo è sorta dal peccato di ribellione nei progenitori, quando la grazia divina li aveva abbandonati; volsero allora gli occhi alla propria nudità, cioè la osservarono con maggiore attenzione e poiché uno stimolo voluttuoso si opponeva al dettame della volontà coprirono le parti che suscitano pudore; infine come avrebbero generato i figli se, senza la caduta, fossero rimasti come erano stati creati. Ma questo libro si deve chiudere e un problema così importante non si può esaurire in una trattazione ristretta e perciò si rimanda al libro seguente per una discussione più diffusa.

 

LIBRO XIV

SOMMARIO

1. A causa della disobbedienza del primo uomo tutti sarebbero precipitati nella perennità della seconda morte se la grazia di Dio non ne avesse liberati molti.

2. Per vita carnale si deve intendere non solo quella che proviene dai vizi del corpo ma anche dell'anima.

3. Si afferma che la causa del peccato è derivata dall'anima e non dal corpo e che la soggezione alla morte derivata dal peccato non fu peccato ma pena.

4. Che cosa significa vivere secondo l'uomo e che cosa secondo Dio?

5. Sulla natura del corpo e dell'anima è più tollerabile l'opinione dei platonici che quella dei manichei, ma anche la prima è da respingere perché attribuisce la causa di tutti i vizi alla natura della carne.

6. Dall'indole della volontà umana le disposizioni della coscienza sono determinate ad esser depravate o oneste.

7. Nella Bibbia l'amore e l'affetto sono usati senza distinzione sia nel bene che nel male.

8. Sono tre le inclinazioni che gli stoici attribuiscono alla coscienza del saggio, escluso il dolore o tristezza che l'energia della coscienza non deve avvertire.

9. Vi sono inclinazioni, di cui la vita dei buoni ha manifestazioni oneste.

10. Se si deve ritenere che i progenitori, mentre erano nel paradiso terrestre prima della colpa, furono soggetti a inclinazioni.

11. La caduta del primo uomo, con cui la natura buona fu depravata, soltanto dal suo Creatore può essere riscattata.

12. Tipologia del peccato commesso dai progenitori.

13. Nella prevaricazione d'Adamo la cattiva volontà prevenne la colpa.

14. La superbia del trasgressore fu peggiore della trasgressione.

15. Si ebbe giustizia nella punizione che i progenitori ebbero per la loro disobbedienza.

16. Il male della libidine, sebbene il termine si riferisca a molti vizi, tuttavia propriamente si attribuisce agli impulsi della passione oscena.

17. Ai progenitori la propria nudità apparve dopo il peccato indecente e vergognosa.

18. Vergogna del piacere non solo illecito ma anche lecito.

19. Gli impulsi dell'ira e della libidine, i quali nell'uomo sono indici di tanta viziosità che è indispensabile siano repressi con la moderazione della saggezza, non si ebbero nello stato di purezza prima del peccato.

20. La immoralità assai frivola dei cinici.

21. La prevaricazione non tolse la benedizione, data prima del peccato, di accrescere col parto il numero degli uomini, sebbene ad essa si aggiungesse il male della concupiscenza.

22. L'accoppiamento coniugale fu da Dio stabilito e benedetto dall'inizio.

23. C'è da chiedersi se anche nel paradiso terrestre si poteva generare, qualora non si avesse il peccato, ovvero se l'ideale della castità si sarebbe opposto allo stimolo della concupiscenza.

24. Gli uomini innocenti, che sarebbero rimasti nel paradiso terrestre per il merito dell'obbedienza, avrebbero usato gli organi per la generazione dei figli come gli altri, secondo l'arbitrio della volontà.

25. La vita nel tempo non raggiunge la vera felicità.

26. Si deve ammettere che la serenità di coloro che vivevano nel paradiso terrestre avrebbe potuto adempiere il dovere di generare senza la vergogna del desiderio carnale.

27. La depravazione dei peccatori, angeli e uomini, non turba la Provvidenza.

28. Tipologia delle due città, la terrena e la celeste.

 

Libro quattordicesimo

ETICA UMANA DOPO IL PECCATO E LE DUE CITTÀ

 

Il mondo delle inclinazioni [1-9]

Nella storia si profilano le due città.
1. Ho detto nei libri precedenti 1 che Dio ha voluto far provenire gli uomini da un solo uomo non solo per far convivere il genere umano nella identità della natura, ma anche per inserirlo mediante lo stretto legame della comune origine nella unità dei rapporti col vincolo della pace. Il genere umano non era destinato alla morte di ciascun individuo se i primi due, di cui l'uomo non proveniva da altro individuo, la donna da lui, non l'avessero meritata a causa della disobbedienza. In tal modo fu commesso da loro un così grande peccato che la natura umana incorse nella depravazione, perché furono trasmessi anche ai posteri la soggezione al peccato e il destino della morte. Il potere della morte prevalse al punto da sospingere per la dovuta pena nell'abisso della seconda morte, che non ha fine, tutti gli uomini se la non dovuta grazia di Dio non ne avesse liberato un certo numero. È avvenuto così che, sebbene numerosi e grandi popoli sussistano nel mondo con diverse religioni e costumi e si distinguano per notevole diversità di lingua, armamento e abbigliamento, tuttavia non si abbiano più di due tipi di umana convivenza. Giustamente secondo il linguaggio della sacra Scrittura potremo definirli le due città. Una è degli uomini che intendono vivere secondo la carne, l'altra di coloro che intendono vivere secondo lo spirito, ciascuna nella pace del proprio stile di vita; e quando conseguono il fine a cui tendono, vivono, ciascuna, nella pace del proprio stile di vita.

 Vivere secondo la carne.
2. 1. Prima dunque si deve esaminare che cosa significa vivere secondo la carne, che cosa secondo lo spirito. Chi infatti interpreta le nostre parole di primo acchito, perché non ricorda o non riflette al modo con cui si esprime la sacra Scrittura, può pensare che i filosofi epicurei vivono secondo la carne, perché hanno riposto il bene sommo dell'uomo nel piacere sensibile. Allo stesso modo pensano altri i quali hanno ritenuto in qualunque senso che il sommo bene dell'uomo è il bene materiale e tutta la massa d'individui che non ragionano in quel modo in base a una dottrina ma, portati dalla sensualità, sanno godere soltanto dei piaceri che percepiscono con i sensi. Al contrario si potrebbe pensare che gli stoici, i quali ripongono il sommo bene dell'uomo nell'animo, vivano secondo lo spirito. L'animo dell'uomo è appunto lo spirito. Ma stando all'insegnamento della divina Scrittura si rileva che tutti e due vivono secondo la carne. Essa certamente considera carne il corpo dell'essere animato terreno e mortale, come quando dice: Non ogni carne è la medesima; una cosa è infatti quella dell'uomo e altra quella del mammifero, degli uccelli e dei pesci 2. Però si vale del significato di questa parola in molti altri sensi. Usando una delle varie forme del linguaggio figurato considera carne l'uomo stesso, con quella figura che è la parte per il tutto, come in questo passo: Non ogni carne sarà giustificata dalle opere della legge 3. Ha certamente voluto intendere ogni uomo. Lo indica esplicitamente di seguito quando soggiunge: Nessuno nella legge è giustificato 4, e nella Lettera ai Galati: Poiché sapete che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge 5. In questo senso figurato s'intende: E il Verbo si è fatto carne 6, cioè uomo. Non interpretando bene alcuni hanno pensato che il Cristo fosse privo dell'anima umana. Talora al contrario si prende il tutto per la parte, come in quel passo del Vangelo in cui sono riportate le parole di Maria di Magdala che dice: Hanno sottratto il mio Signore e non so dove lo hanno riposto 7. Intendeva certamente soltanto la carne del Cristo, che riteneva sottratta dal monumento in cui era sepolta. Così come parte per il tutto col termine carne s'intende l'uomo, come indicano i passi che sopra abbiamo citato.

 Le opere della carne secondo Paolo.
2. 2. Richiede troppo tempo discutere e compendiare i molti sensi in cui la sacra Scrittura usa il termine carne. Quindi per poter trattare il significato di vivere secondo la carne, che è un male sebbene non lo sia il concetto di carne, esaminiamo con attenzione un brano della Lettera ai Galati dell'apostolo Paolo. Egli dice: Sono note le opere della carne, che sono le fornicazioni, le impurità, la lussuria, l'idolatria, i malefizi, le inimicizie, le discordie, le rivalità, le animosità, i litigi, le fazioni, le invidie, le ubriachezze, le gozzoviglie e vizi simili a questi. Vi avverto, come già ho fatto, che chi compie tali azioni non erediterà il regno di Dio 8. Tutto questo brano della lettera dell'Apostolo, per quanto attiene all'argomento in questione, bene interpretato, può risolvere il problema del significato di vivere secondo la carne. Fra le opere della carne, che ha dichiarato note e ha condannato dopo averle passate in rassegna, non troviamo soltanto quelle che riguardano il piacere della carne, come fornicazioni, impurità, lussuria e ubriachezze, gozzoviglie, ma anche quei pervertimenti dell'animo che si presentano esenti dal piacere della carne. Ognuno capisce che idolatria, malefizi, inimicizie, discordie, rivalità, animosità, litigi, fazioni, invidie, sono piuttosto pervertimenti dell'animo che della carne. Può avvenire talora che a causa dell'idolatria o dell'errore di qualche fazione ci si astenga dai piaceri sensibili. Tuttavia col testo dell'Apostolo si prova che anche in tal caso l'uomo vive secondo la carne, quantunque sembri reprimere e dominare le passioni della carne, e si dimostra che compie le biasimevoli opere della carne proprio per il fatto che si astiene dai piaceri della carne. Certamente le inimicizie si sentono nell'animo, eppure non v'è alcuno che, rivolgendosi a un suo nemico o presunto nemico, gli dice: "Tu hai della malacarne contro di me" e non piuttosto: "del malanimo". Infine se si udisse parlare delle carnalità, per così dire, non si dubiterebbe di assegnarle alla carne, così non si può dubitare che le animosità appartengono all'animo. Quindi il Dottore delle genti nella fede e nella verità 9 considera opere della carne questi pervertimenti e simili soltanto perché, secondo il discorso figurato con cui si usa la parte per il tutto, col termine carne intende indicare tutto l'uomo.

 Il corpo può rivestirsi d'immortalità.
3. 1. Se si dice che la carne nella condotta immorale è l'origine di tutti i vizi, perché l'anima agitata dalla carne si comporta di conseguenza, senza dubbio non si riflette attentamente sull'intera natura dell'uomo. Infatti il corpo corruttibile appesantisce l'anima. Anche l'apostolo Paolo, nel discutere del corpo corruttibile sul quale poco prima aveva dichiarato: Sebbene il nostro uomo esteriore si corrompa 10, afferma: Sappiamo che, sebbene sarà disfatta la casa di creta, nostra dimora quaggiù, riceveremo un'abitazione da Dio, una casa non costruita da mano d'uomo, nei cieli. Infatti sospiriamo in questo stato perché desideriamo di rivestirci del nostro corpo che è dal cielo, a condizione però di essere trovati già vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa dimora, sospiriamo appesantiti perché non vogliamo esserne spogliati ma rivestiti più intimamente affinché ciò che è mortale sia assorbito dalla vita 11. Dunque siamo appesantiti dal corpo corruttibile ma, sapendo che la causa dell'appesantimento non sono la natura e l'essenza del corpo ma la sua corruzione, non vogliamo essere spogliati del corpo ma essere rivestiti della sua immortalità. Anche allora sarà corpo ma, poiché non sarà corruttibile, non appesantirà. Quindi ora il corpo corruttibile appesantisce l'anima e la dimora di creta asservisce il senso che percepisce molti oggetti 12. Tuttavia coloro i quali pensano che tutti i mali spirituali provengano dal corpo sono in errore.

 Non tutta l'immoralità è dalla carne.
3. 2. Sembra che Virgilio esponga in versi elegantissimi una teoria di Platone quando scrive: Quei semi hanno vivacità di fuoco e origine dal cielo nei limiti in cui non li rallentano i corpi e non li trattengono le terrene dimensioni e le membra destinate a morire. Volendo far intendere che derivano dal corpo tutte le ben note quattro passioni dell'animo, il desiderio e il timore, la gioia e la tristezza, come origini di tutti gli atti e abitudini immorali, soggiunge: A causa del corpo temono e desiderano, si dolgono e godono e non veggono il libero cielo, perché chiuse nelle tenebre e nel carcere buio 13. Comunque la nostra fede la pensa diversamente. Infatti la corruzione del corpo che appesantisce l'anima 14 non è causa ma pena del primo peccato; e non la carne corruttibile ha reso peccatrice l'anima, ma l'anima peccatrice ha reso corruttibile la carne. E sebbene da tale corruzione della carne provengono alcuni stimoli immorali e gli stessi desideri immorali, tuttavia non tutti i vizi della vita immorale si devono attribuire alla carne. Non dobbiamo discolparne completamente il diavolo, che non ha carne. Infatti non può essere giudicato impudico o ubriacone o soggetto ad altro pervertimento del genere perché sono di pertinenza dei piaceri della carne, sebbene sia invisibile incitatore e istigatore anche di tali disordini. È tuttavia molto superbo e invidioso. E questa forma di perversione si impossessò di lui in modo tale che per causa sua è stato destinato al supplizio eterno in un carcere dall'atmosfera tenebrosa. L'Apostolo assegna alla carne, che certamente il diavolo non ha, i seguenti vizi che in lui hanno il primo posto. Afferma appunto che le inimicizie, le discordie, le rivalità, le animosità, le invidie sono opere della carne 15. E di tutte queste malvagità il punto di partenza è la superbia, che nel diavolo domina pur senza la carne. Eppure nessuno più di lui è nemico dei santi. Non ci si presenta nessuno che più di lui sia contro di essi discorde, rivale, violento, invidioso. E poiché ha queste malvagità pur non avendo la carne, ne consegue che sono opere della carne soltanto nel senso che sono opere dell'uomo che, come ho detto, l'Apostolo designa col termine di carne. L'uomo è divenuto simile al diavolo non perché ha la carne, che il diavolo non ha, ma perché vive secondo se stesso, cioè secondo l'uomo. Anche il diavolo volle vivere secondo se stesso, allorché non fu costante nella verità, perciò non derivò la menzogna dalla verità di Dio ma dalla propria menzogna, perché non solo è menzognero ma anche padre della menzogna 16. È stato infatti il primo a mentire e da chi ebbe origine il peccato ebbe origine anche la menzogna.

 Peccato e menzogna.
4. 1. Dunque quando l'uomo vive secondo l'uomo, non secondo Dio, è simile al diavolo. Anche l'angelo non doveva vivere secondo l'angelo ma secondo Dio, per perseverare nella verità e per esprimere la verità dalla verità di Lui e non la menzogna dalla propria menzogna. In un altro passo anche dell'uomo l'Apostolo dice: Se la verità di Dio rifulse nella mia menzogna 17. Ha parlato della nostra menzogna e della verità di Dio. Perciò quando l'uomo vive secondo la verità, non vive secondo se stesso ma secondo Dio. È Dio colui che ha detto: Io sono la verità 18. Se invece l'uomo vive secondo se stesso, cioè secondo l'uomo, non secondo Dio, certamente vive secondo menzogna. E questo non perché l'uomo stesso sia menzogna, giacché suo artefice e creatore è Dio che certamente non è artefice e creatore di una menzogna, ma perché l'uomo è stato creato irreprensibile per vivere non secondo se stesso ma secondo colui dal quale è stato creato, cioè per fare la volontà di Lui e non la propria. Non vivere secondo la norma con cui si è ordinati a vivere, questo appunto è la menzogna. Egli vuole essere felice anche vivendo in modo da non esserlo. Niente è più falso di questo desiderio. Perciò non irragionevolmente il peccato in senso assoluto può essere considerato menzogna. Esso si commette esclusivamente con la volontà con cui si vuole esser felici o non si vuole essere infelici. Quindi si ha la menzogna perché, se avviene che si è felici, ne deriva piuttosto che si è infelici o se avviene che si è più felici ne deriva piuttosto che si è più infelici. Questo avviene appunto perché per l'uomo la felicità può derivare soltanto da Dio, che egli abbandona con l'azione immorale, e non da se stesso perché, vivendo secondo se stesso, agisce immoralmente.

 Vivere secondo spirito e secondo carne.
4. 2. Abbiamo detto che da questo fatto sono derivate due città differenti e contrarie fra di loro, perché vi sono alcuni che vivono secondo la carne e altri secondo lo spirito 19. Si può anche dire in questo senso che alcuni vivono secondo l'uomo e altri secondo Dio. Molto chiaramente in proposito Paolo scrive ai Corinti: Poiché tra di voi vi sono invidia e discordia, non siete forse carnali e non camminate secondo l'uomo? 20. Camminare secondo l'uomo è lo stesso che esser carnale, perché con carne, che è parte dell'uomo, s'intende l'uomo. Poco prima aveva considerato viventi secondo l'anima quelli stessi che poi denomina carnali. Scrive così: Chi degli uomini conosce i valori dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così nessuno conosce i valori di Dio se non lo Spirito di Dio. Noi, continua, non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che è da Dio per conoscere le cose che Dio ci ha donato. Ne parliamo anche non con parole insegnate dalla sapienza umana ma insegnate dallo Spirito, perché confrontiamo le cose spirituali alle spirituali. L'uomo naturale non conosce le cose che sono dello Spirito di Dio; per lui sono una sciocchezza 21. Poco dopo Paolo dice a costoro, cioè ai viventi secondo l'anima: Ed io fratelli non vi ho potuto parlare come se foste spirituali ma carnali 22. La frase di sopra e questa sono secondo quel linguaggio figurato che è la parte per il tutto. Dall'anima e dalla carne, che sono le due parti dell'uomo, può essere significato il tutto che è l'uomo, quindi non sono due cose diverse l'uomo vivente secondo l'anima e l'uomo carnale, ma la medesima cosa, cioè l'uomo che vive secondo l'uomo. Così s'indicano gli uomini nel passo: Qualsiasi carne non sarà giustificata dalle opere della legge 23 e: Settantacinque anime si recarono in Egitto con Giacobbe 24. Nel passo di sopra con qualsiasi carne s'intende "qualsiasi uomo" e nell'altro per settantacinque anime s'intendono settantacinque uomini. E invece della frase: Non nelle parole insegnate dalla sapienza umana, si poteva dire: "non della sapienza carnale"; come invece di: Camminate secondo l'uomo si poteva dire: "secondo la carne". Più apertamente questo senso è stato evidente nelle parole che Paolo soggiunse: Quando qualcuno dice: Io sono di Paolo, e un altro: Io di Apollo, non mostrate di essere uomini? 25. Il senso che si aveva in: Vivete secondo l'anima e in: Siete carnali è stato espresso con maggiore evidenza con le parole: Siete uomini che significano: "Vivete secondo l'uomo", non secondo Dio, perché se viveste secondo lui sareste dèi.

Le passioni nell'aldilà secondo i Platonici.
5. Non v'è ragione dunque di accusare nei nostri peccati e vizi, quasi per un insulto al Creatore, la natura della carne, perché nel suo genere e ordine essa è buona. Non è bene, dopo avere abbandonato il bene che è il Creatore, vivere secondo un bene creato, sia che si scelga di vivere secondo la carne o secondo l'anima o secondo tutto l'uomo, composto di anima e di carne, e che perciò può essere indicato anche con i termini della sola anima o della sola carne. Chi esalta come sommo bene la natura dell'anima e disprezza come male la natura della carne, senza dubbio carnalmente fa oggetto di desiderio l'anima e di fuga la carne. Giudica infatti secondo l'umana futilità e non secondo la verità divina. Certamente i platonici non vaneggiano come i manichei al punto da detestare i corpi terrestri come essenza del male. Essi attribuiscono a Dio artefice tutti gli elementi, da cui è composto questo mondo visibile e tangibile e le relative proprietà. Ritengono tuttavia che dalle strutture fisiologiche e dalle membra soggette a morire le anime siano condizionate al punto che da esse derivino le affezioni dei desideri, timori, gioia e tristezza. A queste quattro forme di perturbazioni, come dice Cicerone 26, o passioni, come preferiscono altri che derivano dal greco, si riconduce definitivamente l'immoralità dei comportamenti dell'uomo. Se le cose stanno così, non v'è ragione che l'Enea di Virgilio, avendo udito dal padre nell'aldilà che le anime sarebbero tornate ai corpi, si meravigliasse di questa notizia con le parole: O padre, allora si deve pensare che alcune anime eccelse vadano al cielo e poi tornino ai corpi che appesantiscono? Ma quale tragico desiderio della luce del mondo hanno questi infelici? 27. Ma un desiderio così tragico derivante dagli arti terrestri e dalle membra soggette a morire è ancora presente in quella purezza così elevata delle anime? Non afferma il poeta che esse sono guarite da tutte le simili pesti del corpo, come egli dice, quando incominciano a voler tornare nel corpo? Se ne deduce, anche se si verificasse, cosa del tutto assurda, l'avvicendarsi di purificazione e contaminazione delle anime che vanno e vengono e l'impossibilità di affermare secondo verità che tutti gli stimoli colpevoli e immorali delle anime si sviluppino in loro dai corpi terrestri. Infatti quel tragico desiderio della teoria dei platonici, come dice l'illustre poeta, non può assolutamente pervenire dal corpo per costringere ad essere nel corpo l'anima guarita da ogni pestilenza del corpo. Infatti per loro stessa convinzione l'anima non è condizionata soltanto dalla carne a desiderare, temere, gioire, affliggersi, ma può essere agitata da stimoli provenienti da lei stessa.

La volontà e le inclinazioni.
6. C'è di mezzo appunto l'indole della volontà dell'individuo: se è perversa avrà inclinazioni perverse, se è retta non solo saranno immuni da colpa ma anche degne di lode. La volontà è in tutte le inclinazioni, anzi esse non sono altro che atti di volontà. Difatti il desiderio e la gioia sono la stessa volontà nella convergenza con gli oggetti che vogliamo. E il timore e la tristezza sono la volontà nella divergenza dagli oggetti che non vogliamo. Ma l'inclinazione si chiama desiderio se siamo in convergenza cercando di raggiungere gli oggetti che vogliamo e gioia se siamo in convergenza godendo delle cose che vogliamo. Allo stesso modo la volontà è timore se siamo in divergenza da ciò che non vogliamo ci avvenga ed è tristezza se siamo in divergenza da ciò che è avvenuto sebbene non lo volessimo. In definitiva stando alla diversità degli oggetti che si intendono raggiungere o si fuggono, secondo che la volontà umana viene attratta o respinta, essa si muta e si volge alle une o alle altre emozioni. Perciò un uomo che vive secondo Dio, non secondo l'uomo, necessariamente è amante del bene, ne consegue che odia il male. E poiché chi è cattivo non lo è per essenza ma per difetto, chi vive secondo Dio deve odio totale al male 28 in modo da non odiare l'uomo a causa di un difetto e da non amare il difetto per amore dell'uomo, ma odi il difetto, ami l'uomo. Guarito il difetto, rimarrà tutto da amare, niente da odiare.

 Voler bene e amare.
7. 1. Chi intende amare Dio e amare il prossimo come se stesso, non secondo l'uomo ma secondo Dio, certamente, in virtù di questo amore, è dichiarato di buona volontà, che abitualmente nella sacra Scrittura è detta carità ma anche, sempre nella Scrittura, amore. L'Apostolo afferma che l'eletto a reggere il popolo secondo il suo comando deve essere anche amante del bene 29. Il Signore stesso interrogò l'apostolo Pietro con le parole: Mi vuoi bene più di costoro? Quegli rispose: Lo sai, Signore, che io ti amo. E il Signore ripropose la domanda chiedendo non se Pietro lo amava ma se gli voleva bene e quegli rispose ancora: Signore, tu lo sai che io ti amo. Alla terza volta anche Gesù non chiese: Mi vuoi bene? ma: Mi ami? E l'Evangelista continua: Si afflisse Pietro perché gli chiese per la terza volta: Mi ami? Eppure Gesù non per tre volte, ma soltanto una volta aveva chiesto: Mi ami? e due: Mi vuoi bene? Da ciò si capisce che anche quando il Signore chiedeva: Mi vuoi bene? intendeva: Mi ami? Pietro non variò il termine di questo unico significato, ma anche alla terza volta disse: Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo 30.

 Le quattro passioni e l'amore.
7. 2. Ho ritenuto di richiamare l'episodio perché alcuni suppongono che altro è il voler bene o carità e altro l'amore. Dicono che il voler bene si contraddistingue nel bene, l'amore nel male. È assolutamente certo che neanche gli scrittori profani ritengono tale opinione. Però se la vedano i filosofi se e perché fanno certe distinzioni. I loro libri comunque dichiarano abbastanza chiaramente che essi hanno molto stimato l'amore anche per le cose buone e anche verso Dio. Si doveva indurre a riflettere che i nostri libri rivelati, la cui autorità anteponiamo a tutte le opere letterarie, non dicono che altro è l'amore, altro il voler bene o carità. Ho già accennato che l'amore ha significato anche nel bene. Ma affinché non si pensi che l'amore ha significato nel male e nel bene, invece il voler bene soltanto nel bene, si rifletta sul passo del Salmo: Chi vuol bene all'ingiustizia, odia la sua anima 31 e sull'altro dell'apostolo Giovanni: Se qualcuno vuol bene al mondo, non ha la benevolenza del Padre 32. In questo passo il voler bene è in senso buono e cattivo. E affinché qualcuno non insista sull'amore in senso cattivo, giacché in senso buono l'ho già evidenziato, ascolti questa frase: Vi saranno uomini innamorati di se stessi, amanti del denaro 33. Dunque la volontà retta è l'amore buono e la volontà perversa l'amore cattivo. L'amore che brama avere l'oggetto amato è desiderio, quando lo ha e ne gode è gioia, quando fugge ciò che lo contraria è timore, quando esperimenta il verificarsi di ciò che lo contraria è tristezza. Pertanto queste inclinazioni sono cattive se l'amore è cattivo, buone se buono. Possiamo comprovare queste affermazioni dalla sacra Scrittura. L'Apostolo brama di morire ed essere con Cristo 34 e: La mia anima ha bramato di desiderare i tuoi giudizi 35, ovvero con maggiore corrispondenza: La mia anima ha desiderato di bramare i tuoi giudizi; il desiderio di saggezza guida al regno 36. Tuttavia l'usuale modo di parlare ha fatto sì che cupidigia e concupiscenza senza l'aggiunta dell'oggetto siano intese soltanto in senso cattivo. La gioia è nel bene in questi passi: Gioite nel Signore ed esultate, o giusti 37; Hai posto gioia nel mio cuore 38; Mi riempirai di gioia col tuo volto 39. In Paolo il timore è nel bene nei seguenti passi: Nel timore e nel tremore attendete alla vostra salvezza 40; Non fare il saccente ma temi! 41; Temo che come il serpente con la sua astuzia ha sedotto Eva, così la vostra coscienza defletta dalla castità che è nel Cristo 42. C'è poi la tristezza, che Cicerone preferisce chiamare malessere 43 e Virgilio dolore in queste parole: Si dolgono e gioiscono 44. Io ho preferito chiamarla tristezza perché il più delle volte si parla di malessere e di dolore in riferimento al corpo. La riguarda un più attento esame se si può trovare nel bene.

 Le inclinazioni negli Stoici...
8. 1. Gli stoici hanno insegnato che nel saggio sono tre gli stati d'animo, denominati in greco 45 e da Cicerone constantiae (stati di serenità) 46 in luogo delle tre inclinazioni, cioè in luogo del desiderio il volere, della gioia il godimento, del timore la cautela. Hanno affermato poi che non esiste nell'animo del saggio una inclinazione in luogo del malessere o dolore, che io, per evitare un doppio senso, ho preferito denominare tristezza. La volontà, dicono essi, desidera il bene e lo fa il saggio, il godimento è di un bene conseguito e il saggio lo consegue in ogni occasione, la cautela evita il male e il saggio deve evitarlo. Ma poiché la tristezza riguarda un male già avvenuto ed essi pensano che al saggio non può accadere alcun male, hanno insegnato che in lui non può esservi uno stato d'animo che la sostituisca. Si esprimono dunque in modo da affermare che soltanto il saggio vuole, gode, è cauto e che l'insipiente non fa altro che desiderare, gioire, temere, affliggersi. Si aggiunge che in Cicerone quei tre sono stati di serenità e le quattro sono perturbazioni, ma passioni secondo molti altri. In greco le tre, come ho detto, sono denominate e le quattro . Esaminando il più diligentemente possibile se questa terminologia corrisponde alla sacra Scrittura, ho trovato il detto del Profeta: Non v'è il godere per gli empi, dice il Signore 47. Sembra appunto che gli empi possano più gioire del male che goderne, perché il godimento è propriamente delle anime buone e devote. Così la frase del Vangelo: Quanto volete che gli uomini facciano a voi fatelo voi a loro 48 sembra detta come se non si può volere nella malvagità e disonestà, ma soltanto desiderare. In seguito alcuni esegeti per la consuetudine del dire hanno aggiunto i beni e hanno letto: Quanto di bene volete che gli uomini facciano a voi. Hanno pensato appunto che non s'intenda ottenere dagli uomini qualcosa di disonesto come, per tacere delle cose più oscene, banchetti licenziosi con cui ci s'illuda, se si ricambia a loro, di aver soddisfatto a questo precetto. Ma nel Vangelo greco, tradotto in latino, non è aggiunto: i beni, ma: Quanto volete che gli uomini facciano a voi, fatelo a loro. Credo perciò che l'Evangelista nel dire: volete, ha inteso: i beni. Non ha detto: "desiderate".

 ... secondo le varie interpretazioni...
8. 2. Non sempre il nostro linguaggio si deve adeguare a questi termini specifici ma talora bisogna usarne, e quando leggiamo scrittori, la cui autorità non è lecito rifiutare, si devono applicare a quei passi in cui l'appropriato significato non può avere altra interpretazione. È il caso delle frasi che a titolo d'esempio ho desunto dal Profeta e dal Vangelo. Si sa che gli empi gongolano di gioia. Tuttavia: Non v'è il godere per gli empi, dice il Signore 49. Pertanto giacché il godere è uno stato d'animo diverso, come con proprietà e chiarezza si usa questa parola? Inoltre è innegabile che non giustamente si può comandare agli uomini di fare agli altri quanto desiderano sia fatto a loro, perché non si trastullino l'un l'altro con la disonestà di un piacere illecito. Tuttavia è comandamento assai salutare e veritiero: Quanto volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro 50. E questo soltanto perché in questo passo la volontà è stata addotta con un significato che non si può interpretare in senso cattivo. Con un linguaggio abituale, usato frequentemente soprattutto nel modo di parlare di ogni giorno, non si direbbe: Non voler dire alcuna menzogna 51, se non si desse anche la volontà cattiva. Difatti dal fatto che può degenerare si differenzia quella che acclamarono gli angeli con le parole: Pace in terra agli uomini di buona volontà 52. Sarebbe superflua l'aggiunta: di buona se non può esser che buona. Niente di speciale avrebbe detto l'Apostolo nelle lodi della carità che non gode dell'ingiustizia 53, se non perché la cattiveria ne gode. Anche negli autori profani si nota l'accezione diversa di queste parole. Dice Cicerone, oratore molto erudito: Desidero, senatori, esser clemente 54. Ha usato tale parola in senso buono. Eppure non v'è un critico letterario così stravagante il quale possa sostenere che avrebbe dovuto dire: "voglio", non: desidero. Al contrario, in Terenzio, un giovane libertino, invasato da un desiderio insensato, dice: Non voglio se non Filomena. La risposta ivi allegata del suo schiavo più sensato indica abbastanza chiaramente che quella volontà era un capriccio. Disse al padrone: Quanto sarebbe meglio che tu t'impegni ad allontanare questo amore dal tuo animo che dire parole con cui questo capriccio si accresca inutilmente 55. Il verso citato di Virgilio in cui con la massima concisione ha enumerato le quattro inclinazioni, afferma che gli scrittori hanno inteso il godimento anche in senso cattivo. Dice: Da ciò temono e desiderano, si dolgono e godono 56. Ed anche il medesimo poeta: I cattivi godimenti dell'animo 57.

 ...particolarmente la tristezza.
8. 3. Quindi vogliono, sono cauti, godono buoni e cattivi; e, per esprimere i medesimi concetti con altre parole, desiderano, temono e gioiscono buoni e cattivi, ma gli uni onestamente, gli altri disonestamente secondo che la volontà negli individui è retta o perversa. Anche la tristezza, sebbene gli stoici hanno ritenuto che non v'è nulla a sostituirla nell'animo del saggio, è addotta in senso buono soprattutto nei nostri scrittori. L'Apostolo loda i Corinti perché si sono rattristati secondo Dio. Qualcuno potrebbe obiettare che l'Apostolo si congratulò perché si erano rattristati col pentimento e questa tristezza è possibile soltanto in coloro che hanno peccato. Dice infatti: Vedo che quella lettera, anche se per breve tempo, vi ha rattristati; ora ne godo, non per la vostra tristezza ma perché questa tristezza vi ha indotto al pentimento. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra. La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte. Ecco infatti quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio 58. Perciò gli stoici possono rispondere da parte loro che la tristezza sembra utile per pentirsi di aver peccato e che è irreperibile nell'animo del saggio perché in lui non avviene il peccato, di cui rattristarsi col pentimento, né altro male, da cui sia reso triste mentre lo sopporta e lo subisce. Dicono che Alcibiade, se non prendo abbaglio sul nome, pianse perché, mentre si riteneva felice, Socrate lo contraddisse e gli dimostrò quanto fosse infelice perché era un insipiente 59. A lui dunque l'insipienza fu occasione di un'utile e auspicabile tristezza perché con essa l'uomo si duole di essere ciò che non deve. Ma gli stoici affermano che non può essere triste il saggio, ma solo l'insipiente.

 Le inclinazioni nei fedeli...
9. 1. Già nel libro nono della presente opera 60 ho risposto a questi filosofi, per quanto attiene al problema delle inclinazioni dell'animo, dimostrando che, non tanto riguardo ai concetti quanto alle parole, sono più desiderosi di polemica che di verità. Da noi al contrario secondo la sacra Scrittura e la sana dottrina i cittadini della santa città di Dio, che vivono secondo lui nel pellegrinaggio di questa vita, temono e desiderano, si dolgono e godono, e poiché il loro amore è retto, hanno retti tutti questi sentimenti. Temono la pena eterna, desiderano la vita eterna, si dolgono della loro condizione perché gemono in se stessi aspettando l'adozione e il riscatto del proprio corpo 61, godono nella speranza perché si avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita per la vittoria 62. Egualmente temono di peccare, desiderano di perseverare, si dolgono nei peccati, godono nelle opere buone. Affinché temano di peccare ascoltano: Poiché dilagherà l'ingiustizia, perderà vigore la carità di molti 63. Affinché desiderino di perseverare ascoltano: Chi avrà perseverato sino alla fine, costui sarà salvo 64. Per dolersi dei peccati ascoltano: Se diciamo che non abbiamo il peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi 65. Per godere nelle opere buone ascoltano: Dio ama chi dona con gioia 66. Egualmente secondo come si rapporteranno la loro volubilità e fermezza, temono e desiderano esser tentati, si dolgono e godono nelle tentazioni. Affinché temano di esser tentati ascoltano: Se qualcuno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con dolcezza, ma tu veglia su te stesso per non cadere anche tu in tentazione 67. Affinché desiderino di esser tentati ascoltano un uomo forte della città di Dio che dice: Giudicami, o Signore, e mettimi alla prova, raffina al fuoco i miei sensi e il mio cuore 68. Per dolersi nelle tentazioni si ricordano di Pietro che piange 69. Per godere nelle tentazioni ascoltano Giacomo che dice: Considerate perfetta letizia, o miei fratelli, quando incorrete in ogni sorta di prova 70.

 ... in Paolo...
9. 2. I cristiani sono stimolati da questi sentimenti non solo a favore di se stessi, ma anche di coloro di cui desiderano la liberazione e temono la perdizione, si dolgono se si perdono e godono se ottengono la salvezza. A proposito ricordiamo l'uomo più buono e più forte che si vanta delle proprie debolezze 71, noi soprattutto che veniamo alla Chiesa di Cristo dai popoli pagani, perché egli fu il Dottore dei popoli pagani nella fede e nella verità. Egli si adoperò più di tutti i suoi colleghi nell'apostolato 72 ed educò con molte lettere i popoli di Dio, non soltanto quelli da lui conosciuti nel presente, ma anche quelli che si prevedevano in futuro. I cristiani, dico, mediante gli occhi della fede ammirano con grande gioia quell'uomo, campione del Cristo che lo addestrò e plasmò alla lotta 73, con lui crocifisso 74, in lui glorioso, che competeva secondo le regole in una grande gara nel teatro di questo mondo, in cui divenne oggetto di ammirazione agli angeli e agli uomini 75 e che conseguì la palma della vocazione al cielo negli eventi che la precedono 76. Osservano appunto, con gli occhi della fede, che egli godeva con chi gode, piangeva con chi piange 77, che all'esterno aveva lotte, all'interno timori 78, che bramava morire ed essere con Cristo 79, che desiderava di vedere i Romani per conseguire i frutti di bene con loro come con gli altri popoli 80, che era geloso dei Corinti ma a causa di questa gelosia temeva che i loro propositi fossero sviati dalla purezza la quale è nel Cristo 81, che aveva una grande tristezza e un continuo intimo dolore a causa degli Ebrei 82, perché essi, ignorando la giustizia di Dio e volendo sopravvalutare la propria, non erano sottomessi alla giustizia di Dio 83, che dichiarava non solo il dolore ma anche il proprio pianto per alcuni i quali avevano peccato e non avevano fatto penitenza della loro impurità e fornicazione 84.

 ... in Gesù.
9. 3. Se queste emozioni e sentimenti provenienti dall'amore al bene e dalla santa carità sono da considerare vizi, permetteremmo che siano considerate virtù quelli che sono veramente vizi. Ma se questi impulsi seguono la retta ragione in modo che se ne usi quando conviene, non si può presumere di considerarli anormalità ossia passioni viziose. Per questo anche il Signore, che si è degnato di condurre la vita umana nella condizione di schiavo 85 ma senza alcun peccato, si valse di questi sentimenti quando lo ritenne opportuno. In lui, nel quale erano veri il corpo e l'anima umana, non era falso l'umano sentimento. Dunque non sono falsi gli episodi riferiti nel Vangelo, e cioè che si rattristò con risentimento per la insensibilità del cuore dei Giudei 86, che disse: Godo per voi affinché crediate 87, perfino che prima di risuscitare Lazzaro pianse 88, che desiderò mangiare la pasqua con i suoi discepoli 89, che all'approssimarsi della Passione la sua anima fu triste 90. Egli, quando volle, in virtù di una precisa intenzione accolse nel suo animo di uomo queste emozioni come, quando volle, divenne uomo.

 Analisi dell'apatia stoica.
9. 4. Quindi, anche quando sperimentiamo nell'onestà e secondo Dio questi sentimenti, bisogna ammettere che sono di questa vita, non di quella futura che speriamo e che ad essi spesso contro voglia cediamo. Talora piangiamo, anche senza volerlo, quantunque siamo mossi non da desiderio colpevole ma da lodevole carità. Li sperimentiamo dunque per la debolezza della condizione umana. Non così Gesù, nel quale anche la debolezza derivò dalla sua forza. Ma fintantoché abbiamo indosso la debolezza di questa vita, se non avessimo affatto queste emozioni, allora piuttosto non vivremmo secondo onestà. L'Apostolo rimproverava e biasimava alcuni anche perché, diceva, erano senza sentimento 91. Anche il Salmo li ha ripresi perché di essi dice: Ho atteso chi mi compatisse, e non vi fu 92. Infatti non provare alcun dolore, mentre siamo in questa condizione d'infelicità, certamente, come ha ritenuto e detto anche uno degli scrittori della cultura profana, non avviene senza un gran contributo di brutalità nell'animo e d'insensibilità nel corpo 93. V'è quello stato che in greco si denomina e che si potrebbe tradurre impassibilità. Poiché riguarda l'anima e non il corpo, se si deve intendere nel senso che si vive senza queste emozioni, le quali condizionano la ragione e turbano la coscienza, è onesta e sommamente desiderabile, ma anche essa non è di questa vita. Non di individui qualunque ma veramente devoti e molto avanzati nella santità sono le parole: Se dicessimo di non avere il peccato, inganniamo noi stessi e in noi non è la verità 94. Allora si avrà l' quando nell'uomo non si avrà alcun peccato. In questo mondo si vive abbastanza onestamente se si vive senza delitto; chi invece ritiene di vivere senza peccato, non si comporta in maniera da non avere il peccato ma di non ottenerne il perdono. Inoltre se l' si deve denominare lo stato in cui nessun sentimento può sfiorare l'animo, ciascuno ritiene che tale insensibilità è peggiore di tutti i vizi. Essa può quindi non irragionevolmente esser considerata felicità definitiva se avverrà senza l'assillo del timore e senza alcuna tristezza, ma soltanto chi è alieno dalla verità potrà dire che in quello stato non vi saranno l'amore e il godimento. Se poi è lo stato in cui non atterrisce il timore né affanna il dolore, si deve rifiutare in questa vita, se in questa vita vogliamo vivere onestamente, cioè secondo Dio, ma si deve sperare per la vita felice che ci è promessa nell'eternità.

 Funzione del casto timore.
9. 5. C'è un timore di cui l'apostolo Giovanni dice: Nella carità non c'è il timore, al contrario la perfetta carità elimina il timore, perché il timore suppone il castigo e chi teme non è perfetto nella carità 95. Questo timore non è del genere di quello col quale l'apostolo Paolo temeva che i Corinti fossero ammaliati dall'astuzia del serpente 96. La carità infatti si vale di questo timore, anzi se ne vale soltanto la carità. Il timore che non è nella carità è di quel genere di cui Paolo stesso dice: Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nel timore 97. Ma il timore casto, che perdura al di là dei secoli dei secoli 98, se rimarrà anche nell'eternità, giacché è l'unico senso per intendere che rimane al di là della successione dei tempi, non è timore che distolga da un male eventuale ma timore il quale conferma nel bene che non si può perdere. Infatti nello stato in cui l'amore per il bene conseguito è immutabile, certamente è tranquillo, se si può dire, il timore di evitare il male. Col termine di timore casto è stata indicata la volontà con cui sarà ineluttabile il non voler peccare e si evita il peccato nella serenità della carità e non nella preoccupazione affannosa di non peccare. Ovvero se nella sicurezza sommamente infallibile di godimenti in una perenne felicità non potrà esservi timore di alcun genere, il passo: Il timore del Signore è casto perché rimane per tutti i secoli 99 si confronti con quest'altro: La pazienza dei miseri non andrà perduta in eterno 100. Ma non sarà eterna la pazienza stessa, perché non è necessaria se non dove si devono sopportare sofferenze, ma è eterna la condizione a cui si giunge con la pazienza. Così forse è stato detto che il timore casto rimane al di là della successione dei tempi, perché rimarrà lo stato a cui il timore stesso conduce.

 Le passioni e le due città.
9. 6. Stando così le cose, poiché si deve condurre una vita onesta con cui giungere alla felicità, la vita onesta mantiene onesti tutti questi sentimenti, quella malvagia malvagi. La vita felice, che è anche eterna, avrà amore e godimento non solo onesti ma anche immancabili, ma nessun timore e dolore. Quindi si palesa in qualche modo di quali attributi debbano essere in questo esilio i cittadini della città di Dio che vivono secondo lo spirito, non secondo la carne, cioè secondo Dio e non secondo l'uomo e di quali attributi saranno nella immortalità a cui tendono. D'altra parte la città, ossia società degli empi che non vivono secondo Dio ma secondo l'uomo e che nell'adorazione stessa della falsa divinità e nel disprezzo di quella vera seguono la dottrina di uomini e demoni, viene turbata da questi perversi sentimenti quasi fossero passioni e turbamenti. E se ha cittadini che all'apparenza danno una regola a tali sentimenti e quasi li riducono alla giusta misura, sono talmente boriosi e tronfi nell'empietà che in loro vi sono gonfiori più gravi anche se sofferenze più lievi. E se alcuni con frivolezza tanto più disumana quanto più rara amano in se stessi questo contegno da non lasciarsi né esaltare e stimolare né deprimere e piegare da alcun sentimento, perdono piuttosto l'umana dignità anziché raggiungere la vera tranquillità. Una cosa non è retta perché rigida, né sana perché insensibile.

Passione e libidine dopo la caduta [10-28]

Primitivo stato di felicità.
10. Non irragionevolmente si pone il problema se il primo uomo o meglio i primi uomini, giacché il vincolo coniugale era di due, sperimentavano prima del peccato nel corpo vivificato dall'anima i sentimenti in parola, che non si sperimenteranno nel corpo vivificato dallo spirito quando scomparirà il peccato mediante la totale purificazione. Se li sperimentavano, non si spiega come fossero felici in quel meraviglioso luogo di felicità, cioè nel paradiso terrestre. Nessuno infatti si può ritenere pienamente felice se è afflitto dal timore o dal dolore. Ma era impossibile che i primi uomini temessero o fossero tristi nella sovrabbondanza di beni così grandi. Non si temeva la morte né la cattiva salute del corpo, non v'era qualcosa che la volontà buona non potesse raggiungere né nulla che potesse affliggere l'essere fisico o spirituale dell'uomo perché viveva nella felicità. Era senza inquietudine l'amore verso Dio e quello reciproco della coppia che viveva in un rapporto fedele e sincero e da questo amore derivava una grande gioia perché non veniva a mancare ciò che si amava come valore di cui godere. La indipendenza dal peccato era serena perché con essa nessun male poteva assolutamente irrompere da qualche parte ad affliggerli. Ma forse, si chiederà, desideravano toccare l'albero proibito per cibarsene ma temevano di morire, perciò desiderio e timore già allora in quel luogo agitavano i primi uomini? No, non si può ritenere che ciò avvenisse in quello stato in cui non si aveva affatto il peccato. Non si può dire infatti che non è peccato bramare cose che la legge di Dio proibisce e astenersene per timore della pena e non per amore della giustizia. Non si ritenga, dico, che prima del peccato in senso assoluto già fosse stato commesso un peccato per cui i progenitori avrebbero congiunto all'albero il desiderio di cui il Signore parla nei confronti della donna: Se qualcuno guarda una donna per desiderare di averla, già ha commesso adulterio con lei nel suo cuore 101. Dunque essi erano felici e non erano agitati da inquietudini della coscienza né molestati da disagi del fisico. Allo stesso modo sarebbe stata felice tutta l'umana società se essi non avessero commesso il peccato che avrebbero trasmesso ai posteri né alcuno della loro discendenza avesse compiuto per malvagità il male che si trae appresso per condanna. Così in tale felicità indefettibile fino a che, mediante la benedizione con cui fu detto: Crescete e aumentate di numero 102, fosse al completo il numero degli eletti predestinati, sarebbe stata data quella più alta benedizione che fu data agli angeli immensamente felici. Con essa si sarebbe ottenuta l'infallibile certezza che nessuno avrebbe peccato, nessuno sarebbe morto, e tale sarebbe stata la vita dei santi senza l'esperienza della fatica, del dolore e della morte, quale dopo tutti questi mali sarà restituita con la resurrezione dei morti mediante l'incorruzione dei corpi.

