GLI SCOPI PRINCIPALI DEL LINGUAGGIO

 

Agostino: — Cosa ti sembra che intendiamo fare, quando parliamo?

Adeodato: — Per quanto ora mi viene in mente, o insegnare, o apprendere.

Agostino:: — Il primo di questi scopi lo vedo bene e sono d'accordo; è evidente infatti che, parlando, vogliamo insegnare. Ma apprendere, come?

Adeodato: — E come pensi, se non interrogando?

Agostino: — Ma anche in tal caso, per quanto comprendo, non si vuole far altro che insegnare. Ti chiedo infatti: tu interroghi per un motivo diverso da quello di insegnare ciò che vuoi al tuo interlocutore?

Adeodato: — E’ vero.

Agostino: — Vedi dunque che con il linguaggio miriamo soltanto a insegnare.

Adeodato: — La cosa non mi è del tutto chiara. Infatti se parlare equivale semplicemente a proferire parole, secondo me facciamo ciò anche quando cantiamo. E poiché spesso cantiamo da soli, cioè senza che sia presente qualcuno che apprenda, non penso che in questo caso vogliamo insegnare qualche cosa.

Agostino: — Io invece penso che vi è un modo di insegnare mediante il richiamo del ricordo e che è certamente importante, come lo mostrerà l'oggetto stesso di questa nostra conversazione. Se pero tu non ritieni che apprendiamo quando ricordiamo né che insegna chi fa ricordare, non ti contraddico. Stabilisco comunque due motivi per parlare: o per insegnare o per far ricordare qualche cosa a noi stessi e ad altri. E’ così che facciamo anche quando cantiamo, non ti pare?

Adeodato: — Niente affatto; è piuttosto raro infatti che io canti per ricordarmi di qualche cosa: lo faccio soltanto per diletto.

Agostino: — Capisco ciò che pensi. Ma non ti rendi conto che ciò che ti procura diletto nel canto è una certa modulazione del suono? E, poiché tale modulazione può essere aggiunta e tolta alle parole, altro è parlare, altro è cantare. Si canta con il flauto e con la cetra; anche gli uccelli cantano; e noi talora, pur senza proferire parole, moduliamo qualche suono musicale che si può chiamare canto ma non linguaggio. Hai qualche cosa da obiettare?

Adeodato: — No, nulla affatto.

Agostino: — Non ti pare dunque che il linguaggio sia stato istituito soltanto o per insegnare o per far ricordare?

Adeodato: — Sarei di questo avviso se non mi turbasse il fatto che sicuramente parliamo quando preghiamo e pur tuttavia non ci è consentito credere che insegniamo o facciamo ricordare qualche cosa a Dio.

Agostino: — Ritengo che non sappia che ci è stato prescritto di pregare nel chiuso delle nostre camerette (nome con cui si indica l’intimità dello spirito) unicamente perché Dio non chiede al nostro linguaggio né che gli faccia ricordare né che gli insegni qualche cosa per esaudire i nostri desideri. Chi parla dà un segno esteriore della propria volontà mediante un suono articolato; Dio invece deve essere cercato e invocato nella profondità stessa dell'anima razionale, che è chiamata l’"uomo interiore": ha voluto che questo fosse il suo tempio.

Non hai letto nell'Apostolo: Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo spirito di Dio abita in voi; e ancora: E’ nell'uomo interiore che Cristo abita?

E non hai notato la parola del Profeta: Parlate nei vostri cuori e pentitevi nelle vostre camere. Celebrate il sacrificio di giustizia e sperate nel Signore? E dove pensi che si possa celebrare il sacrificio di giustizia se non nel tempio dello spirito e nella camera del cuore? Ora, dove si deve sacrificare si deve anche pregare. Perciò la nostra preghiera non ha bisogno del linguaggio, cioè di parole che risuonano, a meno che non sia necessario esprimere il proprio pensiero, come avviene per i sacerdoti, non perché sia inteso da Dio, ma dagli uomini e questi, per un certo qual consenso in essi suscitato mediante questo ricordo, si rivolgano a Lui. O tu pensi diversamente?

Adeodato:— Sono pienamente d'accordo.

Agostino: — Non ti colpisce dunque il fatto che il sommo Maestro, quando insegnò ai discepoli a pregare, insegnò loro delle parole? Così facendo, sembra che non abbia fatto altro che insegnare come si deve parlare quando si prega.

Adeodato: — La cosa non mi colpisce affatto; infatti non le parole, ma le cose stesse insegnò mediante le parole con cui anche i discepoli avrebbero dovuto ricordare a se stessi chi dovevano pregare e che cosa dovevano chiedere, quando pregavano, come si è detto, nell’intimità dello spirito.

Agostino: — Hai ben compreso; nello stesso tempo, credo, ti rendi conto, sebbene qualcuno lo escluda, che, pur senza emettere alcun suono, tuttavia noi, per il fatto che pensiamo le parole stesse, parliamo nell'intimo della nostra anima. Così anche in questo caso il linguaggio non fa altro che richiamare il ricordo, poiché è la memoria che, rievocando le parole che sono in essa impresse, fa venire alla mente le cose stesse di cui le parole sono i segni.

Adeodato: — Comprendo e ti seguo.

 

 


 

IL SIGNIFICATO DELLE PAROLE

Agostino: — E’ inteso dunque tra noi che le parole sono segni?

Adeodato: — E’ inteso.

Agostino: — Ma un segno può essere tale anche se non significa alcunché?

Adeodato: — No, non può.

Agostino: — Quante parole ci sono in questo verso: Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui?

Adeodato: — Otto.

Agostino: — Perciò ci sono otto segni?

Adeodato: — Sì.

Agostino: — Credo che tu comprenda questo verso.

Adeodato: — Abbastanza, penso.

Agostino: — Dimmi cosa significa ciascuna parola.

Adeodato: — In verità comprendo cosa significa si (se), ma non riesco a trovare nessun'altra parola che possa chiarirne il significato.

Agostino: — Qualunque sia la cosa significata da questa parola, riesci almeno a trovare dove si trova?

Adeodato: — Mi pare che si (se) significhi dubbio, e il dubbio dove si trova se non nell'anima?

Agostino: — Per il momento lo ammetto; passa alle altre parole.

Adeodato:— Nihil (niente) che altro significa se non ciò che non è?

Agostino: — Forse dici il vero; ma mi trattiene dal dare l'assenso ciò che hai ammesso in precedenza e cioè che non si dà segno che non significhi qualche cosa. Ora, ciò che non è in nessun modo può essere qualche cosa; perciò la seconda parola del verso citato non è un segno perché non significa alcunché. Erroneamente dunque si è convenuto tra noi che tutte le parole siano segni o che ogni segno significhi qualche cosa.

Adeodato: — Invero mi incalzi troppo; ma, quando non si ha nulla da significare, è proprio da sciocchi proferire qualche parola. Ora presumo che tu, nel parlare con me, non emetti alcun suono inutilmente, ma con tutti i suoni che escono dalla tua bocca mi dai un segno perché io comprenda qualche cosa. Di conseguenza non è opportuno che tu pronunci queste due sillabe quando parli, se con esse non intendi significare nulla. Ma se capisci che sono strumento indispensabile per l'enunciazione e che, nel risuonare alle nostre orecchie, esse ci insegnano qualche cosa o ci danno un avvertimento, allora certamente capisci anche ciò che vorrei dire, ma che non sono in grado di spiegare.

Agostino: — Che facciamo dunque? Con questa parola, più che la cosa stessa che non esiste, forse vogliamo significare quel particolare stato in cui l'anima non vede la cosa e tuttavia trova o pensa di aver trovato che non esiste?

Adeodato: — Forse è proprio ciò che mi sforzavo di spiegare.

Agostino: — Comunque la questione stia, andiamo avanti perché non ci capiti una cosa del tutto assurda.

Adeodato: — E quale?

Agostino: — Che subiamo qualche ritardo, nonostante "niente" ci trattenga.

Adeodato: — La cosa in verità sarebbe ridicola; tuttavia, pur non sapendo come, capisco che può accadere, anzi che è già accaduta.

