SITUAZIONE

Tempo e luogo

La discussione inizia il 13 novembre 386, trentaduesimo genetliaco di Agostino, e continua nei due giorni seguenti:

 

13

novembre

pomeriggio

nelle terme (cap. 2)

14

"

"

nelle terme (cap. 3)

15

"

"

all'aperto (cap. 4)

 

I dialoganti

Sono presentati da Agostino stesso a Manlio Teodoro. Hanno tutti ruolo essoterico, salvo che nell'intermezzo 2, 13-16:

Agostino non funge da scolarca e non usa la maieusi, si limita alla conclusione finale.

Monica rappresenta la saggezza al di fuori della tradizione classica; i suoi interventi, abbastanza frequenti, rilevano questa sua funzione.

Licenzio interviene ripetutamente e talora con la singolare capacità d'intuizione che lo caratterizza.

Trigezio rappresenta la pacata saggezza che segue alle esperienze.

Navigio è il personaggio essoterico per eccellenza; interviene soltanto tre volte.

Adeodato rappresenta la innocenza del pensiero per l'inesperienza della vita; interviene, dietro richiesta di Agostino, soltanto due volte.

Lastidiano e Rustico, cugini di Agostino, sono soltanto delle presenze.

 

LA FELICITÀ

Le condizioni della vita e la vocazione alla filosofia (1, 1-5)

La sventura e la vocazione alla filosofia.

1. 1. O coltissimo ed egregio Teodoro, se il tragitto indicato dalla ragione e la sola scelta conducessero al porto della filosofia, dal quale si può sbarcare nella regione e terraferma della felicità, non saprei se può offendere l'affermazione che in molto minor numero sarebbero gli uomini che lo raggiungono. Adesso ancora, come osserviamo, di rado e pochi assai vi arrivano. Infatti ci ha lanciato in questo mondo come in un mare tempestoso, irrazionalmente e a caso, almeno all'apparenza, o Dio, o la natura, o la necessità ovvero una nostra scelta o alcuni di questi principi congiunti o tutti insieme. Il problema è di difficile soluzione. Tu hai cominciato a chiarirlo. Nessuno potrebbe dunque sapere dove dirigersi o per dove ritornare se talora, contro la nostra scelta e mentre ci affatichiamo in direzione opposta, una qualche tempesta, di cui gli ignoranti possono ritenere che ci allontani dalla meta, non ci gettasse, senza la nostra consapevolezza e malgrado il nostro errore, nella terra tanto desiderata.

Le tre categorie di naviganti.

1. 2. Ritengo quindi di poter classificare gli individui che la filosofia può accogliere, in tre categorie di naviganti. La prima è di coloro che, raggiunto l'uso della ragione, senza sforzo, con qualche leggero colpo di remi, salpano senza tentare il largo e si rifugiano nella tranquillità. Di là erigono per quanti è possibile, affinché si sforzino di raggiungerli, il faro splendente di qualche loro opera. La seconda categoria, opposta alla precedente, è di coloro che, ingannati dalla fallace superficie del mare, hanno deciso d'avanzare al largo ed osano allontanarsi dalla patria e spesso se ne dimenticano. E se un vento, che credono favorevole, li sospingerà da poppa non saprei in quale direzione e in maniera assai occulta, incorrono nel colmo dell'infelicità. Ma ne sono orgogliosi e soddisfatti perché fino a tal punto li favorisce la serenità assai ingannevole dei piaceri e degli onori. E ad essi non si deve augurare altro che una sfavorevole e, se è poco, una veramente crudele tempesta, proprio in quelle soddisfazioni da cui sono trattenuti nel piacere ed inoltre il vento contrario che li conduca, magari piangenti e gementi, a godimenti sicuri e stabili. Tuttavia taluni di questa categoria, non essendosi ancora molto allontanati, sono ricondotti da avversità non tanto gravi. Sono gli uomini che, quando le lacrimevoli perdite delle loro sostanze o le angustianti difficoltà per futili interessi li stimoleranno a leggere, poiché non rimane loro altro da fare, libri di uomini dotti e molto saggi, si svegliano, per così dire, nel porto stesso, da cui non possono farli uscire le lusinghe del mare troppo falsamente tranquillo. Fra le due precedenti v'è una terza categoria. È di coloro che o fin dall'adolescenza, ovvero dopo essere stati a lungo e duramente sballottati qua e là, tengono lo sguardo volto ad alcuni fari e, sebbene fra i marosi, si ricordano della patria diletta e con dritto corso senza inganni e senza indugi vi ritornano. O più spesso lasciando la retta via a causa delle nebbie o fissando lo sguardo su stelle che declinano all'orizzonte o presi da qualche allettamento, rimandano il tempo propizio alla navigazione, errano piuttosto a lungo e spesso anche rischiano di naufragare. Anche essi spesso sono ricondotti alla auspicata vita serena dalla sventura nei beni caduchi, la quale può apparire come tempesta contraria ai loro tentativi.