 Peccato, prescienza e salvezza.
11. 1. Dio ha avuto prescienza di tutti gli eventi e quindi non ha potuto ignorare che l'uomo avrebbe peccato. Perciò dobbiamo farci un'idea della città santa sulla base della sua prescienza e ordinamento e non secondo una ipotesi di cui era impossibile avere conoscenza perché non rientrava nell'ordinamento di Dio. È impossibile anche che l'uomo col suo peccato abbia sconvolto il disegno divino come se avesse costretto Dio a mutare ciò che aveva stabilito. Dio con la sua prescienza aveva previsto l'uno e l'altro, cioè: l'uomo, che egli aveva creato buono, sarebbe diventato cattivo e il bene che egli avrebbe ottenuto da lui anche in quella condizione. Si dice talora che Dio muta i propri progetti, per questo con discorso figurato nella sacra Scrittura si dice anche che Dio si è pentito 103. Si dice però nel senso di ciò che l'uomo si riprometteva o di ciò che comportava il meccanismo delle cause naturali, non nel senso della prescienza che l'Onnipotente aveva della sua opera. Dunque Dio, come è detto nella Scrittura, creò l'uomo onesto 104 e quindi di buona volontà. Non sarebbe stato onesto se non avesse avuto la volontà buona. Dunque la volontà buona è opera di Dio, poiché l'uomo è stato da lui creato dotato di essa. La primordiale volontà cattiva, poiché precedette tutte le cattive azioni nell'uomo, fu piuttosto una defezione dall'opera di Dio alle proprie anziché una vera opera. Quindi quelle opere furono cattive perché furono secondo se stesse, non secondo Dio, così che la volontà cattiva o l'uomo stesso, in quanto di volontà cattiva, fosse come l'albero cattivo di quelle opere quasi fossero frutti cattivi 105. Inoltre la volontà cattiva, sebbene non sia secondo la natura ma contro la natura perché ne è la degenerazione, tuttavia è della medesima natura di cui è degenerazione, che può sussistere soltanto in una natura ma solo in quella che Dio ha creato dal nulla. Pertanto non in quella che il Creatore ha generato dal proprio essere, come ha generato il Verbo per la cui mediazione tutte le cose sono state create 106. E sebbene Dio abbia formato l'uomo dalla polvere della terra 107, la terra stessa e ogni essere della terrena materia è assolutamente dal nulla, e quando egli ha creato l'uomo ha congiunto al corpo l'anima creata dal nulla. Quantunque sia consentito al male di essere nel mondo per dimostrare come anche di esso possa usar bene la giustizia immensamente provvida del Creatore, tuttavia il male è superato dal bene al punto che è possibile l'esistenza del bene senza il male, come è lo stesso Dio vero e perfettissimo, come sopra questa fosca atmosfera ogni creatura celeste visibile e invisibile. Non è possibile invece l'esistenza del male senza il bene, perché gli esseri, in cui esiste il male, in quanto sono esseri, formalmente sono buoni. Inoltre il male non si elide eliminando la sostanza che era stata aggiunta ovvero una sua porzione, ma con la salute e l'emendamento dell'essere che era malato e pervertito. Perciò l'arbitrio della volontà è libero quando non è schiavo dei vizi e dei peccati. In tale forma ci è stato dato da Dio ma, se viene perduto per una personale mancanza, può essere restituito soltanto da chi ebbe il potere di darlo. Perciò, dice la Verità: Se vi libererà il Figlio, allora sarete veramente liberi 108. Come se avesse detto: Se il Figlio vi salverà, allora sarete veramente salvi. Egli è liberatore appunto perché salvatore.

 Diversità del peccato nei progenitori.
11. 2. Dunque l'uomo viveva secondo Dio nel paradiso che era insieme del corpo e dello spirito. Non avveniva infatti che era paradiso del corpo per i beni del corpo e non dello spirito per i beni dello spirito, e viceversa che era dello spirito, perché l'uomo godesse mediante le facoltà intellettuali, e non del corpo perché godesse mediante le facoltà sensibili. Era certamente l'uno e l'altro per l'uno e l'altro bene. Poi l'angelo superbo e quindi invidioso, disdegnando mediante la superbia Dio per se stesso e scegliendo quasi con presunzione da tiranno di dominare su esseri a lui sottomessi anziché essere sottomesso, precipitò dal paradiso dello spirito. Nel libro undecimo e dodicesimo di questa opera ho trattato sufficientemente, quanto conveniva, della caduta sua e dei suoi compagni che da angeli di Dio divennero angeli suoi 109. Egli con la furberia del cattivo consigliere propose di insinuarsi nella coscienza dell'uomo che invidiava perché era rimasto in piedi mentre egli era caduto. Quindi nel paradiso del corpo, ove con i due individui umani, maschio e femmina, soggiornavano altri animali terrestri sottomessi e innocui, scelse il serpente, animale viscido che si muove con spire tortuose, perché adatto al suo intento di comunicare con l'uomo. Avendolo sottomesso mediante la presenza angelica e la superiorità della natura, con la perversità propria di un essere spirituale e giovandosene come di uno strumento, con inganno rivolse la parola alla donna, cominciando cioè dalla parte più debole della coppia umana per giungere gradualmente all'intero. Riteneva infatti che l'uomo non credesse facilmente e che non potesse essere tratto in inganno con un proprio errore ma soltanto nel consentire all'altrui errore. Egualmente Aronne non accondiscese al popolo in errore costruendo l'idolo perché convinto ma si adattò perché costretto 110, né si deve credere che Salomone ritenne per errore di dover prestare culto agli idoli ma fu spinto a quelle profanazioni dalle moine delle donne 111. Così si deve ammettere che nel trasgredire il comando di Dio il primo uomo, per lo stretto legame del rapporto, accondiscese alla sua donna, uno solo a una sola, una creatura umana a una creatura umana, il marito alla moglie, e non perché ingannato credette che lei dicesse il vero. Opportunamente ha detto l'Apostolo: Adamo non fu ingannato, ma la donna 112. Essa infatti ritenne vere le parole del serpente, egli invece non volle anche nella partecipazione al peccato disgiungersi dall'unico legame che aveva, però non è meno colpevole se ha peccato con consapevolezza e discernimento. L'Apostolo non ha detto: "Non ha peccato", ma: Non fu ingannato. Esprime il medesimo concetto con le parole: Per colpa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e poco dopo più palesemente: Con una trasgressione simile a quella di Adamo 113. Ha voluto far capire che possono ingannarsi quelli i quali non ritengono peccato le loro azioni, ma egli lo sapeva. Altrimenti non avrebbe senso la frase: Adamo non fu ingannato. Ma non avendo sperimentato la severità divina poté ingannarsi nel ritenere passibile di perdono la colpa commessa. Quindi non è stato ingannato nel senso in cui fu ingannata la donna, ma s'illuse sul modo con cui sarebbe stata giudicata la sua discolpa: Me ne ha dato la donna che mi hai posto vicino, proprio essa, e ne ho mangiato 114. Non c'è altro da aggiungere. Sebbene non siano stati ingannati tutti e due nel prestar fede, nondimeno col peccare tutti e due sono stati abbindolati e accalappiati nei tranelli del diavolo.

Gravità della disobbedienza.
12. Può turbare qualcuno la ragione per cui la natura non viene degenerata dagli altri peccati come è stata degenerata dalla disobbedienza dei progenitori in modo da farli soggiacere alla grande immoralità che osserviamo e sperimentiamo e per essa anche alla morte. Fu inoltre sconvolta e agitata da tanti e sì grandi passioni contrastanti da essere diversa da quel che fu nel paradiso terrestre prima del peccato, sebbene anche lì fosse in un corpo vivificato dall'anima. Se qualcuno, come ho detto, è turbato da questa considerazione, non deve ritenere che fosse futile e insignificante l'azione compiuta perché è avvenuta mediante il cibo, certamente non cattivo e nocivo in sé, ma proibito. Dio non avrebbe creato in quel luogo di grande felicità una cattiva pianta. Però col precetto era ingiunta l'obbedienza, una virtù che è in certo senso madre e istitutrice di tutte le virtù nella creatura ragionevole. Questa infatti è stata posta nell'esistenza appunto con l'intento che le sia giovevole esser sottomessa e dannoso compiere la propria volontà e non quella del Creatore. Il precetto di non mangiare un solo genere di cibo, in un luogo in cui v'era grande abbondanza di altri, era tanto facile da adempiere, così recente per ricordarsene, soprattutto in quella situazione in cui l'ingordigia ancora non si opponeva alla volontà, condizione che seguì come pena della trasgressione. Fu quindi violato con tanto maggiore disonestà quanto più facile n'era l'osservanza.

 La superbia e il volto delle due città.
13. 1. Cominciarono ad esser cattivi in segreto per incorrere in un'aperta disobbedienza. Non sarebbero giunti all'azione cattiva se non precorreva la volontà cattiva. E inizio della volontà cattiva fu senz'altro la superbia. Inizio di ogni peccato appunto è la superbia 115. E la superbia è il desiderio di una superiorità a rovescio. Si ha infatti la superiorità a rovescio quando, abbandonata l'autorità cui si deve aderire, si diviene e si è in qualche modo autorità a se stessi. Avviene quando disordinatamente si diviene fine a se stessi. E si è fine a se stessi quando ci si distacca dal bene immutabile, che deve esser fine più che ciascuno a se stesso. Questa defezione è volontaria. Se la volontà rimanesse stabile nell'amore al superiore bene immutabile, dal quale era illuminata per vedere e infiammata per amare, non se ne distaccherebbe per divenire fine a se stessa e in tal modo accecarsi e gelarsi. Così la donna ha creduto che il serpente dicesse il vero, Adamo ha anteposto il desiderio della moglie al comando di Dio e si è illuso di essere venialmente trasgressore del comando perché anche nella comunanza del peccato non abbandonava la compagna della sua vita. Dunque l'azione malvagia, cioè la trasgressione nel mangiare un cibo vietato, è stata compiuta da individui che già erano malvagi. Quel frutto poteva maturare soltanto da un albero cattivo 116. Contro natura è avvenuto che l'albero fosse cattivo, perché poteva avvenire soltanto per depravazione della volontà, depravazione che è contro la natura. Ma soltanto una natura creata dal nulla poteva viziarsi. Quindi la natura ha l'essere per il fatto che è stata prodotta da Dio, ma defeziona dal suo essere per il fatto che è stata prodotta dal nulla. Ma l'uomo non defezionò al punto da divenire un nulla ma in modo che ripiegato su se stesso fosse meno perfetto di quando era unito all'Essere sommo. Essere in se stesso dopo avere abbandonato Dio, cioè essere fine a se stessi, non è certamente essere un nulla ma accostarsi al nulla. Perciò nella sacra Scrittura i superbi sono designati con un secondo termine, cioè che sono fine a se stessi 117. È bene avere il cuore in alto, però non a se stesso che è proprio della superbia, ma al Signore 118 che è proprio dell'obbedienza la quale può essere soltanto degli umili. V'è dunque in modo meraviglioso un effetto dell'umiltà che è levare il cuore in alto e un effetto della superbia che è deprimerlo al basso. Sembra quasi una contraddizione che la superbia sia in basso e l'umiltà in alto. Ma la devota umiltà rende sottomesso all'Essere che è più in alto, e nessuno è più in alto di Dio, e quindi l'umiltà che rende sottomessi a Dio eleva. La superbia invece, poiché consiste nel pervertimento, per il fatto stesso rifiuta la sottomissione e decade dall'Essere che è più in alto e sarà quindi nel grado più basso, come è stato scritto: Li hai atterrati mentre si innalzavano 119. Non ha detto: "Quando si erano innalzati", nel senso che prima si innalzavano e poi erano gettati giù, ma: mentre s'innalzavano, in quel momento sono stati gettati giù. L'innalzarsi è di per sé essere atterrati. Dunque nella città di Dio e alla città di Dio esule nel tempo si raccomanda soprattutto l'umiltà e viene messa in grande rilievo nel suo Re che è il Cristo 120, ed è dottrina della sacra Scrittura che nel suo rivale, che è il diavolo, domina il vizio contrario che è la superbia 121. Ne deriva la grande diversità per cui l'una e l'altra città, di cui parliamo, si differenziano, una cioè è società degli uomini devoti, l'altra dei ribelli, ognuna con gli angeli che le appartengono, in cui da una parte è superiore l'amore a Dio, dall'altra l'amore di sé.

 Superbia che sovverte i fini.
13. 2. Il diavolo non avrebbe reso prigioniero l'uomo a causa del peccato compiuto in piena luce, appena avvenne ciò che Dio aveva proibito, se egli non avesse cominciato a rendersi fine a se stesso. Per questo motivo lo allettavano le parole: Sarete come dèi 122. Avrebbero potuto esserlo veramente unendosi mediante l'obbedienza al vero e sommo principio e non presentandosi con la superbia come principio a se stessi. Gli dèi creati non sono dèi per una loro verità essenziale ma nella partecipazione al Dio vero 123. Si svuota chi nel desiderio di empirsi, mentre sceglie di essere autosufficiente, si distacca da colui che veramente può colmare il suo desiderio. V'è un male per cui, quando l'uomo si considera fine a se stesso come se anche egli fosse luce, volta le spalle a quella luce che se considerasse come fine a sé, anche egli diverrebbe luce. Questo male, dico, è precorso nel segreto perché seguisse il male che è compiuto palesemente. Sono vere le parole della Scrittura: Prima della caduta il cuore si insuperbisce e prima della gloria si umilia 124. Certamente la caduta che avviene di nascosto precede quella che avviene all'aperto perché si pensa che non sia una caduta. Nessuno infatti reputa la superbia una caduta, eppure già in essa v'è il distacco con cui si abbandona l'Essere più in alto. Ed ognuno ammette che si ha una caduta quando avviene una palese e indubbia trasgressione di un comando. Perciò Dio proibì ciò che una volta commesso non poteva essere giustificato da nessun pretesto di onestà. Oso dire che ai superbi è opportuno cadere in qualche peccato evidente e palese per non considerarsi fine a sé giacché sono caduti considerandosi tali. Con maggior vantaggio Pietro provò dispiacere quando pianse che soddisfazione quando presunse 125. Lo dice anche il Salmo: Riempi i loro volti di vergogna e acclameranno al tuo nome, o Signore 126, cioè affinché tu sia fine per coloro che acclamano il tuo nome perché si ritenevano fine a sé acclamando al proprio.

Orgoglio e pretesto.
14. Più grave e degna di condanna è la superbia con la quale si pretende l'appiglio della scusa anche nei peccati palesi. È il caso dei progenitori. Ella disse: Il serpente mi ha ingannata e ho mangiato ed egli: La donna che mi hai data per compagna, proprio lei mi ha dato il frutto e ho mangiato 127. In nessuno dei due si avvertono la richiesta di perdono, l'invocazione di aiuto. Sebbene essi non neghino, come Caino 128, la colpa commessa, tuttavia la superbia presume di attribuire ad altri l'azione malvagia: la superbia della donna al serpente, quella dell'uomo alla donna. Ma è piuttosto vera l'accusa che la scusa, quando si ha l'evidente trasgressione del comando divino. Né si può dire che non trasgredirono perché la donna agì per istigazione del serpente e l'uomo per suggerimento della donna come se si dovesse preferire a Dio un essere a cui credere o acconsentire.

 Gravità del primo peccato e pena adeguata.
15. 1. Dunque dall'uomo era stato disprezzato il comando di Dio che l'aveva creato, l'aveva ideato a sua immagine, l'aveva preposto agli altri animali, l'aveva stabilito nel paradiso terrestre, gli aveva concesso l'abbondanza di tutti i beni e della salute, non l'aveva gravato di molti, onerosi e difficili comandi, ma l'aveva agevolato con un solo comando molto facile e lieve a favore del dono salutare dell'obbedienza. Con esso ammoniva la creatura, cui conveniva una libera sottomissione, che Egli era il Signore. Alla trasgressione quindi seguì una giusta condanna e tale che l'uomo, il quale con l'osservanza del comando sarebbe divenuto spirituale anche nella carne, divenne al contrario carnale anche nella coscienza. Egli, che con la superbia si arrogava di esser fine a sé, fu abbandonato a sé dalla giustizia di Dio, però non in modo da essere completamente in proprio potere ma in discordia con se stesso e alle dipendenze di colui col quale si era accordato peccando. Così invece della libertà che aveva ambito sostenne una dura e abominevole schiavitù, perché morto di propria volontà nello spirito e destinato a morire contro volontà nel corpo, disertore della vita eterna e condannato anche alla morte eterna se la grazia non lo avesse liberato. Chi ritiene che tale condanna sia eccessiva o ingiusta certamente non sa valutare quanto grande sia stata la malvagità nel peccare in un caso in cui v'era tanta facilità di non peccare. Infatti come non a torto viene esaltata la sublime obbedienza di Abramo perché, con l'uccisione del figlio, gli fu imposta una prova molto difficile 129, così nel paradiso molto più grave fu la disobbedienza perché l'osservanza del comando non presentava difficoltà. E come l'obbedienza del secondo uomo è tanto più lodevole perché divenne obbediente fino alla morte 130, così la disobbedienza del primo uomo è tanto più esecrabile perché divenne disobbediente fino alla morte. Poiché era stata prestabilita una grande pena per la disobbedienza e imposta dal Creatore una facile osservanza, non si spiega abbastanza quanto grande male sia non obbedire in un caso di facile adempienza, data l'intimazione di un'autorità così alta e la minaccia di un tormento così spaventoso.

 Disobbedienza e soggezione alla passione.
15. 2. Inoltre, per dirla in breve, come pena di quella disobbedienza fu data in cambio soltanto la disobbedienza. Non v'è altra infelicità per l'uomo che la propria disobbedienza contro se stesso in modo che voglia ciò che non può perché non volle ciò che poteva 131. Nel paradiso terrestre infatti, sebbene prima del peccato non gli fosse tutto possibile, non voleva ciò che gli era impossibile e quindi gli era possibile tutto ciò che voleva. Attualmente invece, come rileviamo nella sua discendenza e come conferma la sacra Scrittura, l'uomo è divenuto simile a un'ombra 132. Non si possono numerare le molte cose impossibili che egli vuole mentre egli non obbedisce a se stesso, cioè alla sua coscienza, e perciò anche la subalterna carne, alla sua volontà. Contro la sua volontà spesso la coscienza si agita, la carne prova dolore, invecchia e muore, e tutto ciò che soffriamo non lo soffriremmo contro volontà se il nostro essere fosse completamente in ogni facoltà sottomesso alla volontà. Ma la carne ha sempre qualche sofferenza che non le permette di essere sottomessa. Non interessa la provenienza. Il fatto è che per la giustizia di Dio Signore, al quale non abbiamo voluto essere sottomessi nell'obbedienza, la nostra carne, che era sottomessa, ribellandosi ci procura sofferenza, sebbene noi, ribellandoci a Dio, abbiamo potuto procurare sofferenza a noi, non a Lui. Egli infatti non ha bisogno della nostra prestazione, come noi abbiamo bisogno di quella del corpo, quindi è pena per noi il contraccambio che riceviamo e non per Lui l'azione che abbiamo compiuto. Inoltre le sofferenze che si considerano della carne sono dell'anima, sebbene nella carne e della carne. La carne da sé senza l'anima non soffre e non desidera. Quando si dice che la carne desidera o soffre, s'intende l'uomo, come abbiamo dimostrato 133, oppure una facoltà dell'anima su cui influisce lo stimolo della carne, o sgradevole per produrre dolore o dilettevole per produrre piacere. Ma la sofferenza carnale è per l'anima soltanto un contrasto proveniente dalla carne e una forma di urto al suo stimolo, come la sofferenza spirituale, che si denomina tristezza, è urto con quei fatti che sono avvenuti sebbene noi non volessimo. Spesso però il timore precede la tristezza perché anche esso è nell'anima e non nella carne. Invece non v'è un qualsiasi timore che, presente nella carne prima della sofferenza, preceda la sofferenza della carne. Una certa appetenza al contrario precede il piacere ed è avvertita nella carne come sua esigenza. È il caso della fame e della sete e di quella che in riferimento agli organi genitali si denomina libidine, sebbene il termine sia in genere di ogni desiderio sfrenato. Difatti gli autori classici hanno stabilito che l'ira non sia altro che la libidine di vendicarsi 134, sebbene l'uomo, anche se non si ha alcun sentimento di vendetta, si arrabbia con oggetti inanimati e spazientito spezza lo stilo che non scrive o la penna. Però anche questa, sebbene più irragionevole, è una determinata libidine di vendicarsi e da essa deriva in base a non saprei quale parvenza di contraccambio, per così dire, che chi fa il male sopporta il male. V'è dunque la libidine di vendicarsi che si denomina ira, v'è la libidine di possedere ricchezze che è l'avarizia, v'è la libidine di spuntarla a tutti i costi che è la caparbietà, c'è la libidine di vantarsi che si denomina ostentazione 135. Vi sono molte e svariate libidini, di cui alcune hanno un proprio nome, altre non l'hanno. Infatti non si può stabilire con esattezza come si denomina la libidine del dominare. Eppure anche le guerre civili attestano che influisce moltissimo sulle coscienze dei tiranni.

La libidine e i suoi impulsi.
16. Sebbene dunque la libidine sia relativa a molti impulsi, quando si usa il termine, se non si aggiunge il tipo d'impulso, di solito si offre alla mente quello con cui sono eccitate le parti che esigono pudore. Essa non solo si aggiudica tutto il corpo e non solo nella zona periferica ma anche nel profondo, ed eccita tutto l'uomo mediante la passione dell'animo in stretta commischianza con l'impulso della carne in modo che ne deriva quel piacere che è il più stimolante dei piaceri sensibili. Così nell'attimo stesso in cui si giunge all'acme vengono quasi travolte l'attenzione e la presenza della coscienza a se stessa. Supponiamo un amico della saggezza e delle gioie sante che tira avanti la vita da marito ma, come ha notato l'Apostolo, sa conservare il proprio corpo nella onestà e nel decoro, non nella dissolutezza del piacere, come i pagani che non conoscono Dio 136. Non preferirebbe egli, se fosse possibile, procreare figli senza la libidine? Avverrebbe che anche in questo obbligo di generare la prole gli organi creati allo scopo si conformerebbero alla coscienza, come tutti gli altri assegnati alle rispettive funzioni, perché mossi dal consenso della volontà e non dall'ardore della libidine. Ma neanche coloro che si dilettano di questo piacere sono eccitati, quando vogliono, agli accoppiamenti coniugali o agli atti disonesti della lussuria. Talora l'impulso reca disagio perché non desiderato, talora delude chi spasima e mentre la sensualità ribolle nella coscienza rimane fredda nel corpo. In tal modo con strano risultato la libidine non solo non è in funzione del desiderio di aver figli ma neanche della libidine di soddisfare i sensi. Inoltre, mentre indivisa il più delle volte resiste alla coscienza che la inibisce, talora essa stessa si scinde in sé e dopo avere eccitato la coscienza, essa stessa si inibisce dall'eccitare il corpo.

 Libidine e nudità.
17. Giustamente si prova pudore soprattutto di questa libidine e giustamente si considerano oggetto di pudore quegli organi che essa stimola o inibisce con una propria prerogativa, per così dire, e non del tutto in base a una nostra autodeterminazione. Non furono così prima del peccato dell'uomo. Si dice infatti nella Scrittura: Erano nudi e non si vergognavano 137 e non perché la propria nudità fosse loro sconosciuta ma non era ancora invereconda. Non ancora la libidine stimolava quegli organi al di là di un'autodeterminazione, non ancora la carne con la sua disobbedienza forniva una testimonianza a rimproverare la disobbedienza dell'uomo. Certamente non furono creati ciechi, come suppone la massa ignorante. Infatti l'uomo vedeva gli animali ai quali impose il nome 138, e della donna si legge: Vide che il frutto dell'albero era buono come cibo e gradevole alla vista 139. Dunque i loro occhi erano dischiusi, ma non erano aperti a riguardo, cioè non attenti a conoscere che cosa si accordava loro con l'abito della grazia finché non seppero che i loro organi reagivano alla volontà. Venuto a mancare lo stato di grazia, affinché la disobbedienza fosse colpita da una pena corrispondente si realizzò negli stimoli del corpo una vergognosa novità per cui la nudità divenne sconveniente. Il fatto li fece attenti e li rese vergognosi. Ecco perché, dopo che violarono il comando di Dio con una palese trasgressione, si dice di loro nella Scrittura: Si aprirono gli occhi di entrambi, si accorsero di esser nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero delle fasce da campo 140. Dice: Si aprirono gli occhi di entrambi, non per vedere perché vedevano anche prima, ma per distinguere fra il bene che avevano perduto e il male in cui erano caduti. Perciò anche l'albero, posto per operare tale discernimento se veniva toccato per mangiarne contro il comando, da questa evenienza ricevette l'appellativo di albero della scienza del bene e del male. Se si prova il fastidio della malattia diviene più manifesto il godimento della salute. Si accorsero dunque di essere nudi, denudati di quella grazia per cui avveniva che la nudità del corpo non li facesse vergognare perché non c'era la soggezione al peccato che resistesse alla loro coscienza. Conobbero dunque uno stato che con un destino migliore avrebbero ignorato se, prestando fede e obbedienza a Dio, non avessero compiuto un'azione che li costringeva a sperimentare quale danno arrecano la mancanza di fede e la disobbedienza. Quindi vergognosi a causa della disobbedienza della propria carne, castigo quasi testimone della loro disobbedienza, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero delle fasce da campo, cioè dei grembiuli con cinto per i genitali. Alcuni traduttori infatti hanno interpretato grembiuli con cinto. Fasce da campo è certamente una parola latina e si usava perché i giovani, che si addestravano nudi nei campi di Marte, coprivano le parti che esigono pudore. L'opinione pubblica chiama appunto fasciati da campo quelli che portano grembiuli con cinto. Quindi la verecondia copriva per vergogna l'organo che la libidine per disobbedienza stimolava contro la volontà punita per la colpa della disobbedienza. Da ciò tutti i popoli, giacché provengono da quel ceppo, hanno l'istinto ingenito di coprire le parti che esigono pudore al punto che alcuni stranieri neanche ai bagni le denudano ma le lavano assieme agli indumenti che le coprono. Perfino nei brulli deserti dell'India, sebbene alcuni attendono a filosofare nudi e sono perciò denominati i sofisti del nudo, per i genitali usano tuttavia indumenti di cui sono privi per il resto del corpo.

Vergogna nel lecito e nell'illecito piacere.
18. C'è dunque un'azione che si compie con l'impulso di tale libidine. Ebbene, non solo negli atti di violenza carnale, per i quali si cercano luoghi nascosti onde sfuggire alle sentenze dell'umana giustizia, ma anche nella relazione con le meretrici, indecenza che la città terrena permette, sebbene si commetta un atto che nessuna legge civile vieta, eppure la libidine, anche se impunita perché liberalizzata, evita di mostrarsi in pubblico. Le stesse case di prostituzione poi per naturale riserbo hanno assicurato la segretezza, e l'impudicizia ha potuto eludere i limiti della interdizione legale più facilmente di quanto la mancanza di pudore può non tener conto della esigenza di celare la prostituzione. Però anche i disonesti la considerano disonestà e sebbene la pratichino non osano mostrarla in pubblico. Ma come? L'accoppiamento coniugale che, secondo le regole dei contratti matrimoniali, si compie per procreare i figli, anche esso, sebbene lecito e onesto, richiede un letto non visto da testimoni oculari. E il marito, prima che cominci ad accarezzare la moglie, fa uscire i servi, gli stessi pronubi e tutti coloro che una qualsiasi occorrenza aveva autorizzato ad entrare. Il più grande scrittore della lingua latina 141 dice che tutte le azioni oneste vogliono esser poste in mostra 142, cioè tendono ad esser conosciute, eppure questa onesta azione tende tanto a esser conosciuta che, se è veduta, provoca rossore. Tutti sanno quale rapporto si abbia tra gli sposi per procreare figli perché, per compiere quell'atto, si prende moglie con tanta pubblicità. Tuttavia quando si compie l'atto per generare figli, neanche ai figli, se vi sono già i nati da quella coppia, è permesso di esser presenti. Questa buona azione dunque a tal punto richiede il lume dell'intelligenza da schivare quello della vista. Avviene perché si compie un atto che è conveniente secondo natura ma in modo che è anche concomitante il vergognarsene per castigo.

Ira, concupiscenza e ragione.
19. Quindi anche i filosofi che si accostarono di più alla verità hanno sostenuto che l'ira e la concupiscenza sono inclinazioni viziose perché si muovono con disordinata agitazione anche a quegli atti che la saggezza proibisce e perciò hanno bisogno di coscienza e ragione che le freni. Presentano questa terza attività dell'anima come situata in un grado più alto per moderare le altre affinché, dietro il suo imperativo e con la loro sottomissione, nell'uomo si possa mantenere l'onestà in ogni attività. Essi ammettono che anche nell'uomo saggio e sobrio queste attività sono traviate, sicché la coscienza dominando e contenendo le freni e le distolga da quegli oggetti a cui sono portate per disonestà e le riconduca a quegli oggetti che sono consentiti dalla norma della saggezza. Ad esempio, richiami l'ira all'esercizio della giusta repressione, la concupiscenza al dovere di prolificare. Queste inclinazioni, dico, nel paradiso terrestre prima del peccato non erano traviate. Non si muovevano a qualche atto contro la retta volontà sicché fosse necessario guidarle, per così dire, con le briglie della ragione. Perciò il fatto che ora sono disordinate e regolate da coloro che vogliono vivere sobriamente, onestamente e religiosamente reprimendole e contrastandole, alcune più facilmente, altre più difficilmente, non è normalità proveniente dalla natura ma debolezza dalla colpa. Inoltre il pudore non occulta i moti dell'ira e degli altri impulsi che si compiono con parole e gesti, come occulta quelli della concupiscenza che si compiono con gli organi genitali. Ciò è dovuto esclusivamente al motivo che nei primi non sono gli impulsi a eccitare le parti del corpo, ma la volontà quando si accorda con gli impulsi perché essa domina nel loro porsi in atto. Se un individuo parla adirato o anche picchia qualcuno, non potrebbe farlo se la lingua e la mano non fossero in qualche modo mosse dalla volontà e queste membra, anche senza l'impulso dell'ira, sono mosse dalla volontà. Al contrario la concupiscenza ha in certo senso talmente asservito a un suo diritto gli organi genitali che non possono eccitarsi se essa manca e se non si manifesta spontaneamente o perché stimolata. Per questo esige il pudore, per questo, suscitando la vergogna, schiva lo sguardo dei presenti. Un individuo sopporta più volentieri una moltitudine di persone che osservano se egli si adira ingiustamente con un altro, che un colpo d'occhio di uno solo anche quando legittimamente si unisce alla moglie.

I Cinici e la concupiscenza.
20. I filosofi denominati dai cani, cioè i cinici, non la videro così perché proferirono contro l'umano pudore non altro che un parere da cani, cioè sudicio e sfacciato. Dicono cioè che poiché è onesto l'atto che si compie con la moglie, non ci si deve vergognare di farlo in pubblico e non schivare l'accoppiamento coniugale in qualsiasi strada o piazza. Tuttavia il naturale pudore ha superato il pregiudizio di questo errore. Riferiscono che qualche volta l'ha fatto il vanaglorioso Diogene perché s'illudeva di rendere più famosa la sua scuola se nel ricordo degli uomini fosse inchiodata questa sorprendente sua spudoratezza. In seguito tuttavia dai cinici si smise questo uso e fu più efficiente il pudore di far vergognare gli uomini dei propri simili che l'imbroglio di pretendere che gli uomini si comportino come i cani. Quindi io suppongo che colui o coloro, ai quali si attribuiscono gli episodi, abbiano piuttosto simulato agli occhi degli uomini, i quali non sapevano che cosa avveniva sotto le coperte, i movimenti dell'atto coniugale anziché riuscire a provare il diletto, dato l'imbarazzo per la presenza di altri. In questo caso i filosofi non si vergognavano di apparire come vogliosi dell'atto carnale, mentre la concupiscenza si vergognerebbe di esternarsi. Sappiamo che anche adesso ci sono i filosofi cinici. Sono quelli che non solo indossano il pallio ma portano anche la clava. Però nessuno di loro osa farlo perché, se alcuni lo osassero, non dico che sarebbero seppelliti dalle pietre scagliate da lapidatori ma certamente sarebbero coperti dagli sputi di coloro che scaracchiano loro addosso. Dunque la natura prova vergogna di questa forma di concupiscenza e giustamente se ne vergogna. Nella sua disobbedienza che ha asservito gli organi genitali soltanto ai suoi impulsi e li ha sottratti al potere della volontà si rivela abbastanza che cosa sia stato corrisposto alla prima disobbedienza dell'uomo. Era conveniente che la pena apparisse soprattutto in quell'organo con cui si propaga la specie umana perché da quel primo grande peccato fu mutata in peggio. Nessuno può svincolarsi dalla sua stretta salvo che con la grazia di Dio si espia personalmente la colpa che, siccome tutti erano in uno solo, fu commessa a danno di tutti e punita dalla giustizia di Dio.

Libidine e prolificazione.
21. Non dobbiamo credere dunque che quegli sposi, collocati nel paradiso terrestre, avrebbero adempiuto l'ordine che Dio benedicendoli rivolse loro: Prolificate, aumentate di numero e riempite la terra 143 mediante la libidine perché, vergognandosi di essa, si coprirono i genitali. Questa forma di libidine è sorta dopo il peccato. La specie umana innocente, perduto dopo il peccato il controllo a cui obbediva tutto il corpo, la sperimentò, la controllò, se ne vergognò, la coprì. La benedizione, impartita alla coppia, che gli sposi prolificassero, aumentassero di numero e riempissero la terra, sebbene sia rimasta anche dopo che trasgredirono, fu data prima che trasgredissero affinché fosse noto che la procreazione dei figli spetta all'onore del connubio, non al castigo del peccato. Ma ora uomini, certamente ignari della felicità del paradiso terrestre, ritengono che non fosse possibile generare se non mediante l'impulso che hanno sperimentato, cioè la libidine, sebbene si può osservare che ne arrossisce perfino l'onestà del matrimonio. Alcuni lo affermano perché non ammettono affatto e per mancanza di fede scherniscono la sacra Scrittura, il passo cioè, in cui si dice che dopo il peccato i progenitori arrossirono della nudità e che furono coperti i genitali. Altri invece, sebbene l'accettino e la onorino, interpretano la frase: Prolificate e aumentate di numero, non secondo la fecondità fisica, perché si usa tale espressione anche in senso allegorico nel passo: Mi hai fatto aumentare in virtù nella mia anima 144. Anche nella frase della Genesi che segue: E riempite la terra e dominatela 145, per terra intendono la carne che l'anima riempie con la sua presenza e su cui domina quando aumenta in virtù. Soggiungono anche che senza la libidine, la quale dopo il peccato si manifestò, se ne ebbe coscienza e vergogna e fu coperta, neanche allora sarebbero nati i bimbi, come non lo possono attualmente, e che non sarebbero nati nel paradiso terrestre ma fuori, come difatti avvenne. Quindi, dopo che ne furono scacciati, si congiunsero per aver figli e li ebbero.

La prima coppia e l'incremento della specie.
22. Noi non dubitiamo affatto che il prolificare, l'aumentare di numero e il riempire la terra secondo la benedizione di Dio è un dono del matrimonio che Dio istituì dal principio, prima del peccato dell'uomo, creando il maschio e la femmina. La diversità del sesso si manifesta anche nel fisico. All'atto creativo di Dio seguì la sua benedizione. Infatti la Scrittura dopo le parole: Li creò maschio e femmina, soggiunge immediatamente: E Dio li benedisse dicendo: Prolificate e aumentate di numero e riempite la terra e dominatela 146, e il resto. Queste parole si possono interpretare non impropriamente in senso allegorico. Tuttavia i sessi maschile e femminile non si possono intendere come qualcosa di analogicamente affine in un solo individuo, perché in lui altro è la coscienza che regola e altro il fisico che è regolato. Ma come molto chiaramente appare nei corpi di sesso diverso, è una grande assurdità negare che il maschio e la femmina sono stati creati affinché, generando i figli, incrementino la specie, aumentino di numero e riempiano la terra. Il Signore non fu interrogato sullo spirito che domina e sul fisico che obbedisce, o sulla coscienza che regola e sulla passione che è regolata, o sulla energia contemplativa che si eleva e sull'attiva che è sottoposta, o sul puro pensiero e sulla facoltà sensitiva, ma esplicitamente sul vincolo matrimoniale, con cui l'uno e l'altro sesso sono in intimo rapporto, e precisamente se è lecito per un qualche motivo ripudiare la moglie. Poiché a causa della insensibilità del cuore degli Israeliti Mosè permise che si consegnasse la denuncia di divorzio, egli rispose con le parole: Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e saranno due in una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto l'uomo non lo separi 147. È stabilito dunque che maschio e femmina sono stati ordinati in principio come al presente, e cioè che si vedono e si riconoscono due individui di sesso diverso e che si considerano uno solo o a causa dell'accoppiamento o dell'origine della femmina che è stata tratta dal fianco del marito. Anche l'Apostolo, in riferimento a questo primo modello che per divina istituzione ha preceduto gli altri, ammonisce tutti singolarmente affinché i mariti amino le mogli 148.

 Procreazione anche senza il peccato.
23. 1. Chi afferma che i progenitori non si sarebbero accoppiati e non avrebbero generato se non avessero peccato, in definitiva afferma che fu indispensabile il peccato dell'uomo per ottenere un gran numero di eletti. Se non peccando rimanevano soli - giacché, come alcuni sostengono, se non peccavano, non potevano generare -, il peccato fu necessario affinché di onesti non rimanessero soltanto due ma un gran numero. È assurdo pensarlo. Si deve piuttosto ritenere che il numero degli eletti richiesto per costituire la città santa, anche se nessuno peccava, sarebbe stato eguale a quello che ora, per la grazia di Dio, si seleziona dalla moltitudine dei peccatori fino a che le creature esistenti nel tempo generano e sono generate 149.

 Libidine e coscienza.
23. 2. Quindi quell'accoppiamento, degno della felicità del paradiso terrestre, se non vi fosse stato il peccato, avrebbe generato figli da amare senza la libidine di cui vergognarsi. Ma attualmente non v'è un caso somigliante con cui far comprendere quel che poteva verificarsi allora. Tuttavia non deve sembrare incredibile che quel solo organo potesse senza la libidine esser sottomesso alla volontà giacché attualmente molti le sono sottomessi. Ora, quando vogliamo, muoviamo senza resistenza mani e piedi ai gesti che con tali arti si devono compiere e con la scioltezza che costatiamo in noi e negli altri, soprattutto negli artigiani di qualsiasi lavoro manuale, per il quale un più disinvolto allenamento si è aggiunto ad addestrare un'indole più debole e lenta. Dobbiamo dunque ammettere che quegli organi avrebbero potuto prestarsi, come gli altri, con sottomissione agli uomini ad un cenno della volontà per la procreazione dei figli, anche se fosse mancata la libidine che è stata corrisposta al peccato della disobbedienza. Cicerone nei libri sullo Stato, trattando dei poteri e notando una corrispondenza dell'argomento con la natura dell'uomo, ha affermato che, in considerazione della facilità nell'obbedire, si comanda alle membra del corpo come a figli, invece le funzioni pervertite della coscienza vanno represse, come schiave, con un comando più rigido 150. E sì che per natura la coscienza è considerata superiore al corpo, eppure comanda al corpo più facilmente che a se stessa. Tuttavia ci si deve tanto più vergognare di questa forma di libidine, della quale stiamo parlando, perché la coscienza incagliata in essa non riesce più ad imporre a se stessa di non provare piacere e tanto meno al corpo in modo che la volontà e non la libidine stimoli gli organi che suscitano pudore. Se così fosse, neanche lo susciterebbero. Attualmente la coscienza si vergogna che le opponga resistenza il corpo, il quale per inferiore costituzione le è subordinato. Nelle altre inclinazioni, quando la coscienza resiste a se stessa, prova minor vergogna perché quando è vinta da se stessa, è essa che si vince. Avviene però con danno del dovere e dell'onestà perché è vinta da impulsi che devono essere subordinati alla ragione e quindi da impulsi che sono anche suoi, perciò, come è stato detto, è vinta da se stessa. Quando la coscienza si vince ordinatamente perché i suoi movimenti irrazionali sono sottomessi al giudizio della ragione, se anche essa è sottomessa a Dio, è di una encomiabile virtù. Si ha tuttavia minor motivo di pudore quando la coscienza non si obbedisce perché impedita dai suoi impulsi disordinati che quando il corpo, il quale è altro da essa e le è sottoposto e la cui costituzione non vive senza di essa, non cede al suo volere e al suo comando.

 Discorso sulla libidine e oscenità.
23. 3. Alcune membra sono moderate dal dominio della volontà perché senza di esse quelle che sentono lo stimolo indipendentemente dalla volontà non possono compiere il gesto che le placa. Invece la pudicizia si conserva non col perdere ma con l'inibire il diletto peccaminoso. Se la colpa della disobbedienza non fosse stata punita col castigo della disobbedienza, certamente nel paradiso terrestre i rapporti matrimoniali non avrebbero subito, ovviamente a favore della volontà e disfavore della libidine, questa resistenza, questo contrasto, questo conflitto di volontà e libidine, ma con gli altri organi sarebbero stati sottomessi alla volontà. Così l'organo genitale avrebbe sparso il seme sul campo creato a tal fine come attualmente la mano lo sparge sul terreno 151. Ora il pudore ci contrasta se intendiamo trattare più diffusamente l'argomento e ci spinge in nome del suddetto decoro a chiedere scusa alle caste orecchie. Allora non v'era ragione per farlo. Un libero linguaggio poteva esprimersi, senza il timore di oscenità, in tutti i significati che sono oggetto di pensiero in relazione agli organi genitali. Non vi sarebbero state parole da considerare oscene ma qualsiasi cosa si dicesse sull'argomento sarebbe stata decorosa come ciò che si dice quando parliamo delle altre parti del corpo. Chi dunque con intenzioni licenziose intraprende la lettura di questo libro cerchi di evitare una cattiva azione e non la natura delle cose, accusi gli atteggiamenti della propria immoralità e non le parole suggerite da una esigenza. In esse un lettore o uditore morigerato e pio troverà un motivo per scusarmi perché ribatto la miscredenza che discute non della fede in fatti non avvenuti ma della conoscenza di fatti avvenuti. Legge senza adontarsi queste mie parole chi non freme contro l'Apostolo che rimprovera le orribili turpitudini delle donne perché esse hanno cambiato il rapporto naturale in un rapporto che è contro natura 152. Questo si dice soprattutto perché io non alludo, come egli fa, a una biasimevole indecenza attuale ma evito, come lui, parole oscene nell'esporre, quanto è possibile, gli atti relativi all'umana generazione.

 Libidine e volontà.
24. 1. Dunque con gli organi genitali, mossi dalla volontà e non eccitati dalla libidine, l'uomo avrebbe fornito il seme per la prole, la donna l'avrebbe ricevuto tutte le volte e nella misura che occorreva. Infatti non muoviamo ad arbitrio soltanto le membra che si articolano con ossa poste in connessione, come le mani, i piedi, le dita, ma anche quelle che si snodano con muscoli flessibili. Quando vogliamo, le muoviamo scuotendole, le allunghiamo stendendole, le pieghiamo voltandole, le induriamo stringendo, come sono quelle che nella bocca e nel viso la volontà muove nei limiti del possibile. Inoltre pure i polmoni, i più flessibili di tutti gli organi interni, esclusi i midolli, e per questo protetti dalla cavità del torace per ispirare ed espirare, per emettere e modulare la voce, come i mantici dei fabbri e degli organi, secondano il volere di chi soffia, respira, parla, grida, canta. Tralascio che è connaturato ad alcuni animali che, se in un punto qualsiasi del pelame di cui tutto il corpo è coperto avvertono qualcosa che si deve scacciare, soltanto in quel punto scuotono con un fremito della pelle non solo le mosche che vi si posano ma anche i dardi che vi si conficcano. Il Creatore ha avuto il potere di accordare agli animali che volle un atto che all'uomo è impossibile. Dunque anche l'uomo ha potuto esigere dagli organi inferiori l'obbedienza che ha perduto con la propria disobbedienza. A Dio non è stato difficile foggiarlo in maniera che nel suo fisico soltanto dalla volontà avesse l'impulso anche quella parte che attualmente lo ha soltanto dalla libidine.