Agostino: — A suo tempo, se Dio lo permetterà, comprenderemo meglio questa sorta di paradosso. Ora riportati a quel verso e cerca di spiegare, come puoi, il significato delle altre parole.

Adeodato: — La terza è la preposizione ex, in sostituzione della quale, penso, possiamo dire de.

Agostino: — Ma io non ti chiedo di dire, in sostituzione di una parola molto nota, un'altra egualmente molto nota e che ha lo stesso significato, se pure ha lo stesso significato; ma per ora ammettiamo che sia così. Naturalmente se il poeta, invece di ex tanta urbe, avesse detto de tanta e io ti chiedessi cosa significhi de, tu mi diresti ex perché sono due parole, cioè due segni che, secondo la tua opinione, significano una sola cosa. Ma io cerco proprio quel non so che di unico che è significato da questi due segni.

Adeodato: — Mi pare che significhi la separazione, dal luogo dove si trovava, di una cosa di cui si dice che proviene da là, sia che quel luogo non esista più, come avviene nel verso citato (infatti, benché la città non esistesse più, tuttavia da essa potevano provenire alcuni Troiani), sia che esso esista ancora, come diciamo, per esempio, che in Africa ci sono negozianti venuti dalla città di Roma.

Agostino: — Ti concedo che sia così e non enumero tutti i casi che forse sfuggono a questa tua regola. Ti è facile però renderti conto che hai spiegato parole con parole, cioè segni con segni, segni notissimi con segni ugualmente notissimi. Ora io vorrei che tu mi mostrassi, se ti è possibile, le cose stesse di cui queste parole sono i segni.

 

 


 

LA NATURA DEI SEGNI

Adeodato: — Mi meraviglio che non lo sappia o, piuttosto, che faccia finta di non saperlo; ma è assolutamente impossibile che dalla mia risposta tu ottenga ciò che vuoi, dal momento che stiamo conversando e non possiamo rispondere se non con le parole. Ora tu mi chiedi delle cose che, quali che siano, certamente non sono delle parole; pur tuttavia anche tu me le chiedi con parole. Comincia dunque tu a chiedere senza parole in modo che poi anche io ti risponda alla stessa maniera.

Agostino: — La tua richiesta è legittima, lo ammetto. Ma se io ti chiedessi cosa significhino le tre sillabe con cui si dice "parete", tu non potresti mostrarmi la parete con un dito? In tal caso vedrei la cosa stessa di cui questa parola di tre sillabe è segno con te che me la mostri, tuttavia senza proferire alcuna parola.

Adeodato: — Concedo che ciò è possibile soltanto per i nomi che significano corpi e a condizione che questi corpi siano presenti.

Agostino: — Diciamo forse che il colore è un corpo o non piuttosto che è una qualità del corpo?

Adeodato: — Una qualità.

Agostino: — Perché dunque anche essa può essere mostrata con un dito? O associ ai corpi anche le qualità dei corpi in modo che anche esse, quando sono presenti, si possono insegnare senza parole?

Adeodato: — Dicendo corpi, volevo intendere tutto ciò che è corporeo, ossia che si percepisce nei corpi.

Agostino: — Considera tuttavia se, anche in tal caso, tu non debba escludere alcune cose.

Adeodato: — Fai bene ad avvertirmi; infatti non avrei dovuto dire tutti gli oggetti corporei, ma tutti gli oggetti visibili. Ammetto che il suono, l'odore, il sapore, il peso, il calore e tutto ciò che riguarda gli altri sensi, sebbene non possano essere percepiti senza i corpi — e pertanto sono corporei —, tuttavia non si possono mostrare con un dito.

Agostino: — Non hai mai visto come le persone mediante i gesti conversano, per così dire, con i sordi e come questi, sempre con i gesti, domandano, rispondono, insegnano, indicano tutte le cose che vogliono o per lo meno moltissime di esse? E quando ciò avviene, non sono soltanto gli oggetti visibili che vengono mostrati senza parole, ma anche i suoni, i sapori e altre cose di questo genere. Anche i mimi nei teatri propongono e fanno comprendere intere storie senza parlare, per lo più con la danza.

Adeodato: — Non ho alcuna obiezione da opporti, se non che non solo io, ma neppure un mimo saltatore potrebbe mostrarti senza parole ciò che significa l'ex di cui sopra.

Agostino: — Forse dici il vero. Ma supponiamo che gli sia possibile; non dubiti, penso, che, qualunque sia il movimento del corpo con cui tenterà di mostrarmi la cosa significata da questa parola, tale movimento non sarà la cosa stessa, ma il suo segno. Anche il mimo, dunque, se non designerà una parola con una parola, di certo designerà un segno con un segno. Così tanto questo monosillabo ex quanto quel gesto del mimo significheranno una sola e determinata cosa, appunto quella che io vorrei che mi fosse mostrata senza segno.

Adeodato: — Scusa, come si può fare ciò che tu chiedi?

Agostino: — Seguendo il metodo adottato per la parete.

Adeodato: — Ma neanche la parete, come ha insegnato lo sviluppo del ragionamento, può essere mostrata senza segno. Il fatto di tendere il dito infatti non è la stessa cosa della parete, ma un segno dato perché si possa vedere la parete. Perciò non vedo niente che possa essere mostrato senza segno.

Agostino: — Suvvia! Se ti chiedessi cosa sia camminare e tu ti alzassi e compissi l'atto, non ti serviresti forse, per insegnarmelo, della cosa stessa piuttosto che delle parole o di qualche altro segno?

Adeodato:— Riconosco che è così e mi vergogno di non aver intuito una cosa tanto evidente. Con essa ormai me ne vengono in mente altre mille che si possono mostrare da se stesse e non mediante i segni, come mangiare, bere, sedere, stare in piedi, gridare e molte altre.

Agostino: — Or via, dimmi: se io ignorassi del tutto il significato di questa parola e ti chiedessi, nel momento stesso in cui cammini, cosa è camminare, come me lo insegneresti?

Adeodato: — Compirei la stessa azione un po' più velocemente in modo che, dopo la tua richiesta, tu sia indotto a riflettere dal fatto nuovo. Tuttavia non farei altro che ciò che dovrebbe essere mostrato.

Agostino: — Ma tu sai che altro è camminare e altro è affrettarsi? Chi cammina infatti non per questo si affretta e chi si affretta non necessariamente cammina: si parla di fretta anche nello scrivere, nel leggere e in molte altre attività. Così, se tu compissi la tua azione più celermente dopo la mia domanda, dovrei pensare che camminare non è altro che affrettarsi — questo sarebbe il fatto nuovo che tu avresti aggiunto — e pertanto mi sbaglierei.

Adeodato: — Ammetto che non possiamo mostrare un'azione senza segno se siamo interrogati su di essa nel momento in cui la compiamo. Infatti, se non aggiungiamo nulla, chi ci interroga penserà che ci rifiutiamo di mostrargliela e che vogliamo continuare a fare ciò che stavamo facendo senza curarci di lui. Ma se ci interroga su cose che possiamo fare, senza che le facciamo nel momento in cui ci interroga, possiamo mostrargli, facendolo dopo la sua richiesta, ciò che chiede mediante la cosa stessa piuttosto che con il segno, a meno che, per esempio, non mi chieda cosa sia parlare mentre sto parlando, perché, in tal caso, qualunque cosa gli dirò, per insegnarglielo è necessario che parli. E, a partire da ciò, insegnerò con sicurezza fino a che non gli avrò chiarito ciò che vuole, senza discostarmi dalla cosa stessa che vuole che gli sia mostrata e senza cercare dei segni al di fuori di questa cosa stessa per mostrargliela.

 

 


 

ALCUNI TIPI DI SEGNI

Agostino: — La risposta è veramente acuta. Considera dunque se siamo d'accordo che è possibile mostrare senza segni sia le azioni che non facciamo nel momento in cui siamo interrogati ma che possiamo compiere subito dopo, sia i segni stessi che noi facciamo. Quando parliamo infatti facciamo dei segni; da qui appunto il termine significare.

Adeodato: — Siamo d’accordo.

Agostino: — Quando dunque la domanda riguarda determinati segni, è possibile mostrare i segni con i segni; quando invece riguarda cose che segni non sono, è possibile mostrarle sia compiendole dopo la domanda, se possono essere compiute, sia dando segni capaci di far volgere la mente su di esse.