Il monte della vanagloriosa filosofia classica.

1. 3. Tutti coloro che in una maniera o nell'altra sono condotti alla regione della felicità devono temere fortemente ed evitare con ogni cura un alto monte che si erge proprio davanti al porto e lascia un adito assai stretto a coloro che vi entrano. Esso è tanto splendido ed è fasciato da luce così ingannevole che invita a soffermarvisi coloro che arrivano e non sono ancora entrati e lusinga di soddisfare, sostituendosi alla regione della felicità, la loro aspirazione. E spesso adesca anche gli uomini giunti al porto e li fa tornare indietro allettandoli con la propria altezza, da cui è gradevole disprezzare gli altri. Essi tuttavia ammoniscono i frequenti viaggiatori di non finire sugli scogli sommersi nelle acque e di non credere che sia facile salire fino a loro e con molta umanità indicano la via da seguire senza pericolo a causa della vicinanza della regione felice. E poiché non vogliono averli soci di una futile gloria, mostrano il luogo della sicurezza. Infatti non altro la ragione vuol fare intendere per alto monte, temibile a coloro i quali si avvicinano o sono già entrati nella filosofia, che l'orgogliosa aspirazione è gloria caduca e vuota. Esso infatti nell'interno è cavo e privo di compattezza sicché, squarciandosi il fragile suolo, può trascinare nella rovina e inghiottire i tronfi individui che vi camminano sopra e sottrarre ad essi, piombati nelle tenebre, la splendida patria che avevano intravisto.

Le esperienze spirituali di Agostino.