 Eccezionale dominio sul corpo.
24. 2. Sentiamo parlare della costituzione di alcuni individui molto differente dalle altre e che desta stupore anche per la eccezionalità perché essi riescono a ottenere dal corpo gli effetti che vogliono e che gli altri non riescono assolutamente a ottenere e a stento li credono quando ne sentono parlare. Vi sono alcuni che muovono le orecchie, una o tutte e due. Altri, malgrado la testa immobile, fanno scivolare sulla fronte tutta la capigliatura per tutta l'estensione della massa dei capelli e la respingono indietro a piacimento. Altri, dopo aver palpato un po' il diaframma, traggono fuori come da un sacchetto la porzione intatta che preferiscono dei cibi incredibilmente numerosi e vari che hanno trangugiato. Altri ancora imitano e modulano la voce degli uccelli, degli animali e di parecchi altri uomini, in modo tale che se non si scorgono, non è possibile distinguerli. Alcuni dall'intestino emettono senza cattivo odore a piacimento numerosi suoni al punto che sembrano cantare anche con quell'apparato. Io stesso ho conosciuto personalmente un tale che era solito sudare quando voleva. È noto che alcuni piangono quando vogliono e versano lacrime a profusione. Molto più incredibile è l'esperienza che parecchi colleghi nel sacerdozio hanno fatto recentemente. V'è stato nella diocesi di Calama un prete di nome Restituto. Era frequentemente pregato di fare una certa esperienza da coloro che desideravano conoscere di presenza un avvenimento straordinario. Quando acconsentiva, all'udire le parole d'un uomo che sembrava lamentarsi, si estraniava dai sensi e giaceva molto simile a un morto, al punto da non sentire minimamente se alcuni lo pizzicavano o pungevano. Talora veniva scottato col fuoco accostato alla pelle senza alcuna sensazione di dolore se non in seguito a causa della bruciatura. Dal fatto che, come se fosse morto, non respirava più, si poteva dedurre che il corpo era immobile non perché reagiva ma perché non aveva sensazioni. Confessava poi che udiva come di lontano le voci degli uomini se parlavano distintamente. Quindi anche ora in alcuni individui, sebbene conducano questa vita travagliata nella carne soggetta a morire, il corpo in maniera eccezionale è sottomesso in parecchi movimenti e disposizioni fuori del normale corso della natura. Non v'è ragione dunque per non credere che, prima del peccato della disobbedienza e della condanna a dover morire, le membra dell'uomo fossero sottomesse senza libidine alla volontà dell'uomo per la procreazione dei figli. L'uomo fu lasciato a se stesso perché ha abbandonato Dio per essere fine a sé e non obbedendo a Dio non ha potuto obbedire neanche a se stesso. Ne deriva la più palese infelicità, perché con essa l'uomo non vive come vuole. Se vivesse come vuole, si riterrebbe felice, ma non lo sarebbe neanche così se vivesse disonestamente.

Felicità tra volere e potere.
25. Se riflettiamo più attentamente, soltanto l'uomo felice vive come vuole ed è felice soltanto l'uomo onesto. Ma anche l'uomo onesto non vive come vuole se non giunge a quello stato in cui non possa più morire, errare, soffrire e sappia con certezza che sarà così per sempre. Lo ambisce la natura e non sarà pienamente e completamente felice se non avrà raggiunto ciò che ambisce. Ora però l'uomo non può vivere come vuole, poiché perfino il vivere non è in suo potere. Vuol vivere ma è condizionato a morire. Dunque l'uomo non vive come vuole perché non vive quanto vuole. E se vorrà morire, non può vivere come vuole perché vuol morire. E se volesse morire, non perché non vuol vivere ma per vivere nella felicità dopo la morte, non ancora vive come vuole ma soltanto quando con la morte giungerà alla felicità che vuole. Ma supponiamo che un tale vive come vuole perché si è imposto e si è ingiunto di non volere ciò che non può e di volere ciò che può secondo la massima di Terenzio: Poiché non è possibile che avvenga ciò che vuoi, devi volere ciò che puoi 153. Costui non è felice per il fatto che sopporta di essere infelice. La felicità non si possiede se non se n'è innamorati. Inoltre se si ama e si possiede, è indispensabile che sia amata in modo più eminente di tutti gli altri beni, perché in riferimento ad essa si deve amare ogni altro bene che si ama. Ma se è amata quanto merita - perché non è felice colui dal quale la felicità non è amata quanto merita -, è impossibile che non la desideri eterna chi la ama veramente. Sarà felicità se sarà eterna.

Felicità senza libidine nel paradiso terrestre.
26. Viveva dunque l'uomo nel paradiso terrestre come voleva finché volle ciò che Dio aveva comandato. Viveva beandosi in Dio perché da lui buono anche egli era buono. Viveva senza indigenza perché aveva il potere di vivere sempre in quello stato. C'era il cibo per saziare la fame, la bevanda per smorzare la sete, l'albero della vita perché la vecchiaia non lo stroncasse. Nessun fattore di soggezione alla morte nel corpo o dal corpo recava inquietudine alle sue facoltà. Non si temevano malattie nell'organismo, insidie dall'ambiente. V'erano piena salute nel fisico, sicura serenità nella coscienza. Come nel paradiso terrestre non v'erano caldo e freddo così in chi lo abitava non avveniva lo scontro della volontà buona con l'ambizione o il timore. Non v'erano assolutamente né tristezza né frivola allegria. Una gioia schietta era resa stabile da Dio perché per lui ardeva l'amore che proviene da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera 154. Vigevano tra gli sposi un reciproco rapporto di fedeltà proveniente da un amore onesto, la concorde applicazione della mente e del corpo e l'osservanza senza difficoltà del comandamento. La svogliatezza non infiacchiva l'uomo nell'inazione, il sonno non lo molestava contro voglia. Non dobbiamo quindi ritenere che in condizioni così favorevoli e da individui così felici non si potesse procreare la prole senza la morbosità della libidine. Riteniamo al contrario che gli organi genitali, come le altre parti, ricevevano l'impulso ad arbitrio della volontà e che il marito poteva unirsi alla moglie senza lo stimolo sensuale della vampa lussuriosa nella serenità dell'anima e senza la perdita dell'integrità del corpo 155. È una esperienza che oggi non si può verificare. Però si deve ritenere che se non un turbolento ardore agitava quegli organi ma li usava, come converrebbe, un volontario dominio, anche così il seme virile poté esser calato nell'utero della moglie, salva l'integrità dell'organo femminile. Anche oggi, salva l'integrità dell'utero di una ragazza, viene emesso il flusso mestruale di sangue. Identico è il percorso con cui il seme viene immesso, il flusso emesso. Come infatti per il parto non il gemito di dolore ma il pieno sviluppo del feto avrebbe allargato l'utero della donna, così per la fecondazione e il concepimento non lo stimolo libidinoso ma un atto della volontà avrebbe congiunto i due sessi. Stiamo parlando di atti che ora esigono pudore e perciò sebbene congetturiamo, quanto è possibile, quali potessero essere prima che esigessero pudore, tuttavia è indispensabile che la nostra argomentazione sia piuttosto moderata dal riserbo che ci rimprovera anziché agevolata dalla competenza nel dire che ci è di poco aiuto. Intanto neanche coloro che potevano hanno sperimentato quel che sto dicendo. Infatti, essendo stato già compiuto il peccato, subirono la cacciata dal paradiso terrestre prima che si unissero con serena decisione nell'atto di procreare. Non si comprende quindi come attualmente, quando si rammentano questi fatti, si offre alle facoltà dell'uomo soltanto l'esperienza di una inquieta libidine e non l'ipotesi di un sereno atto di volontà. Ne consegue che il pudore trattiene dal parlare sebbene non manchi l'assunto cui pensare. Tuttavia a Dio onnipotente, creatore sommo e sommamente buono di tutti gli esseri che aiuta e ricompensa la volontà buona, abbandona e condanna la cattiva, che dispone al fine l'una e l'altra, non mancò certamente il disegno di completare, anche dal genere umano soggetto alla condanna, il numero esatto, prestabilito nella sua sapienza, dei cittadini della sua città. Li ha prescelti con la grazia e non per i loro meriti poiché il genere umano in massa era stato condannato nella sua origine viziata e ha mostrato ai riscattati che cosa loro accordava la grandezza della sua clemenza non solo riguardo a se stessi ma anche ai non riscattati. L'uomo infatti riconosce di essere stato sottratto al male non per una bontà dovuta ma gratuita, quando diviene esente dalla sorte in comune con quegli uomini con cui avrebbe avuto in comune la condanna. Perciò Dio ha creato gli uomini, anche se previde che avrebbero peccato perché poteva mostrare in loro e da loro che cosa meritava la loro colpa, che cosa era donato dalla sua grazia e che sotto di Lui, creatore e ordinatore ai fini, il pervertito disordine dei colpevoli non pervertiva l'ordine universale.

Uomo e tentatore nella prescienza di Dio.
27. Quindi i peccatori, angeli e uomini, non riescono a impedire le grandi opere del Signore eccellenti in tutte le sue determinazioni 156 perché Colui, che con onnipotente provvidenza assegna le competenze a ogni essere, sa ordinare ai fini non solo i buoni ma anche i cattivi. Dio poteva far rientrare nei fini l'angelo cattivo, condannato impenitente a causa del peccato dovuto al primo atto della volontà cattiva, in modo che perdette definitivamente la volontà buona. Ha permesso perciò che da lui fosse tentato il primo uomo creato retto, cioè di volontà buona. L'uomo buono era così conformato che affidandosi all'aiuto di Dio poteva vincere l'angelo cattivo. Sarebbe stato vinto invece se, considerandosi fine a sé, avesse con orgoglio abbandonato Dio creatore che era suo aiuto. Avrebbe compiuto quindi una buona azione con la volontà retta aiutata da Dio e una cattiva azione con la volontà pervertita che abbandonava Dio. Anche l'affidarsi all'aiuto di Dio non gli era possibile senza l'aiuto di Dio, ma non per questo l'uomo non aveva la possibilità di declinare questi benefici della grazia rendendosi fine a sé. In senso analogico non è possibile vivere in questo corpo senza il contributo degli alimenti, ma ciascuno ha la possibilità di non vivere nel corpo, come fanno i suicidi. Così anche nel paradiso terrestre non era possibile viver bene senza l'aiuto di Dio ma era possibile viver male, però con la scomparsa della felicità e la conseguenza di una giusta condanna. Essendo dunque Dio consapevole della futura caduta dell'uomo, perché non avrebbe dovuto lasciarlo tentare dalla malvagità di un angelo cattivo? Sapeva certamente che sarebbe stato sconfitto, nondimeno prevedeva che il diavolo a sua volta sarebbe stato sconfitto dall'umana discendenza con il soccorso della sua grazia a maggior gloria degli eletti. Quindi a Dio non era occulto il futuro e con la prescienza non costrinse alcuno a peccare. L'esperienza fece conoscere alla creatura intelligente, angelica e umana, che venne più tardi, la differenza che esiste fra la propria presunzione e la protezione di Dio. È temerario credere o pensare che Dio non avesse la possibilità d'impedire che l'angelo e l'uomo cadessero nel peccato, ma ha preferito non sottrarre la decisione alla loro possibilità e così mostrare quanto male comportasse la loro superbia, quanto bene la sua grazia.

Prerogative delle due città.
28. Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l'amor di sé fino all'indifferenza per Iddio, alla celeste l'amore a Dio fino all'indifferenza per sé. Inoltre quella si gloria in sé, questa nel Signore. Quella infatti esige la gloria dagli uomini, per questa la più grande gloria è Dio testimone della coscienza. Quella leva in alto la testa nella sua gloria, questa dice a Dio: Tu sei la mia gloria anche perché levi in alto la mia testa 157. In quella domina la passione del dominio nei suoi capi e nei popoli che assoggetta, in questa si scambiano servizi nella carità i capi col deliberare e i sudditi con l'obbedire. Quella ama la propria forza nei propri eroi, questa dice al suo Dio: Ti amerò, Signore, mia forza 158. Quindi nella città terrena i suoi filosofi, che vivevano secondo l'uomo, hanno dato rilievo al bene o del corpo o dell'anima o di tutti e due. Coloro poi che poterono conoscere Dio, non lo adorarono e ringraziarono come Dio, si smarrirono nei propri pensieri e fu lasciato nell'ombra il loro cuore stolto perché credevano di esser sapienti, cioè perché dominava in loro la superbia in quanto si esaltavano nella propria sapienza. Perciò divennero sciocchi e sostituirono alla gloria di Dio non soggetto a morire l'immagine dell'uomo soggetto a morire e di uccelli e di quadrupedi e di serpenti e in tali forme di idolatria furono guide o partigiani della massa. Così si asservirono nel culto alla creatura anziché al Creatore che è benedetto per sempre 159. Nella città celeste invece l'unica filosofia dell'uomo è la religione con cui Dio si adora convenientemente, perché essa attende il premio nella società degli eletti, non solo uomini ma anche angeli, affinché Dio sia tutto in tutti 160.

LIBRO XV

SOMMARIO

1. Le due serie di discendenze che dall'inizio si svolgono a fini diversi.

2. Figli della carne e della promessa.

3. La grazia di Dio rese feconda la sterilità di Sara.

4. Lotta e pace della città terrena.

5. Il primo fondatore della città terrena fu un fratricida e il fondatore della città di Roma si adeguò alla sua scelleratezza con l'uccisione del fratello.

6. Vi sono delle infermità a cui per la pena del peccato anche i cittadini della città di Dio soggiacciono nell'esilio di questa vita e da cui sono ricondotti alla salute da Dio che li guarisce.

7. Motivo e ostinazione del delitto di Caino che neanche la parola di Dio distolse dal misfatto deliberato.

8. Quale fu il motivo per cui Caino agli inizi del genere umano fondò una città?

9. Fu più lunga la vita dell'uomo prima del diluvio e più grande la statura del corpo umano.

10. V'è una divergenza per cui sembra che il numero degli anni sia differente tra il testo ebraico e il nostro.

11. Sembra che l'età di Matusalem oltrepassi di quattordici anni il diluvio.

12. Si esamina l'opinione di coloro i quali non ritengono che gli uomini dei primi tempi fossero longevi come è detto nella Scrittura.

13. Nel calcolo degli anni si deve forse attendere maggiormente l'autorevolezza del testo ebraico che dei Settanta?

14. Uguaglianza degli anni i quali nei primi secoli si sono svolti nelle medesime dimensioni di oggi.

15. Se sia verosimile che gli uomini del primo periodo si siano astenuti dall'accoppiamento fino all'età in cui, come è riferito, hanno avuto figli.

16. Fu differente il diritto matrimoniale che ebbero i primi matrimoni in confronto con i successivi.

17. I due patriarchi e progenitori che discendono da un unico patriarca.

18. In Abele, Set ed Enos fu simboleggiato un evento che si riferisce al Cristo e al suo corpo, cioè la Chiesa.

19. C'è un simbolo nell'assunzione di Enoch.

20. C'è un simbolo nel fatto che la discendenza di Caino si chiude in otto generazioni da Adamo e che Noè è il decimo nei discendenti dal medesimo patriarca Adamo.

21. Si esamina la ragione per cui, menzionato Enoch, figlio di Caino, vi sia di seguito l'elenco di tutta la sua discendenza fino al diluvio; invece, menzionato Enos, figlio di Set, si ritorna all'origine del genere umano.

22. Per la caduta dei figli di Dio, attratti dall'amore per donne straniere, tutti gli uomini, eccetto otto persone, meritarono di perire nel diluvio.

23. È attendibile l'ipotesi che gli angeli di natura spirituale, presi d'amore per le belle donne, si siano sposati con esse e che dal loro accoppiamento siano nati i giganti?

24. Come si devono interpretare le parole che il Signore ha detto di quelli che dovevano essere sterminati dal diluvio: La loro vita durerà ancora centoventi anni?

25. L'ira di Dio non ne turba con escandescenze l'immutabile serenità.

26. L'arca, che Noè dietro ordine di Dio costruì, simboleggia in ogni componente Cristo e la Chiesa.

27. Su arca e diluvio non si deve dare ascolto a coloro che ne accettano soltanto la narrazione senza simbolismo allegorico e neanche a coloro che accettano soltanto le allegorie dopo avere escluso il contenuto storico.

 

Libro quindicesimo

LE DUE CITTÀ DA CAINO E ABELE AL DILUVIO

 

Le due città all'inizio [1-8]

 Argomento del libro.
1. 1. Molti scrittori hanno formulato, espresso e scritto numerose riflessioni sulla felicità del paradiso terrestre o sullo stesso paradiso terrestre, sulla vita dei progenitori in quel luogo e sul loro peccato e condanna. Anche nei libri precedenti ho trattato i temi relativi derivandoli dalla lettura di qualche brano della Scrittura o dalla interpretazione che ne ho potuto dare in accordo con la sua autorità. Se l'argomento si esamina più accuratamente suscita molte e varie discussioni che dovrebbero essere distribuite in più volumi di quanto l'opera e il tempo consentono. Di tempo non ne ho tanto da soffermarmi in tutte le questioni che individui liberi da occupazioni e meticolosi, più pronti a interrogare che disposti a capire, possono formulare. Penso di aver fatto già abbastanza con una vasta e assai difficile problematica sull'origine del mondo, dell'anima e del genere umano che ho distribuito in due categorie, una di quelli che vivono secondo l'uomo, l'altra di quelli che vivono secondo Dio. Anche in senso analogico le chiamo due città, cioè due società umane, di cui una è destinata a regnare eternamente con Dio, l'altra a subire un eterno tormento col diavolo. Ma questa è la loro finale destinazione di cui si parlerà in seguito 1. Finora ho detto abbastanza della loro origine sia negli angeli, il cui numero ci è ignoto, sia nei due progenitori. Mi sembra che ormai si deve affrontare il tema della loro evoluzione storica da quando i progenitori hanno iniziato la specie fino a quando gli uomini cesseranno di continuarla. Il tempo nella sua totalità o meglio la serie dei tempi, in cui gli individui si succedono scomparendo con la morte e sopraggiungendo con la nascita, è l'evoluzione storica delle due città di cui stiamo parlando.

 Le due città in Caino e Abele.
1. 2. Dai progenitori del genere umano nacque prima Caino che appartiene alla città degli uomini, poi Abele che appartiene alla città di Dio 2. Riscontriamo infatti che in un solo uomo si avvera il pensiero dell'Apostolo che ha detto: Prima non è ciò che è spirituale ma ciò che è animale, in seguito lo spirituale 3. È necessario dunque che ogni individuo, poiché proviene da una stirpe condannata, dapprima sia cattivo e carnale in Adamo, in seguito, se si rinnoverà rinascendo in Cristo, sarà buono e spirituale. Ugualmente in tutto l'uman genere, quando all'inizio cominciarono a sviluppare le due città con nascite e morti, prima è nato il cittadino di questo mondo, dopo di lui l'esule in cammino nel mondo e cittadino della città di Dio, perché predestinato ed eletto mediante la grazia, esule quaggiù e cittadino lassù mediante la grazia. Se si considera in sé anche egli proviene dalla massa che è stata tutta condannata sin dall'inizio. Però Dio, come un vasaio (non per sprezzo ma con accortezza l'Apostolo usa questa immagine), da una medesima massa ha foggiato un vaso per usi rispettabili e un altro per usi ignobili 4. Prima è stato foggiato il vaso per usi ignobili, poi l'altro per usi rispettabili perché, come ho già detto, in uno stesso uomo prima v'è la forma riprovevole da cui è necessario iniziare ma non rimanervi, poi la forma lodevole a cui avanzando arrivare e una volta giunti rimanervi. Quindi non ogni uomo cattivo sarà buono, tuttavia non v'è uomo buono che non sia stato cattivo, ma quanto più prestamente un individuo progredisce nel bene, definisce in sé questo traguardo che ha raggiunto e sostituisce più celermente la terminologia del prima con quella del poi. Si legge nella Scrittura che Caino per primo edificò una città 5 mentre Abele, in quanto esule, non la edificò. La città degli eletti è in cielo, sebbene si procuri nel mondo i cittadini con i quali è in cammino finché giunga il tempo del suo regno. Allora radunerà tutti i risorti con il loro corpo, quando sarà loro dato il regno dove regneranno senza limite di tempo con il loro fondatore, il re di tutti i tempi.

Allegoria in Sara e Agar.
2. Un'ombra e figura profetica di questa città fu in stato di schiavitù sulla terra per simboleggiarla più che per indicarla come presente nel tempo in cui doveva manifestarsi. Fu considerata anche essa città santa a titolo di figura allegorica e non di verità compiuta come sarà nel futuro. Di questa figura posta in schiavitù e della libera città che simboleggia l'Apostolo così parla nella Lettera ai Galati: Ditemi, dice, voi che volete essere sotto la legge, non avete udito cosa dice la legge? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera in virtù della promessa. Sono cose dette in allegoria. Le due donne infatti sono due alleanze, una proveniente dal monte Sinai che genera alla schiavitù ed è Agar (il Sinai è un monte dell'Arabia) ed ella si collega alla Gerusalemme che è nel tempo, infatti è schiava assieme ai propri figli. Al contrario la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre nostra. È detto infatti nella Scrittura: "Gioisci, o sterile che non partorisci, prorompi in grida di esultanza tu che non soffri nel parto, perché sono molti i figli della donna sola più di colei che ha marito" 6. Ora noi, o fratelli, siamo figli della promessa come Isacco. Ma come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così anche ora. Ma cosa dice la Scrittura? "Manda via la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede assieme al figlio della libera" 7. Noi invece, o fratelli, non siamo figli della schiava ma della donna libera. Cristo ci ha fatto dono di questa libertà 8. Questo modo d'intendere, derivante dall'autorità dell'Apostolo, ci offre un criterio nell'interpretare la Scrittura dei due Testamenti, l'Antico e il Nuovo. Una parte della città terrena è divenuta figura di quella celeste, non per simboleggiare se stessa ma l'altra e quindi come schiava. È stata istituita infatti non per simboleggiare se stessa ma un'altra ed essa stessa è stata indicata allegoricamente mediante un'altra precedente figura simbolica, sebbene fosse essa stessa allegoria. Infatti Agar schiava di Sara e il figlio sono stati figura di questa figura. E poiché le ombre dovevano scomparire all'apparire della luce, la libera Sara, che simboleggiava la libera città, sebbene per simboleggiarla con diverso significato le era schiava anche l'ombra dell'altra, disse: Manda via la schiava e suo figlio perché il figlio della schiava non sarà erede assieme a mio figlio Isacco 9. L'Apostolo ha parafrasato: assieme al figlio della libera. Troviamo dunque nella città terrena due aspetti, uno che indica la sua presenza nella storia, l'altro che con la sua presenza è subordinato a simboleggiare la città celeste. La natura pervertita dal peccato genera i cittadini della città terrena, la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste; perciò i primi sono chiamati: vasi d'ira, gli altri: vasi di misericordia 10. Se ne è avuto un simbolo anche nei due figli di Abramo. L'uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava chiamata Agar, l'altro, Isacco, nacque secondo la promessa dalla libera Sara. Tutti e due sono della stirpe di Abramo, ma un rapporto che indica esplicitamente la natura ha fatto nascere il primo, invece una promessa che simboleggia la grazia ha concesso l'altro. In quel caso è presentata una esperienza umana, in questo è segnalato un beneficio divino.

Simbolismo in Ismaele e Isacco.
3. Sara era sterile. Perduta la speranza della prole e desiderando di avere almeno dalla sua schiava ciò che da sé capiva di non potere, la fece fecondare dal marito. Aveva desiderato invano di avere figli da lui. Chiese dunque ciò che le era dovuto dal marito usando il proprio diritto nel grembo di un'altra 11. Nacque così Ismaele, come nascono tutti gli uomini, nel congiungimento dei sessi secondo l'ordinaria legge di natura. È stato detto: secondo la carne 12 non perché questi beni non siano da Dio e non sia Egli a produrli dato che la sua sapienza operatrice si estende, come si legge nella Scrittura, da un confine all'altro con efficienza e ordina tutto con bontà 13. Siccome però si doveva simboleggiare il dono di Dio che la grazia, anche se non dovuto, avrebbe gratuitamente elargito agli uomini, fu indispensabile che si avesse un figlio nel modo indebito ai procedimenti della natura. La natura infatti nega i figli a tale congiungimento del maschio e della femmina, quale poteva essere quello di Abramo e Sara, già in età avanzata, con l'aggiunta della sterilità della donna che non fu in grado di partorire neanche quando non mancava l'età alla fecondità, ma la fecondità all'età. Il fatto che alla natura in quelle condizioni non era dovuto il beneficio della posterità simboleggia che la natura del genere umano pervertita dal peccato, e quindi a giusto titolo condannata, non meritava in seguito la vera felicità. Giustamente quindi Isacco, nato secondo la promessa, simboleggia i figli della grazia, i cittadini della libera città, associati dalla pace eterna perché con essa non v'è in alcun modo l'amore della personale volontà, ma l'amore che gode del medesimo comune immutevole Bene e fa di molti un cuor solo, cioè concorde nel fine ultimo mediante l'osservanza della carità.

Guerra vittoria e pace nella città terrena.
4. Inoltre la città terrena non sarà eterna perché quando sarà condannata all'estremo supplizio non sarà più una città. Ha però in questo mondo il suo ideale, della cui partecipazione trae diletto nella misura che se ne può trarre da questi ideali. E poiché è un ideale che non elimina difficoltà a coloro che lo perseguono, questa città è spesso in sé dilaniata da contestazioni, guerre e battaglie alla ricerca di vittorie che sono apportatrici di morte e certamente di effimera durata. Infatti, se nel suo interno una razza qualunque insorgerà con la guerra contro un'altra razza, la città si adopera di essere dominatrice dei popoli, sebbene sia prigioniera dei vizi. Se poi, nel caso che vincesse, si esalta con maggiore orgoglio, diviene anche apportatrice di morte; se invece riflettendo sulla situazione e sugli avvenimenti di ogni giorno si angustia per quelli avversi, che possono accadere, più di quanto si esalti per quelli propizi che l'hanno favorita, la vittoria è soltanto di effimera durata. Non potrà infatti dominare in permanenza sui popoli che ha assoggettato con la vittoria. Però non è ragionevole pensare che non sono ideali quelli che ambisce questa città, giacché essa stessa nella categoria delle cose umane è un bene migliore. Vuole infatti raggiungere una pace a favore di ideali meno nobili e desidera di approdare ad essa con la guerra. Se vincerà e non vi sarà chi oppone resistenza, ci sarà la pace che non potevano conseguire le razze che si contrastavano e contendevano in una miserabile penuria per beni che non potevano avere in comune. Guerre tormentose cercano la pace, la raggiunge una vittoria ritenuta dispensiera di fama. Se sono vincitori coloro che combattevano per una causa più giusta, non si può dubitare che c'è da rallegrarsi per la vittoria e che ne proviene una pace auspicabile. Sono valori e senza dubbio dono di Dio. Ma talora messi da parte gli ideali più alti che appartengono alla città di lassù, dove la vittoria sarà stabile nell'eterna e somma pace, si ambiscono gli ideali di quaggiù perché sono ritenuti unici o preferiti a quelli che sono da ritenere più nobili. In tal caso necessariamente segue la crisi e aumenta se era già in atto.

Fratricidi e gloria terrena.
5. Il fondatore della città terrena fu il primo fratricida. Sopraffatto dall'invidia uccise suo fratello 14, cittadino della città eterna e viandante in questa terra. Non c'è da meravigliarsi dunque se tanto tempo dopo, nel fondare la città che doveva essere la capitale della città terrena, di cui stiamo parlando, e dominare tanti popoli, si è avuta una fattispecie parallela a questo primo esemplare che i Greci chiamano . Anche in quel luogo, nei termini in cui un loro poeta rammenta quel delitto, le prime mura furono bagnate di sangue fraterno 15. Roma infatti ebbe origine con un fratricidio. La storia romana narra appunto che Remo fu ucciso da Romolo 16, a parte che costoro erano tutti e due cittadini della città terrena. Tutti e due attendevano la fama dalla fondazione dello Stato romano, ma insieme non potevano averne ciascuno nelle proporzioni di uno solo. Chi voleva raggiungere la fama con l'esercizio del potere avrebbe avuto minor potere se la sua autorità fosse diminuita da un compartecipe vivo. Per avere dunque tutto il potere da solo fu eliminato il compagno e con il delitto aumentò in malvagità il prestigio che senza il delitto sarebbe stato inferiore ma più onesto. I fratelli Caino e Abele invece non avevano in comune una tale aspirazione ai beni della terra, né invidia l'un contro l'altro e il fratricida non invidiò al fratello che la sua supremazia venisse limitata se dominavano tutti e due. Abele non esigeva il potere nella città che veniva edificata dal fratello. C'era soltanto l'invidia diabolica con cui i cattivi invidiano i buoni per l'esclusivo motivo che quelli sono buoni, questi cattivi. La conquista della bontà non diminuisce affatto se si aggiunge o rimane un compagno, anzi la bontà è una conquista che la personale carità dei compagni raggiunge con estensione pari alla partecipazione. Non otterrà perciò questa conquista chi non vorrà averla in comune e al contrario la conseguirà tanto più validamente quanto più validamente in quella condizione potrà avere un compagno. Ciò che è avvenuto fra Remo e Romolo ha mostrato come la città terrena abbia delle scissioni in se stessa. Invece quel che è avvenuto fra Caino e Abele ha palesato le inimicizie fra le due città, di Dio e degli uomini. Si oppongono dunque tra sé cattivi e cattivi, così cattivi e buoni, ma non è possibile che buoni e buoni, se sono perfetti, si oppongano gli uni contro gli altri. Può avvenire che fra coloro i quali fanno progressi, ma non hanno ancora raggiunto la perfezione, uno si opponga all'altro come anche a se stesso perché nel medesimo individuo la carne ha desideri contro lo spirito e lo spirito contro la carne 17. Quindi il desiderio spirituale può opporsi al carnale di un altro o il desiderio carnale allo spirituale di un altro, come si oppongono fra di sé buoni e cattivi. Si oppongono fra sé i desideri carnali di due individui buoni, non ancora perfetti, come si oppongono cattivi e cattivi, fino a che la guarigione di coloro che si curano sia guidata alla vittoria finale.

La pace sommo bene.
6. Questa tendenza al male, cioè la disobbedienza di cui abbiamo parlato nel libro decimoquarto, è la pena della prima disobbedienza e quindi non è una condizione naturale ma un pervertimento. Viene detto perciò ai buoni che traggono profitto e vivono di fede in questo viaggio nell'esilio: Portate l'uno i pesi dell'altro e così adempirete la legge di Cristo 18; e altrove: Correggete i turbolenti, confortate i paurosi, accogliete i deboli, siate pazienti con tutti, state attenti a non render male per male all'altro 19; e in un altro passo: Se un individuo sarà sorpreso in una colpa, voi che avete lo Spirito, correggetelo con dolcezza, ma sta' all'erta affinché anche tu non cada nella tentazione 20; e altrove: Il sole non tramonti sopra la vostra ira 21; nel Vangelo si legge: Se un tuo fratello avrà commesso una colpa contro di te, correggilo fra te e lui soltanto 22. Sempre riguardo ai peccati, per evitare lo scandalo di molti, dice l'Apostolo; Ammonisci alla presenza di tutti coloro che peccano affinché gli altri ne abbiano timore 23. Per lo stesso motivo si hanno molte raccomandazioni sul perdono vicendevole e sulla grande attenzione a conservare la pace perché senza di essa non sarà possibile vedere Dio 24. In proposito si ha lo sgomento di quel servo quando gli viene ingiunto di restituire il debito di diecimila talenti, che gli erano stati condonati, perché non aveva condonato a un suo conservo il debito di cento denari. Esposta questa parabola, Gesù soggiunse: Così si comporterà anche con voi il vostro Padre celeste se ciascuno non perdonerà di cuore al proprio fratello 25. In questo modo ottengono la guarigione i cittadini della città di Dio esiliati in questa terra e anelanti alla pace della patria di lassù. Lo Spirito Santo opera interiormente affinché sia efficace la medicina che si usa in superficie. Altrimenti anche se Dio stesso, servendosi di una creatura a lui sottomessa, si rivolge, mediante qualsiasi umano aspetto, alle facoltà umane, tanto quelle sensibili come quelle molto simili che funzionano nel sonno, ma non guida stimolandola la coscienza, non giova affatto all'uomo qualsiasi annuncio di verità. Dio ottiene questi effetti distinguendo i vasi dell'ira da quelli della misericordia 26 con una distribuzione arcana, a lui solo nota, ma giusta. Quando egli viene in aiuto con interventi meravigliosi e segreti, il peccato che risiede nelle nostre membra, ed è pena del peccato, non regna più, come dice l'Apostolo, nel nostro corpo mortale per farci obbedire ai suoi desideri e noi non offriamo più le nostre membra come strumenti di disonestà 27. L'uomo allora si rivolge alla coscienza che con la guida di Dio non consente a se stessa di scegliere il male e da allora essa guida con maggiore serenità al bene. Poi, effettuata la guarigione e raggiunta l'immortalità, l'uomo senza alcun peccato regnerà nell'eterna pace.

 L'offerta e il peccato di Caino.
7. 1. Il mezzo, che ho spiegato come ho potuto, attraverso il quale Dio ha comunicato con Caino nella maniera con cui, mediante una creatura sottomessa, comunicava in forma adeguata con i primi uomini, come fosse loro compagno, a quell'uomo non ha giovato. Difatti anche dopo l'avvertimento divino ha compiuto il premeditato delitto di uccidere il fratello. Dio aveva discriminato le offerte di entrambi, accettando quelle di Abele, disdegnando quelle di Caino. Non è da dubitare che per l'attestato di un qualche segno visibile era possibile conoscere questa distinzione e che Dio aveva così operato perché le opere di lui erano malvagie, quelle del fratello buone. Se ne rattristò molto Caino e il suo viso rivelò il turbamento. Si ha nella Scrittura: Il Signore disse a Caino: perché sei diventato triste e il tuo viso è turbato? Lo sai che, se fai buone offerte ma non distribuisci con onestà, hai commesso peccato? Sii sereno. Vi sia il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio 28. In questo rimprovero o meglio avvertimento che Dio fece udire a Caino non sono chiari il motivo e il significato della frase: Lo sai che, se fai buone offerte ma non distribuisci con onestà, hai commesso peccato? L'oscurità ha dato origine a varie interpretazioni, sebbene ogni esegeta della sacra Scrittura tenta di commentarla secondo la regola della fede. Il sacrificio si offre con onestà quando si offre al vero Dio, al quale soltanto si deve sacrificare. Ma non si distribuisce con onestà quando non si differenziano con onestà il luogo, il tempo e gli oggetti o anche chi offre e a chi si offre, o anche a chi si distribuisce per vitto ciò che è stato offerto, giacché in questo caso per distribuzione possiamo intendere scelta. Inoltre si può offrire in un luogo in cui non conviene o ciò che non conviene in quel luogo ma in un altro, o in un tempo in cui non conviene o ciò che non conviene in quel tempo ma in un altro o ciò che non si deve offrire in nessun luogo e tempo o quando l'uomo tiene per sé oggetti della medesima qualità più scelti di quelli che offre a Dio, o se si rende partecipe dell'offerta un individuo di altra religione o è sacrale che non ne sia partecipe. Non è facile precisare in quale di questi aspetti Caino dispiacque a Dio. L'apostolo Giovanni, parlando dei due fratelli, dice: Non come Caino che era dal maligno e uccise suo fratello, e perché lo uccise? Perché le sue opere erano malvagie, quelle del fratello giuste 29. Dal passo si può intendere che Dio non gradì il suo dono perché proprio con esso distribuiva male, in quanto dava a Dio qualcosa del suo, ma sé a se stesso. Lo fanno tutti coloro che non adempiono la volontà di Dio ma la propria, cioè non agiscono con un cuore retto ma pervertito. Offrono tuttavia a Dio un dono con cui pensano di renderselo propizio perché li aiuti non a guarire i loro cattivi desideri ma a soddisfarli. Ed è proprio della città terrena adorare Dio o gli dèi per governare con il loro aiuto nella vittoria e nella pace terrena non con la liberalità dell'amministrare ma col desiderio di dominare. I buoni infatti si servono del mondo per godere Dio, i cattivi al contrario pretendono servirsi di Dio per godere il mondo. Essi però credono che egli esiste e che provvede alle vicende umane. Sono molto peggiori coloro che negano questa verità. Caino dopo aver capito che Dio si era volto al sacrificio del fratello e non al suo avrebbe dovuto col pentimento imitare il fratello buono anziché inasprito invidiarlo. Ma egli s'indignò e il suo viso fu turbato. Dio riprova più di ogni altro questo peccato, cioè la tristezza per la bontà di un altro, soprattutto se fratello. Perciò, riprovando questa colpa, chiese: Perché sei diventato triste e il tuo viso è turbato? Dio vedeva che egli invidiava suo fratello e riprovò il fatto. Agli uomini, cui è nascosto il cuore dell'altro, poteva esser dubbio e del tutto incerto se con quella tristezza egli deplorava la propria cattiveria perché sapeva che con essa aveva offeso Dio, oppure la bontà del fratello perché questa piacque a Dio quando si volse alla sua offerta. Dio diede una giustificazione del fatto che aveva ricusato l'offerta di Caino affinché incolpasse giustamente se stesso, anziché ingiustamente il fratello. E poiché era ingiusto in quanto non distribuiva con onestà, cioè non viveva onestamente, e indegno che la sua offerta fosse accettata, gli fece capire quanto fosse più ingiusto perché odiava il fratello giusto senza motivo.

 L'invito divino alla riflessione.
7. 2. Tuttavia Dio, per non allontanarlo senza un comando santo, giusto e buono, gli disse: Sii sereno, vi sia il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio. Il ritorno del fratello? No. Certamente del peccato. Aveva detto: Hai peccato e ha soggiunto: Sii sereno, vi sia il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio. Si può interpretare nel senso che il ritorno del peccato deve avvenire nell'uomo stesso in modo che sia consapevole di dover attribuire soltanto a sé il fatto che pecca. Si hanno infatti il salutare rimedio del pentimento e la conveniente richiesta di perdono se nella frase: il suo ritorno in te non si sottintende che vi sarà ma vi sia, nei termini cioè di un comando e non di un preavviso. Allora infatti l'uomo dominerà il peccato se non lo prepone a sé con un appiglio ma lo assoggetta col pentimento. Altrimenti egli sarà schiavo del peccato che lo domina, se lo giustificherà quando avviene. Ma per peccato si può intendere anche lo stesso desiderio carnale di cui dice l'Apostolo: La carne ha desideri contro lo spirito 30 e fra gli effetti della carne rassegna anche l'invidia da cui Caino era spronato e infiammato all'uccisione del fratello. In questo senso si può giustamente sottintendere anche che vi sarà, cioè: Vi sarà il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio. Talora infatti viene eccitata l'attività carnale che l'Apostolo denomina peccato nel passo: Non sono io che faccio il male ma il peccato che risiede in me 31. Anche i filosofi considerano depravata questa attività dell'anima non nel senso che travolge la coscienza ma che la coscienza deve dominare e contenere dalla immoralità con la ragione. Quando dunque tale attività sarà stimolata ad agire disonestamente, si rassereni e obbedisca all'Apostolo che dice: Non offrite le vostre membra al peccato come strumenti d'immoralità 32. Allora rasserenata e sottomessa ritorna alla coscienza affinché la ragione la domini. Dio lo aveva ingiunto a Caino che ardeva d'invidia contro il fratello e, invece di imitarlo, voleva fosse tolto di mezzo. Sii sereno, disse, trattieni le tue mani dal delitto, non domini il peccato nel tuo corpo mortale 33 fino ad asservirti ai suoi desideri e non offrire le tue membra al peccato come strumenti d'immoralità. Si ha il suo ritorno in te se non si favorisce allentando le briglie ma si trattiene arrestandosi. E tu ne avrai il dominio affinché, quando non gli si permette di essere efficiente all'esterno, si abitui a non subire impulsi anche all'interno mediante l'imperativo della coscienza che regola e dispone al bene. Nel medesimo Libro sacro è stato detto qualcosa del genere anche della donna quando, dopo il peccato, da Dio, che rivolgeva domande per giudicare, ebbero la sentenza di condanna, il diavolo nel serpente, lei e il marito di persona. Le disse: Moltiplicherò assai il tuo dolore e il tuo gemito, nel dolore partorirai i figli, e aggiunse: Farai ritorno a tuo marito ed egli ti terrà sottomessa 34. Quanto è stato detto a Caino del peccato e del depravato desiderio della carne, in questo passo è stato detto della donna che aveva peccato. Si deve interpretare nel senso che l'uomo, nel dirigere la donna, si deve rassomigliare all'animo che dà direttive alla carne. Perciò dice l'Apostolo: Chi ama la moglie ama se stesso; nessuno infatti ha mai odiato la propria carne 35. Questi impulsi dunque si devono curare come nostri e non condannare come altrui. Ma Caino accolse come avversario la raccomandazione di Dio. Aggravandosi in lui la passione dell'invidia in una insidia uccise il fratello. Di tal fatta era il fondatore della città terrena. Potrebbe simboleggiare anche i Giudei dai quali fu ucciso Cristo, pastore delle pecore uomini, di cui era allegoria Abele, pastore delle pecore bestie. Il fatto rientra appunto in una allegoria profetica. Per ora mi risparmio dall'esporlo, ma ricordo di aver detto qualcosa in merito nel libro Contro Fausto manicheo.

 Caino e la prima città.
8. 1. A questo punto mi sembra opportuno difendere la suddetta narrazione affinché non sembri inattendibile la Scrittura la quale riferisce che da un solo uomo è stata edificata una città in quel tempo in cui, almeno all'apparenza, esistevano sulla terra soltanto quattro uomini o meglio tre dopo che Caino uccise il fratello e cioè il primo uomo padre di tutti, lo stesso Caino e il figlio Enoch da cui la città prese il nome. Ma coloro che se ne stupiscono non riflettono abbastanza che lo scrittore di questa storia sacra non ritenne necessario nominare tutti gli uomini che esistevano in quel tempo, ma quelli soltanto che richiedeva il disegno dell'opera intrapresa. L'intenzione dello scrittore, mosso dallo Spirito Santo, fu di giungere, attraverso la successione di determinate generazioni provenienti da un solo uomo, fino ad Abramo e dalla sua discendenza al popolo di Dio. In esso, distinto dagli altri popoli, dovevano essere prefigurati e preannunziati tutti gli avvenimenti che, nell'afflato dello Spirito, riguardavano l'avvenire della città, il cui regno sarà eterno, e del suo re e fondatore Cristo. Però non si doveva passar sotto silenzio l'altra umana società, che consideriamo la città terrena, nell'esclusivo intento di farne menzione affinché la città di Dio risplenda anche nel confronto con la sua avversaria. La sacra Scrittura, nel consegnare alla memoria il numero degli anni che gli uomini di allora vissero, conclude col dire di colui di cui stava parlando: Generò figli e figlie e fu l'età dell'uno o dell'altro di tanti anni e morì 36. Dal fatto che non ci tramanda i nomi dei figli e delle figlie non dobbiamo escludere che in tutti quegli anni, quando nel primo periodo dei tempi gli uomini erano molto longevi, poterono nascere moltissimi individui, dai cui gruppi potevano essere fondate anche moltissime città. Ma fu opera di Dio, il quale ispirò questi passi della Scrittura, differenziare fin dai primordi le due città distribuendole nelle rispettive discendenze in modo che esse continuassero insieme, da una parte quella degli uomini, cioè di coloro che vivevano secondo l'uomo, dall'altra quella dei figli di Dio, cioè degli uomini che vivevano secondo Dio. E questo fino al diluvio col quale, com'è narrato, si hanno la separazione e la delimitazione. Si ha la separazione perché sono rassegnate separatamente le discendenze delle due città, una del fratricida Caino, l'altra del fratello chiamato Set che era nato, anche egli, da Adamo in luogo della vittima del fratricidio. Si ha una delimitazione perché, traviando i buoni, erano diventati tutti così cattivi da essere sterminati col diluvio, eccetto un solo onesto, Noè, con la moglie, i tre figli e nuore. Questi otto individui meritarono di sfuggire con l'arca all'ecatombe generale.

 Il nome della prima città.
8. 2. Si legge nella Scrittura: Caino si unì a sua moglie che concepì e partorì Enoch ed egli stava edificando una città cui diede il nome del figlio Enoch 37. Non è indispensabile ammettere che questo fosse il primo figlio dato alla luce. Né si deve dedurre dall'espressione che egli si unì alla moglie come se si fossero accoppiati per la prima volta. Anche nei confronti di Adamo, padre di tutti, l'espressione non fu usata soltanto per il tempo in cui fu concepito Caino che, come sembra, fu il primogenito. Anche per il tempo successivo il medesimo libro della Scrittura dice: Adamo si unì alla moglie Eva, la quale concepì e partorì un figlio e gli diede il nome di Set 38. Se ne deduce che abitualmente quel libro si esprime in quei termini, anche se non in tutti i casi che vi si leggono di avvenuti concepimenti, ma non soltanto in quei casi in cui i due sessi si uniscono per la prima volta. E non si attiene a una dimostrazione decisiva, per considerare che Enoch fosse il primogenito, il fatto che la città prese il nome da lui. Non è eccezione alla regola che per un motivo qualsiasi il padre, pur avendo altri figli, lo amasse più di tutti. Anche Giuda non era il primogenito, eppure da lui hanno avuto il nome la Giudea e i Giudei. Ma anche se questo figlio nacque per primo al fondatore della città, non per questo si deve pensare che fu dato alla città il suo nome in occasione della sua nascita. Anche in quel periodo non si poteva impiantare una città da un solo individuo, perché essa è per essenza una moltitudine di individui uniti da un determinato rapporto sociale. Ma se la famiglia di quell'uomo cresceva rapidamente nel numero da avere già una sufficiente quantità di popolazione, era possibile che la fondasse e che una volta fondata, le imponesse il nome del primogenito. Infatti la vita di quegli uomini fu così lunga che quel che visse di meno prima del diluvio, fra i citati col rispettivo numero di anni, giunse ai settecentocinquantatré anni 39. I più avevano superato i novecento ma nessuno era giunto ai mille. Non c'è dubbio quindi che il genere umano, attraverso l'età di un solo individuo, poteva aumentare al punto che era possibile fondare non una ma più città. Lo si può dedurre con grande facilità perché dal solo Abramo, in non molto più di quattrocento anni, si ebbe un gran numero di discendenti della stirpe ebraica che, nell'uscita dall'Egitto, erano, come è riferito, seicentomila individui della gioventù addetta alle armi 40. Sorvoliamo la stirpe degli Idumei non appartenenti al popolo d'Israele, perché discendeva dal fratello Esaù, nipote di Abramo 41, e altre stirpi provenienti dalla progenie dello stesso Abramo, sebbene non attraverso la moglie Sara 42.