Adeodato: — Sì.

Agostino: — In questa tripartizione consideriamo in primo luogo, se credi, il caso in cui i segni sono mostrati dai segni. Ma soltanto le parole sono segni?

Adeodato: — No.

Agostino: — Mi pare dunque che, nel parlare, con le parole designiamo o le parole stesse o altri segni, come quando diciamo "gesto" o "lettera dell'alfabeto'' (perché le cose significate da queste due parole non sono altro che segni) oppure designiamo qualche altra cosa che segno non è, come quando diciamo "pietra" (questa parola è un segno; infatti significa qualche cosa, ma non è certamente segno ciò che essa significa). Comunque questo genere di segni, cioè quello in cui le parole significano oggetti che segni non sono, non rientra in quella parte che ci siamo proposti di trattare. Abbiamo infatti cominciato a considerare il caso in cui i segni sono mostrati dai segni e vi abbiamo individuato due parti, poiché mediante i segni insegniamo o facciamo ricordare o i medesimi segni o altri. Non ti pare che sia così?

Adeodato: — E’ evidente.

Agostino: — Dimmi dunque, a quale senso appartengono i segni che sono parole?

Adeodato: — All’udito.

Agostino: — E i gesti?

Adeodato: — Alla vista.

Agostino: — E che ne è delle parole scritte? Non sono parole? O dobbiamo considerarle più esattamente come segni di parole, di modo che la parola sia ciò che è proferito con un significato mediante la voce articolata? Ora la voce può essere percepita soltanto dall'udito; ne segue che, quando si scrive una parola, si fornisce agli occhi un segno mediante il quale ciò che concerne l'udito perviene alla mente.

Adeodato: — Sono pienamente d’accordo.

Agostino: — Penso che tu sia d'accordo anche che, quando diciamo nome, significhiamo qualche cosa.

Adeodato: — E’ vero.

Agostino: — E che cosa?

Adeodato: — Precisamente ciò con cui ogni cosa si denomina; per esempio, Romolo, Roma, virtù, fiume e molte altre cose.

Agostino: — E questi quattro nomi non significano nessuna cosa?

Adeodato: — Ma sì, parecchie cose.

Agostino: — Non c’è nessuna differenza fra questi nomi e le cose che essi significano?

Adeodato: — Senza dubbio, una differenza molto grande.

Agostino: — Vorrei udire da te quale sia.

Adeodato: — Questa, prima di tutto, che i nomi sono segni e le cose non lo sono.

Agostino: — Approvi che chiamiamo significabili gli oggetti che si possono significare con segni, ma che segni non sono, come chiamiamo visibili gli oggetti che si possono vedere? Così ne possiamo trattare con più comodità in seguito.

Adeodato: — Approvo certamente.

Agostino: — E che, i quattro segni che hai pronunciato poco fa non sono significati con nessun altro segno?

Adeodato: — Dunque mi sarei dimenticato, e mi meraviglio che tu lo pensi, di ciò che abbiamo trovato, e cioè che le parole scritte sono i segni dei segni che sono proferiti con la voce.

Agostino: — Dimmi in che cosa essi differiscono.

Adeodato: — Gli uni sono visibili, gli altri udibili. Perché non dovresti ammettere anche questo termine, se abbiamo ammesso significabili?

Agostino: — Certo che lo ammetto e mi piace. Ma ti chiedo di nuovo se questi quattro segni non possano essere significati con nessun altro segno udibile, come ti sei ricordato a proposito di quelli visibili.

Adeodato: — Ricordo che anche questo è stato detto poco fa. Avevo risposto appunto che il nome significa qualche cosa e avevo portato come esempio di tale modo di significare le quattro parole suddette. So anche che tanto il nome quanto i quattro segni sono udibili, se è vero che si proferiscono con la voce.

Agostino: — Che differenza c'è allora fra il segno udibile e le cose significate udibili, che sono anch'esse dei segni?

Adeodato: — Fra ciò che chiamiamo nome e le quattro parole che abbiamo portato come esempio del suo modo di significare vedo questa differenza, che l'uno è segno udibile di segni udibili mentre le altre sono anch'esse segni udibili ma non di segni bensì di cose, alcune delle quali visibili, come Romolo, Roma, fiume, e altre intelligibili, come virtù.

Agostino: — Accetto questa risposta e l’approvo. Ma sai che si chiama parola tutto ciò che è proferito con un significato mediante la voce articolata?

Adeodato: — Lo so.

Agostino: — Dunque anche nome è una parola, poiché vediamo che è proferito con un significato mediante la voce articolata. Quando diciamo di un uomo eloquente che si serve di parole appropriate, sicuramente vogliamo dire che si serve anche di nomi. Nella commedia di Terenzio, quando lo schiavo replica al vecchio padrone: "Per favore, buone parole", questi aveva già pronunciato anche molti nomi.

Adeodato: — Sono d’accordo.

Agostino: — Dunque ammetti che con le tre sillabe che pronunciamo quando diciamo parola viene significato anche il nome, e che perciò la parola è segno del nome?

Adeodato: — Lo ammetto.

Agostino: — Vorrei che mi rispondessi anche su questa questione. Poiché la parola è segno del nome, il nome è segno di "fiume" e "fiume" è segno di una cosa che può essere vista, di modo che tu hai potuto dire la differenza che c'è fra questa cosa e fiume, cioè il suo segno, e fra questo segno e il nome che è il segno di questo segno. Ora quale differenza c'è, a tuo avviso, fra il segno del nome che, come abbiamo accertato, è una parola, e il nome stesso di cui essa è il segno?

Adeodato: — Vedo questa differenza: ciò che è significato dal nome è significato anche dalla parola, poiché, come nome è una parola, così anche fiume è una parola; ma non tutto ciò che è significato dalla parola è significato anche dal nome. Infatti quel si che è all'inizio del verso da te proposto e questo ex, del quale ci siamo occupati per molto tempo per pervenire dove siamo sotto la guida della ragione, sono certamente parole, ma non sono nomi. E si trovano molti altri casi simili. Pertanto, poiché tutti i nomi sono parole, ma non tutte le parole sono nomi, è chiaro, secondo me, quale differenza ci sia fra la parola e il nome, cioè fra il segno del segno che non significa alcun altro segno e il segno del segno che significa altri segni.

Agostino: — Ammetti che ogni cavallo è un animale, senza che ciò comporti che ogni animale è un cavallo?

Adeodato: — Chi ne dubiterebbe?

Agostino: — Fra nome e parola dunque vi è la stessa differenza che c'è fra cavallo e animale. Su ciò puoi essere d'accordo, a meno che non te lo impedisca il fatto che usiamo verbum anche in un altro senso, appunto per significare le parole che si coniugano secondo i tempi, come "scrive", "scrissi", "leggo", "lessi", parole che chiaramente non sono nomi.

Adeodato: — Hai messo in luce proprio ciò che mi faceva dubitare.

Agostino: — Ma il fatto non ti turbi. In effetti noi chiamiamo segno in senso generale tutto ciò che significa qualche cosa. Tra i segni si trovano anche le parole. In modo analogo chiamiamo segni le insegne militari; queste però sono tali in un senso particolare, che non si addice alle parole. Tuttavia, se ti dicessi che, come ogni cavallo è un animale senza che ogni animale sia un cavallo, così ogni parola è un segno senza che ogni segno sia una parola, tu, come suppongo, non ne dubiteresti.

Adeodato: — Ora comprendo e sono pienamente d’accordo che fra parola in senso generale e nome c'è la stessa differenza che c'è fra animale e cavallo.

Agostino: — Sai anche che, quando diciamo animale, altro è questo nome di quattro sillabe proferito dalla voce e altro è ciò che esso significa?

Adeodato: — L'ho già ammesso in precedenza per tutti i segni e i significabili.

Agostino: — Non ti pare che tutti i segni significhino altro da quello che sono, come è il caso del quadrisillabo animale, che non significa affatto ciò che è di per sé?

Adeodato: — No, di certo, perché la parola segno, quando la diciamo, significa non solo tutti gli altri segni, quali che essi siano, ma anche se stessa; infatti è una parola e tutte le parole sono segni.