1. 4. Stando così le cose, ascolta, o mio Teodoro, poiché a te solo mi rivolgo e te ritengo capace di comprendere il mio intento, ascolta dunque quale delle tre categorie di persone mi ha fatto rivolgere a te, in quale luogo ritengo di essere e quale aiuto mi attendo da te. Fin dal diciannovesimo anno della mia vita, dopo aver letto, nella scuola del retore, il libro di Cicerone, dal titolo L'Ortensio, fui preso da tanto amore per la filosofia che subito decisi di dedicarmi ad essa. Ma non mancarono nebbie per cui il mio navigare fu senza mèta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell'oceano e che inducevano nell'errore. Difatti una falsa e puerile interpretazione della religione mi distoglieva dall'indagine. Reso più maturo, mi allontanai dalla foschia e mi creai la persuasione che ci si dovesse affidare più a coloro che usano la ragione che a coloro che usano l'autorità. M'incontrai allora con individui i quali ritenevano che la luce sensibile si deve venerare fra le cose altamente divine. Non ero d'accordo, ma supponevo che intendessero celare una nobile dottrina in concetti arcani. In seguito me li avrebbero svelati. Ma quando, dopo averli esaminati attentamente, li abbandonai soprattutto con la traversata di questo mare, a lungo gli accademici tennero il mio timone fra i marosi in lotta con tutti i venti. Alfine giunsi in questa regione e qui conobbi la stella polare cui affidarmi. Avvertii infatti spesso, nei discorsi del nostro vescovo e talora nei tuoi, che all'idea di Dio non si deve associare col pensiero nulla di materiale e neanche all'idea dell'anima che nel mondo è il solo essere assai vicino a Dio. Ma, lo confesso, ero trattenuto dal volare in seno alla filosofia dagli allettamenti della donna e dell'onore con questa mira che, una volta conseguitili, sorte che è toccata a pochi fortunati, alfine a vele spiegate e con tutta la forza dei remi sarei potuto rifugiarmi nel seno della filosofia e ottenervi la quiete. E letti assai pochi libri di Plotino, di cui so che sei grande ammiratore, e, per quanto mi fu possibile, messa a confronto con essi anche l'autorità che ci ha trasmesso la sacra dottrina, m'infiammai talmente da voler levare subitamente tutte le ancore. Mi trattenne l'apprezzamento di alcune persone. Che altro mancava se non che venisse in aiuto a me, che stavo gingillandomi in problemi di poco conto, una tempesta che può sembrare contraria? E proprio a proposito mi assalì un così grave mal di petto che non avendo forze per sostenere il peso della professione, con la quale avrei forse volto le vele verso le Sirene, ho abbandonato tutto e ho ricondotto la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete.

Lo strato attuale della coscienza di Agostino.

1. 5. Puoi dunque osservare in quale filosofia, come in un porto, io navighi. Ma anche esso è assai largo e la sua ampiezza non del tutto esclude la possibilità dell'errore, sebbene con minor pericolo. Intanto ignoro del tutto a quale parte della regione, la quale sola è felice, devo dirigermi e attraccare. Nulla infatti ho raggiunto di sicuro. Anche il problema dell'anima rolla e beccheggia. E per questo ti scongiuro in nome della virtù, dell'umanità, della comprensione e corrispondenza fra le anime, di porgermi la mano e cioè di amarmi e di credere che io ti corrispondo con l'amore e ti ritengo amico. E se otterrò questo favore, penso di poter raggiungere con piccolo sforzo quello stato di felicità, nel quale, come suppongo, tu già vivi. E ho pensato di spedirti e d'intitolare al tuo nome quella parte delle mie dispute che mi pare di avere svolto con sentimento di religiosità e più degna di esserti dedicata. Vi potrai conoscere ciò che sto facendo e in qual maniera sto raccogliendo nel porto i miei intimi e puoi essere pienamente informato sullo stato della mia coscienza. Non posseggo altri mezzi per indicartelo. Molto opportuno in verità poiché abbiamo disputato sulla felicità e non conosco valore che maggiormente si possa ritenere dono di Dio. Non sono stato atterrito dalla tua cultura poiché non posso temere le cose che amo, anche se non mi riesce di averle; molto meno i favori più alti della fortuna. Sebbene infatti essa in te sia grande, è benevola giacché rende benevoli perfino coloro, ai quali s'impone con la propria superiorità. Ma ormai presta attenzione a quanto intendo esporti.

Presentazione dei partecipanti al dialogo-convito.

1. 6. Il tredici novembre ricorreva il mio compleanno. Dopo un pranzo tanto frugale che non impedì il lavoro della mente, feci adunare nella sala delle terme tutti coloro che non solo quel giorno ma ogni giorno convivevano con me. S'era presentato come luogo appartato, adatto all'occorrenza. Partecipavano, e non ho timore di presentarli per ora con i soli nomi alla singolare tua benevolenza, prima di tutto mia madre, ai cui meriti spetta, come credo, tutto quel che sto vivendo, Navigio mio fratello, Trigezio e Licenzio miei concittadini e discepoli. Volli che non mancassero neanche Lastidiano e Rustico, miei cugini, sebbene non avessero frequentato neppure il maestro di grammatica. Ritenni che il loro buon senso fosse sufficiente all'argomento che intendevo trattare. Con noi era anche mio figlio Adeodato, il più piccolo di tuttiEgli ha tuttavia un ingegno che, salvo errore dovuto all'affetto, promette grandi cose. Ottenuta la loro attenzione, cominciai nei termini seguenti.