Le due genealogie e le due città da Set e Caino al diluvio [9-21]

Gigantismo e longevità.
9. Perciò nessun critico avveduto dei fatti può dubitare che fu possibile a Caino fondare non una qualsiasi ma una grande città, giacché la vita degli individui si prolungava assai nel tempo. Un pagano potrebbe sollevare qualche difficoltà sul notevole numero di anni vissuti dagli uomini di allora, come è riferito dalla testimonianza dei nostri libri e negarne la credibilità. Così non credono che anche le dimensioni del corpo erano di mole molto maggiore allora che oggi. In proposito il più illustre dei loro poeti, Virgilio, racconta di una pietra enorme che, infissa sulla linea di confine dei campi, un eroe di quei tempi, mentre combatteva, svelse, corse sollevandola, la bilanciò e la scagliò; e commenta: Dodici atleti della più grande corporatura che oggi la natura produce avrebbero stentato a sollevarla sulla testa 43. Voleva dire che allora la natura produceva stature più grandi. A più forte ragione in tempi più recenti prima del celebre famoso diluvio. Ma le tombe scoperte a causa dell'antichità o dallo straripamento dei fiumi o per altre evenienze convincono gli increduli della grande mole dei corpi perché in esse si resero visibili o da esse caddero ossa di cadaveri d'incredibile grandezza. Ho visto di persona, e non ero solo perché c'erano altri con me, sulla spiaggia di Utica un dente molare di un uomo così grosso che se fosse stato sminuzzato nei limiti dei nostri denti, ci sembrò che se ne potessero tirar fuori un centinaio. Io penso che fosse di un gigante. Infatti, sebbene allora i corpi di tutti fossero di statura molto più grande dei nostri, i giganti superavano di gran lunga tutti. Come in altri tempi e poi nei nostri sono fenomeni rari, ma non mancarono in alcun tempo stature che di molto superavano la misura delle altre. Plinio il Vecchio, uomo di grande cultura, afferma che la natura produce corpi di mole minore man mano che trascorre la vicenda dei tempi 44 e ricorda che anche Omero più volte si rammaricò nei poemi di questo declino 45. Non voleva deridere queste affermazioni come finzioni poetiche ma come scrittore le inseriva nella verità storica di meraviglie della natura. Ma le ossa, come ho detto, che frequentemente si rinvengono, poiché appartengono a periodi di lunga durata, rinviano le grandi stature degli antichi a secoli molto lontani gli uni dagli altri 46. La longevità individuale poi, propria di quel periodo, non può divenire oggetto di diretta conoscenza mediante rispettive documentazioni. Ma non per questo si può sottrarre credibilità a questa storia sacra perché con molta sfrontatezza non si accetterebbero i fatti narrati dal momento che possiamo costatare con assoluta certezza che le predizioni si sono avverate. Dice tuttavia Plinio che v'è oggi ancora un popolo nel quale si vive duecento anni 47. Se dunque si ritiene come certo che un prolungamento della vita umana, di cui noi non abbiamo avuto diretta conoscenza, riguarda territori a noi sconosciuti, non v'è motivo di non credere che abbia riguardato anche i tempi. E non è ragionevole ritenere che in un qualche luogo vi sia ciò che in questo non c'è e non ritenere che in un qualche tempo ci sia stato ciò che in questo non c'è.

Calcoli d'età nella genealogia dei patriarchi.
10. Pertanto v'è, come sembra, un certo disaccordo fra il testo ebraico e il nostro sul numero degli anni. Non so com'è avvenuto. Tuttavia non è così notevole da indurre a non ammettere che quegli uomini furono assai longevi. Difatti nel nostro testo si legge che il primo uomo Adamo, prima di generare il figlio, chiamato Set, era vissuto duecentotrenta anni, invece nel testo ebraico centotrenta; ma per gli anni dopo la nascita si legge settecento nel nostro testo e ottocento nell'altro; così nell'uno e nell'altro la somma dell'intero concorda. Di seguito per le generazioni successive si riscontra nel testo ebraico che il padre, prima della nascita del figlio ivi menzionato, aveva cento anni di meno che nel nostro testo, ma dopo la nascita del medesimo figlio nel nostro si hanno cento anni in meno che nell'ebraico; così nell'uno e nell'altro il totale corrisponde. Nella sesta generazione, i due testi non dissentono. Nella settima generazione, in cui il figlio nato è Enoch che, stando alla Scrittura, non morì ma fu assunto perché piacque a Dio, v'è, come nelle prime cinque generazioni, il disaccordo di cento anni prima di generare il figlio, ivi menzionato, e l'accordo nel totale. Enoch infatti, secondo ambedue i testi, prima di essere trasferito, visse trecentosessantacinque anni. L'ottava generazione ha una certa discordanza ma di minore entità e diversa dalle altre. Matusalem infatti, nato da Enoch, prima di generare colui che segue nella discendenza, secondo il testo ebraico, non aveva cento anni di meno ma venti di più, i quali nel nostro testo sono stati aggiunti dopo la nascita del figlio e nell'uno e nell'altro è identica la somma dell'intero. Soltanto nella nona generazione, cioè negli anni di Lamech, figlio di Matusalem e padre di Noè, il totale si differenzia ma non molto. Si ha nel testo ebraico che è vissuto ventiquattro anni di più che nel nostro. Prima di generare il figlio, chiamato Noè, ha nel testo ebraico sei anni di meno che nel nostro ma, dopo averlo generato, nell'ebraico trenta anni di più che nel nostro. Detratti i sei, rimangono ventiquattro anni, come è stato detto.

Matusalem non ha visto il diluvio.
11. Da questo disaccordo del testo ebraico col nostro sorge una celeberrima discussione giacché si calcola che Matusalem sia sopravvissuto quattordici anni al diluvio. Invece la sacra Scrittura ricorda che fra tutti coloro che allora vivevano soltanto otto individui sfuggirono con l'arca allo sterminio del diluvio e fra di essi non c'era Matusalem 48. Stando al nostro testo Matusalem, prima di mettere al mondo il figlio chiamato Lamech, era vissuto centosessantasette anni e Lamech, prima che da lui nascesse Noè, era vissuto centottantotto anni 49. Addizionati sono trecentocinquantacinque anni. Ad essi si aggiungono i seicento anni di Noè, cioè quelli che aveva nell'anno in cui avvenne il diluvio. Sono novecentocinquantacinque anni dalla nascita di Matusalem fino all'anno del diluvio. Ora tutti gli anni della vita di Matusalem sono calcolati a novecentosessantanove anni. Aveva infatti centosessantasette anni quando mise al mondo il figlio chiamato Lamech e dopo la sua nascita visse altri ottocentodue anni che addizionati, come ho detto, diventano novecentosessantanove. Quindi sottratti i novecentocinquantacinque anni dalla nascita di Matusalem al diluvio, ne rimangono quattordici con i quali sopravvisse al diluvio. Quindi alcuni suppongono che non rimase sulla terra perché è evidente che ogni specie, a cui la natura non consente di vivere nell'acqua, fu distrutta, ma che sia vissuto per qualche tempo col padre che era stato assunto e che lì visse fino alla fine del diluvio. Costoro non vogliono sottrarre la credibilità al testo cui la Chiesa ha assicurato l'autorità di maggior credito e ritengono che il testo degli Ebrei anziché il nostro non garantisce la veridicità. Non ammettono che piuttosto nel nostro testo vi sia potuto essere l'errore dei traduttori, anziché nella lingua da cui, attraverso il greco, la Scrittura è stata tradotta nella nostra lingua. Non è credibile, dicono, che i settanta traduttori, i quali simultaneamente e sulla base di un identico criterio hanno effettuato le versione, abbiano potuto errare o voluto mentire in un caso che non coinvolgeva i loro interessi. Aggiungono che i Giudei, gelosi che la Legge e i Profeti mediante la versione siano stati trasmessi a noi, hanno contraffatto alcune notizie nel loro testo affinché diminuisse la veridicità del nostro. Si accolga come si crede questa opinione o sospetto. È certo però che Matusalem non sopravvisse al diluvio e morì nello stesso anno se è vero ciò che si legge nel testo sul numero degli anni. La mia opinione sui settanta traduttori sarà con maggior senso critico inserita nel giusto contesto, quando con l'aiuto del Signore giungerò a parlare della loro epoca nei limiti richiesti da questa opera 50. È sufficiente per il problema in atto che secondo l'uno e l'altro testo gli uomini di quel tempo furono così longevi che, durante l'esistenza di quel solo individuo primogenito della sola coppia esistente sul pianeta, il genere umano poté crescere al punto da costituire una città.

 Anni di trentasei giorni.
12. 1. Non si deve assolutamente dar retta a certuni i quali ritengono che in quel tempo gli anni si computavano diversamente, erano cioè di tanta brevità da corrispondere un anno nostro a dieci dei loro. Quindi, dicono, se si sente dire o si legge che un tale è vissuto novecento anni, si deve intendere novanta poiché dieci di quegli anni è uno dei nostri e dieci dei nostri cento di quelli. E per questo, pensano, Adamo aveva ventitré anni quando mise al mondo Set e Set aveva venti anni e sei mesi quando da lui nacque Enos. La Scrittura li considera duecentocinque anni perché, come suppongono costoro di cui esponiamo l'opinione, gli antichi frazionavano in dieci parti un solo anno dei nostri e consideravano anni quelle parti. Una di queste parti è sei al quadrato perché in sei giorni Dio ha portato a compimento le sue opere per riposarsi al settimo. Ho discusso, come m'è stato possibile, l'argomento nel libro undicesimo 51. Ora sei moltiplicato per sei, cioè il quadrato di sei, sono trentasei giorni che moltiplicati per dieci sono trecentosessanta, cioè dodici mesi lunari. Rimanevano cinque giorni per completare l'anno solare e un quarto di giorno con cui, moltiplicato per quattro, si aggiunge un giorno all'anno chiamato bisestile. Dagli antichi in seguito questi giorni furono addizionati all'anno lunare affinché corrispondesse la durata degli anni. I Romani chiamarono intercalari questi giorni. Quindi, soggiungono, anche Enos, figlio di Set, aveva diciannove anni quando da lui nacque il figlio Cainan, mentre la Scrittura dice che erano centonovanta anni 52. E di seguito attraverso tutte le generazioni, nelle indicazioni degli anni degli individui prima del diluvio, non si trova nel nostro testo un patriarca che abbia avuto un figlio all'età di cento anni o sotto o anche di centoventi anni o non molto di più, ma si dà notizia che coloro i quali ebbero figli nell'età più giovane avevano per lo meno centosessanta anni e di più. Non può avere figli, aggiungono, un uomo di dieci anni che dagli antichi erano considerati cento. A sedici anni invece la pubertà matura è idonea a generare prole, ma i tempi antichi li consideravano centosessanta. E affinché non sia incredibile che allora l'anno fu computato diversamente aggiungono l'informazione, reperibile in molti storiografi, che gli Egiziani avevano l'anno di quattro mesi, gli Acarnani di sei mesi, i Lavini di tredici mesi. Plinio il Vecchio, dopo aver citato le dichiarazioni di opere di letteratura che un tale era vissuto centocinquantadue anni, un altro dieci di più, che certuni furono in vita per duecento anni, altri per trecento, che altri erano arrivati a cinquecento, altri a seicento, alcuni perfino a ottocento, ha avanzato l'ipotesi che tali notizie siano state diffuse a causa dell'ignoranza dei tempi. Alcuni, dice, delimitavano un anno con l'estate e un altro con l'inverno, altri, come gli Arcadi, lo dividevano in quattro tempi, sicché gli anni erano di tre mesi. Ha aggiunto che in un certo tempo anche gli Egiziani, di cui poco fa abbiamo ricordato gli anni brevi di quattro mesi, delimitavano gli anni col terminare della luna. Quindi, afferma, da loro si tramanda che vivevano un migliaio di anni 53.

 Incongruenze della ipotesi.
12. 2. Con queste dimostrazioni ritenute convincenti quei tali non intendono screditare l'attendibilità della Storia sacra, anzi si sforzano di assicurare che non sia incredibile la narrazione secondo la quale gli antichi sono vissuti per tanti anni. Si sono quindi convinti, e non pensano di esserlo senza fondamento, che un così piccolo spazio di tempo fu allora considerato un anno al punto che dieci di quelli sono un anno per noi e dieci dei nostri cento di quelli. Con un argomento assai evidente si può dimostrare che tale interpretazione è del tutto falsa. Prima di farlo però ritengo di non dover tralasciare un'ipotesi che potrebbe essere molto attendibile. Potevo ribattere irrefutabilmente la tesi mediante il testo ebraico, in cui si legge che Adamo non aveva duecentotrenta anni ma centotrenta quando mise al mondo il terzo figlio 54. Se corrispondono a tredici dei nostri anni, certamente, quando mise al mondo il primo, aveva undici anni o non molto di più. A questa età per una comune e a noi assai nota legge di natura non si può diventare padri. Ma lasciamo da parte costui che forse lo poté anche appena creato. Non si deve ritenere infatti che, quando venne al mondo, fosse piccino come i nostri bimbi. Il figlio Set, quando mise al mondo Enos, non aveva duecentocinque anni, come si legge nel nostro testo, ma centocinque 55, quindi secondo costoro non aveva ancora undici anni. Non parlo del figlio Cainan che, quando mise al mondo Maleleel 56, nel nostro testo aveva centosettanta anni, ma settanta in quello ebraico. Non si è padri a sette anni se erano sette gli anni che in quei tempi erano considerati settanta.

 Confronto fra il testo ebraico e i Settanta.
13. 1. Ma se darò simile spiegazione, mi si replicherà che è una impostura del testo dei Giudei, della quale si è parlato abbastanza in precedenza, poiché i Settanta, uomini di meritata notorietà, non hanno potuto compiere alterazioni. In proposito chiedo quale spiegazione sia più attendibile fra le due. O il popolo dei Giudei sparso dappertutto ha potuto con decisione unanime trovarsi d'accordo nel consegnare allo scritto questa falsificazione e così nell'invidiare la reputazione degli altri ha rinunziato alla verità; oppure i Settanta, anch'essi Giudei, adunati in uno stesso ambiente, perché ve li aveva convocati allo scopo Tolomeo, re d'Egitto, hanno invidiato la verità in parola ai popoli di altra razza e hanno agito in questo modo con decisione concordata. Ognuno capisce quale delle due spiegazioni si accetta con maggiore attendibilità e decisione. Ma un uomo avveduto non può supporre che i Giudei, sia pure di tanta perversità e malvagità, siano stati capaci di tanto in numerosi testi diffusi un po' dovunque o che i Settanta, uomini degni di onore, abbiano preso in comune accordo la decisione di non far conoscere la verità ai pagani. È più attendibile dire che, quando si cominciò a trasmettere copie di quelle parti della Bibbia dalla biblioteca di Tolomeo, in un solo testo si è potuto verificare un errore, cioè nel primo copiato, dal quale si è esteso agli altri. È possibile forse anche un errore dello scrivano. Non è arbitrario supporlo nel caso della vita di Matusalem e nell'altro in cui la somma non concorda per l'eccedenza di ventiquattro anni. Negli altri casi invece si ha di seguito la medesima inesattezza così che prima della nascita del figlio, inserito nella genealogia, in un testo si hanno cento anni in più e nell'altro cento in meno e dopo la nascita cento in più dove mancavano e cento in meno dove eccedevano in modo tale che la somma concordasse e questo avviene nella prima, seconda, terza, quarta, quinta e settima generazione. In essi l'errore sembra avere una certa regolarità e non sa di emergenza ma di deliberazione.

 Possibili spiegazioni delle divergenze.
13. 2. Dunque la diversità di numeri differenti nel testo greco e latino e rispettivamente in quello ebraico, nei casi in cui si ha per alcune generazioni la parificazione con cento anni prima addizionati e poi sottratti, non si deve attribuire né alla malignità dei Giudei né alla diligenza o prudenza dei Settanta, ma a uno sbaglio dello scrivano che per primo prese a copiare il testo dalla biblioteca di re Tolomeo. Anche oggi, se i numeri non fanno riferimento a qualche nozione che si comprende perché facile nella teoria o si apprende per la utilità pratica, sono messi in carta con disattenzione e con maggior disattenzione sono corretti. Nessuno si pone il problema di dover apprendere quante migliaia di persone avevano singolarmente le varie tribù d'Israele 57, perché questa conoscenza non serve a nulla. E sono pochi gli uomini ai quali ne sia manifesta l'importanza pratica. Nel caso nostro, attraverso il succedersi di alcune generazioni si hanno in una cento anni in più, nell'altra cento anni in meno, e dopo la nascita del figlio menzionato nella genealogia cento anni in meno dove erano in più e cento anni in più dove erano in meno, in modo che la somma corrisponda. Certamente chi ha fatto questo computo voleva far osservare che gli antichi vivevano molti anni perché li consideravano molto brevi e propose di mostrarlo in relazione al pieno sviluppo del sesso, cioè all'età idonea a generare figli. Perciò volle far capire ai diffidenti che a quei cento anni corrispondevano dieci dei nostri, affinché non credessero che gli uomini erano tanto longevi e aggiunse cento anni a quelle generazioni in cui non rinvenne l'età idonea a generare figli e affinché il totale corrispondesse li detrasse dopo la nascita dei figli. In tal modo quel tale ha voluto tutelare l'attendibilità di età idonea ad avere figli senza frodare nel numero l'intero dell'età dei singoli individui. L'eccezione che ha introdotto per la sesta generazione, proprio essa ci avverte che egli ha fatto quel calcolo quando l'evenienza di cui parliamo lo esigeva perché non l'ha fatto quando non lo esigeva. Si è accorto infatti che nel testo ebraico per la medesima generazione Iared, prima di mettere al mondo Enoch, aveva centosessantadue anni 58, che, secondo il calcolo degli anni brevi, sono sedici anni e un po' meno di due mesi. È questa un'età adatta a generare, quindi non era necessario aggiungere cento anni brevi per toccare i nostri ventisei, né detrarli dopo la nascita di Enoch perché non li aveva aggiunti prima della nascita. È avvenuto così che non si abbia divergenza fra i due testi. Ma ci turba ancora il motivo per cui nell'ottava generazione, nel testo ebraico, prima che da Matusalem nascesse Lamech, sono riportati centottantadue anni e venti di meno nel nostro testo, in cui ordinariamente se ne hanno cento di più e dopo la nascita di Lamech si restituiscono a completare il totale che nei due testi non differisce. Se infatti voleva che i centosettanta anni fossero considerati diciassette in riferimento alla piena pubertà, non doveva né addizionare né sottrarre perché aveva riscontrato un'età idonea alla procreazione dei figli in quanto, proprio per essa, nelle altre generazioni ne aggiungeva cento se non la riscontrava. Per i venti anni invece crederemmo giustamente che sia avvenuto per un caso di inesattezza se, dopo averli detratti, non si fosse preoccupato di restituirli affinché l'intero concordasse. Ma forse c'è da ritenere che il testo sia stato manipolato con grande furbizia per nascondere l'intruglio con cui prima si aggiungono e poi si detraggono i cento anni perché anche in quel caso, in cui non era necessario, si avesse il computo non di cento anni ma di un numero qualsiasi, anche piccolo, prima detratto e poi aggiunto. Ma il fatto si può interpretare in vario modo, tanto se si ritiene o no che è avvenuto così o alla fin fine che sia o non sia così. Tuttavia, quando si riscontra discordanza nei due testi, se le due versioni non sono compossibili in ordine alla credibilità dei fatti storici, io non dubiterei affatto che sia legittimo criterio accettare preferibilmente quella dalla quale è stata realizzata la traduzione mediante gli interpreti. Difatti in tre codici greci, in uno latino e anche in uno siriaco che concordano si è riscontrato che Matusalem è morto sei anni prima del diluvio.

 Insignificanza dell'anno breve.
14. 1. Ora possiamo esaminare in qual senso si può dimostrare con evidenza che gli anni non erano tanto brevi da corrispondere dieci di quelli a uno dei nostri, ma erano di durate pari a quella che abbiamo oggi, come, cioè, li determina il corso del sole, e che venivano computati nella vita assai longeva dei Patriarchi. Si ha nella Scrittura che il diluvio avvenne quando Noè aveva seicento anni. È assurdo che vi si legga: Venne l'acqua del diluvio sopra la terra nell'anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il ventisette del mese 59 se l'anno, tanto breve che dieci corrispondevano a uno dei nostri, aveva trentasei giorni. Un anno così piccino, seppure aveva questa denominazione nella vecchia terminologia, o non ha mesi o, per averne dodici, un suo mese è di tre giorni. Perciò in quel passo è stato detto: Nell'anno seicentesimo, nel secondo mese, il ventisette del mese, perché i mesi erano come ora. Così non si poteva dire che il diluvio era cominciato il ventisette del secondo mese. Di seguito alla fine del diluvio si legge: L'arca si adagiò nel settimo mese il ventisette del mese sui monti Ararat. L'acqua diminuì fino all'undecimo mese; nel mese undecimo, il primo del mese, apparvero le vette dei monti 60. Se dunque i mesi corrispondevano a quelli di oggi, certamente anche gli anni corrispondevano. I mesi di tre giorni non potevano giungere al ventisette. O se allora la trentesima parte di tre giorni era considerata un giorno in modo da diminuire tutti i computi di tempo in proporzione, neanche quattro giorni dei nostri durò quell'immane diluvio che, come è tramandato, durò quaranta giorni e quaranta notti. Non si può sostenere simile assurdità e stravaganza. Si respinga quindi questo errore che con una falsa ipotesi vuole costruire la credibilità della nostra Scrittura per demolirla in un altro settore. Certamente il giorno in quel tempo era lungo come in questo in cui lo delimitano ventiquattro ore nel ciclo diurno e notturno, il mese lungo come in questo tempo in cui lo circoscrive la luna nella fase crescente e calante, l'anno lungo come in questo tempo in cui lo completano dodici mesi lunari con l'aggiunta di cinque giorni e un quarto di giorno a causa del ciclo solare. Così era il secondo mese del seicentesimo anno di Noè e il giorno ventisette di quel mese quando cominciò il diluvio. Durante esso per quaranta giorni caddero ininterrottamente piogge impetuose 61 e i giorni non avevano due ore e poco più ma ventiquattro ore che si succedevano giorno e notte. Perciò i Patriarchi vissero, sia pure oltre i novecento, anni lunghi come i centosettanta che aveva Abramo 62 e dopo di lui come i centottanta che aveva il figlio Isacco 63, i centocinquanta che ebbe il figlio di lui Giacobbe 64 e come i centoventi che, dopo un po' di tempo, visse Mosè 65 e lunghi come i settanta o ottanta o non molto di più che oggi vivono gli uomini. Di essi è stato detto: Se in più, vi sono per essi fatica e dolore 66.

 L'autorità dei Settanta.
14. 2. Quindi la differenza di cifre che si riscontra fra il testo ebraico e il nostro non è in contrasto per quanto riguarda la longevità dei Patriarchi e se v'è in qualche passo un disaccordo tale che non può esser vera l'una e l'altra versione, la verità dei fatti si deve ricercare dalla lingua da cui è stato tradotto il testo che abbiamo noi. Questa possibilità è alla portata di chi ne ha voglia in ogni parte del mondo, tuttavia non va omesso che nessuno ha avuto il coraggio di rettificare mediante il testo ebraico i Settanta nei molti punti in cui sembra che ne dissentano. Questa differenza infatti non è stata considerata una inesattezza né io penso che debba esser considerata tale. Si deve ammettere però che, dove non v'è una svista dello scrivano, essi, mossi dallo Spirito divino, non nell'incarico di traduttori ma nella libertà di uomini ispirati, abbiano voluto indicare un altro significato nei passi in cui si conciliava con la verità e l'annunciava. Quindi si riscontra a ragione che l'autorità degli Apostoli, quando riporta i brani della Scrittura, usa non solo il testo ebraico ma anche il loro. Ma ho promesso, con l'aiuto di Dio, di parlare a fondo sul problema in circostanza più conveniente 67, ora sbrigherò l'argomento attinente. Non si deve mettere in dubbio che sia stato possibile all'uomo, che era primogenito del primo uomo, quando erano tanto longevi, edificare una città certamente terrena, non quella che è detta città di Dio. Per parlarne abbiamo messo mano al lavoro di un'opera così importante.

 Primogeniti genealogie e le due città.
15. 1. Qualcuno potrebbe obiettare: si deve credere allora che un individuo, il quale poteva aver figli e non aveva il proponimento della castità, ha potuto astenersi dal giacere con donne per cento anni e più o, secondo il testo ebraico, per non molto meno, cioè ottanta, settanta, sessanta anni, e se non si è astenuto, che gli è stato possibile non aver figli? La domanda ha due risposte possibili. O la pubertà era in proporzione tanto posposta quanto maggiore era il numero degli anni della intera vita, ovvero, ipotesi che ritengo più attendibile, nel testo non sono menzionati i primogeniti ma quei figli che esigeva la genealogia per giungere a Noè. E vediamo che da lui si giunge ancora fino ad Abramo e poi fino a un determinato periodo di tempo in cui si richiede indicare, anche attraverso l'elenco delle genealogie, lo svolgersi della gloriosissima città in esilio in questo mondo e in viaggio verso la patria del cielo. Non si può negare tuttavia che Caino è il primo uomo nato dall'accoppiamento del maschio e della femmina. Altrimenti Adamo alla sua nascita non avrebbe detto ciò che si legge: Ho ricevuto un uomo da Dio 68, se egli nascendo non si fosse per primo aggiunto ai due genitori. Abele, che lo seguì e fu ucciso dal fratello maggiore, per primo presentò una predizione allegorica della città di Dio in esilio che avrebbe sopportato ingiuste persecuzioni dagli uomini empi e in certo senso nati dalla terra, che amano, cioè l'origine terrena e godono della terrena felicità della città terrena. Ma non è detto quanti anni aveva Adamo quando lo mise al mondo. Di seguito vengono registrate alcune generazioni da Caino e altre da colui che Adamo ebbe in sostituzione del figlio ucciso dal fratello. Gli diede il nome di Set e disse, come si ha nella Scrittura: Dio mi ha dato un altro figlio in luogo di Abele che Caino ha ucciso 69. Dunque queste due genealogie, una da Set, l'altra da Caino, indicano nelle rispettive serie le due città, di cui stiamo parlando, una celeste in esilio sulla terra, l'altra terrena che brama e si attacca agli ideali terreni come se fossero gli unici. Però nessuno della discendenza di Caino, sebbene essa sia stata iniziata da Adamo, inserito nella lista fino all'ottava generazione, è stato presentato col numero degli anni quando ha messo al mondo colui che è elencato dopo di lui. Lo Spirito di Dio non ha voluto indicare nelle generazioni della città terrena i periodi di tempo prima del diluvio, ha preferito farlo per quelle della città celeste, come se fossero più degne di passare alla storia. Quando nacque Set non sono stati passati sotto silenzio gli anni del padre 70 ma aveva già altri figli e non si può affermare che avesse avuto soltanto Caino e Abele. Non si deve ritenere come logica conseguenza che furono gli unici generati da Adamo perché sono i soli nominati nelle genealogie che era opportuno menzionare. Poiché, pur passato sotto silenzio il nome di tutti gli altri figli, si dice che ha generato figli e figlie, chiunque voglia evitare la taccia di avventato non può pretendere di indicare quale fu il numero dei figli. È possibile che, dopo la nascita di Set, Adamo ispirato da Dio abbia detto: Dio mi ha dato un altro figlio in luogo di Abele perché sarebbe stato tale da continuare la devozione del fratello e non perché egli fu il primo in ordine di tempo a nascere dopo di lui. È scritto poi: Set visse duecentocinque anni, nel testo ebraico centocinque, e diede alla luce Enos 71. Soltanto uno incapace di riflessione può dire che fu il primogenito. A buon diritto dovremmo chiederci meravigliati come ha fatto per tanti anni senza il voto di castità ad astenersi dall'accoppiamento ovvero perché, malgrado l'accoppiamento, non ha avuto figli. Al contrario anche di lui si legge: E diede alla luce figli e figlie e quando morì la sua età era di novecentododici anni 72. E così di seguito dei Patriarchi, di cui sono indicati gli anni, non si tace che hanno avuto figli e figlie. Quindi non appare affatto che il figlio menzionato fosse il primogenito. Anzi giacché non è credibile che quei Patriarchi per tanto tempo abbiano osservato il voto di castità o non abbiano avuto mogli e figli, non è credibile anche che quei figli fossero i primogeniti. Ma poiché l'agiografo intendeva giungere, attraverso il succedersi delle generazioni nei vari periodi, alla nascita e alla vita di Noè, non ricordò quelle che erano le prime per i genitori ma quelle che s'inserivano nell'ordine genealogico.

 Confronto con la genealogia di Matteo.
15. 2. Affinché l'assunto sia più chiaro voglio inserire, a titolo di esempio, una considerazione per cui non si controverta la possibilità di ciò che sto dicendo. L'evangelista Matteo, volendo affidare alla storia la genealogia della stirpe del Signore nella successione dei Patriarchi, cominciando dal patriarca Abramo e intendendo giungere nella prima serie fino a Davide, dice: Abramo generò Isacco. Perché non ha detto Ismaele che Abramo mise al mondo per primo? Isacco, prosegue, generò Giacobbe. Perché non ha detto Esaù che fu il primogenito? Perché evidentemente con essi non poteva giungere fino a Davide. Prosegue: Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli. Neanche Giuda fu il primogenito. Giuda, soggiunge, generò Fares e Zarat 73. Nessuno di questi due fu il primogenito di Giuda che prima di loro ne aveva avuti tre. Inserì dunque nella genealogia coloro attraverso i quali poteva giungere fino a Davide e da lui fino a chi intendeva. Se ne può dedurre che anche degli antichi prima del diluvio non furono menzionati i primogeniti ma coloro attraverso i quali il succedersi delle generazioni fosse tratto fino al patriarca Noè. Non ci affanni dunque il problema astruso e inutile della loro tardiva decisione ad accoppiarsi.

 L'ampliarsi delle parentele.
16. 1. Poiché il genere umano, dopo l'accoppiamento dell'uomo prodotto dal suolo e della donna prodotta dal fianco di lui, era condizionato, per aumentare di numero con le nascite, al congiungimento di maschi e femmine e gli individui umani erano soltanto i nati da loro due, gli uomini presero per mogli le proprie sorelle. Il fatto quanto è più antico perché inevitabile, tanto in seguito fu riprovevole perché lo proibiva il sentimento religioso. Si tenne presente infatti il nobile criterio dell'affetto per cui gli uomini, ai quali è moralmente vantaggioso il comunicare con gli altri, fossero uniti dai vincoli di varie relazioni di parentela. Perciò un solo individuo non doveva avere una moltitudine di rapporti soltanto con un altro, ma ogni relazione doveva ripartirsi in più individui e così più relazioni avrebbero impegnato più individui ad articolare con maggiore attenzione la vita comunitaria. Il padre e il suocero sono appellativi di due relazioni. Quindi l'affetto si allarga nel numero se si ha il padre diverso dal suocero. Adamo invece era costretto ad essere l'uno e l'altro per figli e figlie quando fratelli e sorelle si unirono in matrimonio. Anche Eva, la moglie, fu suocera e madre per l'uno e l'altro sesso della figliolanza. Se fossero state due donne, l'una madre, l'altra suocera, l'affetto per gli altri avrebbe avvinto un numero maggiore. Inoltre la sorella, che diventava anche moglie pur essendo una, aveva due vincoli che se fossero stati differenziati in modo che sorella e moglie fossero due persone, la parentela sarebbe accresciuta di numero. Ma non era possibile che in quel tempo ciò avvenisse perché dai due progenitori non erano nati individui umani che non fossero fratelli e sorelle. Doveva in seguito avvenire, quando fu possibile, che aumentando il numero si avessero per mogli donne che non erano sorelle e che non solo non v'era necessità di contrarre quel matrimonio, ma era empietà il contrarlo. Infatti anche se i nipoti dei progenitori, che potevano prendere per mogli le cugine, si fossero uniti in matrimonio con le sorelle, si sarebbero avuti in un solo uomo non più due ma tre rapporti, sebbene per diffondere l'affetto mediante una parentela sempre più larga dovrebbero essere distribuite una per ogni individuo. Diversamente un solo individuo sarebbe per i propri figli, cioè fratelli e sorelle sposati, padre suocero e zio materno e la moglie per i medesimi figli in comune madre zia paterna e suocera. Allo stesso modo i loro figli sarebbero reciprocamente non solo fratelli e sposi ma anche cugini, cioè figli di fratelli. Ora tutti questi rapporti di parentela, che legavano tre persone a una, se fossero distribuiti uno per ciascuno, ne unirebbero nove in modo che un solo individuo avrebbe diversi la sorella, la moglie, la cugina, il padre, lo zio, il suocero, la madre, la zia, la suocera. Il vincolo sociale non sarebbe ristretto a pochi ma sarebbe allargato a un numero sempre più ampio con le molte parentele.

 Incompatibilità di matrimonio e parentela.
16. 2. Osserviamo che, essendo cresciuta e aumentata di numero la specie umana, questa regola è osservata anche fra gli adoratori di molti falsi dèi. Difatti sebbene matrimoni tra fratelli e sorelle siano permessi da leggi ingiuste, un più onesto comportamento preferisce aborrire questa aberrazione e sebbene nei primordi dell'umanità fosse lecito prendere come mogli le sorelle, ora esso disdegna il fatto come se mai fosse stato lecito. Il costume infatti influisce molto nel blandire o disgustare l'umana sensibilità e poiché in questo settore reprime la sfrenatezza della sensualità, giustamente si considera disonestà se essa non riconosce il limite e si corrompe. Se è disonestà violare, per l'avidità di possedere, il confine dei campi, è molto più disonesto rovesciare il confine della moralità per il piacere del sesso. Sappiamo per esperienza che anche ai nostri tempi, stando alle usanze, raramente si compie il matrimonio con le cugine per il grado di parentela molto vicino a quello dei fratelli, sebbene fosse consentito dalle leggi, poiché non l'ha proibito la legge divina e ancora non l'aveva proibito quella umana. Un rapporto per sé legittimo si detestava a causa della somiglianza con l'illegittimo perché sembrava che il legame che si contraeva con la cugina fosse contratto con una sorella. Anche i cugini a causa della stretta parentela sono chiamati fratelli e quasi dello stesso padre 74. Per i Patriarchi, affinché la parentela, la quale si frazionava un po' alla volta nella serie delle discendenze, non divenisse alla lontana e non cessasse di esser parentela, fu connaturato a un impegno religioso avvincerla con un nuovo vincolo di matrimonio e per così dire rincorrerla mentre fuggiva. Perciò quando la terra era già popolata, gli uomini preferivano sposare non già sorelle di padre o di madre o nate dall'uno e dall'altro dei propri genitori, ma comunque donne della propria tribù. Tuttavia è innegabile che oggi con maggior senso morale sono stati proibiti i matrimoni anche fra cugini. E questo non solo per i motivi che ho esposto, cioè per aumentare il numero dei congiunti affinché una sola persona non abbia due vincoli con un'altra, se possono averli in due e così accrescere il parentado. C'è anche, non saprei in quale misura, che è inerente al pudore umano, qualcosa di moralmente congenito per cui l'uomo trattiene dalla donna alla quale deve, a causa della parentela, un deferente rispetto, la sessualità anche se destinata a generare. Vediamo che ne arrossisce perfino la verecondia coniugale.

 Generazione e rigenerazione.
16. 3. L'unione di maschio e femmina, per quanto attiene al genere umano, è il vivaio della città, ma la città terrena ha bisogno soltanto della generazione, quella celeste anche della rigenerazione per sfuggire alla condanna della generazione. La Storia sacra tace se prima del diluvio vi sia stata, e se v'è stata, quale fu la figura simbolica concreta e visibile della rigenerazione, come la circoncisione imposta in seguito ad Abramo 75. Non tace però che anche gli uomini primitivi hanno offerto sacrifici a Dio, come fu manifesto nei due fratelli 76 e si legge che dopo il diluvio anche Noè, uscito dall'arca, immolò vittime a Dio 77. Sull'argomento nei libri precedenti ho detto che i demoni, i quali si arrogano la natura divina e bramano di esser creduti dèi, esigono il sacrificio e godono di tali onori soltanto perché sanno che il sacrificio vero è dovuto al Dio vero 78.

Simbolismo delle due discendenze.
17. Adamo era padre dell'una e dell'altra discendenza, cioè di quella la cui genealogia appartiene alla città terrena e dell'altra la cui genealogia appartiene alla città celeste. Ucciso Abele, alla cui morte è affidato un mirabile mistero, divennero rispettivamente padri delle due città Caino e Set perché nei loro figli, che era opportuno nominare, cominciarono a manifestarsi con maggiore evidenza i caratteri delle due città nell'umana discendenza. Caino generò Enoch e nel suo nome fondò una città, certamente terrena, non esule viandante in questo mondo ma in riposo nella pace e prosperità temporali. Caino significa possesso, perciò quando nacque tanto il padre che la madre dissero: Ho acquistato un uomo dal Signore 79. Enoch invece significa "inaugurazione" 80, in quanto la città terrena s'inaugura in questo mondo dove è fondata, perché in questo mondo ha il fine che si propone e persegue. Inoltre Set significa "risurrezione" 81 e il figlio Enos "uomo" 82 ma non come Adamo. Anche questo nome significa uomo ma ci vien fatto sapere che in quella lingua, cioè l'ebraico, è comune al maschio e alla femmina. Si ha nella Scrittura: Li creò maschio e femmina, li benedisse e li denominò Adamo 83. Quindi non c'è dubbio che la donna con un proprio nome fu chiamata Eva in modo che Adamo, che significa uomo, fosse il nome di tutti e due. Enos significa uomo in un senso che, per quanto affermano gli intenditori di quella lingua, non si può applicare alla donna, e cioè come figlio della risurrezione dove non sposeranno e non saranno sposati 84. Non ci sarà generazione in quello stato a cui ci avrà condotto la rigenerazione. Perciò ritengo che non sia inutile rilevare che nelle generazioni provenienti dal patriarca chiamato Set, sebbene si dica che ha generato figli e figlie, non v'è rammentata esplicitamente alcuna donna. In quelle di Caino al contrario, giunte alla fine, per ultima vi sarà ricordata una donna. Ecco il passo: Matusael generò Lamech che prese due mogli, una chiamata Ada, l'altra Sella. Ada partorì Iobel, il padre di coloro che abitano nelle tende dei pastori nomadi. Il nome del fratello fu Iobal che inventò l'arpa e la cetra. Sella generò Thobel che fu fabbro forgiatore di bronzo e ferro. Sorella di Thobel fu Noemas 85. Fin qui si estendono le generazioni di Caino che in tutto da Adamo sono otto, compreso lo stesso Adamo, cioè sette fino a Lamech che ebbe due mogli. L'ottava è la generazione dei suoi figli, fra i quali è ricordata anche una donna. Nel passo è indicato con finezza che la città terrena sino alla fine avrà delle generazioni carnali che provengono dalla unione di maschi e femmine. Per questo sono rammentate con i loro nomi le stesse mogli di quell'uomo che in quella serie è indicato come l'ultimo patriarca. È un fatto che, fatta eccezione per Eva, non si riscontra prima del diluvio. Dunque Caino, che significa "possesso", fondatore della città terrena e il figlio Enoch, dal quale la città ebbe il nome, che significa "inaugurazione", simboleggiano che questa città ha l'inizio e la fine sulla terra, perché in essa non si ha speranza di altro bene fuor di quello che si può ottenere nel tempo. Così poiché Set, capostipite delle generazioni menzionate, significa "risurrezione", si deve esaminare che cosa la Storia sacra dice di suo figlio.

Enos e la speranza.
18. Anche a Set, dice la Scrittura, nacque un figlio e lo chiamò Enos: questi sperò d'invocare il nome del Signore 86. È un'acclamante affermazione di verità. Dunque vive nella speranza l'uomo figlio della risurrezione, vive nella speranza, finché è esule nel mondo, la città di Dio che è generata dalla fede nella risurrezione di Cristo. La morte di Cristo e la sua vita dopo la morte sono simboleggiate da due uomini, da Abele, che significa lutto 87, e dal fratello Set che significa risurrezione. Da questa fede si genera nel mondo la città di Dio, cioè l'uomo che sperò d'invocare il nome del Signore. Dice l'Apostolo: Siamo stati salvati dalla speranza. Una speranza, che è oggetto di conoscenza, non è speranza. Che cosa si spera se già si conosce? Se speriamo ciò che non conosciamo, aspettiamolo con perseveranza 88. Non si può ritenere che questo concetto sia privo della sublimità del mistero. Certamente Abele sperò d'invocare il Signore perché la Scrittura ricorda che il suo sacrificio era molto accetto a Dio. Anche Set sperò d'invocare il nome del Signore perché di lui è detto nella Scrittura: Dio mi ha concesso un altro figlio in luogo di Abele 89. Perché dunque si attribuisce in particolare ad Enos una dote che s'intende comune a tutti gli uomini di pietà? Era indispensabile che nell'individuo ricordato come primo discendente del patriarca delle generazioni prescelte a una mèta più alta, quella cioè della città celeste, fosse allegoricamente indicato l'uomo, cioè la società umana che non vive secondo l'uomo nella realtà della felicità terrena ma secondo Dio nella speranza della felicità eterna. E non è stato detto: Egli sperò nel Signore, o: Egli invocò il nome del Signore, ma: Sperò d'invocare il nome del Signore. L'espressione: Sperò d'invocare come preannuncio profetico significa che sarebbe sorto un popolo, il quale mediante l'inserimento operato dalla grazia avrebbe invocato il nome del Signore. È il medesimo significato che, espresso da un altro Profeta 90, l'Apostolo riferisce al popolo che partecipa della grazia di Dio: Avverrà che chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo 91. Nella espressione della Scrittura: E gli diede il nome di Enos che significa uomo e in quella che segue: Egli sperò d'invocare il nome del Signore si palesa chiaramente che l'uomo non deve riporre la speranza in se stesso. In un altro testo si legge: È maledetto chiunque ripone la sua speranza nell'uomo 92. Quindi non deve riporla neanche in se stesso affinché sia cittadino della città che non è inaugurata col nome del figlio di Caino nel tempo, in questo incessante e mortale succedersi degli eventi, ma nell'immortalità della felicità eterna.

Enoch il differimento alla fine.
19. Anche la discendenza, il cui patriarca è Set, ha il termine di inaugurazione nella settima generazione da Adamo, Adamo compreso. Il settimo discendente da lui appunto è Enoch che significa "inaugurazione". Ed egli fu anche elevato al cielo perché piacque a Dio e in un numero insigne nell'ordine genealogico, cioè il settimo da Adamo, perché in esso fu reso sacro il sabato. Però dal patriarca di queste generazioni, distinte dalla discendenza di Caino, cioè da Set, è il sesto che corrisponde al giorno in cui fu creato l'uomo e Dio diede compimento a tutte le sue opere. Ma l'elevazione di questo Enoch indica allegoricamente il differimento della nostra inaugurazione. È già avvenuta in Cristo, nostro capo, che è risorto per non morire più ed anche egli è stato elevato. Rimane però da compiere l'inaugurazione di tutta la casa di cui Cristo è il fondamento 93. Essa è differita alla fine quando avverrà la risurrezione di tutti che non morranno più. Non fa differenza chiamarla casa di Dio, tempio di Dio, città di Dio e non discorda dal modo di esprimersi della lingua latina. Virgilio considera la casa di Assaraco molto adatta al dominio perché voleva indicare i Romani che tramite i Troiani discendono da Assaraco 94. Considera anche gli stessi Romani casa di Enea perché i Troiani, venuti sotto la sua guida in Italia, fondarono Roma 95. Il poeta ha imitato la sacra Scrittura, in cui si considera casa di Giacobbe l'ormai numeroso popolo ebraico.

 La città terrena è del tempo.
20. 1. Qualcuno potrebbe osservare: dunque l'agiografo intendeva tessere la genealogia di Adamo tramite il figlio Set per giungere a Noè col quale avvenne il diluvio. Da lui continuò la serie dei discendenti per giungere ad Abramo, dal quale l'evangelista Matteo inizia le generazioni con cui giunge a Cristo, re eterno della città di Dio. Che intento aveva l'agiografo nelle generazioni da Caino e fin dove voleva proseguirle? Si risponde: fino al diluvio col quale fu sterminata tutta la discendenza della città terrena, che fu poi restituita con i figli di Noè. Non sarà possibile infatti che la città terrena e la società degli uomini, le quali vivono secondo l'uomo, vengano a mancare prima della fine del tempo, perché di esso il Signore ha detto: I figli del tempo generano e sono generati 96. La rigenerazione invece conduce la città di Dio esule in questo tempo ad un altro tempo i cui figli non generano e non sono generati. In questo mondo l'esser generato e il generare è comune all'una e all'altra, sebbene la città di Dio abbia anche in questo mondo moltissimi cittadini che si astengono dal generare, ma anche l'altra ne ha per una forma di imitazione, quantunque i suoi cittadini siano in errore. Ad essa appartengono anche coloro che derogando dalla fede della città di Dio hanno dato origine alle varie eresie, perché vivono secondo l'uomo e non secondo Dio. Sono cittadini della città terrena anche i saggi nudisti degli Indiani, di cui si dice che si dedicano nudi alla filosofia nei luoghi deserti dell'India e si astengono dall'aver figli 97. Non è un bene questo se non si adempie a norma della fede nel sommo bene che è Dio. Si sa che prima del diluvio non si usava. Anche Enoch, settimo da Adamo che, secondo la tradizione, pur non essendo morto, fu elevato al cielo, prima di essere elevato, generò figli e figlie, fra i quali Matusalem per il cui tramite si continuò la serie genealogica da consegnare alla storia.

