Brutta avventura di Alipio sospettato di furto

9. 14. La vicenda era tuttavia accantonata fin d’allora nella sua memoria come una medicina per il futuro. Anche un altro fatto: che ancora durante i suoi studi a Cartagine e quando aveva già preso a frequentare le mie lezioni, un giorno, mentre sul mezzodì, nella piazza, meditava un discorso da recitare a scuola per esercizio, secondo l’usanza, lo lasciasti arrestare come ladro dai sorveglianti del foro, penso che tu, Dio nostro, non l’abbia permesso per altro motivo, se non per questo: che quel gentiluomo, destinato a divenire un giorno così grande, cominciasse fin d’allora a imparare quanto debba rifuggire da una temeraria credulità nel condannare un altro uomo l’uomo che istruisce un processo. Alipio dunque passeggiava tutto solo davanti al tribunale, le tavolette e lo stilo fra le mani, quand’ecco un giovane studente, il ladro appunto, munito nascostamente di una scure si avvicina, non visto da lui, alla cancellata di piombo che sovrasta la via degli orafi, e incomincia a scalpellare il metallo. Ai colpi della scure gli orafi che si trovavano di sotto parlottarono fra loro sommessamente e mandarono alcuni ad arrestare chiunque avessero trovato sul posto. Il ladro, udite le loro voci, se la svignò, abbandonando l’attrezzo per paura di essere preso mentre l’aveva con sé; Alipio invece, che, come non l’aveva visto all’entrata, così lo notò all’uscita, vedendo che si allontanava frettolosamente, e curioso di conoscerne il motivo, entrò e trovò la scure. Fermo in piedi la stava considerando meravigliato, quand’ecco i messi degli orafi lo sorprendono solo e fornito del ferro, ai cui colpi si erano riscossi ed erano partiti. Lo acciuffano, lo trascinano con sé, e di fronte agli abitanti della piazza, che s’erano radunati, si vantano di aver preso il ladro in flagrante, poi si avviano per metterlo nelle mani della giustizia.

– 15. Ma la lezione doveva finire qui. Tu, Signore, venisti immediatamente in soccorso dell’innocenza, di cui eri l’unico testimone. Mentre Alipio veniva condotto in prigione o al supplizio, s’imbatté nel corteo un architetto, soprintendente agli edifici pubblici. Le guardie si rallegrarono di aver incontrato proprio lui, che era solito sospettarle dei furti accaduti nel foro: ora finalmente avrebbe riconosciuto chi era l’autore. Senonché l’architetto aveva visto sovente Alipio in casa di un certo senatore, che abitualmente andava a ossequiare; e appena lo ebbe riconosciuto, lo prese per mano, lo trasse in disparte dalla folla e gli chiese il motivo di un guaio così grosso. Udito il racconto dell’accaduto, ordinò agli astanti, che tumultuavano e rumoreggiavano minacciosamente, di seguirlo. Giunsero così all’abitazione del giovane delinquente. Sulla porta stava uno schiavo così tenerello, da poter rivelare facilmente tutto il caso senza sospettare che ne venisse del danno al padrone. Infatti lo aveva accompagnato nella piazza. Anche Alipio lo riconobbe e ne avverti l’architetto. Questi mostrò al fanciullo la scure, domandandogli di chi era. "È nostra", rispose immediatamente il fanciullo. Più tardi, interrogato, rivelò il resto. Così l’accusa ricadde su quella casa, con grande smacco della folla, che aveva già incominciato il suo trionfo su Alipio. Il futuro dispensatore della tua parola e giudice di molte cause nella tua Chiesa ne uscì più esperto e più agguerrito.

Alipio assessore giudiziario a Roma

10. 16. A Roma, quando lo incontrai, Alipio si legò a me della più stretta amicizia e parti con me alla volta di Milano sia per non lasciarmi, sia per mettere a frutto le nozioni di diritto che aveva appreso, secondo il desiderio dei genitori più che suo. Aveva già esercitato per tre volte la mansione di assessore giudiziario, meravigliando i colleghi con la sua integrità, ma meno di quanto si meravigliava lui di essi, che anteponevano l’oro alla rettitudine. Il suo carattere fu pure messo alla prova non solo con la seduzione della cupidigia, ma anche col pungolo della paura. A Roma era assessore presso il conte preposto alle finanze italiche. Viveva in quel tempo un senatore potentissimo, che si teneva molta gente legata con i benefici e soggetta con l’intimidazione. Costui pensò di permettersi, secondo l’usanza dei potentati suoi pari, non so quale atto non permesso dalla legge. Alipio gli resistette. Gli fu promessa una ricompensa, ed egli ne rise di cuore; furono proferite minacce, ed egli le calpestò, con ammirazione di tutti verso un ardire non comune, indifferente all’amicizia e imperturbabile all’inimicizia di un personaggio tanto potente e notissimo per le infinite possibilità che aveva così di giovare come di nuocere. Lo stesso giudice di cui era consigliere, per quanto contrario egli pure alle richieste del senatore, tuttavia non osava opporsi apertamente. Addossava la responsabilità ad Alipio, si diceva impedito da lui perché, ed era vero, l’avrebbe avversato, se per conto suo avesse ceduto. Una sola passione per poco non l’aveva sedotto, la letteratura, per la quale fu tentato di farsi trascrivere alcuni codici usando la cassa del tribunale. Interpellata però la virtù della giustizia, mutò in meglio il suo parere, giudicando più vantaggiosa la rettitudine, che glielo proibiva, della, possibilità, che glielo permetteva. È cosa da poco? Ma chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto, né saranno mai vane le parole che uscirono dalla bocca della tua verità: Se non foste fedeli riguardo alle ricchezze inique, chi vi affiderà quelle genuine? e se non foste fedeli nell’amministrare le ricchezze altrui, chi vi affiderà le vostre?. Tale l’uomo che si stringeva allora a me, e con me esitava a decidere il genere di vita che si doveva abbracciare.