 

Desiderio ricerca e felicità (2, 7 - 16)

La coscienza del bisogno e il desiderio.

2. 7. "Ritenete come evidente che siamo composti di anima e di corpo?". Tutti acconsentirono, ma Navigio rispose che non lo sapeva. "Ma non sai proprio nulla, gli chiesi, ovvero questa è una fra le tante nozioni che non sai?". "Non penso, mi rispose, di non sapere proprio nulla". "Ci puoi dire, replicai, alcuna delle cose che sai?". "Lo posso", rispose. "Se non ti dispiace, dinne qualcuna". E poiché rimaneva perplesso, soggiunsi: "Di vivere per lo meno hai coscienza?". "Si", rispose. "Hai coscienza dunque anche di avere la vita, poiché non si può vivere se non mediante la vita". "Anche questo lo so", mi rispose. "Hai anche coscienza di avere un corpo?". Fece cenno d'assenso. "Dunque sai di risultare del corpo e della vita". "Lo so per ipotesi, ma rimango in dubbio se siano soltanto questi i componenti". "Non dubiti dunque, gli dissi, che questi due, il corpo e l'anima, sono componenti; sei in dubbio se se ne richiede qualche altro a completare e costituire l'uomo". "Si", rispose. "Tratteremo, replicai, il problema un'altra volta, se ci sarà possibile. Ora, poiché siamo tutti d'accordo che non si dà l'uomo senza il corpo e senza l'anima, propongo a tutti il quesito per quale dei due desideriamo il cibo". "Per il corpo", disse Licenzio. Gli altri erano perplessi e discutevano fra di loro con varie argomentazioni in che senso si può dire che il cibo sembra necessario al corpo. Difatti si appetisce per la vita e la vita non appartiene che all'anima. Allora ripresi: "Siete dell'opinione che il cibo è di appartenenza a quella parte che vediamo crescere e irrobustirsi con esso?". Assentirono tutti fuorché Trigezio. Obiettò: "Perché io non sono cresciuto in proporzione al cibo ingurgitato?". Gli risposi: "Tutti i corpi hanno un proprio limite imposto loro dalla natura e non possono violare quella misura; sarebbero tuttavia di minor grandezza se mancassero loro gli alimenti. Con tutta evidenza lo costatiamo negli animali. E nessuno può dubitare che il corpo di tutti gli animali deperisce con la sottrazione del cibo". "Deperisce, obiettò Licenzio, ma non perde la propria grandezza". "Basta al mio intento, gli risposi. Il quesito è se il cibo è di pertinenza del corpo. E n'è di pertinenza poiché con la sua sottrazione si ha il deperimento". Concordemente accettarono la mia opinione.

Bisogno, cibo dell'anima, conoscenza e virtù.