 Ripensamenti sulla genealogia di Caino.
20. 2. Ci si chiede quindi perché si allega un numero tanto ristretto di discendenti nella genealogia di Caino se era necessario continuarli fino al diluvio e non era così lunga l'età prepuberale che per cento anni e più non aveva figli. Se l'agiografo non aveva in mente un discendente al quale ricondurre per stretto legame la serie delle generazioni, come al contrario con quelle che provenivano da Set aveva in mente di giungere a Noè, da cui la serie per stretto legame doveva continuare, non era ragionevole omettere i figli primogeniti per giungere a Lamech. Con i suoi figli si chiude la serie nell'ottava generazione da Adamo e nella settima da Caino. Sembra che da quel punto si debba connettere qualche riferimento per giungere al popolo d'Israele, in cui la Gerusalemme terrena offrì un'allegoria profetica alla città del cielo, o al Cristo secondo la carne, che è al di là dell'universo, il Dio benedetto per tutti i tempi 98, autore e re della Gerusalemme celeste. Invece tutta la discendenza di Caino fu distrutta dal diluvio. Se ne può dedurre che in una medesima genealogia sono stati menzionati soltanto i primogeniti. Perché allora sono tanto pochi? Infatti non è possibile che prima del diluvio fossero così pochi, se i genitori non erano impediti dall'impegno di generare a causa di una pubertà centenaria, dato che la pubertà non era tardiva in relazione alla longevità. Erano di circa trenta anni quando cominciavano ad aver figli. Ora otto volte trenta anni (giacché sono otto le generazioni da Adamo ai figli di Lamech) ne fanno duecentoquaranta. Ma che per tutto il tempo fino al diluvio non ebbero più figli? E perché l'agiografo non ha voluto nominare le generazioni successive? Ora da Adamo fino al diluvio sono calcolati dal nostro testo duemiladuecentosessantadue anni, secondo quello ebraico milleseicentocinquantasei. Se riteniamo più verosimile la cifra minore e vengono sottratti dai milleseicentocinquantasei i duecentoquaranta anni, non è credibile che per millequattrocento anni e rotti, che rimangono fino al diluvio, la discendenza di Caino abbia potuto astenersi dall'aver figli.

 Soluzioni possibili.
20. 3. Ma chi si turba per questo motivo ricordi che, quando mi proposi in qual senso si deve interpretare come fu possibile agli antichi non aver figli per tanti anni, si disse che il problema può avere due soluzioni: o da una tardiva pubertà in relazione alla vita longeva o dal fatto che i figli, inseriti nella genealogia, non furono i primogeniti ma quelli dai quali arrivare al patriarca che aveva in mente l'autore del libro, come Noè nelle generazioni da Set. Quindi nella discendenza di Caino, se non è nominato il personaggio al quale si dovrebbe giungere tramite quelli nominati, se i primogeniti sono omessi, resterà l'ipotesi di una tardiva pubertà. Così un po' dopo i cento anni gli uomini sarebbero divenuti maturi sessualmente e abili ad avere figli in modo che la discendenza si svolgesse attraverso i primogeniti e giungesse fino al diluvio in un determinato numero di anni. Potrebbe anche darsi che per una ragione più arcana, che mi sfugge, la città, che consideriamo terrena, fosse segnalata dalla successione pervenutaci delle generazioni fino a Lamech e figli e poi l'agiografo abbia smesso di menzionare le altre che vi poterono essere fino al diluvio. Vi può essere un'altra ragione per cui la genealogia non viene rassegnata con i primogeniti, in modo che non si debba ricorrere a una pubertà tanto tardiva, e cioè la città che Caino fondò col nome del figlio Enoch poté regnare su un vasto territorio e avere molti re non contemporaneamente ma ciascuno in un proprio periodo ed erano figli e successori dei regnanti. È possibile che il primo di questi re sia stato Caino, il secondo il figlio Enoch che diede il nome alla città fondata come capitale, il terzo Gaidad figlio di Enoch, il quarto Mevia figlio di Gaidad, il quinto Matusael figlio di Mevia, il sesto Lamech figlio di Matusael che è il settimo da Adamo nel ceppo di Caino 99. Questo non significa che il primogenito succedesse necessariamente al padre, ma colui che fosse segnalato da una benemerenza vantaggiosa alla città terrena o da un destino qualsiasi o piuttosto che, quasi per un determinato diritto ereditario, succedesse al padre colui che ne era il prediletto. È possibile che il diluvio avvenne mentre ancora viveva e regnava Lamech, che il diluvio raggiunse e sommerse assieme a tutti gli altri uomini, eccetto quelli che erano nell'arca. Non deve sorprendere se le due stirpi, dato il notevole numero di anni intercorsi, in un lungo spazio di tempo, da Adamo al diluvio, presentino discendenti di numero disuguale, cioè sette nel ceppo di Caino e dieci in quello di Set. Ho già detto che Lamech è settimo da Adamo e Noè decimo. Quindi non è stato menzionato un solo figlio di Lamech, come nelle altre generazioni, ma più perché era incerto chi doveva succedergli quando moriva, se fosse rimasto un periodo di regno fra lui e il diluvio.

 Undici numero infausto.
20. 4. Ma comunque sia impostata la serie delle generazioni che decorre da Caino tramite primogeniti o re, mi pare che, accertato che Lamech è il settimo da Adamo, per nessuna ragione si deve passare sotto silenzio l'aggiunta di tanti figli fino a raggiungere il numero undici che è simbolo di peccato. Si aggiungono infatti tre figli e una figlia. Altro possono simboleggiare le mogli, non quel che mi pare doversi esporre in questo momento. Stiamo parlando della discendenza, ma nel testo non si fa cenno da dove provengano. Poiché dunque la Legge si bandisce al numero dieci, e da qui il famoso Decalogo, certamente il numero undici, poiché va al di là del dieci, simboleggia la trasgressione della Legge e quindi il peccato. Perciò fu dato l'ordine che nella tenda dell'Alleanza, la quale era nel viaggio del popolo di Dio come un tempio portatile, si disponessero undici teli di pelo di capra 100. Nella stuoia dal pelo di capra v'è il ricordo del peccato a causa dei capri che andranno alla sinistra 101. Rendendocene coscienti ci prostriamo in esso come per dire ciò che è scritto nel Salmo: Il mio peccato mi è sempre dinanzi 102. Quindi la discendenza, che da Adamo passa per lo scellerato Caino, si chiude col numero undici, da cui è simboleggiato il peccato e il numero ha al termine una donna, perché da questo sesso avvenne l'inizio del peccato per cui tutti dobbiamo morire. Fu commesso appunto perché ne seguisse il piacere della carne che si oppone allo spirito. Per questo anche la figlia di Lamech Noema significa piacere 103. Nella discendenza di Set invece da Adamo a Noè viene segnalato il numero dieci conveniente alla legge. A Noè si aggiungono i tre figli ma, essendo uno incorso nella colpa, due soltanto hanno la benedizione del padre. Così escluso l'indegno e aggiunti al numero i degni di lode si raggiunge il numero dodici che è da segnalare anche nel numero dei Patriarchi e degli Apostoli in vista del prodotto delle due parti del numero sette. Difatti quattro per tre e tre per quattro fanno dodici. Stando così le cose, noto che si deve esaminare e trattare in qual senso le due stirpi, che in distinte serie di generazioni designano le due città, una dei generati dalla terra l'altra dei rigenerati, si confusero commischiandosi al punto che l'intero genere umano, ad eccezione di otto persone, meritò di morire nel diluvio.

Due città due discendenze.
21. C'è una considerazione da premettere. Le generazioni sono enumerate da Caino e, prima degli altri che succedono, è menzionato colui che diede il nome alla città fondata, cioè Enoch. Poi gli altri vengono annoverati fino a quel termine, di cui ho parlato, quando la discendenza di tutta la stirpe fu sterminata dal diluvio. Invece appena menzionato il figlio di Set, Enos 104, prima di aggiungere gli altri discendenti fino al diluvio, si frappone una frase con le parole: Questo è il libro dell'origine degli uomini, nel giorno in cui Dio creò Adamo, lo creò ad immagine di Dio. Li creò maschio e femmina e li benedisse e nel giorno in cui li creò diede loro il nome di Adamo 105. A mio parere, la frase è stata interposta affinché da Adamo iniziasse la cronologia, che l'agiografo non ha voluto indicare per la città terrena, come se Dio la ricordasse per non farne il computo. La ragione per cui si torna a questo riassunto dopo che è stato menzionato il figlio di Set, l'uomo che sperò d'invocare il nome del Signore 106, sta nel fatto che era conveniente presentare le due città, l'una da un omicida a un omicida, perché anche Lamech confessa alle due mogli di aver compiuto un omicidio 107, l'altra tramite colui che cominciò ad invocare il nome del Signore. Questa è infatti nello stato di soggezione alla morte l'unica importante occupazione della città di Dio in esilio in questo mondo, occupazione che doveva essere inculcata da un solo uomo nato dalla risurrezione di un ucciso. Quell'unico uomo è l'unità di tutta la città dell'alto, non ancora adempiuta ma da adempiere sulla base del preannuncio di questa allegoria profetica. Quindi il figlio di Caino, cioè il figlio del possesso, certamente sulla terra, abbia pure il nome nella città terrena, perché fu fondata col suo nome. Essa da loro appunto deriva perché di essi si dice nel Salmo: Daranno il loro nome alle loro città 108. Perciò li riguarda ciò che è scritto in un altro Salmo: Signore, farai scomparire la loro immagine dalla tua città 109. Invece il figlio di Set, cioè il figlio della risurrezione, speri d'invocare il nome del Signore perché indica allegoricamente quella umana società che dice: Io come un olivo verdeggiante nella casa di Dio sperai nella sua misericordia 110. Non aspiri alla vanagloria di un nome illustre sulla terra perché è felice l'uomo che spera nel nome del Signore e non si è volto a inseguire illusioni di grandezza e menzognere frenesie 111. Dunque dalla tematica delle due città uscite, per così dire, dalla porta comune della soggezione alla morte, che fu aperta con Adamo, l'una nella vicenda del tempo, l'altra nella speranza in Dio per avanzare e giungere al traguardo verso distinti e rispettivi obiettivi, ha inizio la cronologia. Ad essa altre stirpi si aggiungono tenendo presente la derivazione da Adamo. Dalla sua discendenza condannata, come da un solo blocco consegnato al giusto castigo, Dio produce vasi d'ira all'infamia e vasi di misericordia al premio 112 rendendo ai primi con la pena ciò che è dovuto e a questi con la grazia ciò che non è dovuto. Perciò anche nel confronto con i vasi d'ira la città dell'alto apprenda, poiché è in esilio sulla terra, a non fidarsi della libertà del proprio arbitrio, ma speri d'invocare il nome del Signore. Infatti la volontà nello stato di natura, creata buona da Dio buono, ma mutabile da un essere immutabile perché dal nulla, può declinare dal bene per compiere il male che si compie con il libero arbitrio e può declinare dal male per compiere il bene che non si compie senza l'aiuto di Dio.

Il diluvio: fatti e allegorie [22-27]

Amore bellezza virtù.
22. Poiché con il libero arbitrio della volontà il genere umano continuava ad aumentare avvennero la commischianza e, mediante la partecipazione della immoralità, una certa indistinzione delle due città. Ancora una volta il danno ebbe ragion d'essere dal sesso femminile, non nella maniera che si ebbe all'inizio perché non si trattò del caso che donne sedotte dall'inganno di qualcuno inducessero i mariti a peccare. Però fin dal principio le donne, che per i cattivi costumi appartenevano alla città terrena, cioè alla società dei generati della terra, furono amate per la bellezza fisica dai figli di Dio, cioè dai cittadini dell'altra città in esilio nel tempo 113. La bellezza è un bene che è dono di Dio, ma è concessa anche ai cattivi perché non sembri un gran bene ai buoni. Abbandonato quindi il bene grande e proprio dei buoni, avvenne la caduta al bene più basso, non proprio dei buoni ma comune a buoni e cattivi. Così i figli di Dio furono avvinti dall'amore per le figlie degli uomini e per averle come mogli decaddero nella moralità della società terrena abbandonando la religione che osservavano nella società santa. In tal modo la bellezza fisica, che è certamente un bene prodotto da Dio ma temporale carnale infimo, è amata male perché si trascura Dio, bene eterno spirituale perenne, come con la violazione della giustizia l'oro è amato dagli avari non per un peccato dell'oro ma dell'uomo. Così è ogni creatura. Essendo un bene si può amare bene e male, cioè bene nel rispetto dell'ordine, male nella violazione dell'ordine. Ho espresso brevemente questi concetti in un elogio al cero: Queste cose sono tue e sono buone perché Tu che sei buono le hai create. Niente di nostro v'è in esse se non che, violando l'ordine, pecchiamo amando non Te ma ciò che da Te è creato 114. Se il Creatore si ama secondo verità, cioè se non si ama invece di Lui altro che Egli non è, non è possibile che sia amato di amore cattivo. Anche l'amore si deve amare ordinatamente perché con esso si ama l'oggetto che si deve amare affinché sia in noi la virtù con cui si vive bene. Mi sembra quindi che definizione breve e vera della virtù è l'ordine dell'amore. Per questo nel sacro Cantico dei Cantici la sposa di Cristo, cioè la città di Dio, canta: Date ordine in me alla carità 115. Dunque infranto l'ordine di questa carità, cioè dell'affetto e dell'amore, i figli di Dio trascurarono Dio e amarono le figlie degli uomini. Con i due termini si distinguono sufficientemente le due città. Anche essi per natura erano figli degli uomini ma avevano cominciato ad avere un altro nome per effetto della grazia. Nel medesimo libro della Scrittura, in cui si dice che i figli di Dio amarono le figlie degli uomini, si dice anche che essi erano angeli di Dio. Per questo molti pensano che non fossero uomini ma angeli.

 I figli di Dio e le donne belle.
23. 1. Ho lasciato senza soluzione la questione accennata di passaggio nel terzo libro di questa opera, cioè se gli angeli, pur essendo spirito, possono coire con donne 116. Si ha nella Scrittura: Egli rende suoi angeli gli esseri spirituali, cioè rende suoi angeli esseri che per natura sono spiriti affidando loro l'incarico di messaggeri. La parola greca, , che nella forma latina si rende con la parola "angelo", nella nostra lingua si traduce "messaggero". Ma è dubbio se subito dopo ha inteso il loro corpo con le parole: Rende le vampe del fuoco suoi servitori 117, ovvero che i suoi servitori devono ardere di carità come di un fuoco spirituale. Ma la stessa Scrittura, che è sommamente veritiera, afferma che gli angeli sono apparsi in un corpo tale che era possibile non solo vederli ma anche toccarli. Ed è notizia assai diffusa e molti confermano di averlo sperimentato o di avere udito chi l'aveva sperimentato che i silvani e i fauni, i quali comunemente sono denominati "incubi", spesso sono stati sfacciati con le donne e che hanno bramato e compiuto l'accoppiamento con loro. Che certi demoni, denominati "dusi" dai Galli, continuamente tentano e compiono questa porcheria lo affermano parecchi e sono di tale prestigio che negarlo sembrerebbe mancanza di rispetto. Non oso dedurne che alcuni spiriti, presa forma corporea nell'aria, giacché questo elemento è percepito sensibilmente col tatto anche agitando un ventaglio, possono essere soggetti a questa sensualità sicché si uniscono alle donne come è loro possibile. Tuttavia in nessun senso ammetterei che gli angeli santi di Dio abbiano potuto allora decadere in tal modo. Neanche l'apostolo Pietro alludeva a quei tali quando scrisse: Se Dio non ha perdonato agli angeli che avevano peccato ma, rinchiudendoli nelle carceri tenebrose dell'abisso, ingiunse che fossero riservati per essere puniti nel giudizio 118, ma alluse piuttosto a quelli che al principio ribellandosi a Dio decaddero col diavolo, loro principe, il quale per invidia fece cadere il primo uomo con l'inganno del serpente. La sacra Scrittura stessa attesta frequentemente che anche gli uomini di Dio sono stati dichiarati angeli. Si dice di Giovanni: Ecco io mando il mio angelo davanti a te ed egli preparerà la tua via 119. Anche il profeta Malachia per una sua grazia personale, cioè per una grazia impartita personalmente a lui, fu chiamato angelo 120.

 Giganti prima e dopo il diluvio.
23. 2. Alcuni sono sconcertati quando leggiamo che da coloro che furono chiamati angeli di Dio e dalle donne da essi amate, non nacquero uomini della nostra specie ma giganti. Reagiscono quasi che, come ho ricordato sopra, ai nostri tempi non siano venute al mondo delle corporature umane che superano la nostra statura. Pochi anni addietro, un po' prima del saccheggio della città di Roma operato dai Goti, venne a Roma col padre e con la madre una donna che con una corporatura in certo senso gigantesca superava di molto gli altri. Avveniva di continuo un'incredibile affluenza di gente per vederla. Ed era di grande ammirazione il fatto che tutti e due i suoi genitori non erano almeno di una statura tale da arrivare agli individui dalla statura più alta che di solito vediamo. È possibile dunque che i giganti nascessero anche prima che i figli di Dio, detti anche angeli di Dio, si unissero alle figlie degli uomini, quanto dire che vivevano secondo gli uomini, cioè la figliolanza di Set con quella di Caino. Infatti la sacra Scrittura, nel libro in cui leggiamo l'episodio, si esprime con queste parole: Avvenne dopo che gli uomini cominciarono ad aumentare di numero sulla terra e nacquero loro delle figlie. Vedendo gli angeli di Dio che le figlie degli uomini erano buone, ne presero per mogli tutte quelle che avevano scelto. Disse il Signore: non rimarrà per sempre il mio Spirito in questi uomini perché sono carne. Sarà la loro vita per altri centoventi anni. V'erano dei giganti sulla terra in quei giorni e dopo il fatto che i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini e generavano per sé i figli, questi erano giganti, uomini famosi nel tempo 121. Queste parole del Libro sacro indicano sufficientemente che in quei giorni v'erano giganti sulla terra, quando, cioè, i figli di Dio presero per mogli le figlie degli uomini perché le volevano buone cioè belle. È abituale in questa parte della Scrittura chiamare buoni anche i belli d'aspetto. Ma anche dopo questa evenienza nacquero dei giganti. Dice infatti: V'erano dei giganti sulla terra in quei giorni e dopo il fatto che figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini. Quindi in quei giorni prima e dopo il fatto. La frase: E generavano per sé mostra con evidenza che anteriormente, prima che i figli di Dio decadessero in quel modo, generavano per il Signore, non per sé, cioè non perché dominava la libidine dell'accoppiamento, ma perché era impegnato il dovere di procreare e non la famiglia della propria presunzione, ma i cittadini della città di Dio. Ad essi dovevano annunziare, come angeli di Dio, di porre in Dio la propria speranza 122, simili a colui che nacque da Set come figlio della risurrezione e sperò d'invocare il nome del Signore. In questa speranza dovevano essere coeredi dei beni eterni con i discendenti, inoltre fratelli dei figli nella soggezione a Dio Padre.

 Uomini angeli di Dio.
23. 3. Senza possibilità di dubbio la Scrittura attesta che non furono angeli di Dio nel senso che non erano uomini, come alcuni pensano, ma che certamente furono uomini. Era premesso infatti: Vedendo gli angeli di Dio che le figlie degli uomini erano buone, ne presero per mogli tutte quelle che avevano scelto; però di seguito si ha: Disse il Signore: il mio Spirito mai più rimarrà con questi uomini perché sono carne 123. Con lo Spirito di Dio erano diventati angeli di Dio e figli di Dio ma, decadendo ai beni inferiori, sono considerati uomini in termini di natura e non di grazia. Sono considerati anche carne perché avevano abbandonato lo Spirito e abbandonandolo erano stati abbandonati. Anche i Settanta li hanno denominati angeli di Dio e figli di Dio, ma non tutti i testi hanno la duplice denominazione, alcuni hanno soltanto figli di Dio. Aquila il traduttore, che i Giudei preferiscono, non ha tradotto né angeli di Dio né figli di Dio, ma figli degli dèi 124. Le due versioni sono vere. Infatti erano figli di Dio e in lui Padre erano anche fratelli dei padri, erano inoltre figli degli dèi perché generati da dèi, in quanto con loro anche essi erano dèi, secondo la frase del Salmo: Io ho detto: Siete dèi e figli dell'Eccelso tutti 125. Giustamente quindi si ritiene che i Settanta hanno avuto un'ispirazione profetica in modo che se col suo influsso modificavano qualcosa usando parole diverse da quelle che traducevano, non si deve dubitare che anche questo testo è di derivazione divina. Però si presenta come incerto che per il testo ebraico fosse possibile tradurre i figli di Dio con i figli degli dèi.

 I giganti negli apocrifi.
23. 4. Tralasciamo quindi le favole di quei libri della Scrittura chiamati apocrifi perché la loro indimostrabile autenticità non fu evidente ai padri dai quali l'autorità dei libri genuini è giunta a noi mediante una trasmissione molto fedele e notoria. Negli apocrifi, a causa dei molti errori, non si ha alcuna autorità canonica, sebbene vi sia contenuta qualche verità. Non possiamo negare che Enoch, settimo da Adamo, abbia scritto qualcosa per divina ispirazione perché lo dice l'apostolo Giuda in una lettera canonica 126. Ma giustamente i suoi scritti non sono in quel canone delle Scritture che si conservava nel tempio del popolo ebraico per la premura dei sacerdoti che si succedevano. A causa dell'antichità sono stati giudicati d'incerta credibilità, né si poteva dimostrare che fossero gli autentici da lui scritti in quanto non si avevano documenti che secondo le norme li avessero conservati nella serie della trasmissione. Quindi gli scritti, che sono trasmessi col suo nome e contengono sui giganti la favola che non ebbero uomini per padre, dai critici con evidenza sono ritenuti non autentici. Allo stesso modo dagli eretici sono stati rassegnati molti scritti intestati ad altri profeti e i più recenti ad apostoli, ma sono stati tutti estromessi dopo diligente esame dall'autorità canonica col nome di apocrifi. Quindi secondo le Scritture canoniche ebraiche e cristiane non v'è dubbio che prima del diluvio vi furono molti giganti e che furono cittadini della città degli uomini generata dalla terra e che i figli di Dio, i quali discendevano secondo la carne da Set, abbandonata la giustizia, si aggregarono a questa società. E non c'è da meravigliarsi se anche da loro nacquero giganti. Non tutti furono giganti ma furono assai di più che negli altri tempi dopo il diluvio. E piacque al Creatore crearli affinché da questo fatto venisse dimostrato che non soltanto la bellezza ma anche la grandezza e forza fisica non si devono tener in gran conto dal sapiente, il quale ottiene la felicità con beni spirituali e indefettibili di gran lunga più nobili e sicuri e propri dei buoni e non comuni a buoni e cattivi. Un altro Profeta, riferendosi a questa verità, dice: Vi furono i famosi giganti che fin da giovani furono di grande statura e addestrati alla guerra. Il Signore non li ha scelti e non ha affidato loro il cammino della scienza, ma scomparvero perché non ebbero la sapienza e andarono in rovina per la loro stupidaggine 127.

Il diluvio e l'ira di Dio.
24. La parola di Dio: La loro vita sarà di centoventi anni 128 non si deve interpretare nel senso di un preannuncio che dopo quei fatti gli uomini non avrebbero sorpassato i centoventi anni di vita. Troviamo che anche dopo il diluvio superarono perfino i cinquecento anni. Si deve intendere invece che Dio parlò così perché Noè era verso la fine dei cinquecento anni, ne aveva cioè quattrocentottanta che la Scrittura, per un suo modo d'esprimersi, considera cinquecento secondo la figura retorica della parte più alta per il tutto. All'anno seicento, secondo mese, della vita di Noè infatti avvenne il diluvio 129, così i centoventi anni sarebbero stati gli anni avvenire della vita degli uomini che dovevano morire perché, una volta passati, sarebbero stati sterminati dal diluvio. Né si deve credere senza ragione che il diluvio avvenne quando già in terra non si trovavano più coloro che meritavano di soccombere con una morte simile, giacché con essa si compì la vendetta contro gli empi. Non si dice nel senso che un tal genere di morte produca un effetto che potrebbe esser dannoso dopo la morte ai buoni che eventualmente ne morissero. Tuttavia nessuno di quelli, che la sacra Scrittura ricorda come discendenti della stirpe di Set, morì nel diluvio. Per divina ispirazione è narrata così la causa del diluvio: Vedendo il Signore che le malvagità dell'uomo aumentavano sulla terra e che ciascuno nel proprio cuore pensava con pertinacia tutti i giorni ad azioni cattive, Dio pensò al perché aveva creato l'uomo sulla terra e vi ripensò e disse: devo cancellare dalla faccia della terra l'uomo che ho creato, dall'uomo al bestiame e dai rettili fino agli uccelli del cielo perché sono adirato per averli creati 130.

Discorso anagogico della Scrittura.
25. L'ira di Dio non è un turbamento del suo spirito ma un giudizio con cui s'infligge la pena al peccato. Il suo pensare e ripensare agli eventi posti nel divenire è un disegno fuori del divenire. Dio non si pente, come l'uomo, di una sua azione perché di tutte le cose ha un giudizio assolutamente determinato e una consapevole prescienza. Ma se la Scrittura non usasse questi termini non si farebbe ascoltare in forma più accessibile da ogni tipo di uomini, ai quali vuole essere norma, per sbigottire gli orgogliosi, stimolare gli indolenti, animare i desiderosi di sapere, rinvigorire gli intelligenti. Non otterrebbe questi effetti se prima non si piegasse e in certo senso non si inchinasse verso coloro che sono caduti. Ad esempio, il comminare la fine di tutti i mammiferi e volatili enuncia l'estensione della futura ecatombe, ma non minaccia lo sterminio ad esseri animati privi di ragione, come se anch'essi avessero peccato.

 Dimensioni dell'arca e del corpo umano.
26. 1. C'è poi l'ordine di Dio a Noè, uomo giusto e, come di lui afferma con verità la Scrittura 131, perfetto nella sua generazione, non certamente come diverranno perfetti i cittadini della città di Dio nella condizione d'immortalità, con la quale saranno eguali agli angeli di Dio 132, ma come possono esser perfetti in questo esilio. Dunque Dio gli ordinò di costruire l'arca con la quale sfuggire alla rovina del diluvio assieme ai suoi familiari, cioè moglie, figli e nuore e con gli animali che per comando di Dio entrarono assieme a lui nell'arca 133. Essa è senza dubbio allegoria della città di Dio esule nel tempo, cioè della Chiesa che ottiene la salvezza mediante il legno nel quale fu appeso il Mediatore di Dio e degli uomini, l'uomo Cristo Gesù 134. Le misure stesse della lunghezza, altezza e larghezza dell'arca simboleggiano il corpo umano perché si ebbe l'annunzio profetico che Gesù sarebbe venuto e venne in un vero corpo umano. Difatti la lunghezza del corpo umano dalla sommità della testa ai piedi è sei volte la larghezza da un fianco all'altro e dieci volte l'altezza, la cui misura si ha nel fianco dal dorso all'addome. Quindi se misuri l'uomo disteso, supino o bocconi, è lungo dalla testa ai piedi sei volte più che largo da destra a sinistra o da sinistra a destra e dieci volte più che alto da terra. Per questo appunto è stata costruita l'arca di trecento cubiti in lunghezza, cinquanta in larghezza e trenta in altezza. L'apertura da un lato è la ferita con cui fu trafitto il costato del Crocifisso 135. Per essa entrano quelli che vengono a Lui perché da lì sgorgano i sacramenti con cui sono iniziati i credenti. L'ordine di costruirla con tavole di forma quadra simboleggia la vita dei santi stabile da ogni parte. Difatti da qualsiasi parte volterai un quadrato resterà quadrato. Anche le altre indicazioni sulla costruzione dell'arca sono simboli di realtà riguardanti la Chiesa.

 Forma dell'arca e la città di Dio.
26. 2. Ma è lungo continuare per il momento. Ne ho parlato già nell'opera che ho scritto Contro Fausto manicheo 136, il quale nega che nei libri degli Ebrei vi siano profezie riguardanti il Cristo. È anche possibile che qualcuno dia una spiegazione più appropriata anche a me e un altro ad altri, purché queste interpretazioni siano riferite alla città di Dio, di cui stiamo parlando, che è esule viandante in questo fluire di tempi malvagi, simile a un diluvio, se chi interpreta non vuole deviare di molto dal pensiero dell'agiografo. Ad esempio, qualcuno può interpretare la frase: Vi farai locali in basso, al piano due e al piano tre 137 diversamente da come l'ho interpretata io nell'opera citata 138. Dal momento, ho detto, che la Chiesa si raduna da tutti i popoli, l'arca è scompartita al piano due in riferimento alle due categorie di persone, cioè circoncisi e non circoncisi, che l'Apostolo con altri termini chiama Giudei e Greci 139, al piano tre perché dopo il diluvio tutti i popoli ripresero a crescere nelle stirpi dei tre figli di Noè. Ma ognuno può interpretare in altro senso purché non sia contrario alla regola della fede. Inoltre, poiché Dio volle che l'arca avesse locali non solo nel piano inferiore, ma anche in quello di sopra che ha indicato come secondo piano e in quello più in alto ancora, che ha chiamato locali al terzo piano, in modo che il terzo ambiente da abitare s'ergesse dal basso in alto, è possibile in questo brano intendere le tre virtù che raccomanda l'Apostolo: fede, speranza e carità 140. Vi si possono molto più convenientemente individuare i tre gradi di fertilità secondo il Vangelo del trenta, sessanta e cento per uno in modo che in basso soggiorni la castità coniugale, sopra quella vedovile, in alto quella verginale e qualsiasi altro significato di alto valore che si può pensare e dire secondo la fede di questa città 141. Lo direi anche di altri modi d'intendere che si devono esporre in proposito perché, anche se sono commentati in forma diversa, si devono ricondurre all'accordo unitario della fede cattolica.

 Il diluvio fra storia e simbolismo.
27. 1. Non si deve pensare che questi eventi siano stati tramandati senza un intento o che vi si deve ricercare soltanto la verità storica senza i vari significati allegorici, o al contrario che non sono avvenimenti ma esclusivamente metafore letterarie, o che qualunque ne sia il senso, non appartengono all'annuncio profetico della Chiesa. Soltanto uno stravagante può sostenere che sono stati scritti senza uno scopo libri conservati con tanta devozione per migliaia di anni nel rispetto di una regolare trasmissione o che in essi si deve tener conto soltanto degli avvenimenti. Per non parlar d'altro, se il numero degli animali costringeva a realizzare un così vasto ambiente dell'arca, niente costringeva a introdurre due e due animali immondi e sette e sette mondi 142. Anche di egual numero potevano esservi accolti gli uni e gli altri. Eppoi Dio, che aveva ordinato di conservarli per mantenere la specie, poteva riprodurli nel modo con cui li aveva già prodotti.

 Il diluvio e la legge di gravità.
27. 2. Coloro i quali contestano che non sono fatti ma soltanto allegorie simboliche ritengono, prima di tutto, che non poté verificarsi un diluvio così imponente da far salire l'acqua di quindici cubiti sopra i monti più alti in considerazione della vetta del monte Olimpo. Dicono che sopra di esso non possono addensarsi le nubi perché è così in alto nella volta celeste che non si ha più l'atmosfera dotata di gravità in cui si producono venti, nuvole e piogge, ma non riflettono che v'era la terra, la quale di tutti gli elementi è la più dotata di gravità. Non negheranno certo che la vetta di un monte è terra. Non v'è ragione dunque di ribattere che fu possibile alla terra di elevarsi a quell'altezza e non fu possibile all'acqua se costoro, i quali conoscono la misura e il peso degli elementi, affermano che l'acqua è più in alto della terra perché più leggera. Non possono quindi addurre un motivo per cui la terra più pesante e più in basso abbia occupato per periodi di tanti anni uno spazio dell'atmosfera più immune da movimenti e che questo non fu permesso all'acqua più leggera e più in alto per almeno un breve periodo di tempo.

 L'ampiezza dell'arca.
27. 3. Dicono anche che l'ampiezza dell'arca non poteva contenere tante specie di animali nei due sessi, due e due degli immondi, sette e sette dei mondi. Mi pare che costoro calcolano soltanto i trecento cubiti di lunghezza e i cinquanta di larghezza e non pensano che altrettanto ve n'è nel piano superiore e altrettanto nel piano più alto e che quindi quei cubiti moltiplicati per tre ne fanno novecento per centocinquanta. Se poi teniamo presente, come con un certo senso critico ha dimostrato Origene, che Mosè, uomo di Dio, come è detto nella Scrittura, istruito in tutta la sapienza degli Egiziani 143, i quali ebbero predilezione soprattutto per la geometria, ha potuto indicare i cubiti geometrici dei quali uno corrisponde a sei dei nostri, ognuno capisce che quell'ampiezza poteva contenere una gran quantità di cose. Cianciano a sproposito coloro i quali obiettano che non era possibile allestire l'arca di tanta ampiezza, sebbene sappiano che furono costruite città grandiose 144, e non tengono conto dei cento anni durante i quali l'arca fu costruita, a meno che una pietra si possa attaccare a un'altra saldata con la sola calcina in modo che un muro gira intorno per alcune miglia, mentre una tavola non possa essere attaccata a un'altra con spranghe, sbarre, chiodi, colla di bitume in modo da fabbricare l'arca protesa da linee rette, non curve, per lungo e per largo. Eppoi non doveva spingerla in mare lo sforzo di uomini, ma per la naturale legge di gravità la sollevava il flutto sopravveniente e affinché, mentre fluttuava, non subisse il naufragio possibile da ogni parte, la proteggeva di più la divina provvidenza che l'umana abilità.

 Varie specie di animali.
27. 4. Abitualmente da alcuni con molta pedanteria si propone la domanda sulle bestiole più piccole, come topi e tarantole non solo ma anche cavallette, scarabei, mosche e infine pulci se nell'arca furono di un numero più grande di quello stabilito secondo l'ordine di Dio. Si devono avvertire coloro i quali si lasciano turbare da queste riflessioni che la frase: Quelli che strisciano sulla terra 145 si deve interpretare nel senso che non era necessario accogliere nell'arca gli animali che possono vivere nell'acqua, come pesci, ma anche quelli che vi galleggiano, come molti degli alati. Il comando: Saranno maschio e femmina 146 s'intende dato per la conservazione della specie. Perciò non era necessario che vi fossero gli animali che possono nascere senza accoppiamento da svariate sostanze o dalla loro decomposizione. Se v'erano, è possibile che fossero senza un numero definito come abitualmente sono nelle case. Nel caso poi che il mistero sacro che si compiva e l'allegoria di così alto significato non potevano verificarsi diversamente anche nella realtà storica se nell'arca non erano col numero determinato tutti gli animali che per legge di natura non possono vivere nell'acqua, questo non fu impegno di quell'uomo o di quegli uomini ma di Dio. Difatti Noè non li introduceva dopo averli catturati ma permetteva che venissero ed entrassero. In questo senso s'interpreta la frase: Verranno da te 147, quanto dire non per una azione dell'uomo ma per ordine di Dio. Si deve perciò ammettere che non v'erano animali privi di sesso. Era prescritto tassativamente: Saranno maschio e femmina. È diverso il caso di quegli animali che senza accoppiamento hanno origine da qualsiasi sostanza, poi si accoppiano e generano, come le mosche, e di quelli che non hanno la diversità di maschio e femmina, come le api. Sarebbe sorprendente che vi fossero stati gli animali che hanno il sesso ma non adatto ad avere il feto, come muli e mule. Bastava che vi fossero i loro genitori, cioè la specie delle cavalle e degli asini e altri animali che dalla commistione di specie diverse generano individui di altra specie. Ma se anche questo era di pertinenza del mistero, erano presenti. Anche questa specie ibrida ha il maschio e la femmina.

 L'alimentazione nell'arca.
27. 5. Anche il quesito delle forme di alimentazione che potevano avere nell'arca gli animali, i quali, all'apparenza si nutrono soltanto di carne, mette in imbarazzo taluni. Si chiedono se, senza trasgredire l'ordine, vi fossero in sovrappiù animali che la necessità di nutrire gli altri aveva costretto ad introdurre nell'arca ovvero, ed è più attendibile, se fu possibile che oltre la carne vi fossero alimenti convenienti per tutti. Sappiamo infatti che molti animali abitualmente carnivori si nutrono di cereali e di frutta, soprattutto fichi e castagne. Non c'era da stupirsi se quell'uomo saggio e giusto, che anche per divino suggerimento sapeva ciò che a ciascuno conveniva, preparò e ammannì l'alimentazione conveniente a ogni specie. D'altronde la fame costringeva a cibarsi di tutto. E Dio poteva rendere gradevole e nutriente qualsiasi cibo perché Egli avrebbe anche potuto con divina compiacenza accordare che vivessero senza alimenti, se il fatto che si nutrissero non conveniva all'adempimento dell'allegoria di un sì grande mistero. Non è lecito ad alcuno, il quale non sia amante del diverbio, negare che tanti significati storici non siano pertinenti a simboleggiare la Chiesa. Infatti ormai i popoli, uomini mondi e immondi fino a che non si giunga al fine prestabilito, hanno popolato la Chiesa e vi sono accolti in un contesto di unità che, in base a questo significato assai evidente, non è lecito dubitare degli altri che sono espressi in forma un po' più oscura e sono meno comprensibili. Stando così le cose, nessun uomo, anche testardo, oserà pensare che questi eventi siano stati consegnati alla scrittura senza scopo, che non simboleggiano nulla se sono avvenuti o al contrario che sono simboli letterari e non avvenimenti storici e che non si può affermare con probabilità che sono pertinenti a simboleggiare la Chiesa. Si deve invece ammettere che con avvedutezza sono stati consegnati alla storia e alla letteratura, che sono fatti storici, che simboleggiano qualcosa e questo qualcosa è pertinente ad essere allegoria della Chiesa. Ormai il libro continuato fino a questo punto si deve chiudere per esaminare, dopo il diluvio e gli avvenimenti che seguirono, lo sviluppo delle due città, cioè di quella terrena che vive secondo l'uomo e di quella celeste che vive secondo Dio.

LIBRO XVI

SOMMARIO

1. Dopo il diluvio da Noè ad Abramo vi sono delle famiglie che vivono secondo Dio?

2. Che cosa è stato profeticamente allegorizzato nei figli di Noè?

3. Le discendenze dei figli di Noè.

4. Diversità dei linguaggi e origine di Babilonia.

5. Discesa del Signore per confondere i linguaggi di coloro che edificavano la torre.

6. Come si devono interpretare le parole che Dio rivolge agli angeli?

7. Anche le isole assai lontane dai continenti hanno ospitato ogni genere di animali provenienti dal numero che fu preservato dal dilagare del diluvio?

8. Se dalla discendenza di Adamo o dei figli di Noè hanno avuto origine rampolli di uomini mostruosi?

9. È ammissibile che la parte inferiore della terra, opposta alla zona da noi abitata, abbia antipodi.

10. Discendenza di Sem, nella cui stirpe, tendendo ad Abramo, inizia l'ordinamento della città di Dio.

11. In principio fu usata dagli uomini la lingua che in seguito da Eber fu denominata ebraica e rimase nella sua famiglia quando avvenne la diversificazione dei linguaggi.

12. Periodo di tempo in Abramo durante il quale si forma una nuova serie della santa discendenza.

13. Si esamina il motivo per cui nella trasmigrazione di Tara, con cui egli lasciando la Caldea si trasferì in Mesopotamia, non è stato menzionato il figlio Nacor.

14. L'età di Tara che terminò la vita a Carran.

15. Tempo della partenza di Abramo che per comando di Dio uscì da Carran.

16. Ordine e contenuto delle promesse di Dio rivolte ad Abramo.

17. I tre regni pagani più illustri dei quali uno, quello d'Assiria, era nel più alto prestigio alla nascita di Abramo.

18. Ripetuta manifestazione della parola di Dio ad Abramo con cui è promessa a lui e alla discendenza la terra di Canaan.

19. Da Dio è difeso il pudore di Sara perché Abramo aveva detto che non era sua moglie ma sua sorella.

20. Avvenne la separazione di Lot e Abramo, perché così a loro piacque, salva la carità.

21. Nella terza promessa Dio promette ad Abramo e alla discendenza la terra di Canaan per sempre.

22. Abramo, dopo aver superato i nemici di Sodoma, liberò Lot dalla prigionia e fu benedetto dal sacerdote Melchisedec.

23. Parola di Dio con cui venne promesso ad Abramo che gli sarebbe accresciuta la posterità secondo il numero delle stelle ed egli, avendo creduto, fu giustificato sebbene non ancora circonciso.

24. Simbolismo del sacrificio che Abramo, ricevuto il comando, offrì quando chiese che gli si spiegasse ciò che aveva accettato per fede.

25. Sara stessa volle che la sua schiava fosse concubina di Abramo.

26. Con attestazione Dio promette ad Abramo già vecchio che avrà un figlio dalla sterile Sara, stabilisce che sarà padre di molti popoli e suggella la fedeltà della promessa col rito sacrale della circoncisione.

27. È perduta l'anima del maschio che all'ottavo giorno non fosse circonciso perché ha infranto l'alleanza.

28. Si ha il cambiamento dei nomi di Abramo e Sara perché, non potendo generare per la sterilità di lei e per la vecchiaia di ambedue, raggiunsero egualmente la gioia della fecondità.

29. I tre uomini o angeli, nei quali si manifesta che il Signore apparve ad Abramo alla quercia di Mambre.

30. Lot fu fatto uscire da Sodoma distrutta da un fuoco dal cielo e Abimelech con la sua concupiscenza non poté nuocere alla castità di Sara.

31. Ad Isacco nato secondo la promessa fu imposto il nome dal riso dei due genitori.

32. Obbedienza e fede di Abramo messo alla prova con l'offerta del figlio da immolare. Morte di Sara.

33. Isacco prese per moglie Rebecca, nipote di Nacor.

34. Come si deve interpretare il fatto che Abramo dopo la morte di Sara prese per moglie Cettura?

35. Che cosa indicò la parola di Dio sui gemelli ancora chiusi nell'utero della madre Rebecca?

36. Anche Isacco non altrimenti che il padre, perché onorato per suo merito, ricevette una promessa e la benedizione.

37. Significati allegorici in Esaù e Giacobbe.

38. Giacobbe fu mandato in Mesopotamia a prender moglie; mentre era in viaggio ebbe in sogno una visione; prese quattro mogli sebbene ne avesse chiesta una sola.

39. Quale motivo fece sì che Giacobbe fosse soprannominato Israele?

40. In qual senso si narra che Giacobbe andò in Egitto con settantacinque persone, quando alcuni dei nominati sono venuti al mondo dopo?

41. Benedizione con promessa che Giacobbe diede al figlio Giuda.

42. Giacobbe con profetica trasposizione delle mani benedisse i figli di Giuseppe.

43. Il periodo di Mosè, di Giosuè di Nun e dei Giudici e poi dei Re, di cui il primo fu Saul, ma Davide il più grande per la consacrazione e il bene operato.

 

Libro sedicesimo

LA CITTÀ DI DIO SI PROFILA NELLA STORIA DA NOÈ A DAVIDE

 

Fanciullezza della Città di Dio da Noè ad Abramo [1-11]

Benedizione di Sem e Iafet.
1. È difficile stabilire se nei libri della sacra Scrittura si prolungano dopo il diluvio in termini espliciti le tracce della città santa in cammino oppure se sono state interrotte dal sopravvenire di tempi di irreligiosità in modo che non v'era nessun adoratore dell'unico vero Dio. Nei Libri canonici dopo Noè, che con la moglie, tre figli e altrettante nuore meritò di essere immune dal cataclisma del diluvio, non troviamo fino ad Abramo la religiosità di un individuo segnalato da una palese parola di Dio. V'è soltanto che Noè favorisce con benedizione profetica i due suoi figli Sem e Iafet contemplando e prevedendo quel che sarebbe avvenuto molto tempo dopo. Avvenne anche che maledisse il figlio di mezzo, cioè quello che era tra il primogenito e il più giovane perché aveva peccato contro suo padre e lo maledisse non direttamente ma nel figlio, cioè nel suo nipote, con queste parole: Sia maledetto il fanciullo Canaan, sarà schiavo dei suoi fratelli. Canaan era nato da Cam che non aveva ricoperto ma piuttosto messo in mostra la nudità del padre immerso nel sonno. Continuando aggiunse la benedizione degli altri due figli, il più grande e il più piccolo, con le parole: Benedetto il Signore Dio di Sem e Canaan sarà suo schiavo, Dio dia gioia a Iafet che abiti nelle tende di Sem 1. Queste parole di Noè come pure la coltivazione di una vigna, l'ebrietà del prodotto di essa, la sua nudità mentre dormiva e tutti gli altri avvenimenti, che sono stati tramandati, sono colmi di significati profetici e nascosti da veli.