Agostino: — E nel trisillabo parola, quando lo proferiamo, non avviene qualche cosa di simile? Se infatti il suddetto trisillabo significa tutto ciò che si proferisce con un significato mediante la voce articolata, anch'esso rientra in questa categoria.

Adeodato: — Sì.

Agostino: — Bene, e la cosa non sta allo stesso modo anche per il nome? Significa i nomi di tutti i generi e nome in latino è un nome di genere neutro. E se ti chiedessi a quale parte del discorso "nome" appartenga, mi potresti rispondere correttamente se mi dicessi una cosa diversa da nome?

Adeodato: — Dici il vero.

Agostino: — Ci sono dunque segni che, tra gli oggetti che significano, significano anche se stessi?

Adeodato: — Sì.

Agostino: — E non ti pare che il segno quadrisillabo "congiunzione" sia di questo tipo?

Adeodato: — No assolutamente, perché i termini che significa non sono nomi, mentre esso è un nome.

 

 


 

ALTRI TIPI DI SEGNI

Agostino: — Sei stato veramente attento. Ora considera se sia possibile trovare segni che si significano reciprocamente, in modo che come questo è significato da quello così quello è significato da questo. La cosa invero non sta così fra il quadrisillabo "congiunzione" e i termini che esso significa, vale a dire "se", "o", "perché", "infatti", "se non", "dunque", "poiché" e altri simili; infatti, mentre questi sono significati da quel solo quadrisillabo, nessuno di essi significa quel solo quadrisillabo. Adeodato: — Capisco e desidero sapere quali siano i segni che si significano reciprocamente. Agostino: — Tu dunque ignori che, dicendo nome e parola, diciamo due parole?

Adeodato: — No, lo so.

Agostino: — E che? Non sai che, dicendo nome e parola, diciamo due nomi?

Adeodato: — So anche questo.

Agostino: — Sai quindi che, come il nome è significato dalla parola, così la parola è significata dal nome.

Adeodato: — Sono d’accordo.

Agostino: — Puoi allora dire in che cosa differiscano tra loro, all'infuori del fatto che si scrivono e si pronunciano in maniera diversa?

Adeodato: — Forse; penso che sia per il motivo che ho detto poco fa. Infatti, quando diciamo parola, noi significhiamo tutto ciò che è proferito con un significato mediante la voce articolata. Da ciò segue che ogni nome, compreso lo stesso termine nome, è una parola; però non ogni parola è un nome, benché il termine parola sia un nome.

Agostino: — Ma se qualcuno affermasse e ti dimostrasse che, come ogni nome è una parola, così ogni parola è un nome, tu potresti trovare in che cosa essi differiscano, all'infuori che per il diverso suono delle lettere?Adeodato: — Non lo potrei e penso che non vi sia assolutamente differenza.

Agostino: — Bene. Ma se veramente tutto ciò che è proferito con un significato mediante la voce articolata è insieme parola e nome, ma parola per una ragione e nome per un'altra, allora non ci sarà nessuna differenza fra il nome e la parola?

Adeodato: — Non comprendo come ciò sia possibile.

Agostino: — Comprendi almeno che ogni oggetto colorato è visibile e che ogni oggetto visibile è colorato, sebbene queste due parole significhino in modo distinto e differente? Adeodato: — Lo comprendo.

Agostino: — E che diresti se è così, ossia che ogni parola è un nome e ogni nome è una parola, nonostante che questi due nomi o queste due parole, cioè nome e parola, abbiano un diverso significato?

Adeodato: — Vedo appunto che può accadere, ma attendo che tu mi mostri come accada.

Agostino: — Ti rendi conto, penso, che tutto ciò che viene proferito con un significato mediante una voce articolata colpisce l'orecchio perché possa essere percepito, ed è affidato alla memoria perché possa essere conosciuto.Adeodato: — Me ne rendo conto.

Agostino: — Avvengono dunque due operazioni quando proferiamo qualche cosa con voce articolata. Adeodato: — Sì.Agostino: — Che ne diresti se le parole (verba) prendessero il loro nome da una di queste operazioni, cioè da stimolare (verberare), e i nomi (nomina) dall'altra, cioè da conoscere (noscere)? Così il primo prenderebbe il nome in relazione all'udito e l'altro, il secondo, in relazione all'anima.

Adeodato: — Te lo concederò quando mi avrai mostrato come si possa dire correttamente che tutte le parole sono nomi. Agostino: — E’ facile. Come credo, infatti tu hai imparato e sai che il pronome è così detto perché sta per il nome, anche se denota la cosa con un significato meno completo rispetto al nome. Allo stesso modo, peraltro, ritengo, lo definisce l'autore che hai recitato al maestro di grammatica: il pronome è la parte del discorso che, posta in luogo del nome, ha lo stesso significato, ma meno completo.Adeodato: — Me ne ricordo e approvo. Agostino: — Vedi dunque che, secondo questa definizione, i pronomi possono essere esclusivamente in funzione dei nomi e possono essere usati soltanto al loro posto. Per esempio, in espressioni come "quest'uomo", "il re stesso", "la medesima donna", "quest'oro", "quell'argento", sono pronomi "questo", "lo stesso", "la medesima", "questo" e "quello", mentre sono nomi "uomo", "re", "donna", "oro", "argento". Questi ultimi infatti significano le cose in maniera più completa dei pronomi.

Adeodato: — Vedo e sono d'accordo.

Agostino: — Ora enuncia alcune congiunzioni, secondo le tue preferenze.

Adeodato: — E, anche, ma, altresì.

Agostino: — E non ti pare che siano dei nomi tutti questi termini che hai detto?

Adeodato: — No, affatto.

Agostino: — Per lo meno ti sembra che mi sia espresso correttamente dicendo "tutti questi termini" che hai detto?

Adeodato: — In maniera corretta, sicuramente. Ora comprendo in quale straordinario modo tu mi abbia mostrato che ho enunciato dei nomi, perché altrimenti non si sarebbe potuto dire correttamente "tutti questi termini". Pur tuttavia mi sembra che tu non abbia parlato correttamente, temo, perché ammetto che le quattro congiunzioni sono anche parole; di modo che si è potuto correttamente dire "tutti questi termini" perché si dice correttamente "tutte queste parole". Ma se mi chiedi quale parte del discorso siano le parole, non ti risponderò niente altro che "nome". Quindi il pronome è stato forse aggiunto a questo nome in modo che la tua espressione risultasse corretta. Agostino: — In verità ti sbagli, ma con perspicacia. Per liberarti dall'errore fai maggiore attenzione a ciò che dirò, se pure mi riuscirà di dire ciò che voglio. Trattare le parole con le parole infatti è tanto complicato quanto lo è intrecciare le dita e sfregarle l'una con l'altra; in questo caso a stento uno, a meno che non sia colui che compie questa azione, riesce a distinguere quali dita hanno prurito e quali dita vengono in aiuto di quelle che ce l'hanno. Adeodato: — Sono presente con tutto lo spirito perché il paragone mi ha reso attentissimo. Agostino: — Certamente le parole sono costituite da suoni e da lettere.

Adeodato: — Sì.

Agostino: — Dunque, per servirci di preferenza di quell’autorità che è per noi la più cara, cioè dell'apostolo Paolo quando dice: Nel Cristo non c'era il sì e il no, ma il sì era in lui, non bisogna pensare, credo, che in Cristo vi fossero le due lettere che proferiamo dicendo si, ma piuttosto ciò che da queste due lettere è significato.

Adeodato: — Dici il vero.

Agostino: — Comprendi dunque che chi ha detto il sì era in lui non ha detto niente altro che si chiama sì ciò che era in lui; allo stesso modo, se avesse detto la virtù era in lui, appunto si dovrebbe intendere che non ha detto altro se non che si chiama virtù ciò che era in lui. Non penseremo certo che in lui vi erano le due sillabe che proferiamo quando diciamo virtù e non quello che e da esse significato. Adeodato: — Comprendo e ti seguo. Agostino: — Bene. Non comprendi anche che non c'è differenza se si dice "si chiama virtù" o "si denomina virtù"? Adeodato: — E’ evidente.Agostino: — E’ evidente dunque anche che non c'è nessuna differenza se si dice "si chiama sì" o "si denomina sì" ciò che era in lui.