2. 8. "E l'anima, chiesi, non ha un proprio nutrimento? Siete d'accordo che sia la scienza?". "D'accordo, disse mia madre. Penso che l'anima abbia come alimento soltanto la pura conoscenza delle cose". Trigezio si mostrò dubbioso di tale opinione. Ed ella soggiunse: "Non ci hai indicato tu stesso oggi di che e dove l'anima si nutrisce? Hai detto che soltanto a un certo punto del pranzo ti sei accorto della qualità del vasellame che stavamo adoperando perché stavi riflettendo su non saprei quale cosa; tuttavia continuavi a muovere mani e mascelle sulla tua porzione di vivande. Dove era dunque la tua mente in quei momenti in cui, pur mangiando, non vi badavi? Credimi, da questa sorgente e di queste vivande, cioè delle proprie riflessioni e pensieri, si pasce la mente nell'atto in cui con essi si può rappresentare l'oggetto". Gli altri continuavano a mostrare con animazione i propri dubbi in proposito. Allora io intervenni: "Non ammettete forse che la mente delle persone veramente colte ha una formazione e sviluppo superiore a quella degli illetterati?". Ne ammisero l'evidenza. "Quindi, proseguii, giustamente possiamo ritenere che la mente di coloro che sono ignoranti di ogni sapere e non hanno nozioni nelle arti liberali è digiuna e, per così dire, affamata". "Io ritengo, interloquì Trigezio, che sono sazi anche essi, ma di vizi e d'immoderatezza". "Ma, credimi, gli risposi, anche tale stato è sterilità e fame della mente. Il corpo, mancando il necessario alimento, va soggetto a malattie e deperimento che in esso sono indici di fame che consuma. Così lo spirito di quei tali è pieno di mali con i quali rende palese la mancanza di nutrimento. Difatti gli autori classici hanno insegnato che l'immoderatezza (nequitia), madre di. tutti i vizi, è stata denominata dal motivo che è il non qualche cosa (nequidquam). La virtù che le è contraria si denomina moderatezza (frugalitas). Come dunque questa deriva da fecondità (frux), quanto dire da realtà prodotta per una certa fecondità spirituale, così quella da sterilità è denominata immoderatezza, cioè dal suo non essere. È non essere infatti ciò che soggiace al divenire, alla dissoluzione, al cangiamento e che è soggetto come ad un morire momento per momento. Per tal motivo consideriamo come dati per morti gli individui privi di moderatezza. V'è, al contrario, qualche cosa che è in atto, che persiste, che è stabile: la virtù appunto; le sue manifestazioni più nobili e belle sono temperanza e moderatezza. E se l'argomento è più complesso di quanto voi potete comprendere, per lo meno potete accordare che, anche data l'ipotesi d'una certa sazietà della mente degli stolti, si danno due tipi di alimenti tanto naturali che spirituali: l'uno di quelli che producono salute e vita; l'altro di quelli che producono infermità e morte.

Sanità morale e desiderio.

2. 9. Stando così le cose, giacché siamo d'accordo che nell'uomo esistono due componenti, cioè il corpo e l'anima, penso di dover offrire nel mio genetliaco un pranzo più abbondante non solo al nostro corpo, ma anche allo spirito. E vi manifesterò, se avete fame, la qualità del pranzo. Sprecherei la fatica se vi costringessi a mangiare di malavoglia e senza appetito. Si deve, al contrario, auspicare che desideriate queste vivande piuttosto che quelle materiali. L'auspicio si avvererà se il vostro animo è sano. Gli infermi, come possiamo osservare nelle infermità fisiche, ricusano e respingono i cibi convenienti". Con l'espressione del viso e con parole concordi tutti dichiararono di voler prendere e trangugiare la vivanda che avevo preparato.

L'universale desiderio di felicità.