 Simbolismo in Sem, Iafet e Cam.
2. 1. Ma ora, avvenuto il compimento dei fatti nei tempi che seguirono, i significati che erano nascosti sono abbastanza palesi. Chi li esamina con attenzione e intelligenza li riconosce in Cristo. Infatti Sem, dalla cui stirpe è nato Cristo, significa "Rinomato" 2. E nulla è più rinomato di Cristo perché il suo nome già espande profumo da ogni parte al punto che nel Cantico dei Cantici, che è anche profezia che precorre, è paragonato a un aroma sparso in terra 3. Nelle sue case inoltre, cioè nelle chiese, prende dimora l'ampio numero dei popoli. Iafet appunto significa "Ampiezza". Invece Cam, che significa "Ardente" 4, il figlio di mezzo di Noè, quasi a distinguersi dal primo e dall'ultimo e rimane fra di loro, fuori dalle primizie degli Israeliti e dall'ampio numero dei popoli, simboleggia la genìa bruciante degli eretici non per lo spirito di sapienza ma d'intolleranza, con cui di solito ribollono i sentimenti degli eretici e che turbano la pace dei santi. Ma questi fatti tornano a vantaggio di coloro che sanno trarne profitto secondo l'avviso dell'Apostolo: È opportuno che fra di voi vi siano eresie affinché vi siano noti gli uomini degni di stima 5. V'è anche nella Scrittura: Il figlio ben istruito sarà saggio ed userà l'ignorante come domestico 6. Infatti molte verità attinenti alla fede cattolica vengono messe in discussione dagli eretici ma, per difenderle contro di loro, sono esaminate con maggior attenzione, sono interpretate con maggior evidenza ed esposte con maggior premura. Così una controversia suscitata dall'avversario diviene stimolo all'apprendimento. Tuttavia non solo quelli che sono manifestamente eretici ma tutti coloro che si gloriano del nome di cristiani e vivono da disonesti non a sproposito possono essere raffigurati allegoricamente nel figlio di mezzo di Noè. Difatti con pubblica professione attestano la passione di Cristo, che fu simboleggiata dalla nudità di quell'uomo, ma la disonorano con le cattive azioni. Di essi è stato detto: Li riconoscerete dai loro prodotti 7. Per questo Cam fu maledetto nel proprio figlio, come in un proprio prodotto, cioè in una propria opera. Quindi suo figlio Canaan significa "I loro movimenti", quanto dire la loro opera. Sem e Iafet simboleggiano i popoli circoncisi e non circoncisi o, come con altri termini li indica l'Apostolo, Giudei e Greci 8. Essi, chiamati e giustificati, conosciuta in qualsiasi modo la nudità del padre, con la quale era simboleggiata la passione del Salvatore, prendendo un capo di vestiario, lo posero sulle spalle, entrarono volti dall'altra parte, coprirono la nudità del padre e non videro ciò che per pudore avevano celato 9. Anche noi onoriamo nella passione di Cristo la salvezza che è stata operata per noi ma voltiamo le spalle al delitto dei Giudei. Il capo di vestiario simboleggia il sacramento, le spalle il ricordo del passato perché già dal tempo in cui Iafet abita nelle tende di Sem e il fratello cattivo in mezzo a loro 10 la Chiesa celebra come avvenuta la passione di Cristo, non l'attende più da lontano come futura.

 La nudità di Noè e la passione di Gesù.
2. 2. Il cattivo fratello è in suo figlio, ossia nella sua opera, garzone cioè schiavo dei fratelli buoni, quando consapevolmente i buoni usano i cattivi per l'esercizio della pazienza o l'incremento della saggezza. Per dichiarazione dell'Apostolo vi sono individui che annunziano Cristo non con buona intenzione, dice infatti: Sia che Cristo sia annunziato per opportunità o nella verità 11. Anche il nuovo Noè ha coltivato una vigna, della quale il Profeta dice: La casa d'Israele è la vigna del Signore degli eserciti 12 e ha bevuto il suo vino. Nel passo si potrebbe anche intendere il calice di cui Egli dice: Potete bere il calice che io sto per bere? 13 e: Padre, se è possibile, sia allontanato da me questo calice 14. Con esso ha indubbiamente indicato la propria Passione. Ovvero, giacché il vino è un prodotto della vigna, è stato simboleggiato piuttosto che, nell'intento di soffrire, ha assunto per noi carne e sangue dalla vigna in parola, cioè dalla razza degli Israeliti. Egli dunque s'inebriò, cioè subì la passione, e rimase nudo 15, perché con la passione rimase nuda, cioè si manifestò, la sua debolezza, di cui dice l'Apostolo: Sebbene sia stato crocifisso per debolezza 16. In proposito sempre l'Apostolo dice: Ciò che in Dio è debole è più forte degli uomini e ciò che in Dio è insipiente è più sapiente degli uomini 17. Alle parole: E rimase nudo la Scrittura ha aggiunto la frase: nella sua casa 18. Con essa si indica sottilmente che avrebbe subito la croce e la morte dal popolo della sua razza e dai propri consanguinei, cioè i Giudei. I falsi cristiani attestano la passione di Cristo all'esterno, ossia soltanto col suono della voce, perché non capiscono quel che dicono. I cristiani genuini invece accolgono nella coscienza un così grande mistero e onorano all'interno nel cuore ciò che di Dio è debole e insipiente perché è più forte e sapiente degli uomini. È allegoria di questa verità il fatto che Cam uscendo di casa annunziò la nudità all'esterno, invece Sem e Iafet, per coprirla cioè per onorarla, vi entrarono, cioè compirono il gesto all'interno 19.

 Storia e allegoria.
2. 3. Esaminiamo queste parti arcane della sacra Scrittura, come ci è possibile, chi con maggiore e chi con minore aderenza, tuttavia ritenendo certo nella fede che sono avvenimenti consegnati alla Scrittura come allegoria profetica del futuro e che si devono riferire soltanto a Cristo e alla sua Chiesa che è la città di Dio. Di essa si ebbe fin dall'origine del genere umano il preannuncio che osserviamo avverarsi sotto ogni aspetto. Dopo la benedizione dei due figli di Noè e la maledizione di quello di mezzo fra loro, fino ad Abramo, per oltre un millennio, non si fa menzione di uomini giusti che onorarono Dio nella vera religione. Non penserei che non esisterono, tuttavia sarebbe andata troppo alla lunga se fossero stati ricordati tutti e sarebbe stata più esattezza storica che previsione profetica. Quindi l'agiografo di questi libri della Bibbia, o meglio lo Spirito di Dio per la sua mediazione, persegue intenti con cui non solo si riferiscono avvenimenti passati, ma si preannunciano anche avvenimenti futuri che siano però attinenti alla città di Dio. Anche ogni fatto che si narra di individui, che non ne sono cittadini, si narra con lo scopo che dal confronto essa ottenga vantaggio e risalto. Certamente non si deve ritenere che tutti gli eventi narrati simboleggiano anche qualche cosa, ma eventi che non sono affatto simboli vengono inseriti in ordine a quelli che simboleggiano qualche cosa. Il terreno viene solcato soltanto dal vomere ma, affinché si ottenga questo effetto, sono indispensabili anche le altre parti dell'aratro. Nelle cetre e consimili strumenti musicali soltanto le corde sono disposte per il suono ma, affinché siano disposte, sono inseriti nella struttura degli strumenti altri pezzi che non sono battuti dai suonatori ma ad essi sono attaccati i pezzi che, percossi, rimandano i suoni. Così nell'argomento profetico hanno luogo elementi che non sono simboli, sebbene siano ad essi congiunti e in certo senso fissati gli eventi simboleggiati.

 Discendenti di Sem e Cam.
3. 1. Si devono dunque esaminare le genealogie dei figli di Noè e ciò che sembra opportuno dire in proposito deve avere una stretta coerenza con questa opera in cui si espone lo sviluppo di tutte e due le città, cioè della terrena e della celeste. Ha avuto inizio la serie con quella del figlio più piccolo chiamato Iafet. Di lui sono stati menzionati otto figli e sette nipoti, tre da un figlio e quattro dall'altro, in tutto quindici. Di Cam, cioè del figlio di mezzo di Noè, sono stati menzionati quattro figli, cinque nipoti da un figlio e due pronipoti da un nipote, in tutto undici 20. Dopo questa enumerazione si ritorna, per così dire, al capostipite con le parole: Cus generò Nebrot. Questi cominciò ad essere un gigante sulla terra. Egli era un gigante cacciatore contro il Signore. Perciò si dice: Come Nebrot, gigante cacciatore contro il Signore. Inizio del suo regno furono Babilonia, Orec, Arcad e Calanne nella terra di Sennaar. Da quella terra provenne Assur che fondò Ninive e la città di Robot e Calac e Dasen, che fu una grande città, fra Ninive e Calac 21. Cus, padre del gigante Nebrot, è stato menzionato come primogenito tra i figli di Cam. Eppure di lui erano già stati enumerati cinque figli e due nipoti. Ma o mise al mondo il gigante dopo i due nipoti ovvero, ed è più attendibile, la Scrittura ne ha parlato separatamente a causa della sua superiorità. Di lui infatti è stato tramandato alla storia il regno, il cui inizio fu la celeberrima città di Babilonia e le altre città o regioni che assieme sono state menzionate. Avvenne molto tempo dopo che da quel territorio, cioè dal territorio di Sennaar, che apparteneva al regno di Nebrot, emigrò Assur e fondò Ninive e le altre città che l'agiografo ha aggiunto. Con questo pretesto ha accennato al fatto a causa della fama del regno di Assiria che Nino, figlio di Belo, fondatore della grande città di Ninive, ampliò in modo eccezionale. Dal suo nome fu desunto il nome della città che da Nino fu denominata Ninive. Assur, da cui provengono gli Assiri, non era tra i figli di Cam, figlio di mezzo di Noè, ma è annoverato tra i figli di Sem, il figlio maggiore di Noè. Quindi è evidente che gli Assiri provennero dalla stirpe di Sem, che conquistarono il regno del gigante Nebrot, da lì si diffusero e fondarono altre città. Di esse la prima fu denominata Ninive da Nino. Si torna quindi a un altro figlio di Cam che si chiamava Mesraim e si menzionano i discendenti non in individui ma in sette tribù. Si fa menzione inoltre che dalla sesta, come se fosse il sesto figlio, provenne un popolo che si denomina Filistei, sono quindi otto. Si torna di nuovo a Canaan, il figlio nel quale fu maledetto Cam e sono nominati gli undici che da lui provengono. Si precisa poi a quali confini sono giunti con l'accenno ad alcune città. Perciò nel computo di figli e nipoti sono annoverati trentuno discendenti della stirpe di Cam 22.

 Eber e tutti i Noàchidi.
3. 2. Resta da ricordare i discendenti di Sem, figlio maggiore di Noè, perché la serie delle discendenze iniziata col più giovane gradualmente giunge a lui. Ma i preliminari della genealogia hanno un po' d'incertezza che si deve chiarire con un esame perché sono molto attinenti all'argomento della nostra ricerca. Si legge: Anche Eber discende da Sem, proprio da lui, capostipite di tutti i discendenti e fratello maggiore di Iafet 23. L'ordine delle parole è questo: da Sem discende anche Eber, Eber discende proprio da lui, cioè da Sem, che è capostipite di tutti i discendenti. L'agiografo volle far intendere che Sem era il patriarca di tutti coloro che provenivano dalla sua stirpe e che stava per menzionare, fossero figli, nipoti, pronipoti e altri che da essa provenivano. Sem non generò direttamente Eber, ma questi è al quinto grado nella serie dei discendenti. Sem difatti fra gli altri figli ebbe Arfacsad. Arfacsad generò Cainan, Cainan generò Sala, Sala generò Eber. Non senza ragione è stato menzionato per primo nella stirpe proveniente da Sem e anteposto anche ai figli, sebbene sia discendente al quinto grado. È vera la tradizione secondo la quale da lui sono stati denominati gli Ebrei, cioè Eberei. Si potrebbe dare un'altra ipotesi, che da Abramo si abbia l'etimologia di Abraèi. Però a parte l'ipotesi è più attendibile che da Eber siano stati chiamati Eberei, poi con l'elisione di una lettera Ebrei e che soltanto il popolo d'Israele ha potuto avere tale lingua perché con esso la città di Dio fu in esilio negli eletti e in tutti fu raffigurata con un simbolo. Quindi prima sono menzionati sei figli di Sem, poi da uno di loro sono nati quattro suoi nipoti e un altro figlio di Sem generò un suo nipote, da lui nacque un pronipote e da lui il figlio del pronipote che è Eber. Eber generò due figli, a uno diede il nome di Falec che significa "Dividente". La Scrittura, soggiungendo per giustificare il nome, dice: In quel tempo la terra fu divisa 24. In seguito rimarrà evidente il significato. L'altro figlio di Eber generò dodici figli, perciò tutti i discendenti di Sem sono ventisette. Quindi nel totale tutti i discendenti dei tre figli di Noè, cioè quindici da Iafet, trentuno da Cam, ventisette da Sem, sono settantatré. La Scrittura continua con le parole: Questi i discendenti di Sem nelle rispettive tribù secondo i loro dialetti, nei rispettivi territori e popoli. E di tutti dice: Sono queste le tribù dei discendenti di Noè secondo le loro discendenze e popoli. Da essi dopo il diluvio furono ripartite nel mondo le terre sul mare 25. Da queste parole si deduce che non erano settantatré individui, o meglio settantadue, come si dimostrerà in seguito, ma settantadue popolazioni. Anche precedentemente la genealogia, con cui erano ricordati i discendenti di Iafet, fu conclusa così: Da loro furono spartite nel loro territorio in una propria regione le terre sul mare ciascuna secondo il linguaggio, nelle rispettive tribù e popoli 26.

 Babilonia e il variare dei dialetti.
3. 3. Nei discendenti di Cam a un certo punto più esplicitamente sono state indicate le popolazioni, come ho dimostrato precedentemente. Mesraim è il capostipite di coloro che si chiamano Ludii 27, e allo stesso modo altre popolazioni fino a sette. E dopo averle enumerate tutte, conclude: Questi i discendenti di Cam nelle rispettive tribù secondo le lingue, nei rispettivi territori e popoli 28. Perciò i discendenti di molti non sono stati ricordati perché alla nascita furono aggregati ad altri popoli ed essi non seppero costituire un proprio popolo. Non v'è altra ragione che, sebbene siano menzionati otto figli di Iafet, si ricordano soltanto i figli nati da due di loro e sebbene siano menzionati quattro figli di Cam, si aggiungono soltanto i nati da tre di loro e sebbene siano menzionati sei figli di Sem, si aggiunge soltanto la posterità di due. Che gli altri rimasero senza figli? Non si può ammettere, ma non costituirono popolazioni con cui meritassero di essere consegnati alla storia perché, appena nascevano, erano aggregati ad altre popolazioni.

Il discendere di Dio e il ministero degli angeli.
4. Poiché si fa riferimento al fatto che quelle popolazioni avevano ciascuna un proprio dialetto, l'agiografo torna al tempo in cui v'era un solo idioma ed espone l'avvenimento per cui ebbe origine la diversità dei dialetti. Dice: Tutta l'umanità aveva un medesimo linguaggio e un medesimo idioma. Avvenne che gli uomini, emigrando dall'Oriente, trovassero una pianura nella regione di Sennaar e vi si stabilirono. E disse ciascuno al suo vicino: Venite, facciamo dei mattoni e cuociamoli al fuoco. E furono usati da loro mattoni invece della pietra e bitume invece dell'argilla e dissero: Orsù, costruiamoci una città e una torre, la cui cima arriverà al cielo, così ci faremo un nome prima di sparpagliarci in ogni parte del mondo. Il Signore discese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini avevano edificato. E disse il Signore: Sono della medesima stirpe e parlano il medesimo dialetto e hanno cominciato questo edificio e ora non cesseranno di fare tutte le cose che hanno tentato di compiere. Venite, e scendendo confondiamo in quel luogo il loro linguaggio affinché ognuno non capisca il linguaggio dell'altro. E da lì Dio li disperse in tutto il mondo e cessarono dal costruire la città e la torre. Per questo è stato assegnato a quella città il nome di "Confusione" perché in quel luogo Dio confuse i linguaggi di tutto il mondo e da lì il Signore li disperse in tutto il mondo 29. La città, che è stata chiamata "Confusione", è Babilonia. Anche la storia profana ne esalta la meravigliosa struttura architettonica. Babilonia dunque si traduce "Confusione". Se ne deduce che il suo fondatore fu il gigante Nebrot, come si è accennato precedentemente. Nel passo in cui la Scrittura parla di lui dice che origine del suo regno fu Babilonia, come città che doveva esercitare un dominio sulle altre, in cui si avesse come in una capitale la sede del regno. Tuttavia la città non fu ultimata nelle dimensioni che si proponeva la superba empietà 30. Era stata preventivata una eccessiva altezza, calcolata fino al cielo. Si trattava forse di una sola torre, che macchinavano più figurativamente al singolare, come si dice il soldato e s'intendono migliaia di soldati, o rana e cavalletta perché così è stata indicata l'infinità di rane e cavallette nelle piaghe con cui gli Egiziani furono puniti da Mosè 31. La sciocca presunzione umana non avrebbe ottenuto nulla, anche se avessero elevato l'imponenza della costruzione di qualsiasi qualità e grandezza verso il cielo contro il Signore, sia pure che sorpassasse tutti i monti, sia pure che uscisse fuori dalla dimensione di questa atmosfera caliginosa 32. In nessun modo avrebbe recato danno a Dio l'altezzosità, per quanto grande, delle coscienze e delle cose. L'umiltà garantisce una via sicura e vera verso il cielo, perché leva il cuore in alto, al Signore, non contro il Signore. In questo senso è stato considerato il gigante cacciatore contro il Signore 33. Non riflettendovi bene alcuni sono stati ingannati da una parola greca di doppio senso in modo da non tradurre contro il Signore ma davanti al Signore, perché significa sia contro che davanti. È questa la parola che si ha nel Salmo: E piangeremo davanti al Signore che ci ha creati 34, ed è la medesima che si legge nel libro di Giobbe: Nel furore ti sei slanciato contro il Signore 35. Qui con la parola cacciatore s'intende senz'altro un catturatore, inseguitore e uccisore di animali terrestri. Nebrot innalzava dunque con i propri sudditi contro il Signore una torre da cui è simboleggiata la superbia miscredente. Giustamente quindi viene punita una cattiva disposizione d'animo anche se non ne consegue l'effetto. Ma quale fu il genere di pena? Poiché il potere di chi comanda è nella lingua parlata, in essa è stata punita la superbia in modo che non fosse compreso chi impartiva ordini all'uomo perché non volle comprendere che doveva obbedire all'ordinamento di Dio. Così fu sciolto il complotto perché ciascuno abbandonava il proprio simile che non comprendeva più per unirsi all'individuo con cui poteva scambiare la parola. Proprio a motivo del linguaggio i popoli si distinsero e si sparpagliarono per il mondo come piacque a Dio che ottenne questo effetto nelle forme arcane e a noi incomprensibili.

Modo di parlare di Dio.
5. Si legge nella Scrittura: Il Signore discese a vedere la città e la torre che avevano edificato i figli degli uomini, ossia non i figli di Dio, ma la società la quale vive secondo l'uomo e che consideriamo come la città terrena. Dio non si muove nello spazio perché è tutto fuori del tempo e dello spazio, ma si dice che discende quando realizza nel mondo qualche effetto che, essendo realizzato fuori del normale procedimento della natura, mostra per analogia la presenza di Dio. Così guardando non apprende nel tempo perché non può ignorare una cosa ma si dice che guarda e conosce nel tempo ciò che egli fa guardare e conoscere. Quella città non era guardata nel modo con cui la fece guardare quando mostrò che ne era disgustato. Si potrebbe tuttavia interpretare che Dio discese verso quella città perché vi discesero i suoi angeli in cui egli dimora. L'aggiunta: E Dio disse: Ora sono un solo popolo e parlano la medesima lingua e il resto, come pure l'altra aggiunta: Suvvia, col discendere confondiamo la loro lingua 36 sarebbero come un chiarimento per dimostrare in qual senso si era avverato quel che aveva detto in precedenza: Il Signore discese. Se era già disceso, le parole: Suvvia, col discendere confondiamo, se vanno riferite agli angeli, significano soltanto che egli discendeva attraverso il ministero degli angeli, perché egli era negli angeli che discendevano. E giustamente non dice: Suvvia, col discendere confondete ma: Confondiamo adesso la loro lingua. Mostrava così di operare mediante i suoi esecutori affinché anche essi siano collaboratori di Dio, come dice l'Apostolo: Siamo collaboratori di Dio 37.

 Dialetti e popolazioni.
6. 1. Anche quando è stato creato l'uomo, le parole: Facciamo l'uomo potrebbero essere interpretate in riferimento agli angeli, perché non ha detto: "Devo fare". Però poiché seguono le parole: A nostra immagine e non è conveniente ritenere che l'uomo è stato creato a immagine degli angeli o che è una medesima l'immagine degli angeli e di Dio, a ragione in quel passo si intravede la pluralità della Trinità. Ma poiché la Trinità è un solo Dio, la Scrittura, anche dopo aver detto: Facciamo soggiunge: E Dio creò l'uomo a immagine di Dio 38. Non ha detto: Fecero gli dèi o a immagine degli dèi. Anche nel passo in questione poté essere indicata la Trinità nel senso che il Padre disse al Figlio e allo Spirito Santo: Suvvia, col discendere confondiamo adesso la loro lingua 39. E v'è qualcosa che impedisce di pensare agli angeli perché ad essi compete piuttosto di andare a Dio con santi impulsi, cioè con devoti pensieri, con i quali da essi si consulta l'immutabile Verità che è come la legge eterna nella loro curia del cielo. Essi non sono verità a se stessi ma, partecipi della Verità che crea, si muovono a lei come a una sorgente di vita in modo da attingere da essa ciò che non compete al loro essere. E questo movimento con cui vanno è stabile perché non si allontanano più. E Dio non parla agli angeli nel modo con cui parliamo fra di noi o a Dio o agli angeli o gli angeli stessi a noi o Dio a noi con il loro intervento, comunque sempre in modo inesprimibile, sebbene a noi viene comunicato nel nostro modo d'intendere. La parola di Dio più alta prima della sua azione nel mondo è la ragione immutabile dell'azione stessa perché non ha un suono che colpisce l'udito e passa ma una forza che rimane al di là del tempo ed opera nel tempo. Con essa parla agli angeli, con noi in altra maniera perché siamo nello spazio. Quando anche noi con l'udito della coscienza afferriamo qualche vibrazione di questa parola, ci rassomigliamo agli angeli. Ma io non debbo proprio ad ogni momento rendere ragione in questa opera del modo di parlare di Dio. È la non diveniente Verità che ineffabilmente parla da sé alla coscienza della creatura ragionevole o parla mediante una diveniente creatura tanto al nostro pensiero con intelligibili concetti come al senso con suoni sensibili.

 Emigrazione dei mammiferi?
6. 2. Le parole: Ed ora non cesseranno di fare tutte le cose che hanno tentato di compiere 40 non furono dette per prendere atto, ma nell'intento d'interrogare, come di solito si fa da coloro che minacciano. A proposito scrive un poeta: Non allestiranno le armi e non lo seguiranno da tutta la città? 41. Quindi si deve interpretare come se abbia detto: Forseché cesseranno di fare tutte le cose che hanno osato di compiere? Ma se la frase si pronuncia con questo accento non esprime la minaccia. Appunto per i più lenti di comprendonio ho aggiunto la particella interrogativa dicendo forseché? perché non riuscirei a riprodurre graficamente il tono di voce di chi parla. Dunque da tre individui, i figli di Noè, cominciarono ad esistere nel mondo settantatré popolazioni o meglio, come determinerà una riflessione critica, settantadue e altrettanti dialetti che ampliandosi occuparono anche le regioni del Mediterraneo. Il numero delle popolazioni si accrebbe più diffusamente che quello dei dialetti. Sappiamo che anche in Africa molti popoli incivili parlano una sola lingua.

Anche gli individui anormali sono adamiti.
7. Non si può mettere in dubbio che gli uomini, dato l'aumento della razza umana, poterono passare con una imbarcazione alle zone marittime. Però rimane il problema relativo ad ogni specie di animali che non sono allevati dagli uomini e di quelli che non nascono dalla terra come le rane, ma si propagano soltanto con l'accoppiamento del maschio e della femmina, come i lupi e tutti i mammiferi selvatici. C'è il problema in qual modo dopo il diluvio, con cui furono sterminati tutti gli animali che non erano nell'arca, poterono essere nelle zone lungo il mare se si riprodussero soltanto da quelli che l'arca in ambedue i sessi sottrasse alla morte. Si può pensare che alle zone marittime, ma più vicine, passarono a nuoto. Però ve ne sono alcune così lontane dal continente da non sembrar probabile che alcun animale vi si possa esser trasferito a nuoto. Non è incredibile il fatto che gli uomini li portarono con sé e per amore della caccia ne istallarono le specie nella maniera in cui erano nel luogo da cui provenivano, sebbene non si può negare che per comando o con la permissione di Dio poterono esservi trasferiti per opera degli angeli. Se poi nella fase originaria sono stati prodotti dalla terra quando Dio disse: La terra produca l'anima che vive 42 e se nelle zone marittime, in cui non potevano giungere a nuoto, la terra produsse molti animali, tanto più evidentemente si rileva che nell'arca vi furono tutte le specie non per conservare gli animali ma per indicare allegoricamente i vari popoli in relazione al mistero della Chiesa.

 Così i popoli se vi sono.
8. 1. V'è anche il problema se si deve ritenere che dai figli di Noè, o meglio dall'unico progenitore da cui anche essi discendono, derivarono alcuni tipi mostruosi d'individui umani, di cui parla la storia profana. Si tramanda che uno di essi aveva un solo occhio in mezzo alla fronte, le piante dei piedi di alcuni erano rivolte alla parte posteriore delle gambe, altri avevano i caratteri dei due sessi, la mammella destra virile e quella sinistra femminile e accoppiandosi alternativamente fra di sé fecondavano e partorivano, alcuni non avevano la bocca e vivevano respirando soltanto con le narici, altri ancora erano della statura di un cubito e per questo dal cubito i Greci li chiamano pigmei, in alcune parti le donne concepivano a cinque anni e non oltrepassavano l'ottavo anno di vita. Narrano anche che esiste un popolo nel quale gli individui hanno una sola gamba inserita nei piedi, non piegano il ginocchio e sono di celerità prodigiosa, li chiamano sciopodi perché, giacendo supini per il caldo, si difendono con l'ombra dei piedi. Dicono anche che alcuni senza la testa hanno gli occhi nelle spalle e di uomini o di ominidi le altre caratteristiche che, desunte dai libri di narrazione fabulatrice, sono state ritratte a mosaico, nel porto di Cartagine. Non saprei che dire dei cinocefali perché la testa di cane e l'abbaiare fanno pensare più a bestie che ad uomini. Però non è necessario ammettere tutti i tipi di uomini di cui si parla. Anche nell'ipotesi che in un luogo qualunque nasca un uomo, cioè un animale ragionevole mortale, quantunque presenti ai nostri sensi una insolita tipologia somatica di forma, di colore, di movimento, di voce o di caratteristiche in termini di forza, organi e proprietà, il credente non deve dubitare che egli proviene dal primo uomo. Si manifesta però che cosa la natura abbia raggiunto in parecchi soggetti e che cosa sia straordinario a causa della rarità.

 Inattendibilità degli antipodi.
8. 2. La giustificazione che da noi si dà ad esemplari deformi di uomini è la medesima che si può dare della deformità di alcuni popoli. Dio infatti è il creatore di tutti ed Egli sa il luogo e il tempo in cui è opportuno o era opportuno far esistere un essere perché conosce l'uguaglianza e la disuguaglianza delle parti con cui accordare l'armonia del cosmo. Ma chi non può cogliere il tutto viene scioccato dall'apparente deformità di una parte, perché non sa a chi si conforma e a che cosa si riconduce. Sappiamo che nascono individui con più di cinque dita nelle mani e nei piedi, ed è una deformità più lieve di ogni altra, tuttavia non si può essere sciocchi al punto di ritenere che il Creatore si è sbagliato nel calcolo delle dita dell'uomo, sebbene non si sa perché l'ha fatto. Ed anche se v'è una più rilevante deformità, Egli sa ciò che ha fatto e non è possibile rimproverare le sue azioni. A Ippona Diarrite esiste un uomo che ha le piante dei piedi a forma di mezzaluna e con due dita soltanto e le mani di egual forma. Se fosse così un popolo sarebbe argomento della narrazione da favola e leggenda, di cui sopra. Non per questo possiamo negare a questo uomo la sua provenienza da colui che per primo è stato creato. È difficile che gli androgini, chiamati anche ermafroditi, sebbene attualmente siano rari, vengano a mancare nei vari tempi. In essi l'uno e l'altro sesso si manifesta in maniera tale che è dubbio da quale di essi l'individuo debba essere denominato, tuttavia l'uso comune ha prevalso nel denominarlo dal più nobile, cioè dal maschile. Nessuno ha mai parlato di androgine o ermafrodite. Anni addietro, ma sempre a memoria d'uomo, nacque in Oriente un individuo che aveva doppie le parti in alto del corpo e scempie quelle in basso. Aveva due teste, due toraci, quattro mani, ma un addome e due piedi corrispondenti cioè a un solo individuo. Visse a lungo sicché la sua notorietà attirava parecchi a visitarlo. Ma non è possibile rendersi ragione di quanto tutti i feti umani siano dissimili da quelli da cui con assoluta certezza derivano. Come dunque non si può negare che queste deformazioni traggono origine da un solo progenitore, così si deve dire di tutti i popoli che, stando alle relazioni, derogano nelle deformazioni somatiche dal normale procedimento della natura che molti e quasi tutti conservano. Se infatti sono inclusi nella definizione di animali ragionevoli e mortali, si deve ammettere che derivano la razza dal medesimo unico progenitore di tutti, purché sia vero ciò che si riferisce della dissomiglianza di quei gruppi e della notevole diversa conformazione fra di loro e con noi. Se infatti ignorassimo che le scimmie, i cercopiteci e le sfingi non sono uomini, ma bestie, quegli storici, per vantarsi della propria ricerca, potrebbero farci credere con impunita vanagloria che siano razze umane 43. Ma se sono uomini quelli di cui sono stati narrati questi fatti eccezionali e se Dio ha voluto far esistere alcuni popoli con quelle caratteristiche, non dobbiamo pensare che la sua sapienza, con la quale modella la natura umana, abbia errato nei mostri che dalle nostre parti nascono necessariamente dagli uomini, come erra la tecnica di un artigiano meno esperto. Non ci deve sembrare assurdo che come in ogni popolo vi sono individui deformi così in tutto l'uman genere vi siano alcuni popoli deformi. Quindi per risolvere il problema gradualmente e con cautela: o le cose che sono state scritte di alcuni popoli non sono vere o, se lo sono, quelli non sono uomini o, se sono uomini, provengono da Adamo.

I Semiti e gli Ebrei.
9. Non v'è dimostrazione scientifica per ammettere quel che alcuni favoleggiano sulla esistenza degli antipodi, cioè che uomini calcano le piante dei piedi in senso inverso ai nostri dall'altra parte della terra, dove il sole sorge quando da noi tramonta. Non affermano infatti di averlo appreso in seguito a una esperienza storicamente verificatasi, ma prospettano col ragionamento una ipotesi perché la terra sarebbe sospesa nella volta del cielo e avrebbe lo stesso spazio in basso e al centro. Suppongono perciò che l'altra faccia della terra, quella di sotto, non può esser priva di abitanti. Non riflettono, anche se si ritiene per teoria o si dimostra scientificamente che il pianeta è un globo e ha la forma sferica, sulla non consequenzialità che anche dall'altra parte la terra è libera dalla massa delle acque e anche se ne è libera, non ne consegue necessariamente, di punto in bianco, che è abitata dagli uomini. Difatti in nessun modo la sacra Scrittura mentisce perché con la narrazione dei fatti del passato garantisce l'attendibilità che le sue predizioni si avverino. D'altronde è troppo assurda l'affermazione che alcuni uomini, attraversata l'immensità dell'Oceano, poterono navigare e giungere da questa all'altra parte della terra in modo che anche là si stabilisse la specie umana dall'unico progenitore. Perciò fra le popolazioni umane, che risultano divise in settantadue stirpi e altrettanti dialetti, cerchiamo, se possiamo trovarla, la città di Dio in esilio sulla terra. Essa era stata condotta fino al diluvio e all'arca e poteva essere additata come sopravvissuta nei figli di Noè mediante le benedizioni da loro ricevute, soprattutto dal più grande che si chiamava Sem, perché Iafet era stato benedetto con la formula che abitasse nelle tende di lui, suo fratello.

 Elenco cronologico delle discendenze.
10. 1. Si deve quindi riesaminare la serie delle generazioni da Sem perché ci mostri la città di Dio dopo il diluvio, come la serie delle generazioni dal patriarca Set ce la mostrava prima del diluvio. Per questo la sacra Scrittura, dopo avere mostrato la città terrena a Babilonia, cioè nella confusione, ritorna per un compendio al patriarca Sem e inizia da lui le generazioni fino ad Abramo con il computo del numero degli anni che ciascuno aveva quando generava un figlio appartenente a questa genealogia e degli anni che era vissuto. Nel fatto si deve riscontrare quanto poco fa avevo promesso che, cioè, sia chiaro il motivo per cui è stato detto dei figli di Eber: Il nome di uno è Falec perché ai suoi tempi fu diviso il territorio 44. Assegnare il territorio si può intendere soltanto in relazione alla diversità dei dialetti. Omessi dunque gli altri discendenti di Sem, che non sono pertinenti all'argomento, nella genealogia sono elencati soltanto quelli con cui giungere fino ad Abramo, come prima del diluvio erano elencati quelli con cui giungere a Noè attraverso le generazioni che provenivano dal figlio di Adamo chiamato Set. La lista di queste discendenze comincia così: Queste sono le generazioni da Sem. Sem aveva cento anni quando generò Arfacsad due anni dopo il diluvio. Sem dopo che generò Arfacsad visse cinquecento anni e generò figli e figlie e morì 45. Così continua con gli altri aggiungendo a quanti anni di vita ha generato il figlio appartenente alla serie delle discendenze che giunge ad Abramo e quanti anni sia vissuto in seguito. Aggiunge che ha generato figli e figlie per farci capire che le popolazioni aumentarono di numero affinché, sorpresi per i pochi individui menzionati, non rimanessimo perplessi come fanciulli sul fatto che una così grande estensione di territori e di Stati sia stata riempita dai Semiti. Questo vale principalmente per il regno di Assiria sul quale Nino, il celebre soggiogatore per molto tempo dei popoli orientali, regnò con grandissima prosperità e lasciò ai successori uno Stato molto esteso e solido che poteva continuare per lungo tempo.

 Da Noè ad Abramo problematica della città di Dio.
10. 2. Per non soffermarci più del necessario in questo elenco non riferiamo gli anni che ciascun patriarca della genealogia è vissuto, ma soltanto gli anni di vita che aveva quando generò il figlio. Così assommiamo il numero degli anni dal diluvio ad Abramo e, oltre gli argomenti in cui lo stretto legame ci costringe a trattenerci, tocchiamo alla svelta e di sfuggita gli altri. Dunque due anni dopo il diluvio Sem generò Arfacsad; Arfacsad quando aveva centotrentacinque anni generò Cainan; questi quando ne aveva centotrenta ebbe Sala; Sala quando aveva lo stesso numero di anni generò Eber; Eber aveva centotrentaquattro anni quando ebbe Falec e durante la sua vita fu distribuito il territorio; Falec aveva centotrenta anni e generò Ragan; Ragan centotrentadue ed ebbe Saruc; Saruc centotrenta e generò Nacor; Nacor settantanove e generò Tara; Tara settanta e generò Abram 46 che Dio, cambiandogli il nome, chiamò Abramo 47. Dunque dal diluvio ad Abramo sono millesettantadue anni secondo il testo della Volgata, cioè dei Settanta. Nel testo ebraico gli esegeti riferiscono un numero di anni molto più breve, ma non ne danno spiegazione o assai poco attendibile.

 Eber e la lingua ebraica.
10. 3. Quando dunque ricerchiamo la città di Dio nelle settantadue popolazioni, non possiamo affermare che nel tempo in cui si aveva un solo idioma, cioè una sola parlata, l'uman genere si fosse già sottratto dal culto al vero Dio, sicché la vera religione era rimasta soltanto in queste tribù che provengono dalla stirpe di Sem attraverso Arfacsad e giungono ad Abramo. Però dalla vanagloria di edificare una torre fino al cielo, con cui è simboleggiata l'alterigia miscredente, si manifestò la città, cioè la società dei senza Dio. C'è il problema se prima non esisteva o rimaneva ignota o piuttosto se esistevano tutte e due, la credente nei due figli di Noè che furono benedetti e nei loro discendenti, la miscredente in colui che fu maledetto e nella sua stirpe da cui discendeva anche il gigante cacciatore contro il Signore. Non è facile la risposta. Probabilmente, ed è la soluzione più attendibile, anche nei discendenti dei due Patriarchi, prima che si cominciasse a fondare Babilonia, vi furono degli atei e nei discendenti di Cam uomini che adoravano Dio. Si deve tuttavia ammettere che mai mancarono nel mondo i due tipi di uomini. Si ha nella Scrittura: Tutti hanno deviato, tutti insieme sono diventati insipienti, non ve n'è uno che agisce bene, neppure uno 48. Tuttavia in tutti e due i Salmi in cui si hanno queste parole, si legge anche: Forseché non hanno intelligenza questi malfattori che distruggono il mio popolo mangiando a sue spese? 49. Dunque ancora esisteva il popolo di Dio. Anche le parole: Non ve n'è uno che agisca bene, neppure uno si riferivano ai figli degli uomini non ai figli di Dio. Infatti poco prima si legge: Dio dal cielo ha guardato sui figli degli uomini per vedere se ve n'è uno saggio che cerca Dio 50. Di seguito sono aggiunte le parole le quali comprovano che sono riprovati tutti i figli degli uomini che, cioè, appartengano alla città la quale vive secondo l'uomo e non secondo Dio.

 La lingua primigenia e l'ebraico.
11. 1. Quindi, sebbene vi fosse un idioma comune a tutti non per questo mancarono i figli della perversione. Anche prima del diluvio v'era un solo idioma, eppure tutti, fuorché la famiglia del giusto Noè, meritarono di morire nel diluvio. Così, quando per colpa di una più altezzosa miscredenza, le genti furono punite e divise con la diversità dei dialetti e la città dei senza Dio ebbe il nome di Confusione, cioè fu chiamata Babilonia, si ebbe la tribù di Eber a far sì che si conservasse quello che precedentemente era il linguaggio di tutti. Come ho ricordato dianzi 51, all'inizio della genealogia dei discendenti di Sem, i quali diedero origine alle varie popolazioni, per primo fu menzionato Eber, sebbene sia figlio di un pronipote, cioè al quinto grado nella discendenza da lui. Mentre le altre popolazioni si dividevano nelle varie lingue, nella tribù di Eber rimase la lingua che, come giustamente si ritiene, prima era comune a tutto l'uman genere. Perciò in seguito fu denominata ebraica. Si richiedeva appunto che fosse distinta dalle altre lingue con una propria denominazione come le altre si distinsero mediante i rispettivi nomi. Quando era la sola, si chiamava lingua o parlata umana perché con essa sola si esprimeva il genere umano.

 Cronologia e glottologia.
11. 2. Qualcuno potrebbe obiettare: Se al tempo di Falec, figlio di Eber, il territorio fu distribuito in base ai dialetti, cioè agli uomini che erano nel territorio, dal suo nome doveva essere designata la lingua che prima era comune a tutti. Ma si deve riflettere che Eber stesso impose appunto un nome simile al figlio chiamandolo Falec, che significa "Divisione", perché gli era nato quando il territorio era diviso in base ai dialetti, cioè, proprio in quel tempo. Così s'interpretano le parole: Ai suoi tempi fu distribuito il territorio 52. Se Eber non era più vivo quando avvenne il differenziarsi dei dialetti, la lingua che poté sopravvivere nella sua tribù non sarebbe stata denominata da lui. Si deve perciò ritenere che era quella comune a tutti poiché provennero da un castigo il differenziamento e il mutamento dei dialetti e il popolo di Dio doveva essere esente da questo castigo. E non senza motivo è la lingua che parlò Abramo, sebbene non poté trasmetterla a tutti i suoi discendenti ma soltanto a quelli che provennero da Giacobbe e che, costituendosi in forma più eminente e segnalata in popolo di Dio, poterono recepire le alleanze ed essere la stirpe di Cristo. Ed Eber non ha trasmesso la lingua a tutta la sua discendenza ma a quella soltanto la cui genealogia era protratta fino ad Abramo. Perciò quantunque non sia riferito con evidenza che esisteva un gruppo di uomini aderenti alla religione quando dai senza Dio venne edificata Babilonia, questo silenzio non è valso a deludere ma a stimolare l'interesse del critico. Si legge dunque che prima v'era una sola lingua universale e fra tutti i discendenti di Sem si menziona prima di tutti Eber, sebbene sia al quinto grado, e si denomina ebraica la lingua che l'autorità dei Patriarchi e dei Profeti ha conservato non solo nel loro linguaggio usuale ma anche nella sacra Scrittura. Si chiede allora in quale discendenza poté esser conservata la lingua che prima era di tutti, anche perché nella popolazione in cui essa si conservò non si ebbe il castigo che si verificò con il differenziamento dei linguaggi. Si può replicare soltanto che si conservò nella stirpe che proveniva da colui dal cui nome essa ebbe il nome e che questo è un ricordo non indifferente della nobiltà della stirpe poiché, mentre le altre venivano punite con il differenziamento dei dialetti, non giunse ad essa tale punizione.

 Da Sem ad Abramo.
11. 3. C'è inoltre il problema della possibilità che ebbero Eber e il figlio Falec di costituire due differenti popolazioni se entrambi parlavano una medesima lingua. Certamente una sola è la popolazione ebraica che da Eber si protrasse fino ad Abramo e in seguito da lui fino a che si costituì il grande popolo d'Israele. Come dunque tutti i discendenti menzionati dei tre figli di Noè costituirono popolazioni diverse se Eber e Falec non le costituirono? Senza dubbio è ipotesi più probabile che il famoso gigante Nebrot costituì anche egli una sua popolazione ma a causa del prestigio del dominio e della statura è stato segnalato in forma più appariscente in modo da stabilire settantadue popolazioni e dialetti. Falec è stato menzionato non perché costituì una popolazione in quanto la sua è la stessa popolazione e lingua ebraica, ma a causa del singolare scorcio di tempo, poiché durante la sua vita si distribuirono i territori. Non ci deve turbare la considerazione che Nebrot non poté giungere al periodo di tempo in cui fu costruita Babilonia e avvenne il differenziarsi dei dialetti e conseguentemente la separazione delle popolazioni. Dal fatto che Eber è al sesto grado da Noè e Nebrot al quarto non ne consegue che non furono contemporanei. Questa vicenda poté verificarsi poiché vivevano di più quando le generazioni erano meno numerose e di meno quando erano più numerose, oppure nascevano più tardi quando le generazioni erano di meno e più presto quando erano di più. Si deve riflettere che quando il territorio fu distribuito non solo erano nati gli altri discendenti di Noè, che sono ricordati come Patriarchi delle popolazioni, ma erano già in età di avere parecchie famiglie degne dell'appellativo di popolazioni. Perciò non si deve affatto pensare che nacquero nell'ordine con cui sono elencati. Altrimenti è inverosimile che i dodici figli di Iectan, l'altro figlio di Eber e fratello di Falec, avessero già costituito le popolazioni se Iectan era nato dopo suo fratello Falec come dopo di lui è menzionato, dal momento che i territori furono distribuiti al tempo della nascita di Falec. Quindi si deve ammettere che fu menzionato per primo ma che era nato molto tempo dopo la nascita di Iectan, tanto che i dodici figli di quest'ultimo potevano già avere famiglie tanto numerose da poter essere distribuite secondo i rispettivi dialetti. Perciò poté essere nominato per primo chi veniva dopo per nascita, allo stesso modo che dei discendenti dai tre figli di Noè al primo posto sono stati nominati i discendenti di Iafet che era il più piccolo dei tre, poi i discendenti di Cam che era il figlio di mezzo, infine i discendenti di Sem che era il primo e il più grande. Le denominazioni di quelle popolazioni in parte rimasero, sicché anche oggi ne è manifesta la derivazione, come Assiri da Assur ed Ebrei da Eber, in parte sono cambiate col passar del tempo al punto che uomini dottissimi, i quali fanno ricerche di archeologia, sono riusciti a scoprire le origini di appena alcune di quelle popolazioni, non di tutte. Difatti nessun dato etimologico fa apparire che gli Egiziani, come si afferma, abbiano origine da un figlio di Cam chiamato Mesraim. Altrettanto si dice degli Etiopi che sono considerati discendenti del figlio di Cam, chiamato Cus. Se si riflette bene, sono più le denominazioni cambiate che quelle rimaste.

Adolescenza della Città di Dio in Abramo [12-36]

Gli Ebrei dalla Caldea in Mesopotamia.
12. Ora esaminiamo lo sviluppo della città di Dio in quel periodo di tempo che si ebbe col patriarca Abramo, perché da quel tempo inizia una sua più palese manifestazione e in esso si rendono manifeste promesse divine che attualmente vediamo adempiute in Cristo. Come abbiamo appreso dalla narrazione della sacra Scrittura, Abramo nacque nella regione dei Caldei 53, territorio che apparteneva all'impero degli Assiri. Presso i Caldei anche allora erano in vigore irriverenti usanze religiose, come presso gli altri popoli. V'era soltanto la famiglia di Tara, da cui nacque Abramo, in cui erano rimasti il culto dell'unico vero Dio e, per quanto si può dedurre, la sola lingua ebraica. Tuttavia, stando alla testimonianza di Giosuè di Nun 54, si è informati che anche Tara, come pure il popolo che era più palesemente di Dio, sia in Egitto che in Mesopotamia, adorarono altri dèi. Questo avveniva perché gli altri della discendenza di Eber gradatamente passavano ad altre lingue e ad altri popoli. E come durante il diluvio delle acque soltanto la famiglia di Noè era rimasta per ricuperare il genere umano, così nel diluvio delle molte credenze religiose diffuse nel mondo era rimasta soltanto la famiglia di Tara in cui fu custodito il germe della città di Dio. Precedentemente dopo aver elencato le generazioni fino a Noè assieme al numero degli anni e dopo aver esposto la causa del diluvio, prima che Dio parlasse a Noè della costruzione dell'arca, la Scrittura dice: Questi sono i discendenti di Noè 55. Allo stesso modo ora, dopo aver elencato le generazioni dal Patriarca chiamato Sem, figlio di Noè, fino ad Abramo, si segnala una serie di rilievo con le parole: Queste sono le generazioni di Tara. Tara generò Abram, Nacor e Arran, e Arran generò Lot. Arran morì prima di Tara suo padre nella terra in cui nacque, nella regione dei Caldei. Abram e Nacor presero moglie, il nome della moglie di Abram è Sara e quello della moglie di Nacor è Melca, figlia di Arran 56. Arran fu padre di Melca e di Iesca, che si ritiene sia la stessa Sara moglie di Abramo.