Adeodato: — Vedo che anche in questo caso non c'è differenza.

Agostino: — Comprendi ormai ciò che voglio mostrare? Adeodato: — Non ancora, in verità. Agostino: — Così non vedi che il nome è ciò con cui si denomina qualche cosa?Adeodato: — Sicuramente, non vedo nulla di più certo. Agostino: — Tu dunque vedi che "sì" è un nome poiché ciò che era in Cristo è chiamato "sì". Adeodato: — Non lo posso negare. Agostino: — Ma se ti chiedessi quale parte del discorso sia il "sì", penso che non diresti che è un nome, ma un verbo, sebbene il ragionamento ci abbia insegnato che è anche un nome. Adeodato: — E’ proprio come tu dici.

Agostino: — Dubiti ancora che le altre parti del discorso siano anche dei nomi nella maniera in cui l'abbiamo dimostrato?

Adeodato: — Non ne dubito, poiché riconosco che significano qualche cosa. Ma se, a proposito delle cose stesse che esse significano, mi chiedi come si chiamino singolarmente, ossia come si denominino, non potrei rispondere che dicendo che sono le parti del discorso che non chiamiamo nomi, ma che, come m'accorgo, siamo costretti a chiamare così.

Agostino: — Non temi che ci possa essere qualcuno che faccia crollare questo nostro ragionamento sostenendo che si deve attribuire agli apostoli autorità in materia di cose, ma non in materia di parole? In tal caso il fondamento della nostra persuasione non sarebbe così saldo come pensiamo. Infatti potrebbe darsi che Paolo, quantunque sia vissuto ed abbia ammaestrato in modo rettissimo, tuttavia si sia espresso poco correttamente dicendo il sì era in lui, tanto più che egli stesso confessa di essere inesperto nel parlare. Come ritieni che si possa ribattere all'autore di questa obiezione? Adeodato: — Non ho alcunché da ribattergli. Ti prego di trovare qualcuno di quelli che sono reputati sommamente esperti in fatto di parole: con la sua autorità tu potrai ottenere meglio ciò che desideri.Agostino: — Dunque la ragione stessa, senza il ricorso alle autorità, non ti sembra abbastanza idonea a dimostrare che tutte le parti del discorso significano qualche cosa e che da ciò esse traggono il loro appellativo. Ma se traggono l'appellativo, si denominano anche, e, se si denominano, sicuramente si denominano dal nome: è facile riscontrarlo nelle diverse lingue. Chi non vede infatti che, se chiedo come i Greci denominino ciò che noi denominiamo "chi'', mi viene risposto tij (tis); come i Greci denominino ciò che noi denominiamo "io voglio" mi viene risposto qhlw (thélo); come i Greci denominino ciò che noi denominiamo "bene", mi viene risposto kalos (kalòs); come i Greci denominino ciò che noi denominiamo "scritto", mi viene risposto to gegrammhnwn (to ghegramménon); come i Greci denominino ciò che noi denominiamo "e", mi viene risposto kai (kài); come i Greci denominino ciò che noi denominiamo "da", mi viene risposto apo (apò); come i Greci denominino ciò che noi denominiamo "oh!", mi viene risposto wi (oi)? E per tutte le parti del discorso che ho ora elencate si esprime correttamente chi pone la domanda nel modo indicato, la qual cosa non sarebbe possibile se non fossero nomi. Dunque, poiché possiamo provare con questo ragionamento che l'apostolo Paolo ha parlato correttamente e possiamo farlo indipendentemente dall’autorità di tutti gli esperti in fatto di parola, che bisogno c'è di cercare una persona illustre per rafforzare la nostra tesi? Ma ci può essere qualcuno troppo restio o troppo ostinato che ancora non si piega, dichiarando che in nessun modo si piegherà se non a quelle persone alle quali, per universale consenso, si attribuisce autorità nelle regole del dire. Che cosa di più autorevole di Cicerone si può trovare nella lingua latina? Ora Cicerone, nelle sue famosissime orazioni che portano il nome di Verrine, designò come nome la preposizione "davanti" (che tuttavia in quel passo è usata come avverbio). Ma può darsi che io non intenda troppo bene quel passo e che esso sia spiegato in modo diverso da me e da altri; perciò eccone un altro nei confronti del quale, penso, non si può obiettare nulla. I più reputati maestri di dialettica insegnano che una proposizione completa, che può essere affermativa o negativa, consta di un nome e di un verbo: è ciò che Tullio in un passo chiama enunciato. E quando si ha il verbo alla terza persona, dicono che il caso del nome deve essere il nominativo e dicono bene. Se dunque consideri la questione con me, riconosci, come credo, che, quando diciamo "l'uomo siede", "il cavallo corre", si hanno due enunciati. Adeodato: — Lo riconosco. Agostino: — Vedi che in ciascuno di essi c'è un nome — "uomo" nel primo, "cavallo" nel secondo — e un verbo — "siede" nel primo, "corre" nel secondo.

Adeodato: — Lo vedo.

Agostino: — Dunque, se dicessi soltanto "siede" o soltanto "corre", giustamente mi chiederesti chi o che cosa; infatti dovrei rispondere l'uomo o il cavallo o l'animale o qualsiasi altra cosa in modo che il nome congiunto al verbo completi l'enunciato, cioè la proposizione che può essere affermativa o negativa.

Adeodato: — Comprendo.

Agostino: — Fai ancora attenzione. Supponi che vediamo qualche cosa in lontananza e siamo incerti se si tratti di un animale o di un sasso o di qualche altra cosa; se io ti dico: "Poiché è un uomo, è un animale", non parlerei in modo avventato? Adeodato: — Senza dubbio: ma non parleresti in modo avventato se dicessi "se è un uomo, è un animale''.

Agostino: — Hai ragione. Pertanto nella tua frase il "se" piace tanto a me che a te, mentre nella mia il "poiché'' dispiace a tutti e due.

Adeodato: — Sono d’accordo.

Agostino: — Considera ora se queste due proposizioni, "se piace" e "poiché dispiace", siano enunciati completi. Adeodato: — Certamente lo sono.

Agostino: — Dimmi ora quali sono i verbi e quali i nomi in questi enunciati.

Adeodato: — Secondo me i verbi sono "piace" e "dispiace"; quanto ai nomi, quali altri se non "se" e "poiché"?

Agostino: — Quindi è sufficientemente provato che queste due congiunzioni sono anche nomi?

Adeodato: — Di certo, in modo sufficiente.

Agostino: — Sei in grado, da solo, di mostrare la medesima cosa secondo la medesima regola per le altre

parti del discorso?

Adeodato: — Sì.

 

 


 

I SINONIMI

Agostino: - Andiamo avanti dunque. Fin qui abbiamo trovato che tutte le parole sono nomi e tutti i nomi sono parole; ora dimmi se, a tuo avviso, anche tutti i nomi sono vocaboli e tutti i vocaboli sono nomi.

Adeodato: - In verità non vedo quale altra differenza ci sia fra queste cose all’infuori di quella del suono delle sillabe.

Agostino: - Per ora non avanzo obiezioni, sebbene non manchino quelli che vi ravvisano anche una differenza di significato. Ma per il momento non è il caso di prendere in considerazione questa opinione. Sicuramente però ti rendi conto che ormai siamo giunti ai segni che si significano reciprocamente, senza altra distinzione che quella del suono, e che significano se stessi insieme a tutte le altre parti del discorso.

Adeodato: - Non comprendo.

Agostino: - Dunque non comprendi che il nome è significato dal vocabolo e il vocabolo dal nome e ciò in modo tale che, escluso il suono delle lettere, non c'è nessuna differenza per quel che concerne il nome preso in senso generale? Invece, per quel che riguarda il nome preso in senso speciale, esso è una delle otto parti del discorso che, come tale, però non contiene le altre sette.

Adeodato: - Ora comprendo.

Agostino: - Ma è quanto ho detto, che cioè vocabolo e nome si significano reciprocamente.

Adeodato: - Comprendo, ma ti chiedo cosa hai inteso dire aggiungendo che significano se stessi insieme con le altre parti del discorso.