2. 10. E riprendendo il discorso, affermai: Noi desideriamo esser felici. Avevo appena espresso tale principio che l'accettarono all'unanimità. "Ritenete, soggiunsi, che sia felice chi non ha l'oggetto del suo desiderio?". Dissero di no. "Allora chiunque consegua l'oggetto del suo desiderio è felice?". Mia madre intervenne: "Se desidera e consegue il bene è felice; se poi desidera il male, ancorché lo raggiunga, è infelice". Ed io, sorridendole con espressione di gioia, le dissi: "Madre mia, decisamente hai raggiunto la vetta del filosofare. Ti è mancata certamente la terminologia per poterti esprimere come Tullio che ha sull'argomento le seguenti parole. Ne L'Ortensio, il libro che ha scritto a lode e difesa della filosofia, dice: Avviene che coloro i quali sono esercitati nella dialettica, anche se non ancora filosofi, sono unanimi nell'affermare che sono felici coloro che vivono secondo i loro desideri. L'opinione è certamente erronea: desiderare infatti ciò che non è conveniente è somma infelicità. E non è tanto fonte d'infelicità il non conseguire ciò che si desidera quanto desiderare ciò che non è opportuno. Difatti il desiderio disordinato apporta all'uomo un male superiore al bene che apporta la fortuna (Cicerone, framm. 39 t. B.)". A queste parole convenivano con tanta esattezza quelle di lei che, dimentichi del suo sesso, la considerammo un uomo illustre assiso in mezzo a noi. Io frattanto, per quanto potevo, mi sforzavo di comprendere da quale e quanta sovrumana sorgente derivassero le sue parole. Licenzio intervenne: "Dovresti indicarci che cosa, per esser felice, l'uomo deve desiderare e di quali cose è opportuno abbia il desiderio". Gli risposi: "Invitami, se vorrai, nel tuo compleanno ed io mangerò volentieri ciò che mi offrirai. Io ti chiedo di pranzare oggi con me alla stessa condizione e di non chiedermi una vivanda che non è stata ammannita". Egli accettò il richiamo a rientrare rispettosamente nei suoi limiti. Allora continuai: "Finora è stato accettato fra noi che non può esser felice chi non ha ciò che desidera e che non necessariamente è felice chi consegue ciò che desidera". Furono d'accordo.

L'oggetto del desiderio e la felicità.

2. 11. "E, continuai, concedete che chi non è felice, è infelice?". Non contestarono. "Ogni uomo dunque che non ha ciò che desidera è infelice". Furono tutti d'accordo. "Che cosa pertanto, chiesi, l'uomo deve conseguire per esser felice? Forse anche al nostro banchetto sarà presentata una vivanda adatta a non lasciare insoddisfatto l'appetito di Licenzio. Io penso che l'uomo deve tendere all'oggetto che può possedere quando lo desidera". Affermarono che era evidente. "Deve esser dunque, soggiunsi, un bene stabile non dipendente dalla fortuna, non condizionato ai vari accadimenti. Infatti non possiamo assicurarci quando e per tutto il tempo che vogliamo ciò che è perituro e caduco". Fecero un unanime cenno d'assenso. Soltanto Trigezio obiettò: "Vi sono molti che accumulano e godono largamente di beni fragili e condizionati agli avvenimenti, ma fonti di gioia in questa vita e non manca loro alcuno degli oggetti del loro desiderio". Gli chiesi: "Ritieni che chi teme è felice?". "Non lo ritengo", disse. "Dunque se può perdere ciò che ama, può non temere?". "È impossibile", mi rispose. "Ora, conclusi, i beni soggetti al caso si possono perdere. Dunque chi li ama e possiede non può assolutamente esser felice". Non contestò. A questo punto mia madre intervenne: "Anche se fosse sicuro di non perdere le proprie sostanze, tuttavia non ne può esser saziato. Quindi intanto è infelice in quanto è sempre bisognoso". Le chiesi: "Non ritieni che possa esser felice se, abbondando e traboccando di tante ricchezze, stabilisse un limite al desiderio e, contento di esse, ne goda convenientemente e gioiosamente?". "Non è felice, rispose, per il possesso delle sostanze ma per la moderazione del suo desiderio". "Benissimo, replicai. Anche a tale domanda da te non si poteva attendere una risposta diversa. Quindi non abbiamo più dubbi che, se qualcuno ha deciso di esser felice, si deve assicurare ciò che rimane per sempre né può essere sottratto dalla fortuna spietata". "Ormai, intervenne Licenzio, siamo d'accordo su tale verità". "Ritenete, ripresi, che Dio è eterno e non cessa mai d'essere?". "È verità tanto certa, rispose Licenzio, che non è necessario farla argomento del dialogo". E gli altri con profondo sentimento religioso concordarono. "Dunque, conclusi, chi ha Dio è felice".