Importanza dell'elemento cronologico.
13. Si narra poi come Tara lasciò con i suoi familiari la regione dei Caldei e si recò nella Mesopotamia e si stabilì a Carran. Non si parla del figlio che si chiamava Nacor, come se non l'avesse condotto con sé. Ecco il testo: Tara prese con sé Abram suo figlio e Lot figlio di Arran suo nipote, Sara sua nuora e moglie del figlio Abram, li condusse dalla regione dei Caldei nella regione di Canaan, giunse a Carran e vi si stabilì 57. In questo passo non sono ricordati Nacor e la moglie Melca. Ma lo incontriamo in seguito quando Abramo mandò un suo servitore a scegliere una moglie per il figlio Isacco. Dice la Scrittura: Il servitore prese con sé dieci dei cammelli e una parte dei beni del suo padrone e messosi in cammino partì per la Mesopotamia nella città dove era Nacor 58. Con questa testimonianza e con altre della Storia sacra si dimostra che anche Nacor fratello di Abramo uscì dal paese dei Caldei e stabilì la residenza in Mesopotamia, dove Abramo si era stabilito con suo padre. Cerchiamo quindi il motivo per cui la Scrittura non lo ha ricordato quando Tara con i suoi familiari partì dal paese dei Caldei e si stabilì in Mesopotamia, tanto più che aveva condotto con sé non solo il figlio Abramo ma anche la nuora Sara e il nipote Lot. Il vero motivo è, come pensiamo, che si era allontanato dalla religione del padre e del fratello e aveva aderito alla falsa credenza dei Caldei, ma poi anche egli emigrò dal paese perché era pentito o minacciato come persona sospetta. Infatti nel libro intitolato Giuditta, quando Oloferne, nemico degli Israeliti, chiese che gente fosse e se si doveva combattere contro di loro, Achior, condottiero degli Ammoniti, rispose: Il nostro signore ascolti la parola di un suo dipendente e dirò la verità sul popolo che abita la montagna qui vicino e non uscirà una menzogna dalla bocca del tuo dipendente. Sono i discendenti di una popolazione della Caldea e prima abitavano la Mesopotamia perché non vollero più adorare gli dèi dei loro padri. Erano famosi nella terra dei Caldei, ma si allontanarono dalla tradizione dei loro antenati e adorarono il Dio del cielo che avevano riconosciuto come il vero Dio. Allora i Caldei li espulsero dalla presenza dei loro dèi ed essi si rifugiarono in Mesopotamia e vi abitarono per molto tempo. E il loro Dio comandò che abbandonassero la loro abitazione e andassero nella terra di Canaan e quivi si stabilirono 59 e di seguito le altre informazioni di Achior l'Ammonita. È evidente che la famiglia di Tara aveva subìto dai Caldei una persecuzione a causa della vera religione con cui si adorava l'unico vero Dio.

La vocazione e problemi cronologici su Abramo.
14. Dopo la morte di Tara in Mesopotamia dove, come ci è notificato, visse duecentocinque anni, si comincia a segnalare le promesse fatte da Dio ad Abramo. È scritto appunto: Gli anni di vita di Tara in Carran furono duecentocinque e egli morì a Carran 60. Il passo non si deve interpretare nel senso che egli trascorse in quel luogo tutti questi anni, ma che in quel luogo raggiunse tutti gli anni della sua vita che furono duecentocinque. Altrimenti non si saprebbe quanti anni è vissuto Tara, perché non è indicato a che età della sua vita andò a Carran e sarebbe assurdo ritenere che in questa genealogia, in cui si segnalano con precisione gli anni di vita di ciascuno, soltanto il numero di anni di questo patriarca non sarebbe consegnato alla storia. E il motivo per cui non è indicata l'età di alcuni, di cui la sacra Scrittura parla, è che essi non sono nella serie in cui l'elemento cronologico è derivato dalla scomparsa dei genitori e dalla successione dei figli. La lista che si protende da Adamo a Noè e da lui ad Abramo non comprende nessuno senza l'indicazione del numero degli anni.

 Gli spostamenti di Abramo nella relazione di Stefano.
15. 1. Dopo la notificazione della morte di Tara, padre di Abramo, si legge: E disse il Signore ad Abram: lascia il tuo paese, la tua tribù e la famiglia di tuo padre 61 e il resto. Non si deve pensare che questo fatto, perché segue immediatamente nel contesto del libro, segua immediatamente anche nell'ordine degli avvenimenti. Al caso sarebbe un problema insolubile. Dopo queste parole rivolte da Dio ad Abramo, la Scrittura sacra continua: Abramo lasciò tutto secondo il comando del Signore e andò con lui Lot. Abramo aveva settantacinque anni quando abbandonò Carran 62. È impossibile che questo sia vero se lasciò Carran dopo la morte del padre. Precedentemente è stato notificato che Tara aveva settanta anni quando mise al mondo Abramo. Sommati a questo numero i settantacinque anni che aveva Abramo quando lasciò Carran, diventano centoquarantacinque anni. Dunque Tara aveva questa età quando Abramo lasciò la città della Mesopotamia. Egli infatti aveva settantacinque anni di età, perciò il padre che l'aveva generato quando era al settantesimo anno di età, aveva, come è stato detto, centoquarantacinque anni. Quindi Abramo non se ne andò dal paese dopo la morte del padre, cioè ai duecentocinque anni di vita di lui, ma risulta, senza possibilità d'errore, che l'anno della sua dipartita fu ai centoquarantacinque anni di vita del padre, dato che egli ne aveva settantacinque e il padre all'età di settanta anni l'aveva messo al mondo. Si deve quindi ammettere che la Scrittura, secondo un suo criterio, è tornata indietro ad un tempo che l'esposizione dei fatti aveva oltrepassato. Anche precedentemente, mentre menzionava i discendenti dei figli di Noè, aveva indicato che si erano stabiliti nei rispettivi dialetti e popolazioni 63, tuttavia dopo, come se seguisse nella successione del tempo, dice: L'umanità aveva un medesimo linguaggio e idioma 64. Non era assurdo dire che i discendenti erano costituiti nelle rispettive popolazioni e dialetti e che la lingua era comune soltanto perché l'esposizione si è volta indietro rinviando a un avvenimento passato. Anche nel caso in esame fu premessa questa notizia: Gli anni di vita di Tara in Carran furono duecentocinque ed egli morì a Carran 65. Poi la Scrittura tornando a una notizia che aveva omesso appositamente perché si completasse quel che in precedenza si era cominciato a dire di Tara, soggiunse: Il Signore disse ad Abram: lascia il tuo paese e il resto. E dopo questa parola del Signore si soggiunge: Abram lasciò tutto secondo il comando del Signore e andò con lui Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran 66. Questo dunque avvenne quando il padre aveva centoquarantacinque anni d'età, perché egli allora ne aveva settantacinque. L'obiezione ha avuto anche un'altra soluzione. I settantacinque anni di Abramo quando lasciò Carran sarebbero calcolati dall'anno in cui fu fatto uscire da Ur dei Caldei, come se allora avesse cominciato a vivere, e non dall'anno in cui nacque.

 Cronologia della manifestazione di Dio ad Abramo.
15. 2. Santo Stefano, nel narrare questi avvenimenti, dice negli Atti degli Apostoli: Il Dio della gloria apparve al nostro patriarca Abramo, quando era in Mesopotamia prima che andasse ad abitare a Carran e gli disse: Lascia il tuo paese, la tua tribù e la famiglia di tuo padre e va' nel paese che io ti indicherò. Stando a queste parole di Stefano Dio non parlò ad Abramo dopo la morte del padre che morì certamente a Carran, dove con lui dimorò anche il figlio, ma prima che andasse a quella città, però quando già era in Mesopotamia. Dunque aveva già lasciato il territorio dei Caldei. Il resto del discorso di Stefano e cioè: Allora Abramo abbandonò il paese dei Caldei e si stabilì a Carran non riguarda ciò che era avvenuto dopo che il Signore gli ebbe parlato. Difatti non aveva abbandonato la Caldea dopo quelle parole del Signore, poiché Stefano afferma che si manifestò a lui quando era ancora in Mesopotamia. Il termine allora è relativo a tutto quel tempo, ossia da quando abbandonò il paese dei Caldei e si stabilì a Carran. Egualmente va inteso ciò che segue: Da quel paese, dopo la morte del padre, lo fece stabilire in questo territorio in cui ora abitate voi e i vostri antenati 67. Non ha detto: "Dopo la morte del padre abbandonò Carran", ma: "Lo fece stabilire qui dopo la morte del padre". Si deve quindi intendere che Dio si manifestò ad Abramo, quando era ancora in Mesopotamia, prima che si stabilisse a Carran, ma che giunse a Carran con il padre, conservando in sé il comando di Dio e che di là emigrò quando egli aveva settantacinque anni e il padre centoquarantacinque. In realtà Stefano attesta che dopo la morte avvenne la residenza fissa nel territorio di Canaan e non la partenza da Carran, perché il padre era già morto quando acquistò un terreno, di cui entrò in possesso come proprietà personale. Con le parole che Dio gli rivolge quando era già stabilito in Mesopotamia, cioè emigrato dal paese dei Caldei: Lascia il tuo paese, la tua tribù, la famiglia di tuo padre non gli ordina di far emigrare il corpo, perché l'aveva già fatto, ma di distogliere il pensiero. Difatti non ne era uscito col pensiero se era ancora tenuto dalla speranza e dal desiderio di tornarvi, speranza e desiderio che dovevano scomparire con l'aiuto di Dio e la sua docilità. È attendibile l'ipotesi che quando Nacor raggiunse il padre nell'aldilà, allora Abramo adempì il comando del Signore di emigrare da Carran assieme alla sua moglie Sara e a Lot figlio del fratello.

Tre imperi e tre continenti.
16. Ormai si devono prendere in esame le promesse di Dio ad Abramo. In esse cominciarono a rivelarsi le predizioni più manifeste del nostro Dio, cioè del vero Dio, sul popolo dei credenti preannunciato dalla veridicità di un profeta. La prima è in questi termini: Il Signore disse ad Abramo: Lascia il tuo paese, la tua tribù e la famiglia di tuo padre ed emigra nel paese che io ti indicherò e ti farò diventare un grande popolo, ti benedirò e renderò famoso il tuo nome e sarai benedetto e benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno e in te saranno benedetti tutti i popoli della terra 68. È da rilevare che due cose furono promesse ad Abramo. La prima è che la sua discendenza avrebbe posseduto il territorio di Canaan ed è indicata con le parole: Emigra nel paese che io ti indicherò e ti farò diventare un grande popolo. L'altra riguarda un evento più importante perché non è relativa alla discendenza fisiologica ma spirituale, in virtù della quale è padre non solo del popolo israelitico ma di tutti i popoli che seguono il modello della sua fede. Questa promessa ha avuto inizio con le parole: E in te saranno benedetti tutti i popoli della terra. Eusebio ritiene che questa promessa fu fatta al settantacinquesimo anno di vita di Abramo 69, come se fosse avvenuta appena egli abbandonò Carran, poiché non si può considerare erroneo questo passo della Scrittura: Abramo aveva settantacinque anni quando lasciò Carran 70. Ma se la promessa avvenne in quell'anno, già Abramo dimorava in Carran col padre. Non poteva lasciarla se prima non vi si fosse stabilito. Così non si ritiene che abbia errato Stefano il quale afferma: Il Dio della gloria apparve ad Abramo nostro padre quando dimorava nella Mesopotamia prima che si stabilisse a Carran 71. Si deve intendere appunto che nel medesimo anno si siano verificati tutti questi eventi, la promessa di Dio prima che Abramo si stabilisse a Carran, la sua residenza in essa e la dipartita, non solo perché Eusebio nella Cronaca inizia la cronologia dall'anno di questa promessa e dimostra che la fuga dall'Egitto avvenne dopo quattrocentotrenta anni, quando fu consegnata la legge, ma anche perché così opina l'apostolo Paolo.

Abramo verso il paese di Canaan.
17. Contemporaneamente v'erano famosi regni pagani, nei quali la città dei nati dalla terra, cioè la società degli uomini che vivevano secondo l'uomo, sotto il dominio degli angeli ribelli, si segnalava per splendore. Erano tre i regni, di Sicione, d'Egitto e d'Assiria. Quello d'Assiria era molto più potente e splendido. Infatti il celebre Nino, figlio di Belo, aveva assoggettato i popoli di tutta l'Asia, eccettuata l'India. Per Asia ora non intendo quella parte che è una provincia dell'Asia maggiore ma quella che corrisponde all'Asia intera, che alcuni hanno considerato l'altra parte di tutto l'orbe, parecchi invece come la terza parte così che sarebbero tre parti le quali sono Asia, Europa, Africa. Evidentemente non hanno usato il medesimo criterio nel dividere. La parte appunto che corrisponde all'Asia va dal Mezzogiorno attraverso l'Oriente fino al Settentrione, l'Europa dal Settentrione fino all'Occidente e l'Africa dall'Occidente fino al Mezzogiorno. Sembra quindi che due, Europa e Africa, comprendano metà del pianeta e l'Asia da sola l'altra metà. Ma le due sono state considerate parti perché tra l'una e l'altra dall'Oceano defluiscono tutte le acque che circondano la terra e che per noi formano il Mediterraneo. Quindi se consideri l'orbe diviso in due parti, dell'Oriente e dell'Occidente, l'Asia è nella prima, l'Europa e l'Africa nell'altra. Quindi dei tre imperi che allora primeggiavano quello di Sicione non dipendeva dall'Assiria perché Sicione era in Europa. C'è quindi da chiedersi perché non era loro tributario l'impero d'Egitto se dagli Assiri era dominata tutta l'Asia, fatta eccezione, come si afferma, soltanto per gli Indiani. In Assiria dunque aveva prevalso la supremazia della città senza Dio. Prototipo ne fu la celebre Babilonia, denominazione molto appropriata della città terrena perché significa confusione. Vi regnava Nino dopo la morte di suo padre Belo che per primo vi aveva regnato durante sessantacinque anni. Il figlio Nino, successo nell'impero alla morte del padre, regnò cinquantadue anni e regnava da quarantatré quando nacque Abramo circa mille e duecento anni prima della fondazione di Roma, quasi altra Babilonia in Occidente.

Abramo in Egitto.
18. Dunque Abramo lasciò Carran quando aveva settantacinque anni e il padre centoquarantacinque con Lot, figlio del fratello e con la moglie Sara e si diresse verso il paese di Canaan e giunse a Sichem, in cui di nuovo ricevette una comunicazione divina, sulla quale si ha nella Scrittura: Il Signore si manifestò ad Abramo e gli disse: Darò alla tua discendenza questo territorio 72. Con queste parole non è stata indicata la discendenza con cui egli è diventato padre di tutti i popoli, ma soltanto di quella per cui è padre del solo popolo d'Israele. Da questa discendenza infatti fu occupato quel territorio.

Abramo si separa da Lot.
19. In seguito dopo aver costruito in quel luogo un altare e aver invocato Dio, Abramo partì di là e fece sosta nel deserto e poi fu costretto dalla carestia a recarsi in Egitto. Qui disse che la moglie era sua sorella senza mentire perché lo era come consanguinea. Anche Lot per il medesimo vincolo di parentela fu presentato come fratello, sebbene fosse figlio del fratello. Passò sotto silenzio la moglie ma non negò che lo fosse, affidando a Dio la difesa della fedeltà di lei ed evitando come uomo gli agguati dell'uomo perché, se non evitava il pericolo nei limiti del possibile, avrebbe piuttosto tentato Dio che sperato in lui 73. In proposito ho parlato abbastanza contro il cavilloso Fausto il manicheo 74. In seguito avvenne ciò che Abramo si attendeva dal Signore. Il Faraone re d'Egitto, che s'era preso Sara in moglie, affetto da grave malattia, la rese al marito. E non dobbiamo credere che fosse violata da contatto adultero perché è assai più credibile che non fu consentito al Faraone di farlo dallo stato di prosternazione.

Nuova promessa ad Abramo.
20. Ritornato quindi Abramo dall'Egitto nel luogo da cui era partito, Lot figlio del fratello, pur salvaguardando l'affetto, si separò da lui per recarsi nel paese di Sodoma. Erano diventati ricchi e avevano cominciato ad avere molti guardiani del bestiame. Poiché questi si contrastavano, con quel provvedimento evitarono una violenta discordia delle proprie famiglie. Ne poteva derivare, come in tutte le cose umane, una lite anche fra loro due. Abramo, che voleva evitare un simile male, rivolse a Lot queste parole: Non vi sia alterco fra me e te, fra i miei e i tuoi pastori, perché siamo fratelli. Tutto il nostro possedimento non è davanti a te? Allontanati da me, se tu vai dalla parte sinistra, io andrò alla destra o se tu alla destra, io andrò alla sinistra 75. Forse da questo fatto è derivata agli uomini l'usanza del compromesso, cioè che quando si deve distribuire una parte dei terreni, il più grande divida, il più giovane scelga 76.

Abramo e Melchisedec.
21. Dopo che Abramo e Lot si erano separati e per l'obbligo di sorreggere la famiglia e non per la stortura della discordia vivevano ciascuno per conto suo, Abramo nel paese di Canaan e Lot a Sodoma, in una terza manifestazione il Signore disse ad Abramo: Volgendo attorno i tuoi occhi guarda dal luogo dove sei ora a Nord e a Sud, a Est e verso il mare Mediterraneo perché darò a te e alla tua discendenza per sempre il territorio che tu vedi e renderò la tua discendenza numerosa come la sabbia della terra. Se si può fissare il numero della sabbia della terra, lo si farà anche della tua discendenza. Suvvia percorri per lungo e per largo il territorio perché te lo darò 77. Non appare con evidenza che in questa premessa sia inclusa anche quella con la quale divenne padre di tutti i popoli. Può sembrare che la riguardi la frase: renderò la tua discendenza numerosa come la sabbia della terra. Ma la frase è di quel modo di esprimersi che i Greci chiamano iperbole 78 che è linguaggio figurato, non proprio. Però chi conosce la Scrittura non può metter in dubbio che abitualmente usa questa figura come le altre. Si ha questa figura, cioè questo modo di esprimersi, quando l'espressione va molto al di là del significato. Ognuno comprende quanto al di là di ogni paragone sia più grande il numero dei granelli di sabbia che quello di tutti gli uomini da Adamo sino alla fine del mondo. A più forte ragione è maggiore dei discendenti di Abramo, non solo per quanto attiene al popolo d'Israele ma anche a quelli che faranno parte della discendenza sul fondamento dell'imitazione della fede in tutto il mondo e presso tutti i popoli. Questa discendenza in confronto con la moltitudine dei miscredenti, si trova in pochi i quali, anche se pochi, costituiscono una propria incalcolabile moltitudine che è stata indicata per iperbole mediante i granelli di sabbia. Questa moltitudine non è incalcolabile a Dio ma agli uomini, a Dio neanche la sabbia della terra. Quindi poiché con maggiore proprietà si paragona all'enorme quantità di sabbia non solo il popolo d'Israele ma tutta la discendenza di Abramo nei passi in cui v'è la promessa di molti figli non secondo la carne ma secondo lo spirito, in questo passo è possibile avvertire la promessa dell'una e dell'altra paternità. Per questo abbiamo detto che la promessa non è espressa con evidenza perché anche la moltitudine del solo popolo, che proviene secondo la carne da Abramo tramite il suo nipote Giacobbe, crebbe al punto che si è diffusa in tutte le parti del mondo. Quindi è stato possibile paragonarla in base a un'iperbole, all'enorme quantità di sabbia, anche perché soltanto essa è incalcolabile per l'uomo. Nessuno mette in dubbio che come territorio è stato indicato soltanto quello che si denomina Canaan. Ma le parole: Lo darò a te e alla tua discendenza per sempre possono sorprendere alcuni se la parola per sempre s'interpreta in eterno. Ma costoro non rimarranno sorpresi se in questo passo intendono il sempre come noi lo intendiamo per fede, che cioè l'inizio del sempre futuro si ha quando termina il sempre presente. Difatti sebbene gli Israeliti siano stati espulsi da Gerusalemme rimangono tuttavia nelle altre località del paese di Canaan e vi rimarranno sino alla fine e tutto il paese, poiché è abitato da cristiani, è anche esso discendenza di Abramo.

I discendenti numerosi come le stelle.
22. Dopo aver ricevuto questa promessa Abramo emigrò e si stabilì in un'altra località del paese, presso il querceto di Mambre che era a Ebron 79. Poi essendo stati sconfitti i Sodomiti in una guerra condotta da cinque re contro quattro, anche Lot fu fatto prigioniero dai nemici che avevano invaso Sodoma. Lo liberò Abramo con i trecentodiciotto servitori che aveva condotto con sé in battaglia e restituì la vittoria ai re di Sodoma e non volle avere nulla del bottino sebbene il re, per cui aveva vinto, glielo offrisse. In quell'occasione appunto fu benedetto da Melchisedec che era sacerdote di Dio l'Altissimo 80. Di lui sono state scritte molte e importanti considerazioni nella Lettera intestata agli Ebrei che molti attribuiscono a Paolo, alcuni dissentono 81. In quella circostanza inoltre per la prima volta si manifestò il sacrificio che ora dai cristiani in tutto il mondo si offre a Dio e si adempie quel che molto tempo dopo questo avvenimento profeticamente si dice al Cristo che non si era ancora incarnato: Tu sei sacerdote in eterno nella successione a Melchisedec 82 e non nella successione ad Aronne, perché era una successione che doveva essere abolita al luminoso apparire di quei fatti che erano preannunciati da quelle ombre.

La grande promessa ad Abramo.
23. Anche allora fu rivolta in visione la parola del Signore ad Abramo. Il Signore gli promise la sua protezione e una ricompensa molto grande e Abramo, preoccupato della discendenza, disse che sarebbe stato suo erede un certo Eliezer suo servitore e immediatamente gli furono assicurati un erede, che non era il servitore, ma uno che doveva provenire da Abramo stesso e di nuovo una discendenza innumerevole, non come i granelli di sabbia ma come le stelle del cielo 83. A me sembra che con quelle parole fu assicurata una discendenza eccelsa per la felicità celeste. Per quanto attiene al numero straordinario non c'è confronto fra le stelle del cielo e i granelli di sabbia, a meno che non si sostenga una certa somiglianza del paragone in quanto è impossibile contare anche le stelle perché si deve riconoscere che non si riesce a vederle tutte. Infatti quanto più intensamente un individuo fissa, tante più ne scorge. Quindi giustamente si ritiene che ve ne sono alcune nascoste anche a coloro che hanno la vista penetrante a parte quelle che, come si sostiene, si levano e tramontano all'altra parte dell'orbe così lontana da noi. Infine l'autorità di questo libro della Scrittura confuta coloro che si vantano di avere afferrato ed esposto l'intero numero delle stelle, come Arato ed Eudosso e altri se ve sono. Qui cade a proposito il pensiero che l'Apostolo ricorda per inculcare la grazia di Dio: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato a giustizia 84 affinché la circoncisione non s'imbaldanzisse e pretendesse che i popoli incirconcisi non fossero accolti nella fede del Cristo. Quando avvenne che la fede fu riconosciuta come giustizia ad Abramo che credeva, egli ancora non era circonciso.

 Simboli e allegorie nel fatto.
24. 1. Mentre egli parlava nella medesima visione Dio gli disse anche: Io sono il Dio che ti ha fatto emigrare dalla regione dei Caldei per darti questo territorio perché tu ne sia l'erede. Avendolo interrogato Abramo su quale base avrebbe saputo di esserne l'erede, gli disse Dio: Procurami una giovenca, una capra e un ariete, tutti e tre di tre anni, una tortora e un colombo. Gli procurò tutti questi animali, li divise nel mezzo e pose le metà l'una di fronte all'altra ma non divise gli uccelli. E piombarono, come è scritto, uccelli rapaci sui corpi che erano divisi ma Abram resisté loro. Verso il tramonto del sole uno spavento religioso invase Abram e una oscura grande angoscia lo incolse e il Signore gli disse: Saprai che la tua discendenza sarà in esilio in terra straniera, li ridurranno in schiavitù e li opprimeranno per quattrocento anni, io ti indicherò il popolo di cui saranno schiavi. Ma dopo questi fatti ne usciranno con una grande ricchezza. Tu te ne andrai in pace con i tuoi antenati in una serena vecchiaia. Alla quarta generazione torneranno qua. Finora non sono al completo i peccati degli Amorrei. Quando il sole fu tramontato, vi fu una fiammata e un bracere fumante e torce passarono fra le parti degli animali uccisi. In quel giorno il Signore stabilì un'alleanza con Abram dicendo: Alla tua discendenza darò il territorio dal fiume confinante con l'Egitto fino al grande fiume Eufrate, abitato da Cheniti, Chenizziti, Cadmoniti, Ittiti, Perizziti, Rafaim, Amorrei, Cananei, Evei, Gergesei, Gebusei 85.

 Precisazioni cronologiche.
24. 2. Tutti questi avvenimenti, fatti e parole, si ebbero in visione per azione divina. È lungo trattarne singolarmente e va al di là dell'intento dell'opera. Dobbiamo quindi conoscere quanto basta. Dopo la notizia che Abramo credette in Dio e gli fu riconosciuto come giustizia, si precisa che non mancò di fede, ma disse: Signore mio padrone con quale segno saprò che ne sarò erede? 86, perché gli era stata assicurata l'eredità di quel territorio. Non disse "come faccio a saperlo?", come se ancora non credesse, ma disse: Con quale segno saprò?, affinché fosse adoperato un confronto con l'oggetto della sua fede per conoscerne il significato. Così non è diffidenza della Vergine Maria l'aver chiesto: Come è possibile perché io sono vergine? Era certa che sarebbe avvenuto, chiedeva il modo con cui sarebbe avvenuto e le fu detto perché questo aveva chiesto 87. Anche nel caso in esame il confronto fu dato con animali, la vitella, la capra, l'ariete, la tortora e il colombo affinché sapesse che sarebbe avvenuto secondo tali indicazioni ciò che non dubitava sarebbe avvenuto. Con la vitella poteva essere simboleggiata la popolazione posta sotto il giogo della legge, con la capra la medesima popolazione che avrebbe trasgredito la legge, con l'ariete la medesima popolazione che avrebbe avuto un re. E si precisa che questi animali siano di tre anni perché vi sono i tre significativi periodi di tempo, da Adamo a Noè, da lui ad Abramo e da lui a Davide, il primo re consolidato nel regno del popolo d'Israele per volontà del Signore dopo che Saul fu destituito. E proprio nel terzo periodo, che va da Abramo a Davide, questo popolo divenne adulto perché entrava nella terza età. Questi animali potrebbero simboleggiare più convenientemente qualche altra cosa, però non metterei affatto in dubbio che nell'aggiunta della tortora e del colombo si ha un'allegoria profetica degli spirituali. Per questo si ha nel passo: Non divise gli uccelli, poiché i carnali si dividono fra di sé ma in nessun modo gli spirituali, sia che si allontanino dagli umani rapporti d'affari, come la tortora, sia che passino il tempo in mezzo ad essi, come il colombo. Tutti e due gli uccelli però sono schietti e inoffensivi e simboleggiano nello stesso popolo d'Israele, al quale si doveva concedere quel territorio, coloro che sarebbero stati gli indivisibili figli della promessa e gli eredi del regno che dovrà persistere nella felicità eterna. Gli uccelli che piombano sui corpi divisi non significano qualcosa di bene ma gli spiriti di questa atmosfera che si procurano il mangiare dalla divisione dei carnali. Il fatto che Abramo li scacciò simboleggia che anche fra le divisioni dei carnali i veri credenti persevereranno fino alla fine. E il fatto che al tramonto del sole lo spavento religioso e la grande angoscia invasero Abramo simboleggia che verso la fine del mondo avverrà un grande tormentoso sconvolgimento dei credenti, di cui il Signore dice nel Vangelo: Vi sarà allora un grande tormento quale non si ebbe dall'inizio 88.

 L'angoscia di Abramo e la fine del mondo.
24. 3. Vi sono poi le parole ad Abramo: Saprai che la tua discendenza sarà in esilio in terra straniera e li ridurranno in schiavitù e li opprimeranno per quattrocento anni 89. È una manifesta predizione sul popolo d'Israele che doveva essere schiavo in Egitto, non nel senso che il popolo doveva passare quattrocento anni nella schiavitù sotto gli Egiziani che l'opprimevano ma nel senso che il fatto sarebbe avvenuto entro i quattrocento anni. C'è un confronto con quel che era stato scritto di Tara padre di Abramo: E gli anni di Tara in Carran furono duecentocinque 90, non nel senso che trascorsero tutti in quel paese ma che vi furono compiuti. Allo stesso modo anche qui sono state inserite le parole: Li ridurranno in schiavitù e li opprimeranno per quattrocento anni, perché questo periodo ebbe termine con questa afflizione e non perché vi fu trascorso tutto. Sono indicati quattrocento anni a causa della completezza del numero, sebbene siano un po' di più, tanto se vengono calcolati dal tempo, in cui erano rivolte queste promesse ad Abramo o da quando nacque Isacco in relazione alla discendenza di Abramo perché queste predizioni la riguardano. Sono calcolati quattrocentotrenta anni, come ho detto poco fa, dall'anno in cui Abramo ne compiva settantacinque, quando gli fu svelata la prima promessa, fino alla uscita di Israele dall'Egitto. Li ricorda anche l'Apostolo che dice: La legge promulgata quattrocentotrenta anni dopo non annulla, sopprimendo la promessa, l'alleanza ratificata da Dio 91. Era possibile quindi di questi quattrocentotrenta anni considerarne quattrocento perché non sono molti di più, anche perché alcuni ne erano passati quando quegli eventi furono fatti vedere e descritti ad Abramo in visione o quando venticinque anni dopo la promessa nacque Isacco dal padre che ne aveva cento. Dei quattrocentotrenta ne rimarrebbero quattrocentocinque e Dio volle prenderne in considerazione soltanto quattrocento. E nessuno può dubitare che gli altri eventi, che seguono alle parole di Dio che li predice, riguardano il popolo d'Israele.

 Apologia di Abramo con Agar.
24. 4. Quel che segue: Quando il sole fu tramontato vi fu una fiammata e un braciere fumante e torce accese passarono fra le parti degli animali divisi 92 simboleggia che alla fine del mondo i carnali saranno giudicati mediante il fuoco. L'oppressione della città di Dio con proporzioni quali prima non si ebbero, la quale si attende che avvenga sotto l'anticristo, è simboleggiata dall'oscura angoscia di Abramo verso il tramonto del sole, cioè quando sarà vicina la fine del mondo. Allo stesso modo al tramonto del sole, cioè alla fine del mondo, è simboleggiato dal fuoco il giorno del giudizio che distinguerà fra gli uomini carnali quelli che si salveranno col fuoco e quelli che saranno dannati nel fuoco. Poi l'alleanza stipulata con Abramo indica propriamente la terra di Canaan e menziona in essa undici popoli dal fiume d'Egitto al grande fiume Eufrate. Quindi non dal grande fiume d'Egitto, cioè dal Nilo, ma dal piccolo che divide Egitto e Palestina, dove si trova la città di Rinocorura.

Alleanza e circoncisione.
25. A questi fatti segue il periodo dei figli di Abramo, uno dalla schiava Agar, l'altro dalla libera Sarra, dei quali abbiamo parlato nel libro precedente 93. Per quanto attiene al fatto in nessun senso si deve rivolgere ad Abramo l'accusa di relazione con questa concubina. La ebbe per avere un figlio non per soddisfare la lussuria, senza offendere ma piuttosto per obbedire alla moglie. Lei si illudeva che fosse un conforto alla sua sterilità se con un atto di volontà, poiché per natura non poteva, rendeva suo il grembo reso fecondo della schiava 94. In fondo la donna usava del diritto di cui l'Apostolo dice: Egualmente anche l'uomo non ha autorità sul suo corpo ma la donna 95. Così partoriva per mezzo di un'altra perché da se stessa non lo poteva. Non v'è nel fatto alcun desiderio di dissolutezza o il disonore dell'inganno. Dalla moglie per avere un figlio si consegna al marito la schiava, dal marito per avere un figlio la si accoglie, da entrambi si persegue non la dissipazione della colpa ma il dono della natura. Poi la schiava incinta trattò con orgoglio la padrona sterile e Sarra con femminile diffidenza attribuì il fatto al marito. Anche in questo caso Abramo dimostrò che non era stato un amante schiavo ma un genitore libero, che in Agar aveva conservato la fedeltà alla moglie, che non aveva soddisfatto il proprio piacere ma la volontà di lei, che aveva ricevuto senza chiedere, che si era unito senza vincolarsi, che aveva generato senza amare. Egli le disse: La tua schiava è a tua disposizione, trattala come ti pare 96. O uomo che trattò le donne con dignità virile, la moglie con rispetto, la schiava con deferenza, nessuna delle due senza ritegno.

 Fatti e loro simbologia nel tempo.
26. 1. Dopo questi fatti da Agar nacque Ismaele e Abramo dovette pensare che con lui fosse adempiuta la promessa perché, quando voleva adottare un suo servitore, Dio gli aveva detto: Non sarà tuo erede costui ma uno che proverrà da te sarà tuo erede 97. Ma affinché non pensasse che la promessa si adempisse col figlio della schiava, quando aveva novantanove anni gli apparve il Signore e gli disse: Io sono Dio, ubbidisci al mio cenno e sii senza difetto e stabilirò un'alleanza fra me e te e ti renderò un grande popolo. Abramo si prostrò con la faccia a terra e Dio gli rivolse queste parole: Eccomi ed ecco la mia alleanza con te e sarai capostipite di molti popoli. Il tuo nome non sarà più Abram ma Abramo, perché ti ho costituito capostipite di molti popoli, ti renderò assai grande e ti rinnoverò in vari popoli e nella tua discendenza ci saranno re. Stabilirò la mia alleanza fra me e te e con la tua discendenza di generazione in generazione con un'alleanza eterna per essere il Dio tuo e della tua discendenza. E darò a te e alla tua discendenza il territorio, in cui ora abiti come straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne e sarò il loro Dio. E disse Dio ad Abramo: Tu rispetterai la mia alleanza, tu e la tua discendenza nelle varie generazioni. E questa è l'alleanza fra me e voi e la tua discendenza nelle varie generazioni che dovrai rispettare: Sarà circonciso ogni vostro maschio e circonciderete il vostro membro e sarà come simbolo dell'alleanza fra me e voi. Ogni vostro maschio di otto giorni sarà circonciso nelle varie generazioni. Anche lo schiavo nato nella tua casa o comprato dallo straniero, che non sono della tua discendenza, saranno circoncisi, tanto se nato in casa che acquistato. Così la mia alleanza sarà nel vostro corpo come un'alleanza perenne. E il maschio non circonciso, che non riceverà cioè il segno della circoncisione nel corpo all'ottavo giorno, non apparterrà più alla sua razza perché ha rotto la mia alleanza. Sara tua moglie non sarà più chiamata Sara ma Sarra. La benedirò e da lei ti farò avere un figlio e lo benedirò e darà origine a nazioni e re di popoli proverranno da lui. Abramo si prostrò con la faccia a terra, rise e pensò fra sé: È possibile che nasca un figlio a me che ho cento anni e che Sarra a novanta partorisca? E Abramo disse a Dio: Viva qui Ismaele alla tua presenza. Rispose Dio ad Abramo: È così, Sarra tua moglie ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Stabilirò l'alleanza con lui in alleanza perenne di essere il suo Dio e della sua discendenza. Anche riguardo ad Ismaele ti ho dato ascolto, l'ho benedetto, avrà molti figli e discendenti. Darà origine a dodici tribù e lo renderò una grande nazione. Stabilirò la mia alleanza con Isacco che Sarra ti partorirà l'anno prossimo in questa stagione 98.

 Significato redentivo della circoncisione.
26. 2. Nel brano sono più evidenti le promesse sulla vocazione dei pagani in Isacco, cioè nel figlio della promessa col quale è simboleggiata la grazia non la natura, perché si promette la nascita di un figlio da un uomo vecchio e da una vecchia donna sterile. Sebbene infatti sia Dio a garantire il naturale procedimento della procreazione, in un caso tuttavia, in cui è evidente l'intervento di Dio a causa di un difetto o inefficienza della natura, con maggiore evidenza si intravede la grazia. E poiché doveva venire non attraverso la generazione ma la rigenerazione, la circoncisione è stata prescritta quando è stata promessa la nascita di un figlio da Sarra. E la prescrizione che siano circoncisi tutti, non solo i figli ma anche gli schiavi nati nella casa o comprati, dimostra che la grazia appartiene a tutti. Difatti la circoncisione simboleggia la natura che si rinnova spogliandosi del vecchio. E il giorno ottavo simboleggia Cristo che è risorto al termine della settimana, cioè al sabato. Sono cambiati perfino i nomi dei genitori, ogni cosa riecheggia il rinnovamento e nell'Antica Alleanza si cela la Nuova. Difatti il vero significato di Antica Alleanza è tener segreta la Nuova e il significato di Nuova Alleanza è manifestare l'Antica. Il riso di Abramo è la gioia di chi si rallegra con se stesso, non lo scherno di chi diffida. Le parole che rivolge a se stesso: Se a me che ho cento anni nascerà un figlio e se Sarra a novanta anni partorirà non sono riflessioni di chi dubita ma di chi rimane sorpreso. Il passo: E darò a te e alla tua discendenza il territorio in cui sei straniero, tutta la terra di Canaan in possesso perenne 99, potrebbe rendere perplesso qualcuno se la promessa si deve intendere come adempiuta o se si deve attendere il suo adempimento, perché qualsiasi possedimento terreno non può esser eterno per nessun popolo. Sappia costui che dai nostri letterati si traduce eterno un qualcosa che i Greci chiamano , termine derivato da secolo, perché in greco il secolo è chiamato . Ma i Latini non hanno osato parlare di secolare per non lasciare andare il significato a un oggetto completamente diverso. Molte cose si dicono secolari perché si avverano nel tempo che trascorre e passano sia pure in breve tempo. Invece ciò che s'intende come o non ha fine o si prolunga sino alla fine del trascorrere del tempo.

Promessa e cambiamento di nomi.
27. Similmente può generare perplessità l'interpretazione del passo: Il maschio che non riceverà la circoncisione del membro all'ottavo giorno, quella persona non apparterrà più alla sua razza perché ha violato la mia alleanza 100. Non v'è colpa del bimbo, la cui vita dovrebbe andare in rovina, e non è stato lui a violare l'alleanza di Dio ma i genitori che non si sono preoccupati di circonciderlo. Però tutti i bimbi non in base a una caratteristica della propria esistenza, ma sulla base della comune origine dell'uman genere, hanno violato nel primo uomo l'alleanza di Dio, perché in lui tutti hanno peccato 101. Molte alleanze sono considerate di Dio, a parte le due grandi Alleanze, l'Antica e la Nuova che è consentito a tutti di conoscere leggendo la sacra Scrittura. La prima alleanza stipulata col primo uomo è certamente questa: Il giorno in cui ne mangerete, morirete 102. È scritto anche nel Libro detto dell'Ecclesiastico: Ogni uomo invecchia come un vestito. È un'alleanza dall'inizio dei tempi: Tu morirai 103. Ma la legge più esplicita è stata promulgata in seguito e l'Apostolo dice: Dove non si ha la legge neanche la trasgressione si ha 104. Quindi la sentenza del Salmo: Ho considerato trasgressori tutti i peccatori del mondo 105 è vera perché tutti coloro che sono vincolati a qualche peccato sono colpevoli della trasgressione di qualche legge. Perciò se anche i bimbi, come professa la vera fede, nascono peccatori non per colpa personale ma originale e per questo professiamo che è loro necessaria la grazia del perdono dei peccati, si riconosce evidentemente che come sono peccatori sono anche trasgressori di quella legge che fu promulgata nel paradiso terrestre. Così sono vere tutte e due le sentenze della Scrittura: Ho considerato trasgressori tutti i peccatori del mondo e l'altra: Dove non si ha la legge neanche la trasgressione si ha. Poiché dunque la circoncisione fu simbolo della rigenerazione e non a torto a causa del peccato originale, con cui fu violata la prima alleanza con Dio, la generazione porrà allo sbaraglio il bimbo se la rigenerazione non lo riscatta. Le parole di Dio dunque si devono intendere in questo senso: La vita di chi non sarà rigenerato non apparterrà più alla sua razza, perché ha violato l'alleanza di Dio quando anche egli ha peccato con tutti in Adamo. La frase: Perché ha violato questa mia alleanza costringerebbe a intendere che si tratta soltanto della circoncisione. In verità poiché non ha esplicitato qual genere di alleanza il bimbo ha violato, è attendibile che s'intenda un'alleanza che può essere violata anche da un bimbo. Qualcuno può insistere che si parli soltanto della circoncisione perché soltanto in riferimento ad essa il bimbo ha violato l'alleanza di Dio per il fatto che non è stato circonciso. Cerchi costui un altro modo d'esprimersi col quale si possa sensatamente significare che il bimbo ha violato l'alleanza perché, sebbene non da lui tuttavia in lui, è stata violata. Però anche in questo senso si deve riconoscere che l'anima del bimbo incirconciso non si perde ingiustamente per una personale trasgressione, che non esiste, ma soltanto per la soggezione al peccato originale.

L'esperienza del divino in Abramo e Lot.
28. Dunque fu rivolta ad Abramo una promessa tanto grande e tanto luminosa, perché gli fu comunicato molto esplicitamente: Ti ho costituito capostipite di molti popoli, ti renderò grande e ti rinnoverò in vari popoli e nella tua discendenza vi saranno re. Ti farò avere un figlio da Sara, lo benedirò, darà origine a nazioni e re di popoli proverranno da lui 106. Notiamo ora che questa promessa si è avverata in Cristo. Da quel momento quei coniugi non sono chiamati come prima, Abram e Sara, ma come li abbiamo chiamati noi fin dall'inizio poiché così sono chiamati da tutti e cioè Abramo e Sarra. Si giustifica perché è stato cambiato il nome di Abramo: perché dice il Signore, ti ho costituito capostipite di molti popoli. Si deve quindi intendere che Abramo ha questo significato. Abram, come era chiamato prima, si traduce "Padre nobile". Non è stata data giustificazione del cambiamento del nome di Sara, ma come affermano quelli che hanno trattato la traduzione dei nomi ebraici contenuti in questa parte della Scrittura, Sara si traduce "Mia principessa" e Sarra "Vigore". Perciò nella Lettera agli Ebrei si ha: Anche Sarra per fede ricevette vigore per il concepimento 107. Erano tutti e due assai vecchi, come afferma la Scrittura, ma lei anche sterile e ormai priva del flusso mestruale, perciò non avrebbe potuto partorire anche se non fosse stata sterile. D'altronde, se la donna sia d'età avanzata ma che abbia normali flussi muliebri, da un giovane può concepire ma non da un anziano, sebbene l'anziano può generare da una giovinetta, come dopo la morte di Sarra fu possibile ad Abramo con Cettura perché incontrò la sua età piena di vigore 108. Questo dunque è il fatto che l'Apostolo fa notare come sorprendente e per questo afferma che il corpo di Abramo era come inaridito perché a quell'età non poteva generare da ogni donna, alla quale fosse rimasto l'ultimo periodo di tempo per partorire 109. Dobbiamo intendere che il corpo era inaridito a qualche atto, non a tutti. Se fosse stato a tutti, non si ha l'anzianità di un uomo vivo ma il cadavere di un morto. Ma dato che in seguito Abramo generò da Cettura, questo problema di solito si risolve con la costatazione che la facoltà di generare, avuta dal Signore, rimase anche dopo la morte di Sarra. Ma a me sembra che del problema è preferibile la soluzione che abbiamo seguito, appunto perché un anziano di cento anni, ma del nostro tempo, non può generare da alcuna donna, non allora, quando vivevano ancora tanto a lungo che cento anni non rendevano l'uomo d'età decrepita.