Agostino: - Il precedente ragionamento non ci ha forse insegnato che tutte le parti del discorso possono essere dette sia nomi che vocaboli, cioè possono essere significate tanto dal nome quanto dal vocabolo.

Adeodato: – Sì.

Agostino: – Bene. E se ti chiedessi come chiami il nome, cioè questo suono espresso con due sillabe, non mi risponderesti correttamente che lo chiami "nome"?

Adeodato: - Esatto.

Agostino: - Ma forse anche il segno di quattro sillabe che pronunciamo quando diciamo "congiunzione" significa se stesso in questo modo? No, perché questo nome non può essere posto fra le congiunzioni che significa.

Adeodato: - Lo ammetto.

Agostino: - E questo è quanto abbiamo detto affermando che il nome significa se stesso insieme con le altre cose che significa. E ciò, come puoi comprendere da te stesso, vale anche per il vocabolo.

Adeodato: – E’ facile ormai; mi viene in mente tuttavia che il nome si intende in senso generale e in senso specifico, mentre il vocabolo non rientra tra le otto parti del discorso. Perciò ritengo che vi sia qualche altra differenza tra loro, oltre alla diversità del suono.

Agostino: - Ma tu pensi che tra nomen e on o m a (ònoma) vi sia qualche altra differenza oltre a quella del suono per cui anche la lingua latina si distingue da quella greca?

Adeodato: - In questo caso in verità non vedo altra differenza.

Agostino: - Dunque siamo arrivati a quei segni che significano se stessi e che si significano reciprocamente l'uno con l'altro, e ciò che è significato dall'uno lo è anche dall'altro, per cui differiscono tra loro soltanto per il suono. Questo quarto caso l'abbiamo trovato ora; i tre precedenti riguardano il nome e la parola.

Adeodato: - Ci siamo veramente arrivati.

 


 


RIASSUNTO

Agostino: - Ora vorrei che tu mi riassumessi ciò che abbiamo trovato con la conversazione.

Adeodato: - Lo farò, per quanto mi è possibile. Mi ricordo che, in primo luogo, abbiamo cercato per un po' la ragione per cui si parla e abbiamo trovato che lo si fa per insegnare o per far ricordare, poiché anche quando interroghiamo non perseguiamo altro scopo che quello di insegnare, a colui che interroghiamo, ciò che vogliamo udire. Poi abbiamo trovato che il cantare, che pare che facciamo per diletto, non appartiene in senso proprio al discorso. Infine abbiamo trovato che, quando preghiamo Dio, che non possiamo pensare che impari o si ricordi di qualche cosa, le parole rispondono alla funzione o di ammonire noi stessi o di far sì che altri ricordino o imparino qualche cosa per mezzo nostro. Poi, dopo aver bene accertato che le parole sono segni e che non può essere segno ciò che non significa qualche cosa, tu mi hai proposto un verso perché io tentassi di mostrare cosa significhino le singole parole. Il verso era: Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui.

Ora, di tale verso non riusciamo a trovare cosa significasse la seconda parola (nihil), sebbene fosse ben nota e chiara. Giacché però mi pareva che non la inserissimo inutilmente nel parlare, ma in quanto con essa insegniamo qualche cosa all'ascoltatore, tu hai risposto che con questa parola forse si indica la disposizione dello spirito che cerca una cosa e che trova o ritiene di aver trovato che non esiste. Ma poi, evitando con una battuta non so qual profonda questione, ne hai rimandato il chiarimento a un'altra circostanza; non credere comunque che io mi sia dimenticato dell'impegno che hai preso.

Quindi, essendo intento a spiegare la terza parola (ex) del verso, mi sollecitavi a mostrarti la cosa stessa significata dalla parola anziché un'altra parola del medesimo significato. Avendo io detto che ciò era impossibile conversando, siamo venuti a parlare di quelle cose che si mostrano con il dito agli interlocutori. Ritenevo che tali fossero tutti gli oggetti corporei, invece abbiamo trovato che lo sono soltanto gli oggetti visibili. Quindi, non so come, siamo venuti a parlare dei sordi e dei mimi, i quali significano con i gesti, senza la voce, non solo gli oggetti che si possono vedere, ma molti altri e quasi tutto ciò che esprimiamo con le parole.

Ma abbiamo scoperto che anche i gesti sono segni. Allora abbiamo ricominciato a cercare in che modo possiamo mostrare senza alcun segno le cose stesse che sono significate dai segni, dal momento che non si può negare che quella parete, il colore e ogni oggetto visibile che viene mostrata tendendo il dito, sono mostrati con un segno. A questo punto, siccome dicevo sbagliando che era impossibile trovare qualche cosa di simile, ci siamo travati d'accordo nel sostenere che possiamo mostrare senza segni gli atti che non compiamo nel momento in cui ce li chiedono e che possiamo compiere dopo. Il linguaggio però non appartiene a questo genere di cose, perché è apparso abbastanza chiaramente che, se qualcuno ci chiede cosa sia il parlare mentre stiamo parlando, è facile mostrarglielo mediante l’atto stesso.

Abbiamo così imparato che si mostrano segni con segni o, sempre con segni, cose che segni non sono, oppure, senza segno, cose che possiamo compiere dopo che ne siamo stati richiesti. Di questi tre casi abbiamo cominciato a esaminare e discutere in modo più approfondito il primo. Dalla discussione è risultato chiaro quanto segue: che ci sono alcuni segni che non possono essere a loro volta significati dai segni che essi significano, come è il caso del quadrisillabo "congiunzione"; che ce ne sono altri che possono esserlo, come nel caso in cui diciamo "segno" e significhiamo anche parola e diciamo "parola" e significhiamo anche segno, perché "segno" e "parola" sono tanto due segni quanto due parole. É risultato manifesto anche che, in questa categoria in cui i segni si significano a vicenda, alcuni hanno un valore semantico non equivalente, altri sì e altri ancora hanno identico valore semantico. Infatti il bisillabo che proferiamo dicendo "segno" significa senz'altro tutto ciò con cui una cosa è significata, invece il trisillabo che proferiamo dicendo "parola" non è un segno di tutti i segni, ma soltanto di quelli che si proferiscono mediante la voce articolata. Da ciò appare chiaro che, quantunque la parola sia significata dal segno e il segno dalla parola, cioè il trisillabo sia significato dal bisillabo e viceversa, tuttavia il segno ha un valore semantico più esteso della parola, poiché le sue due sillabe significano più cose delle tre sillabe di "parola". Hanno invece un valore semantico equivalente la parola in senso generale e il nome in senso generale. Il ragionamento infatti ci ha insegnato che tutte le parti del discorso sono nomi perché ad essi si possono associare i pronomi, inoltre che di tutte le parti del discorso si può dire che denominino qualche cosa e nessuna è tale che, con l'aggiunta di un verbo, non possa dar luogo a un enunciato completo.

Ma, benché il nome e la parola abbiano un valore semantico equivalente, perché tutti i segni che sono parole sono anche nomi, non per questo tuttavia hanno un identico valore semantico. In modo abbastanza probabile abbiamo messo in luce che sono diverse le ragioni per cui sono chiamati parole e nomi; appunto abbiamo trovato che il primo termine (verbum) si riferisce alla percussione (verberatio) dell'orecchio e il secondo (nomen) al richiamo del ricordo (commemoratio) nell'animo. Lo si può comprendere peraltro dal fatto che, nel parlare molto correttamente diciamo: "Qual è il nome di questa cosa?" quando vogliamo affidarla alla memoria, e invece non abbiamo l’abitudine di dire: "Quale è la parola di questa cosa?". Infine, fra i segni che hanno non solo un valore semantico equivalente, ma anche identico e che differiscono tra loro soltanto per il suono delle lettere, abbiamo trovato nome e on o m a (ónoma). In verità mi era sfuggito che, nella categoria dei segni che si significano a vicenda, non ne abbiamo trovato nessuno che, tra le altre cose, significhi anche se stesso.

Questo è quanto ho potuto ricordare. Tu, che in questa conversazione, penso, non hai detto nulla che non sapessi e di cui non fossi certo, ormai potrai vedere se ho riferito bene e in modo ordinato.