Le varie opinioni dei convitati.

2. 12. Accettarono la conclusione con viva gioia; ed io ripresi: "Ci rimane da indagare soltanto, come penso, chi è l'uomo che possiede Dio; egli sarà certamente felice. Chiedo la vostra opinione sull'argomento". Licenzio: "Ha Dio chi vive bene". Trigezio: "Ha Dio chi obbedisce ai suoi comandamenti". Alla sua opinione aderì Lastidiano. Il più giovane di tutti: "Ha Dio chi non ha l'animo immondo (cf. Mt 5, 8)". Mia madre approvò tutte le opinioni, ma soprattutto quest'ultima. Navigio se ne era rimasto in silenzio. Gli chiesi come la pensasse. Mi rispose che gli piaceva l'ultima. Mi parve opportuno non trascurare Rustico nel chiedergli la propria opinione su un argomento di tanta importanza poiché mi sembrava che taceva più per vergogna che per volontà. Aderì a Trigezio.

Moderazione nella ricerca.

2. 13. Allora ripresi: "Prendo atto dei singoli pareri su un argomento importante che implica pertanto ogni ulteriore problema e ogni ulteriore scoperta purché noi ora, come abbiamo cominciato, lo sottoponiamo all'indagine senza preconcetti e con molta serietà. Per oggi tuttavia non si deve prolungare la trattazione poiché anche lo spirito ha nei suoi conviti una certa intemperanza se si getta sulle vivande senza moderazione e con avidità e rischia, per così dire, l'indigestione. E poiché da essa si deve temere per la sanità mentale come dalla stessa fame, è meglio che domani, se preferite, col ritorno dell'appetito riprendiamo la trattazione. Voglio tuttavia che subito assaporiate ciò che io adesso, come vostro anfitrione, devo apporvi offrendolo direttamente alla vostra mente. Ed è, salvo errore, l'ultima rituale vivanda ammannita e condita dal miele della lezione". Alle mie parole tutti si tesero come verso una vivanda non a portata di mano e insistettero perché mi accingessi a dire di che si trattava. "Non vi pare, dissi, che è conchiusa la discussione iniziata qualche giorno addietro contro gli accademici?". Udito tale nome, i tre, cui era noto il fatto, si alzarono in piedi con vivacità e, quasi con le mani distese, come comunemente avviene, aiutarono con le parole che poterono il servitore che apponeva. Facevano capire che non avrebbero udito nulla di più gradevole.

La tesi di Agostino che gli accademici non conseguono felicità...

2. 14. Proposi l'argomento in questi termini: È manifesto che non è felice chi non ha l'oggetto del desiderio, come dianzi è stato logicamente dimostrato. Ma nessuno cerca ciò che non vuol conseguire. Ora essi ricercano sempre la verità, dunque desiderano conseguirla; desiderano, cioè, avere il conseguimento della verità. Ma non la conseguono. Ne deriva che essi non hanno ciò che desiderano e ne deriva quindi che non sono felici. Ma non si è saggi se non si è felici; dunque il filosofo accademico non è un saggio. A questo punto essi, soddisfatti di essersi assicurati l'intera porzione, approvarono gridando. Ma Licenzio, riflettendo più attentamente e diligentemente, esitò a prestar l'assenso e disse: "Mi sono assicurato assieme a voi la porzione poiché ho approvato convinto della conclusione. Ma per il momento non trangugerò nulla e riserverò la mia porzione per Alipio. O la gusterà assieme a me o mi avvertirà sui motivi per non ingerirla". "Ma Navigio piuttosto, dissi, non avendo il fegato sano, dovrebbe temere i dolci". Ed egli sorridendo rispose: "Al contrario, essi mi faranno bene. Non so come, ma la tua confezione contorta e pungente a causa del miele d'Imetto, come dice quel tale, è dolce-asprigna e non costipa l'intestino. Quindi la ingerisco tutta, sia pure con qualche puntura al palato, ma con piena soddisfazione. Non vedo infatti come possa esser contestata la tua conclusione". "È certamente impossibile, intervenne Trigezio. E per questo son contento d'essermi già schierato contro di loro. Infatti non so per quale impulso naturale, o per dire con maggior verità, divino, ho sempre avuto una viva antipatia per loro sebbene non sapessi come confutarli".