Nebridio

– 17. Anche Nebridio aveva lasciato il paese natio, nei pressi di Cartagine e poi Cartagine stessa, ove lo s’incontrava sovente; aveva lasciato la splendida tenuta del padre, lasciata la casa e la madre, non disposta a seguirlo, per venire a Milano con l’unico intento di vivere insieme a me nella ricerca, ardentissima delle verità e della sapienza. Investigatore appassionato della felicità umana, scrutatore acutissimo dei più difficili problemi, come me anelava e come me oscillava. Erano, le nostre, le bocche di tre affamati che si ispiravano a vicenda la propria miseria, rivolte verso di te, in attesa che dessi loro il cibo nel tempo opportuno. Nell’amarezza che la tua misericordia faceva sempre seguire alle nostre attività mondane, cercavamo di distinguere lo scopo delle nostre sofferenze; ma intorno a noi si levavano le tenebre. Rivolgendoci allora indietro, ci domandavamo tra i gemiti: "Per quanto tempo dureremo in questo stato?", e ripetevamo spesso la domanda, ma senza abbandonare per ciò quella vita, mancandoci ogni luce di certezza a cui aggrapparci dopo averla abbandonata.

Esitazioni di Agostino

11. 18. Io soprattutto mi stupivo, allorché con uno sforzo rievocavo il lungo tempo passato dal momento in cui, diciannovenne, avevo cominciato a infervorarmi nella ricerca della sapienza, progettando di abbandonare, appena l’avessi scoperta, tutte le speranze fatue e i fallaci furori delle vane passioni. Ed eccomi ormai trentenne, vacillante ancora nella medesima mota, avido di godere del presente fugace e dispersivo, mentre mi andavo dicendo: "Domani troverò. Ecco che il vero mi si manifesterà chiaramente, e l’afferrerò; ecco che verrà Fausto e mi spiegherà tutto. O accademici, spiriti grandi, nessuna certezza si può davvero raggiungere a guida della vita. Ma no, cerchiamo con maggiore diligenza anziché disperare. Ecco ad esempio che quelle che sembravano assurdità nei libri ecclesiastici, non lo sono più: è possibile intenderle in maniera diversa e degna. Prenderò dunque come appoggio ai miei passi il gradino ove fanciullo mi posero i genitori, finché mi si riveli chiaramente la verità. Ma dove cercarla? quando cercarla? Non ha tempo Ambrogio, non abbiamo tempo noi per leggere, e poi, anche i libri dove cercarli? da chi e quando ottenerli, a chi chiederli? Riserviamo del tempo e assegniamo alcune ore alla salvezza dell’anima. Una grande speranza è spuntata: gli insegnamenti della fede cattolica non sono quali li pensavamo, le nostre accuse erano inconsistenti. I suoi esperti conoscitori reputano un’empietà il, credere Dio chiuso nel profilo di un corpo umano; e noi dubitiamo a bussare perché ci si schiudano le altre verità? Le ore del mattino sono occupate dalla scuola; nelle altre cosa facciamo? Perché non impiegarle in quest’opera? Ma quando andremmo a ossequiare gli amici importanti di cui ci occorre l’appoggio, quando prepareremmo le dissertazioni da smerciare agli alunni, quando, anche, ci ristoreremmo, rilassando lo spirito dopo la tensione delle occupazioni?