 

 


 

I SEGNI E LE COSE

21. Agostino: - Hai ricordato abbastanza bene ciò che volevo e, lo confesso, queste distinzioni ora mi appaiono in modo molto più evidente di quando, cercando e discutendo, le tiravamo fuori da non so quale luogo nascosto. Ma, al punto in cui siamo, è difficile a dirsi dove io cerchi di giungere insieme a te attraverso giri tanto tortuosi. Tu forse credi che stiamo giocando e distogliendo lo spirito dalle cose serie con alcune questioncelle puerili o che stiamo trattando problemi di scarsa o limitata utilità; oppure, se prevedi che da questa discussione possa scaturire qualche cosa di importante, ormai desideri saperla subito o almeno vuoi sentirne parlare. Vorrei piuttosto che credessi che con questo discorso non ho inteso dar luogo a giochetti di poco valore perché, anche se può darsi che stiamo giocando, tuttavia la cosa non va valutata in senso puerile; inoltre, non sto pensando a beni di piccola o mediocre qualità.

Pertanto, se ti dico che è proprio la vita beata e sempiterna la meta alla quale, con la guida di Dio, cioè della verità stessa, vorrei che fossimo condotti per tappe successive, adatte al nostro debole piede, temo di apparire ridicolo, dal momento che ho intrapreso un tale cammino a partire non già dalle cose stesse che sono significate, ma dai segni. Mi perdonerai dunque se ti propongo alcuni esercizi preparatori: non lo faccio per il gusto di giocare, ma per esercitare le forze e l'acutezza della mente in modo da poter con esse non solo tollerare, ma anche amare il calore e la luce di quella regione in cui regna la vita beata.

Adeodato: - Continua pure come hai cominciato; non penserei mai che sia da disprezzare quanto hai ritenuto bene dire o fare.

Agostino: - Su, ora dunque consideriamo quella parte relativa ai segni che non significano altri segni, ma gli oggetti che chiamiamo significabili. E dimmi prima di tutto se l'uomo è uomo.

Adeodato: - A questo punto davvero non so se stia scherzando.

Agostino: - E perché?

Adeodato: - Perché ritieni di dovermi chiedere se l'uomo è altra cosa da un uomo.

Agostino: - Credo che riterresti che mi prenda gioco di te anche qualora ti chiedessi se la prima sillaba di questo nome è altra cosa da "uo" e la seconda altra cosa da "mo".

Adeodato: - Proprio così.

Agostino: - Ma tu negheresti che queste due sillabe congiunte danno "uomo".

Adeodato: - E chi lo negherebbe?

Agostino: - Ti chiedo dunque se tu sei queste due sillabe congiunte.

Adeodato: - No di certo; ma vedo dove vuoi arrivare.

Agostino: - Dillo pure, affinché non pensi che io voglia oltraggiarti.

Adeodato: - Tu ritieni di poter concludere che io non sono un uomo.

Agostino: - E che? Non sei anche tu della medesima opinione, dal momento che haí ammesso che sono vere tutte le precedenti affermazioni che conducono a questa conclusione?

Adeodato: - Non ti dirò ciò che penso prima di aver udito da te se, nel chiedermi se l'uomo è uomo, mi interrogavi su queste due sillabe o su ciò che esse significano.

Agostino: - Rispondi tu piuttosto in quale senso hai inteso la mia domanda: giacché, se è equivoca, tu dovevi stare in guardia e non rispondermi prima di essere certo in merito al senso della mia richiesta.

Adeodato: - Quale difficoltà poteva procurarmi questo equivoco, dal momento che ho risposto tanto in riferimento all'uno quanto in riferimento all'altro senso? Infatti in ogni modo l'uomo è uomo, perché queste due sillabe non sono altro che queste due sillabe e ciò che esse significano non è altro che ciò che è.

Agostino: - La risposta è certamente giudiziosa; ma perché hai preso nei due sensi soltanto il termine "uomo" e non anche tutte le altre parole di cui abbiamo parlato?

Adeodato: - In base a che cosa dovrei convincermi che non ho preso così anche le altre parole?

Agostino: - Per tralasciare il resto, se tu avessi preso la mia prima domanda esclusivamente nel senso del suono delle sillabe, non mi avresti risposto nulla: ti sarebbe potuto sembrare anche che non ti avessi posto alcuna domanda. Ma, quando ho pronunciato le tre parole e ho ripetuto quella di mezzo chiedendo se l'uomo è uomo, tu hai preso la prima o l'ultima non come segni ma come ciò che essi significano. Ciò risulta evidente dal fatto che hai ritenuto di dover rispondere subito, con prontezza e sicurezza, alla mia domanda.

Adeodato: - Dici il vero.

Agostino: - Perché dunque ti è piaciuto considerare solo la parola di mezzo sia dal punto di vista del suono che dal punto di vista del significato?

Adeodato: - Ecco, ora prendo in considerazione l’intera frase dal punto di vista del significato; infatti sono d'accordo con te che è assolutamente impossibile discutere se l'anima, nell'udire le parole, non si rivolge alle cose di cui esse sono segni. Perciò mostrami come sono stato tratto in inganno da questo ragionamento la cui conclusione è che io non sono un uomo.

Agostino: - No, piuttosto ti ripropongo la domanda in modo che tu possa scoprire da solo dove ti sei sbagliato.

Adeodato: - Fai bene.

Agostino: - Non ti chiederò quello che ti ho chiesto prima, perché me lo hai già concesso. Considera dunque più attentamente se la sillaba "uo" non è niente altro che "uo" e se la sillaba "mo" non è niente altro che "mo".

Adeodato: - Invero non ci vedo altro.

Agostino: - Considera anche se si ha "uomo" congiungendo le due sillabe.

Adeodato: - Mai te lo concederei. Abbiamo ammesso e a buon diritto che, dato un segno, si rivolge l'attenzione a ciò che esso significa e che dalla sua analisi si dà luogo a un enunciato affermativo o negativo. Invece, per quel che riguarda le due sillabe pronunciate separatamente, poiché esse risuonano senza alcun significato, abbiamo già concesso che valgono soltanto come suoni.

Agostino: - Tu dunque ammetti e ritieni per certo che alle domande si deve rispondere soltanto facendo riferimento alle cose che sono significate dalle parole?

Adeodato: - Non vedo perché non dovrebbe essere così, dal momento che si tratta di parole.

Agostino: - Vorrei sapere quali obiezioni opporresti a colui del quale si sente spesso dire per scherzo che aveva concluso la sua argomentazione sostenendo che un leone era uscito dalla bocca del suo interlocutore. Infatti aveva chiesto a quest'ultimo se ciò che esprimiamo a parole esce dalla nostra bocca; l'interlocutore non l`aveva potuto negare; quindi fece in modo - e ciò gli fu facile - che nel parlare egli nominasse il "leone". Ciò fatto, cominciò scherzosamente a deriderlo e a incalzarlo in modo che, avendo egli ammesso che tutto ciò che diciamo esce dalla nostra bocca e non potendo negare dì aver pronunciato la parola "leone", sembrava che quel brav'uomo avesse vomitato una bestia tanto feroce.

Adeodato: - In verità non sarebbe stato affatto difficile replicare a quel buffone: non gli avrei concesso che tutto ciò che diciamo esce dalla nostra bocca. Ciò che diciamo infatti lo esprimiamo con segni; ora, dalla bocca di colui che parla non esce la cosa che è significata, ma il segno con cui è significata, a eccezione del caso di cui abbiamo trattato poco fa, cioè quando si significano i segni stessi.

Agostino: - In questo modo avresti risposto bene a quell'uomo. Ma, come mi risponderai se ti chiedo: "uomo" è un nome?

Adeodato: - E che altro è se non un nome?

Agostino: - Ma allora, quando ti vedo, è un nome che vedo?

Adeodato: - No.

Agostino: - Vuoi dunque che dica che cosa ne consegue?

Adeodato: - Per favore, no; infatti io stesso ho dichiarato che non sono un uomo, rispondendoti che è un nome quando mi hai chiesto se uomo è un nome. Del resto avevamo già stabilito che è a partire dalla cosa significata che si ha enunciato affermativo o negativo.