... è ribattuta da Licenzio...

2. 15. "Io non li abbandono ancora", disse Licenzio. "Dunque, ribatté Trigezio, dissenti da noi?". "E voi, rimbeccò l'altro, non dissentite da Alipio?". Gli dissi: "Non dubito che, se fosse stato presente Alipio, avrebbe accettato la mia breve dimostrazione. Non avrebbe infatti potuto accogliere l'assurda opinione di ritenere felice chi non ha un bene spirituale tanto eccellente e che ha ardentemente desiderato di avere, ovvero che essi non vogliono raggiungere la verità, o che è saggio chi non è felice. Da questi tre motivi, come se fossero miele, farina e mandorle, è confezionata la torta che temi d'ingerire". "Ed egli, ribatté Licenzio, accetterebbe questo piccolo divertimento da fanciulli abbandonando la ricca tradizione degli accademici? Da essa, come da fiume in piena, la tua breve dimostrazione sarebbe sommersa e trascinata via". "Come se, rimbeccai, stessimo cercando una lunga dimostrazione soprattutto contro Alipio. Egli stesso con il tuo intervento dimostra sufficientemente che questi motivi lievi ma non scarsi di pensiero sono validi e utili. Ma tu che preferisci dipendere dall'autorità di un assente, quale punto biasimi? Che chi non ha l'oggetto del desiderio non è felice? Ovvero che gli accademici, i quali ricercano con ardore la verità, non la vogliono avere, una volta conseguita? O ritieni che l'uomo saggio non è felice?". "È certamente felice, rispose sorridendo sdegnosamente, chi non ha l'oggetto del desiderio". Ordinai che le sue parole fossero trascritte. Ed egli esclamò: "Ma io non l'ho detto". Feci cenno che si trascrivessero ugualmente anche queste. Allora ammise: "L'ho detto". Avevo ordinato, una volta per sempre, che non potesse profferire parola che non fosse trascritta. E così tenevo il giovanotto in esercizio fra la vergogna e l'ostinatezza.

... ma Monica li definisce epilettici.

2. 16. Ma mentre, motteggiandolo con tali parole, lo invitavo ad ingerire, per così dire, la sua porzione, mi accorsi che gli altri ignari dell'argomento e desiderosi di conoscere il tema della nostra scherzosa conversazione, ci guardavano seri. E riferendomi a un caso piuttosto frequente, mi parve di poterli paragonare a quelle persone che, sedendo a mensa con individui sempre affamati ed eccellenti divoratori, o si trattengono dal tirar giù per contegno o si lasciano prendere dalla vergogna. Ma io ero l'anfitrione e tu mi hai insegnato a sostenere la parte di un uomo illustre e, per svelare tutto, dell'uomo vero, ma anche dell'anfitrione in quel convito. Mi turbò quindi il diverso e incoerente trattamento usato alla nostra mensa. Sorrisi a mia madre. E lei, con grande liberalità, mi ordinò di offrire, come se la dispensa fosse sua, la vivanda di cui erano privi. Mi pregò poi: "Dicci ormai chiaramente la posizione di codesti accademici e le loro tesi". Gliene presentai una breve e chiara esposizione in maniera che tutti i presenti potessero comprendere. E lei: "Ma costoro sono affetti da mal caduco". Con questo termine in gergo popolare sono designati coloro che sono sconvolti da attacchi d'epilessia. Nel contempo si alzò per andarsene. E tutti rallegrati ed esilarati dal motto, posta fine alla discussione, ce ne andammo.

 

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