– 19. Tutto crolli, sbarazziamoci di queste vane futilità e votiamoci unicamente alla ricerca della verità! La vita è miserabile, la morte è incerta. Potrebbe sopravvenire all’improvviso, e allora come usciremmo da questo mondo? dove potremmo imparare quanto qui abbiamo negletto? Non dovremmo pagare piuttosto il fio della presente negligenza? E se la morte stessa troncasse e concludesse ogni angustia insieme alla sensibilità? Anche questo è un problema da investigare. Ma no, lontano da me il pensiero che sia così. Non senza un motivo, non per nulla l’autorità della fede cristiana s’irradia da tanta altezza sul mondo intero. La divinità non realizzerebbe tante e tali cose per noi, se con la morte del corpo si estinguesse anche la vita dell’anima. Perché dunque esitiamo ad abbandonare le speranze mondane, per votarci totalmente alla ricerca di Dio e della vita beata? No, adagio: anche il mondo è piacevole e possiede una sua grazia non lieve. Bisogna essere cauti a troncare l’impulso che ci spinge verso di esso, perché sarebbe indecoroso tornarvi da capo. Ormai, ecco, siamo abbastanza valenti per ottenere un posto onorato, e che altro desiderare nella nostra condizione? Abbiamo un buon numero di amici potenti. Se non vogliamo brigare troppo per avere di meglio, una presidenza la possiamo ottenere senz’altro. Poi si dovrà sposare una donna provvista di qualche soldo, che non aggravi le nostre spese, e questo sarà il termine dei desideri; molti spiriti grandi, degnissimi d’imitazione, si dedicarono allo studio della sapienza con le mogli al fianco.

– 20. Fra questi discorsi, fra questi venti alterni, che spingevano il mio cuore or qua or là, passava il tempo e io tardavo a rivolgermi verso il Signore. Differivo di giorno in giorno l’inizio della vita in te, ma non differivo la morte giornaliera in me stesso. Per amore della vita felice temevo di trovarla nella sua sede e la cercavo fuggendola. Mi sembrava che sarei stato troppo misero senza gli amplessi di una donna; non ponevo mente al rimedio che ci porge la tua misericordia per guarire da quell’infermità, poiché non l’avevo mai sperimentato. Pensavo che la continenza si ottiene con le proprie forze, e delle mie non ero sicuro. A tal segno ero stolto, da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente, se tu non lo concedi. E tu l’avresti concesso, se con gemito interiore avessi bussato alle tue orecchie e con salda fede avessi lanciato in te la mia pena.

Il problema dei matrimonio

12. 21. Alipio mi sconsigliava, per la verità, di prendere moglie: se lo avessi fatto, mi ripeteva su tutti i toni, non avremmo potuto assolutamente vivere assieme e indisturbati, nel culto della sapienza, come da tempo desideravamo. Personalmente egli osservava fin da allora una castità assoluta, e questa condotta era tanto più ammirevole, in quanto nei primi anni della sua adolescenza aveva sperimentato il piacere della carne. Però non vi era rimasto invischiato: ne aveva avuto piuttosto rimorso e disprezzo, e da allora viveva ormai in una continenza assoluta. Io gli opponevo l’esempio di quanti, coniugati, avevano coltivato gli studi, guadagnato meriti presso Dio e conservato fedeltà d’affetti verso gli amici. Senonché per mio conto ero lontano da tanta magnanimità. Avvinto alla mia carne ammorbata, ne trascinavo la catena con un godimento mortale, timoroso che si sciogliesse e respingendo, quasi rimescolasse la piaga, la mano liberatrice dei buoni consigli. Ma c’era di più per mia bocca il serpente parlava allo stesso Alipio e lo accalappiava, disseminando sulla sua strada per mezzo della mia lingua dolci lacci, ove impigliare i suoi onesti e liberi piedi.

– 22. Egli si stupiva che io, non poco stimato da lui, fossi invischiato nel piacere a tal punto, da asserire, quando se ne discuteva fra noi, che non avrei potuto assolutamente condurre una vita celibe; ed io, al vedere il suo stupore, mi difendevo sostenendo che passava una bella differenza tra le sue momentanee e furtive esperienze, rese innocue e facilmente disprezzabili dal ricordo ormai quasi svanito, e i diletti della mia consuetudine, cui mancava soltanto l’onorato titolo di matrimonio per togliergli ogni ragione di stupore, se non riuscivo a spregiare quella vita. Alla fine era entrato in corpo anche a lui il desiderio di sposare, facendo breccia non tanto con la lusinga del piacere, quanto con quella della curiosità. Era curioso, diceva, di conoscere il bene, senza del quale la mia vita, a lui accetta così com’era, a me non sembrerebbe più una vita, ma un tormento. Il suo animo, libero da legame, si meravigliava della mia schiavitù, e la meraviglia lo stuzzicava a farne esperienza. Ma, venuto appunto all’esperienza, forse sarebbe caduto nella schiavitù di cui si meravigliava: cercava di stringere un patto con la morte, e chi ama il pericolo, vi cadrà. Certo nessuno di noi due era gran che mosso dalla dignità coniugale, quale può consistere nel compito di guidare un matrimonio e di allevare dei figli: io, per essere soprattutto e duramente schiavo torturato dell’abitudine di appagare l’inappagabile sensualità; lui, per essere trascinato alla schiavitù dal fascino dell’ignoto. Tale il nostro stato, finché tu, altissimo, che non abbandoni il nostro fango, impietosito dalla nostra condizione pietosa, ci venisti in aiuto in modi mirabili e segreti.

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