Fine di Sodoma.
29. Dio si manifestò anche in tre individui ad Abramo presso il querceto di Mambre 110. Non si può dubitare che erano angeli, sebbene alcuni ritengono che uno di loro era Cristo Signore perché affermano che fu visibile anche prima dell'assunzione della carne. È proprio del potere divino e dell'invisibile incorporea e non diveniente natura manifestarsi, senza porsi nel divenire, agli sguardi mortali non nella sua essenza ma mediante un esser che gli è sottomesso perché tutto a lui è sottomesso. Questi interpreti insistono che uno dei tre era il Cristo appunto perché, pur avendone visti tre, egli si rivolge individualmente al Signore. È scritto infatti: Tre uomini erano in piedi davanti e appena li vide corse loro incontro dall'ingresso della tenda, si gettò a terra e disse: Signore, se ho ottenuto il tuo favore 111 e il resto. Ma perché costoro non tengono presente anche che due di loro erano venuti perché i Sodomiti fossero sterminati mentre ancora Abramo parlava soltanto con uno, chiamandolo Signore, e supplicando che non facesse morire a Sodoma il giusto con l'empio? Allo stesso modo Lot trattò quei due al punto che nel suo colloquio con loro si rivolge individualmente al Signore. Prima infatti dice a più d'uno: Signori, sostate nella casa del vostro servitore 112 e le altre parole che seguono. Ma poi si legge così: Gli angeli afferrarono le sue mani, quelle della moglie e delle due figlie perché il Signore voleva risparmiarlo. E appena lo condussero fuori gli dissero: Salva la tua vita, non guardare indietro, non fermarti nella pianura, rifugiati sulla montagna per non essere travolto. Lot disse loro: Ti prego, Signore, poiché il tuo servo ha trovato commiserazione in te 113 e il seguito. Dopo queste parole anche il Signore gli risponde individualmente, poiché era nei due angeli, con le parole: Ho guardato il tuo viso 114 e il resto. È molto più credibile quindi che sia Abramo nei tre individui che Lot nei due ravvisassero il Signore perché si rivolgevano a lui al singolare, sebbene li ritenessero uomini. Non per altro motivo li accolsero in modo da trattarli come esseri terrestri e bisognosi di nutrimento. Ma in loro v'era certamente un qualcosa per cui si distinguevano, sebbene a livello di uomini, che coloro che offrivano loro ospitalità non potevano dubitare, come abitualmente avviene nei Profeti, che in essi vi fosse il Signore e perciò talora si rivolgevano loro al plurale e talora al singolare li chiamavano Signore. La Scrittura conferma che fossero angeli non solo nel Libro della Genesi, in cui si narrano questi avvenimenti, ma anche nella Lettera agli Ebrei la quale, nel lodare l'ospitalità, afferma: Con essa alcuni, pur non sapendolo, accolsero come ospiti gli angeli 115. Per il ministero di questi tre individui, quando di nuovo fu promesso ad Abramo che da Sarra sarebbe nato il figlio Isacco, si ebbe anche un attestato divino con le parole: Abramo diverrà un grande e numeroso popolo e in lui saranno benedetti tutti i popoli della terra 116. Anche qui con grande brevità e completezza si preannunciano le due discendenze: il popolo d'Israele secondo la razza, tutti i popoli secondo la fede.

Isacco e il sorriso di Sara.
30. Dopo questa promessa e dopo che Lot era stato fatto uscire da Sodoma tutto il territorio della città depravata fu incendiato da una pioggia di fuoco che veniva dal cielo, perché in essa gli atti carnali fra maschi aveva introdotto un costume più accreditato della liceità di quegli atti che le norme morali consentono. Il castigo fu un saggio del futuro giudizio divino. Difatti la proibizione, a coloro che venivano salvati dagli angeli, di guardare indietro suggerisce esclusivamente che non si deve tornare con la coscienza al vecchio tenore di vita, di cui il rigenerato dalla grazia si spoglia, se intendiamo sfuggire all'ultimo giudizio. La moglie di Lot appunto rimase dove si volse indietro e, tramutata in sale, ha offerto ai credenti un certo condimento per avere il sapore della saggezza con cui evitare quell'esempio 117. In seguito ancora una volta Abramo in Gerar si comportò con Abimelech, re di quella città, come si era comportato in Egitto nei confronti della moglie e ancora una volta gli fu restituita intatta. Abramo al re, che lo rimproverava perché aveva celato che era la moglie dicendo che era la sorella, dopo aver svelato che cosa aveva temuto soggiunse: È veramente mia sorella di padre non di madre 118. Difatti era per Abramo sorella da parte del padre e da lui sua consanguinea. Era di tanta bellezza che poteva essere amata anche a quell'età.

Fede di Abramo nel sacrificio di Isacco.
31. Dopo questi avvenimenti nacque secondo la promessa ad Abramo un figlio da Sarra, lo chiamò Isacco che si traduce "Sorriso". Infatti aveva sorriso il padre quando gli fu promesso perché rimase sorpreso dalla gioia; aveva sorriso la madre quando dai tre uomini gli era stato di nuovo promesso perché dubitava per la gioia. L'angelo la rimproverò che quel sorriso, pur suggerito dalla gioia, non era indice di fede piena, fu quindi dal medesimo angelo confermata nella fede. Da questo fatto il figlio ebbe il nome. Sarra precisò che quel sorriso non era volto a deridere un disonore ma ad esaltare una gioia. Infatti, nato Isacco e chiamato con quel nome, disse: Il Signore mi ha donato la gioia di ridere, chiunque verrà a saperlo, sorriderà con me 119. Ma dopo un po' di tempo la schiava venne allontanata da casa assieme al figlio e nel fatto secondo l'Apostolo sono simboleggiate le due Alleanze, l'Antica e la Nuova, e Sarra è allegoria della città dell'alto, cioè della città di Dio 120.

 Fede premiata con giuramento divino.
32. 1. Nel mezzo di questi fatti, sarebbe troppo lungo ricordarli tutti, Abramo venne tentato ad offrire in sacrificio l'amatissimo figlio Isacco affinché fosse messa alla prova la sua devota obbedienza da segnalare alla conoscenza dei tempi, non di Dio 121. Non ogni tentazione è reprensibile anzi è da rallegrarsene perché con essa avviene una verifica. Il più delle volte la coscienza dell'uomo non può rappresentarsi a se stessa a meno che non con la parola ma con un esame approfondito risponda mentre una tentazione propone in certo senso un quesito. Se vi riconosce un dono di Dio, allora è credente, allora si rinforza nella stabilità della grazia, non si gonfia nella vuotezza della vanagloria. Abramo certamente non credeva che Dio si dilettasse di vittime umane, sebbene si deve osservare e non discutere la manifestazione del comando divino. Tuttavia si deve lodare Abramo perché credette che il figlio, qualora fosse immolato, sarebbe immediatamente risorto. Dio gli aveva detto quando non voleva soddisfare il desiderio della moglie di mandar fuori la schiava e il figlio: In Isacco prenderà nome da te la discendenza. E nel testo vien detto di seguito: Renderò un grande popolo anche il figlio di questa schiava perché è un tuo discendente 122. C'è il problema in qual senso sia stato detto: In Isacco prenderà nome da te la discendenza, sebbene Dio considerasse anche Ismaele sua discendenza. L'Apostolo, spiegando la frase: In Isacco prenderà nome da te la discendenza, afferma: Non sono considerati figli di Dio quelli generati secondo la razza ma i figli della promessa sono assegnati alla discendenza 123. Perciò i figli della promessa, per essere discendenza di Abramo, sono considerati tali in Isacco, cioè sono adunati in Cristo perché la grazia li invita. Dunque questo patriarca della fede tenendo presente mediante la fede la promessa, giacché essa doveva verificarsi in quel figlio che Dio gli ordinava di uccidere, non dubitò che poteva essergli restituito anche se immolato perché gli era stato dato al di là di ogni speranza. Così il fatto è stato inteso e interpretato anche nella Lettera agli Ebrei. Dice: Con fede si comportò Abramo messo alla prova e offrì l'unico figlio egli che aveva ricevuto le promesse e al quale era stato detto: In Isacco prenderà nome da te la discendenza, perché pensava che Dio può anche risuscitare dai morti. Perciò aggiunge: Con questo lo ha proposto anche come simbolo 124, certamente di Colui del quale l'Apostolo dice: Non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi 125. Quindi come il Signore la sua croce, Isacco portò di persona al luogo del sacrificio le legna, sulle quali doveva esser collocato. Infine giacché non si doveva uccidere Isacco dopo che s'impedì al padre di colpirlo, c'è da chiedersi chi fosse l'ariete con la cui immolazione si compì il sacrificio in un sangue che era simbolico poiché, quando lo vide Abramo, era impigliato con le corna in un cespuglio 126. Certamente era indicato per allegoria Gesù coronato di spine dai Giudei prima di essere immolato.

 Morte di Sara.
32. 2. Ma ascoltiamo piuttosto dall'angelo le parole di Dio. Dice la Scrittura: Abramo stese la mano a prendere la spada per uccidere il figlio. L'angelo del Signore lo chiamò dal cielo: Abramo! Egli rispose: Eccomi. Gli disse l'angelo: Non colpire il ragazzo e non fargli del male, ora ho saputo che temi il tuo Dio e non hai risparmiato per me il tuo figlio diletto 127. Ora ho saputo significa "Ora ho fatto sapere", perché il Signore già lo sapeva. Dopo l'offerta dell'ariete in luogo del figlio Isacco, Abramo, come si legge nella Scrittura, denominò quel luogo: Il Signore ha visto, talché si dice anche oggi: Il Signore si manifestò sul monte. Come è stato detto: Ora ho saputo in luogo di "Ora ho fatto sapere", così qui: Il Signore ha visto si ha nel senso che il Signore s'è manifestato, cioè si è fatto vedere. E l'angelo del Signore chiamò una seconda volta Abramo dal cielo e disse: Ho giurato su me stesso, dice il Signore, perché hai ascoltato la mia parola e non hai risparmiato per me il tuo amato figlio, io ti benedirò in modo straordinario e renderò numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e come i granelli di sabbia lungo la spiaggia del mare. E la tua discendenza entrerà in possesso delle città dei nemici e saranno benedetti nella tua discendenza tutti i popoli della terra perché hai ubbidito alla mia parola 128. In questi termini fu confermata, perfino col giuramento di Dio, la promessa sulla vocazione dei popoli nella discendenza di Abramo dopo l'olocausto con cui fu simboleggiato Cristo. Aveva promesso tante volte, mai giurato. E il giuramento di Dio vero e veritiero è certamente una conferma della promessa e un rimprovero per coloro che non credono.

32. 3. Sarra morì dopo questi fatti all'età di centoventisette anni, quando il marito ne aveva centotrentasette 129. L'avanzava in età di dieci anni. L'aveva detto egli stesso quando gli fu promesso un figlio da lei: È possibile che a me che ho cento anni nascerà un figlio e che Sarra partorirà a novanta anni? 130. Abramo comprò un campo per seppellirvi la moglie 131. Allora, secondo la versione di Stefano, si stabilì in quel paese poiché cominciò a divenirvi proprietario, cioè dopo la morte di suo padre che si desume fosse morto due anni prima 132.

Allegorie profetiche nel matrimonio d'Isacco.
33. Poi Isacco prese per moglie Rebecca, nipote di Nacor, suo zio paterno, quando aveva quaranta anni, cioè a centoquaranta anni d'età del padre, tre anni dopo la morte della madre. Quando, per averla in moglie, fu dal padre mandato in Mesopotamia un servitore, si ebbe un'allegoria profetica nel momento in cui Abramo disse al servitore: Metti la mano sul mio fianco e scongiurerò te per il Signore Dio del cielo e Signore della terra che non condurrai per moglie a mio figlio Isacco una delle figlie dei Cananei 133. Si preannunciò certamente che il Signore Dio del cielo e Signore della terra sarebbe divenuto uomo nella razza che proveniva da quel fianco. E certamente questi non sono piccoli indizi della verità che conosciamo adempiersi in Cristo.

Simbologia di Cetura e figli.
34. Che significato ha il fatto che Abramo dopo la morte di Sarra prese in moglie Cettura? 134. Non pensiamo a sensualità soprattutto in vista dell'età e della integrità della fede. Oppure si dovevano avere altri figli, sebbene data la promessa di Dio era attesa con fede incrollabile una numerosa discendenza da Isacco pari alle stelle del cielo e ai granelli di sabbia? Ma se Agar e Ismaele hanno simboleggiato, nell'insegnamento dell'Apostolo, gli uomini carnali dell'Antica Alleanza 135, certamente anche Cettura e i suoi figli simboleggiano gli uomini carnali che si illudono di appartenere alla Nuova Alleanza. Tutte e due sono state definite mogli e concubine di Abramo. Sarra invece non è mai stata indicata come concubina. Anche quando Agar fu assegnata ad Abramo, si dice nella Scrittura: Sara moglie di Abramo designò l'egiziana Agar sua schiava dieci anni dopo che Abramo si era stabilito nel territorio di Canaan e la diede in moglie a suo marito Abram 136. Di Cettura che prese in moglie dopo la morte di Sarra si legge: Di nuovo Abramo prese moglie che si chiamava Cettura 137. In questi passi tutte e due sono dette mogli ma si può costatare che furono ambedue concubine perché in seguito dice la Scrittura: Abramo diede tutta la sua proprietà al figlio e contributi ai figli delle sue concubine e mentre era ancora vivo li allontanò dal figlio Isacco a Oriente, verso il paese orientale 138. Dunque i figli delle concubine hanno sovvenzioni ma non giungono al regno promesso, né gli eretici né i Giudei carnali, perché fuor di Isacco nessuno è erede e i figli della carne non sono figli di Dio ma i figli della promessa sono considerati della discendenza 139, perché di essa è stato scritto: In Isacco prenderà nome da te la discendenza 140. Non scorgo perché anche Cettura, sposata dopo la morte della moglie, sia considerata concubina se non sulla base di questo significato allegorico. Ma se qualcuno non vuole accettare questi fatti come simboli, non accusi Abramo. Potrebbe anche essere una difesa contro i futuri eretici contrari alle seconde nozze in modo da dimostrare perfino mediante il patriarca di molti popoli che non è peccato sposarsi di nuovo dopo la morte del coniuge. Abramo morì quando aveva centosettantacinque anni 141. Lasciò dunque il figlio Isacco che aveva settantacinque anni perché l'aveva generato all'età di cento anni.

Simbolismo dei gemelli di Isacco.
35. Ed ora esaminiamo come si svolgano i tempi della città di Dio attraverso i discendenti di Abramo. Dal primo anno di vita di Isacco al sessantesimo, in cui gli nacquero i figli, c'è un fatto degno di memoria. Il Signore aveva esaudito la richiesta di lui che lo pregava affinché la moglie, la quale era sterile, partorisse e mentre lei era ancora nel periodo della gestazione, i gemelli, ancora chiusi nel suo grembo, si urtavano. Essendo angosciata dal fastidio, interrogò il Signore ed ebbe la spiegazione: Due nazioni sono nel tuo grembo e da esso usciranno due popoli rivali e un popolo dominerà l'altro e il maggiore sarà sottoposto al minore 142. L'apostolo Paolo propone che si scorga nell'episodio una grande testimonianza sulla grazia perché, sebbene essi non fossero ancora nati e non avessero fatto nulla di bene o di male, senza alcun buon merito si preferisce il minore e si respinge il maggiore 143. Eppure senza dubbio, per quanto attiene al peccato originale, erano alla pari e riguardo al peccato personale non v'era in nessuno dei due. Però la struttura dell'opera iniziata non ci consente di trattenerci più a lungo sull'argomento perché ne abbiamo abbastanza trattato nelle altre parti 144. Quasi nessuno dei nostri esegeti ha interpretato la frase: Il maggiore sarà sottoposto al minore in altro senso da questo che, cioè, il più anziano popolo dei Giudei sarebbe sottoposto al più giovane popolo cristiano. Può sembrare che si sia adempiuto nella nazione degli Idumei che è sorta dal più grande, il quale aveva due nomi, poiché si chiamava Esaù ed Edom, da cui gli Idumei. Questa nazione doveva essere dominata dal popolo che discendeva dal più giovane, e cioè dal popolo d'Israele e gli sarebbe stata sottomessa. Tuttavia si crede in senso più appropriato che la profezia fosse rivolta a qualche significato più alto perché è espressa con le parole: Un popolo dominerà l'altro e il maggiore sarà sottomesso al minore. E questo è proprio quel che evidentemente si verifica nei Giudei e nei cristiani.

Abramo e la promessa divina a Isacco.
36. Isacco ebbe una visione simile a quella che il padre aveva avuto alcune volte. Ne è stato scritto in questi termini: Vi fu una carestia nel paese oltre quella che avvenne in precedenza al tempo di Abramo. Isacco se ne andò da Abimelech, re dei Filistei, in Gerar. Gli apparve il Signore e gli disse: Non andare in Egitto, emigra nel paese che io ti indicherò e abita in esso da straniero, io sarò con te e ti benedirò. Darò questo paese a te e alla tua discendenza e manterrò il giuramento che ho fatto a tuo padre, renderò numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e darò alla tua discendenza tutto questo territorio e saranno benedetti nella tua discendenza tutti i popoli della terra perché Abramo, tuo padre, ha accolto la mia parola e ha adempiuto i miei comandi, i miei ordini, le mie prescrizioni, le mie leggi 145. Questo patriarca non ebbe altra moglie o concubina ma si contentò della figliolanza dei due gemelli nati a un medesimo parto. Anche egli, abitando fra estranei, temette il rischio della bellezza della moglie e si comportò come il padre in modo da indicarla come sorella e dissimulare che fosse la moglie. Gli era cugina da parte del padre e della madre. Anche essa, quando si seppe che era la moglie, non fu violata dagli estranei 146. Tuttavia dal fatto che non ebbe donna fuor della moglie non dobbiamo considerarlo migliore di suo padre. Erano senza dubbio più segnalati i meriti della fede e dell'ossequio nel padre al punto che Dio afferma di fare a lui per riguardo al padre il bene che gli fa. Dice infatti: Saranno benedetti nella tua discendenza tutti i popoli della terra perché Abramo, tuo padre, ha accolto la mia parola e ha adempiuto i miei comandi, i miei ordini, le mie prescrizioni, le mie leggi. In un'altra visione il Signore disse: Io sono il Dio di Abramo tuo padre, non temere, sono con te, ti ho benedetto e renderò numerosa la tua discendenza a causa di tuo padre 147. Dobbiamo capire quindi che, nel rispetto della castità, Abramo ha compiuto ciò che a individui spudorati, i quali cercano dalla sacra Scrittura pretesti alla propria disonestà, sembra aver fatto per libidine. Dobbiamo anche comprendere di non ridurci a confrontare fra di loro gli individui sulla base di pregi particolari ma considerare ciascuno globalmente. È possibile che un individuo abbia nell'esperienza e nel costume una nota con cui supera un altro individuo e che sia tanto più eccellente di quella con cui è superato dall'altro. Perciò stando a un criterio schietto e sincero, sebbene la continenza sia preferibile al matrimonio, è migliore il credente sposato che il celibe miscredente. Ma il miscredente non solo è meno encomiabile ma è da rimproverare a tutti i livelli. Ma prendiamo in considerazione due persone per bene; anche in questo caso è migliore l'individuo sposato molto credente e pieno dell'ossequio dovuto a Dio che il celibe meno segnalato nella fede e nell'ossequio. Se il resto è al medesimo livello, è ineccepibile preferire il celibe allo sposato.

La Città di Dio verso la prima giovinezza da Israele a Davide [37-43]

Allegoria della benedizione a Giacobbe.
37. Dunque i due figli di Isacco, Esaù e Giacobbe, si facevano grandi a parità d'età. La primogenitura del maggiore si trasferì al minore per un patto e un accordo fra di loro perché il maggiore desiderò con ingordigia avere le lenticchie che il minore aveva ammannito e vendette al fratello con giuramento i diritti del primogenito 148. Dal fatto impariamo che l'uomo si deve incolpare non per il genere di cibo ma per la bramosia sfrenata. Isacco invecchiava e a causa della vecchiaia veniva a mancare la vista ai suoi occhi. Voleva benedire il figlio maggiore e inconsapevolmente in suo luogo benedì il minore. Questi, in luogo del fratello il quale era peloso, si sottopose al controllo della mano del padre ponendosi addosso delle piccole pelli di capretto come se portasse i peccati degli altri. Affinché questa astuzia di Giacobbe non fosse ritenuta un'astuzia con frode e vi si scorgesse l'allegoria di una grande verità, la Scrittura aveva premesso: Esaù era un uomo esperto della caccia nella steppa, Giacobbe era invece un uomo schietto che rimaneva nella tenda 149. I nostri interpreti hanno tradotto l'aggettivo con le parole senza astuzia. Ma tanto se si dice senza astuzia o schietto o piuttosto senza inganno che in greco è , qual è nel ricevere la benedizione l'astuzia di un uomo senza astuzia? Che cos'è l'astuzia di una persona schietta, quale l'inganno di uno che non mentisce se non una profonda allegoria della verità? E la benedizione di quale tono è? Dice Isacco: Ecco, il profumo di mio figlio è come il profumo di un campo verdeggiante che il Signore ha benedetto. E Dio ti conceda dalla rugiada del cielo e dalla fertilità del terreno grande quantità di frumento e di vino. Ti servano i popoli e i principi pieghino il ginocchio davanti a te. Diventa il padrone di tuo fratello e i discendenti di tuo padre piegheranno il ginocchio davanti a te. Chi ti maledirà sia maledetto e chi ti benedirà sia benedetto 150. Dunque la benedizione di Giacobbe è la proclamazione del Cristo fra tutti i popoli. Questo avviene, questo si compie. Isacco è la legge e la profezia. Anche attraverso la parola dei Giudei Cristo è benedetto dalla profezia come da una che non lo conosce, perché anche essa non è conosciuta. Il mondo, come un campo, si riempie del profumo del nome di Cristo. La sua benedizione proviene dalla rugiada del cielo, cioè dalla pioggia delle parole di Dio, e dalla fertilità della terra, cioè dall'aggregarsi dei popoli. V'è gran quantità di frumento e di vino, cioè il gran numero di fedeli che associano il pane e il vino nel sacramento del suo corpo e sangue. I popoli lo adorano, i principi piegano il ginocchio davanti a Lui. Egli è il padrone di suo fratello perché il suo popolo signoreggia i Giudei. Lo adorano i discendenti di suo padre, cioè i discendenti di Abramo secondo la fede, perché anche egli è discendente di Abramo secondo la razza. Chi lo maledice è maledetto e chi lo benedice è benedetto. Il nostro Cristo, dico, è benedetto, cioè annunziato secondo verità, perfino dalle parole dei Giudei che, sebbene in errore, proclamano tuttavia la Legge e i Profeti. Eppure si pensa che un altro sia il benedetto perché da essi, che sono in errore, se ne aspetta un altro. Si spaventa Isacco quando dal maggiore si chiede la benedizione promessa e si accorge di aver benedetto l'uno per l'altro, si meraviglia e chiede chi sia, ma non lamenta di essere stato ingannato anzi, essendogli stato svelato all'improvviso nel cuore il grande significato religioso, evita lo sdegno e conferma la benedizione. Chi è dunque, disse Isacco, colui che ha cacciato per me la selvaggina e me l'ha portata? Ho mangiato di tutto, prima che tu venissi, l'ho benedetto e rimanga benedetto 151. C'era piuttosto da attendersi la maledizione di lui adirato, se i fatti si avveravano secondo l'usanza terrena e non per ispirazione dall'alto. O fatti avvenuti, ma profeticamente avvenuti, nel mondo ma dal cielo, per mezzo di uomini ma nel volere di Dio! Se si esaminano minutamente i particolari pregni di tante allegorie, si dovrebbero scrivere molti volumi ma la misura da imporre con misura a questa opera ci spinge ad affrettarci verso altri argomenti.

 Giacobbe e la sua discendenza...
38. 1. Giacobbe fu mandato dai genitori in Mesopotamia per prendervi moglie. Queste sono le parole del padre che ve lo mandava: Non prender moglie dalle figlie dei Cananei. Va' dunque in Mesopotamia nella famiglia di Batuel, tuo nonno materno, e prendi in moglie una delle figlie di Labano, tuo zio materno. Il mio Dio ti benedica e renda grande e numerosa la tua discendenza e sarai nelle associazioni dei popoli. Ti dia la benedizione di Abramo, tuo capostipite, a te e alla tua discendenza, affinché tu possieda il paese in cui abiti come straniero e che Dio diede ad Abramo 152. Dal passo comprendiamo che la discendenza di Giacobbe era già segregata dall'altra discendenza di Isacco avvenuta mediante Esaù. Quando fu detto: In Isacco avrai la discendenza col tuo nome 153, una discendenza, cioè, che apparteneva alla città di Dio, fu distinta da essa l'altra discendenza di Abramo che si aveva già nel figlio della schiava e che si sarebbe avuta nei figli di Cettura. Ma era ancora incerto nei confronti dei due gemelli di Isacco se la benedizione riguardava l'uno e l'altro o uno di loro e, se uno, chi dei due. Ora si esprime chiaramente la prerogativa poiché profeticamente dal padre viene benedetto Giacobbe con le parole: Sarai nelle associazioni dei popoli e Dio ti dia la benedizione di Abramo tuo capostipite.

 ... e la sua visione.
38. 2. Mentre andava in Mesopotamia Giacobbe ebbe una visione in sogno. Ecco il testo: Giacobbe partì dal pozzo del giuramento e s'avviò verso Carran, giunse in una località e vi dormì perché il sole era tramontato. Prese una delle pietre del luogo, la pose sotto la testa, dormì in quel luogo e sognò. Nel sogno vide una scala appoggiata in terra e la sua cima arrivava al cielo, su di essa salivano e discendevano gli angeli di Dio, il Signore si appoggiava ad essa e disse: Io sono il Dio di Abramo, tuo capostipite, e il Dio di Isacco, non temere. Darò il territorio in cui sei coricato, a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come i granelli di sabbia e si estenderà verso il Mediterraneo, al Sud, al Nord e verso l'Est e saranno benedette in te e nella tua discendenza tutte le razze della terra. Da questo momento io sono con te per proteggerti dovunque andrai e ti ricondurrò in questo paese perché non ti abbandonerò mentre adempirò tutto ciò di cui ti ho parlato. Giacobbe si svegliò e disse: Il Signore era in questo luogo e io non lo sapevo. Si spaventò e disse: Com'è terribile questo luogo. Non è altro che la casa di Dio e la porta del cielo. Si alzò e prese la pietra che aveva usato come cuscino, la drizzò come lapide e versò l'olio nell'alto di essa. Giacobbe chiamò quel luogo casa di Dio 154. Il fatto appartiene alla profezia. Giacobbe non cosparse di olio la pietra secondo l'usanza dell'idolatria quasi a farne un idolo, non adorò la pietra e non le offrì sacrifici. Ma poiché l'appellativo di Cristo deriva da crisma, cioè unzione, certamente nel fatto si è avuta l'allegoria di un grande significato religioso. È facile intendere che il Salvatore ci richiamava alla memoria nel Vangelo questa scala. In un testo dice di Natanaele: Ecco un vero Israelita in cui non v'è inganno 155. Poi poiché Israele, che è lo stesso Giacobbe, aveva avuto questa visione, nello stesso brano soggiunge: In verità, in verità vi dico, vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo 156.

 La famiglia di Giacobbe.
38. 3. Dunque Giacobbe andò in Mesopotamia per prendervi moglie. La sacra Scrittura narra per quale circostanza gli avvenne di avere quattro donne, dalle quali ebbe dodici figli e una figlia, sebbene non ne avesse posseduta nessuna disonestamente. Era venuto per averne una, ma siccome gli fu sostituita di nascosto una per l'altra, non abbandonò quella con cui inconsapevolmente s'era unito nella notte affinché non sembrasse che le si era unito per sfregio. In quel tempo, in cui nessuna legge proibiva di prendere più mogli per avere una numerosa discendenza, prese per moglie anche quella a cui aveva assicurato l'impegno del futuro matrimonio. Ma poiché era sterile, offrì al marito la propria schiava da cui avere figli. Anche la sorella maggiore, imitandola, sebbene avesse già partorito, poiché desiderava avere più figli, compì quel gesto. Si legge che Giacobbe ne chiese una soltanto e che si unì a loro unicamente per l'obbligo di avere figli, nel rispetto del vincolo coniugale tanto che non si univa se le mogli non lo reclamavano perché avevano un legittimo potere sul corpo del marito 157. Da quattro donne dunque ebbe dodici figli e una figlia 158. Poi andò in Egitto tramite il figlio Giuseppe che, venduto dai fratelli invidiosi, vi era stato condotto e poi elevato ad una alta carica.

Simbolismo dell'appellativo Israele.
39. Giacobbe, come ho detto poco fa, si chiamava anche Israele. È un nome che ha avuto soprattutto il popolo che da lui discende. Gli fu imposto dall'angelo il quale, indubbio portatore dell'immagine di Cristo, aveva lottato con lui che tornava dalla Mesopotamia 159. Il fatto che Giacobbe prevalse su di lui, che evidentemente così volle per allegorizzare significati occulti, simboleggia la passione di Cristo, durante la quale parve che i Giudei prevalessero su di lui. E tuttavia ottenne la benedizione dall'angelo stesso che aveva sconfitto e così l'imposizione di quel nome fu una benedizione. Israele si traduce appunto "chi vede Dio". Questo sarà alla fine il premio di tutti gli eletti. L'angelo toccò a lui che aveva, per così dire, prevalso, la sporgenza del fianco e in questo modo lo rese zoppo. Era dunque lo stesso e medesimo Giacobbe benedetto e zoppo, benedetto in quei che dal medesimo popolo credettero in Cristo e zoppo nei miscredenti. Difatti la sporgenza del fianco significa il gran numero dei discendenti. Vi sono molti infatti in quella razza, dei quali profeticamente è stato predetto: E zoppicando uscirono dai propri sentieri 160.

La famiglia di Giacobbe in Egitto.
40. Si ha la notizia che entrarono in Egitto assieme a Giacobbe, lui compreso e i figli, settantacinque persone. Nel numero sono comprese soltanto due donne, una figlia e una nipote. Ma il caso attentamente considerato non conferma che si avesse un numero così elevato di individui nella discendenza di Giacobbe il giorno o l'anno che emigrò in Egitto. Tra loro sono stati menzionati anche i pronipoti di Giuseppe, eppure era assolutamente impossibile che già esistessero. Infatti Giacobbe aveva allora centotrenta anni, il figlio Giuseppe trentanove; egli, come risulta, aveva preso moglie a trent'anni o più. Non si spiega come poté in nove anni avere nipoti dai figli che aveva avuto dalla moglie. Quindi poiché Efraim e Manasse, figli di Giuseppe, non avevano figli ma Giacobbe, emigrato in Egitto, li conobbe fanciulli in età inferiore ai nove anni, per quale ragione sono annoverati non solo figli ma anche nipoti fra le settantacinque persone che con Giacobbe andarono in Egitto? Nel testo, sono menzionati Machir, figlio di Manasse e nipote di Giuseppe e il figlio di Machir, cioè Galaad, nipote di Manasse e pronipote di Giuseppe. V'è inoltre un figlio di Efraim, l'altro figlio di Giuseppe, cioè Utalaam, nipote di Giuseppe e il figlio di Utalaam, Edem, nipote di Efraim e pronipote di Giuseppe. È del tutto impossibile che costoro esistessero quando Giacobbe emigrò in Egitto e trovò i figli di Giuseppe, suoi nipoti e nonni di costoro, ancora fanciulli in età inferiore ai nove anni. Evidentemente l'entrata di Giacobbe in Egitto, quando la Scrittura lo rammenta con i settantacinque familiari, non è relativa a un solo giorno o a un solo anno ma a tutto il tempo che visse Giuseppe, per la cui mediazione avvenne la loro emigrazione. Infatti di Giuseppe dice la Scrittura: Giuseppe rimase in Egitto egli, i fratelli e tutta la famiglia di suo padre, visse centodieci anni e conobbe i discendenti di Efraim fino alla terza generazione. Sono i pronipoti al terzo grado da Efraim. La Scrittura delimita la terza generazione al figlio, al nipote e pronipote. E continua: I figli di Machir, figlio di Manasse, nacquero sulle ginocchia di Giuseppe 161. Anche qui si tratta di un nipote di Manasse e pronipote di Giuseppe. Tuttavia è stato nominato al plurale come fa di solito la Scrittura che ha designato come figlie una sola figlia di Giacobbe. Pur nell'uso della lingua latina i figlioli sono detti al plurale liberi anche se non sono più d'uno. Sebbene si voglia segnalare la fortuna dello stesso Giuseppe, perché poté conoscere i pronipoti, non si deve però assolutamente pensare che c'erano già quando il bisnonno aveva trentanove anni, allorché suo padre Giacobbe si trasferì da lui in Egitto. Quel che inganna coloro, i quali considerano meno attentamente, è l'inserto: Questi sono i nomi dei discendenti d'Israele che emigrarono in Egitto assieme a Giacobbe loro capostipite 162. Si ha questa espressione perché sono calcolate settantacinque persone assieme a lui, non perché erano già tutte insieme quando egli andò in Egitto ma, come ho detto, si calcola come sua entrata tutto il tempo che visse Giuseppe perché in lui viene considerata una entrata.

In Giuda allegoria di Cristo.
41. Quindi sull'argomento del popolo cristiano, in cui la città di Dio è esule sulla terra, se ci proponiamo l'umanità di Cristo nella discendenza di Abramo, a parte i figli delle concubine, ci si presenta Isacco; se nella discendenza di Isacco, a parte Esaù che è anche Edom, ci si presenta Giacobbe che è anche Israele; se nella discendenza dello stesso Israele, a parte gli altri figli, ci si presenta Giuda perché dalla tribù provenne il Cristo. Perciò ascoltiamo con quali parole Israele, sul punto di morire in Egitto, nel benedire i figli, benedisse profeticamente Giuda; egli disse: Giuda, ti loderanno i tuoi fratelli. Le tue mani obbligheranno i tuoi nemici a piegar la schiena e davanti a te si curveranno anche i tuoi fratelli. Giuda sei come un giovane leone che sei risalito, figlio mio, dal far preda, accovacciato nella tana ti sei addormentato come un leone e un leoncello. Chi oserà svegliarlo? Non cesseranno i principi da Giuda e il comando dai suoi fianchi finché non giunga il destino che gli è riservato ed egli sarà l'attesa dei popoli. Legando alla vite il suo puledrino e alla tenda il piccolo della sua asina laverà nel vino la sua veste e nel mosto il suo mantello. I suoi occhi sono luminosi per il vino e i suoi denti più bianchi del latte 163. Ho esposto questi concetti nella polemica Contro Fausto il manicheo 164 e penso che sia sufficiente a far sì che risalti l'avverarsi di questa profezia. Difatti in essa la morte di Cristo è preannunziata col termine di sonno e non v'è un destino fatale ma il libero potere nella figura del leone. Egli stesso nel Vangelo fa risaltare questo libero potere con le parole: Ho il potere di offrire la mia anima e il potere di riaverla. Nessuno me la toglie ma io la offro di mia volontà e poi la riprendo 165. Così ha ruggito il leone e ha adempiuto ciò che ha detto. Appartiene appunto a quel libero potere ciò che è stato aggiunto: Chi oserà svegliarlo? Significa che nessun uomo ma egli soltanto che ha detto del suo corpo: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò 166. Anche il genere di morte, cioè l'altezza della croce, è espresso in una sola parola: Sei salito. Ciò che segue: Accovacciato nella tana ti sei addormentato, dall'Evangelista è espresso con le parole: E chinata la testa morì 167. Vi si configura senza dubbio anche il suo sepolcro in cui si distese per dormire. Da lì nessun uomo lo fece risorgere, come fecero i Profeti con alcuni ed egli con altri, ma da sé si destò come da un sonno. La sua veste, che lava nel vino, cioè rende monda dai peccati nel suo sangue, è senz'altro la Chiesa perché i battezzati sono consapevoli del sacramento di questo sangue e per questo soggiunge: E nel mosto il tuo mantello. I suoi occhi luminosi per il vino sono quelli che appartengono al suo Spirito e che sono inebriati dalla sua coppa di vino, di cui canta il Salmo: Quanto è bello il tuo calice che inebria 168. E i suoi denti più bianchi del latte, di cui, secondo l'Apostolo, come di parole che nutriscono, bevono i bambini non ancora adatti al cibo solido 169. È Egli dunque colui in cui erano riposte le promesse di Giuda e fino a che esse non si avveravano, non sarebbero mai mancati dalla stirpe i principi, cioè i re d'Israele. Ed Egli sarà l'attesa dei popoli è un fatto che è più evidente nella diretta esperienza che per dimostrazione.

Allegoria dei figli di Giuseppe.
42. Dunque i due figli di Isacco, Esaù e Giacobbe, hanno suggerito l'allegoria di due popoli nei Giudei e nei cristiani. Tuttavia per quanto riguarda la discendenza razziale né i Giudei ma gli Idumei provengono dalla discendenza di Esaù, né i popoli cristiani ma i Giudei da Giacobbe. In questo senso soltanto ha avuto significato l'allegoria così espressa: Il più grande sarà sottomesso al più piccolo 170. Così è avvenuto per i due figli di Giuseppe, poiché il più grande ha suggerito l'immagine dei Giudei, il più piccolo dei cristiani. Lo mostrò Giacobbe quando li benedisse, perché pose la mano destra sopra il più piccolo che aveva alla sinistra e la sinistra sopra il più grande che aveva alla destra. Al loro padre parve una cosa insopportabile e avvisò il proprio padre quasi a rettificare il suo errore e mostrare quale fosse il maggiore. Ma egli non volle spostare le mani e disse: Lo so, figlio, lo so. Anche questi diverrà un popolo e sarà onorato, ma il suo fratello più giovane sarà più grande di lui e la sua discendenza si distribuirà in un gran numero di popoli 171. Nulla è più evidente che in queste due promesse sono indicati il popolo di Israele e il mondo intero nella discendenza di Abramo, uno secondo la razza, l'altro secondo la fede.

 La missione di Mosè...
43. 1. Dopo la morte di Giacobbe e di Giuseppe, per i rimanenti centoquarantaquattro anni fino all'uscita dall'Egitto, il popolo ebraico s'accrebbe in maniera incredibile sebbene colpito da tante rappresaglie. A un certo punto venivano perfino uccisi i bimbi maschi perché l'eccessivo aumento della popolazione atterriva gli Egiziani sgomenti 172. Allora Mosè, sottratto con uno stratagemma agli incaricati della strage dei piccoli, fu portato nella casa del re, poiché Dio predisponeva per suo mezzo avvenimenti straordinari 173, e fu allevato e adottato dalla figlia del faraone, nome comune in Egitto a tutti i re. Riuscì uomo di tanto rilievo da sottrarre quel popolo, mirabilmente cresciuto di numero, dall'assai duro e penoso gravame di schiavitù cui soggiaceva, o meglio per suo mezzo Dio che l'aveva promesso ad Abramo. Prima era fuggito dal luogo perché nel difendere un Israelita aveva ucciso un Egiziano ed era stato minacciato 174. Poi mandato per divina mozione nel potere dello Spirito di Dio 175 aveva sconfitto i fattucchieri del faraone che lo contrastavano. Allora per suo mezzo furono inflitte agli Egiziani le dieci celebri piaghe poiché non volevano lasciar partire il popolo di Dio e cioè l'acqua cambiata in sangue, i ranocchi, le zanzare, i mosconi, la morte del bestiame, le ulcere, la grandine, le cavallette, le tenebre, la morte dei primogeniti 176. In ultimo gli Egiziani, mentre inseguivano gli Israeliti che avevano lasciato partire perché abbattuti da tante e sì gravi sciagure, furono sterminati nel Mar Rosso. Il mare diviso tracciò una via a quelli che se ne andavano, il flutto che rifluiva sommerse questi che li inseguivano 177. In seguito il popolo per quarant'anni si trattenne nel deserto sotto la guida di Mosè. Allora fu istituita la tenda dell'alleanza in cui si adorava Dio con sacrifici che preannunciavano il futuro quando era già stata data la legge sul monte in modo terrificante perché la divinità la ratificava con segni e suoni molto evidenti. Avvenne subito dopo l'uscita dall'Egitto, quando il popolo era già entrato nel deserto, cinquanta giorni dopo che la Pasqua era stata celebrata con l'immolazione di un agnello. Esso è simbolo di Cristo perché preannuncia che egli attraverso il sacrificio della croce da questo mondo sarebbe passato al Padre. Difatti Pasqua nella lingua ebraica si traduce "Passaggio" 178. Così si rendeva manifesta la Nuova Alleanza poiché cinquanta giorni dopo che Cristo fu sacrificato come nostro agnello pasquale 179, scendeva dal cielo lo Spirito Santo 180, che nel Vangelo è indicato come dito di Dio 181, per richiamare il nostro pensiero al ricordo del primo avvenimento allegorico perché anche le tavole della legge furono scritte dal dito di Dio 182.

 ... e di Giosuè.
43. 2. Dopo la morte di Mosè diresse il popolo Giosuè di Nun, lo introdusse nella Terra promessa e la distribuì al popolo. Da questi due grandi condottieri furono sostenute delle guerre con sorprendente successo, sebbene Dio desse testimonianza che quelle vittorie provenivano loro non tanto per i meriti del popolo ebraico ma a causa delle colpe dei popoli che venivano sconfitti. Dopo questi condottieri vi furono i giudici, quando già il popolo era sistemato nella Terra promessa. Così frattanto cominciava ad essere adempiuta la prima promessa, fatta ad Abramo, relativa a un solo popolo, quello ebraico, e alla terra di Canaan 183, non ancora a tutti i popoli e al mondo intero. L'avrebbe adempiuta la presenza di Cristo nell'umanità, non l'osservanza della vecchia legge, ma la fede del Vangelo. Ne è allegoria profetica il fatto che non fu Mosè, il quale sul monte Sinai aveva ricevuto la legge per il popolo, a introdurlo nella Terra promessa, ma Giosuè, al quale per ordine di Dio era stato cambiato il nome 184. All'epoca dei giudici, nel rapporto fra le colpe del popolo e la misericordia di Dio, si alternano successi e insuccessi militari 185.

 Fino a Davide dalla fanciullezza alla prima giovinezza.
43. 3. Si giunse all'epoca dei re. Il primo fu Saul. A lui destituito e ucciso durante una sconfitta 186, ed essendo anche radiata la sua stirpe dal rango dei re, gli successe nel regno Davide. Soprattutto di lui il Cristo fu detto figlio. Con lui si aprì un periodo e in certo senso l'inizio della giovinezza del popolo di Dio, di cui la quasi adolescenza si era protratta da Abramo a Davide. Non senza ragione l'evangelista Matteo ha ordinato le generazioni in modo da segnalare con quattordici generazioni un primo lasso di tempo, cioè da Abramo a Davide 187. Con l'adolescenza appunto l'uomo inizia a poter generare e per questo l'inizio delle generazioni fu intrapreso da Abramo che fu costituito anche patriarca dei popoli quando ebbe mutato il nome. Prima di lui dunque, cioè da Noè fino allo stesso Abramo, si ebbe come la fanciullezza di questo modo di essere del popolo di Dio e perciò si concretizzò nella lingua, quella ebraica. Infatti l'uomo comincia a parlare dalla fanciullezza che segue all'infanzia la quale è stata così denominata perché l'uomo è privo di favella. L'oblio sommerge questa prima età dell'uomo come la prima età del genere umano fu distrutta dal diluvio. Difatti non v'è nessuno che ricordi la propria infanzia. Perciò come in questa evoluzione della città di Dio il libro precedente ha svolto soltanto la prima età, così questo svolgerebbe la seconda e la terza. Nella terza appunto, in considerazione della giovenca, della capra e dell'ariete, tutti e tre dell'età di tre anni, fu imposto il giogo della legge, si manifestò il gran numero dei peccati e si ebbe l'inizio del regno terreno, però non mancarono gli spirituali dei quali si manifestò l'allegoria nella tortora e nel colombo 188.

LIBRO XVII

SOMMARIO

1. Periodo dei Profeti.

2. In qual tempo si è adempiuta la promessa di Dio sulla terra di Canaan che anche Israele secondo la razza ebbe in possesso?

3. Tripartito simbolismo dei Profeti perché ora si riferisce alla Gerusalemme terrena, ora alla celeste, ora a tutte e due.

4. Mutamento profeticamente allegorizzato del regno e del sacerdozio d'Israele. Eventi che Anna, madre di Samuele, rappresentando la Chiesa, ha previsto profeticamente.

5. Avvenimenti che un uomo di Dio ha rivelato con ispirazione profetica al sacerdote Eli prevedendo con simboli che il sacerdozio istituito secondo Aronne avrebbe avuto termine.

6. Il sacerdozio e il regno giudaico, sebbene si dica che sono stabiliti per sempre, non rimangono affinché si prendano in considerazione altri di cui si promette la perennità.

7. Con lo smembramento del regno d'Israele viene allegorizzata profeticamente la perpetua divisione dell'Israele dello spirito dall'Israele della razza.

8. Le promesse a Davide nel suo figlio non si hanno in Salomone ma con pieno significato nel Cristo.

9. La profezia sul Cristo nel Salmo ottantotto si rassomiglia ai fatti che nel libro dei Re sono preannunziati col profetismo di Natan?

10. Sono diversi gli eventi nel regno della Gerusalemme terrena da quelli promessi da Dio affinché si capisse che la verità della promessa riguardava un altro re e un altro regno.

11. Vera realtà del popolo di Dio che si ha mediante l'assunzione della carne nel Cristo perché egli soltanto ebbe il potere di sottrarre la propria anima dal regno dei morti.

12. A quale persona si deve attribuire la richiesta delle promesse, delle quali si dice in un Salmo: Dov'è la tua benignità d'un tempo, Signore?

13. La vera pace promessa si può forse assegnare al tempo che trascorse durante il regno di Salomone?

14. Intelligenza di Davide nella disposizione e nel significato misterico dei Salmi.

15. Tutti i significati che nei Salmi si prevedono sul Cristo e sulla Chiesa devono contribuire allo svolgimento di questa opera?

16. Verità che nel Salmo quarantaquattro si applicano a Cristo e alla Chiesa esplicitamente o metaforicamente.

17. Verità che nel Salmo centonove riguardano il sacerdozio del Cristo e nel Salmo ventuno la sua passione.

18. Nei Salmi tre, quaranta, quindici, e sessantasette si preannunziano la morte e la risurrezione del Signore.

19. Nel Salmo sessantotto si denunziano la mancanza di fede e l'ostinazione dei Giudei.

20. Regno e buone opere di Davide. Il figlio Salomone e la sua profezia che si ritiene relativa al Cristo tanto nei libri che gli si attribuiscono come in quelli d'indubbia autenticità.

21. I re dopo Salomone tanto nel regno di Giuda che d'Israele.

22. Geroboamo costrinse all'empio culto idolatrico il popolo soggetto, in cui tuttavia Dio non desistette d'ispirare i Profeti e di difendere molti dal delitto dell'idolatria.

23. Differente condizione dei due regni degli Ebrei finché tutti e due i popoli furono condotti in schiavitù in periodi diversi, anche perché in seguito Giuda tornò in patria, sebbene anche esso infine passasse sotto il dominio di Roma.

24. Ultimi Profeti dei Giudei e anche quelli che la narrazione evangelica presenta al tempo della nascita del Cristo.

 

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