Agostino: - Mi sembra tuttavia che non ti sia imbattuto invano in questa risposta: è la legge stessa della ragione, impressa nelle nostre menti, che ha vinto la tua vigilanza. Infatti, se ti chiedessi che cosa è l’uomo, tu forse risponderesti che è un animale; se invece ti chiedessi che parte del discorso è "uomo", in nessun altro modo mi potresti rispondere correttamente se non dicendo che è un nome. Così, poiché troviamo che uomo è sia nome che animale, diciamo che è nome dal punto di vista del segno e animale dal punto di vista del significato. Dunque a chi chiede se uomo è un nome, gli dovrei rispondere che lo è perché fa capire abbastanza chiaramente che vuole una risposta dal punta di vista del segno; se invece chiede se è un animale, gli risponderei affermativamente con maggiore spontaneità. Infatti, se mi chiedesse soltanto che cosa è l’uomo senza parlare di nome o di animale, la mente, per quella regola del linguaggio da noi condivisa, si porterebbe subito sull'oggetto significato dalle due sillabe e non risponderebbe altro che è un animale o, piuttosto, ne darebbe l'intera definizione, e cioè che é un animale razionale mortale. Non sei di questo avviso?

Adeodato: - Certamente sono di questo avviso. Ma, quando avremo concesso che è un nome, come potremo evitare quella conclusione troppa offensiva secondo cui non siamo uomini?

Agostino: - Come, pensi, se non dimostrando che la conclusione non è tratta dal nostro modo di rispondere affermativamente all'interlocutore? Del resto non c'è affatto da paventare neppure se dichiara di trarla da tale risposta; infatti perché dovrei temere di ammettere che non sono uomo, cioè che non sono queste due sillabe?

Adeodato: - Niente di più vero. Ma allora perché suona offensivo per l’animo quando sente dire "tu dunque non sei un uomo", dal momento che, secondo ciò che si è ammesso, non si potrebbe dire niente di più vero?

Agostino: - Perché, non appena le parole risuonano, sono indotto a pensare che la conclusione si riferisce a ciò che è significato da queste due sillabe, conformemente alla regola, che naturalmente ha grande valore, per la quale la mente, percepiti i segni, si porta subito sulle cose significate.

Adeodato: - Accetto ciò che dici.

 

 


 

I SEGNI E LA CONOSCENZA DELLE COSE

Agostino: - Parimenti vorrei che tu comprendessi che le cose significate valgono di più dei segni. Infatti tutto ciò che è per altro, necessariamente vale di meno rispetto a ciò per cui è. A meno che tu non sia di diversa opinione.

Adeodato: - Mi pare che in proposito non si debba acconsentire troppo in fretta; infatti, se diciamo "melma" (coenum), penso che questo nome sia di gran lunga superiore alla cosa che significa. Il fatto che, nell'udirlo, provochi disgusto non dipende dal suono della parola, anche perché coenum, in quanto nome, cambiata una sola lettera, diventa coelum (cielo).

Ma noi sappiamo quanto sia grande la differenza che c'è fra le cose significate da questi nomi. Pertanto non attribuirei mai al segno coenum ciò che detestiamo nella cosa che esso significa e appunto per questo lo reputo superiore alla cosa. Non è un caso dunque che udiamo più volentieri questo segno che non percepiamo la cosa con qualcuno dei sensi.

Agostino: - Dai prova di grande perspicacia. E’ falso dunque che tutte le cose valgono di più dei loro segni?

Adeodato: - Sì, così sembra.

Agostino: - Dimmi allora che cosa hanno avuto di mira, secondo te, coloro che hanno imposto un nome a una cosa tanto brutta e spregevole. Per dirla diversamente, li approvi o li disapprovi?

Adeodato: - Da parte mia non oso né approvarli né disapprovarli, e non so neppure a che cosa mirassero. Agostino: - Sai tu almeno che cosa hai di mira quando pronunci questo nome?

Adeodato: - Questo sì, certamente. Infatti intendo dare un segno per insegnare o far ricordare al mio interlocutore ciò che ritengo opportuno apprenda o ricordi.

Agostino: - E che? L'insegnare o il far ricordare oppure l'apprendere o il ricordare, che con questo nome tu puoi facilmente offrire o ricevere, non si devono ritenere di maggior valore del nome stesso?

Adeodato: - Concedo che anche la conoscenza ottenuta mediante tale segno è da preferire al segno, ma non per questo penso che sia così anche per la cosa.

Agostino: - Dunque, secondo la nostra tesi, mentre è falso che tutte le cose devono essere preferite ai loro segni, non è falso invece che tutto ciò che è per altro vale di meno di ciò per cui è. La conoscenza della melma appunto, per la quale questo nome è stato istituito, è da preferirsi al nome stesso che, a sua volta, come abbiamo stabilito, è da preferirsi alla melma stessa. E infatti per nessun altro motivo la conoscenza è da preferire al segno di cui si tratta se non perché è provato che il segno è per essa e non essa per il segno. Così è avvenuto per un divoratore o cultore del ventre, come lo chiama l'Apostolo, il quale diceva che viveva per mangiare. Un uomo sobrio che l'ascoltava non riuscì a sopportarlo e gli replicò: "Quanto sarebbe meglio che mangiassi per vivere". In ogni caso entrambi parlavano in base a questa medesima regola. Non per altro infatti il ghiottone fu rimproverato se non perché, col dire che viveva per il cibo, dava prova di stimare così poco la vita da considerarla di minor valore dei piaceri della gola. E se si loda giustamente l'uomo sobrio, lo si fa perché, comprendendo quale delle due cose si dovrebbe compiere per l'altra, cioè quale si dovrebbe subordinare all'altra, ammonì che si deve mangiare per vivere piuttosto che vivere per mangiare.

Allo stesso modo, a un chiacchierone amante delle parole che dicesse: "Insegno per parlare", forse anche tu e chiunque altro capace di giudicare rettamente le cose rispondereste: "Buon uomo, perché piuttosto non parli per insegnare?". Se ciò è vero e tu sai che lo è, vedi certamente quanto siano da considerare di minor pregio le parole rispetto a ciò per cui le usiamo. Il loro stesso uso, peraltro, è da preferire alle parole, perché le parole sono fatte per usarle e noi appunto le usiamo per insegnare. Di quanto dunque l'insegnare è migliore del parlare, di tanto il linguaggio è migliore delle parole. Di conseguenza il contenuto dell'insegnamento (doctrina) è di gran lunga migliore delle parole. Ma io vorrei sentire se per caso tu abbia qualche cosa da ribattere.

Adeodato: - Ammetto che il contenuto dell'insegnamento è migliore delle parole: ma non so se non ci sia nulla da obiettare contro la regola per cui tutto ciò che è per altro vale di meno rispetto a ciò per cui è.

Agostino: - Ne tratteremo in maniera più adeguata e approfondita un'altra volta; per ora quello che tu ammetti è sufficiente per ciò che cerco di stabilire. Tu concedi che la conoscenza delle cose ha maggior valore dei loro segni; pertanto non ti pare che la conoscenza delle cose che sono significate è da preferirsi alla conoscenza dei segni?

Adeodato: - Ma davvero ho concesso che la conoscenza delle cose è superiore alla conoscenza dei segni o non piuttosto che è superiore ai segni stessi? Su questo punto perciò esito a essere d'accordo con te. Forse che, se il nome "melma" è da preferirsi alla cosa che significa, anche la conoscenza di questo nome è da preferirsi alla conoscenza di questa cosa, sebbene il nome di per sé sia inferiore a questa conoscenza? In effetti quattro sono i termini: il nome e la cosa, la conoscenza del nome e la conoscenza della cosa. Siccome il primo è superiore al secondo, perché il terzo non dovrebbe esserlo rispetto al quarto? Ma, qualora non lo sia, per questo deve essere inferiore?

Agostino: - Vedo che hai tenuto presente in modo veramente mirabile quello che hai concesso e hai chiarito quanto pensavi. Ma, come credo, comprendi che questo nome di due sillabe che risuona dicendo "vizio" è superiore rispetto a ciò che significa, mentre la conoscenza di tale nome è di gran lunga inferiore rispetto alla conoscenza dei vizi. Ammesso che proponi alla considerazione i quattro elementi e cioè nome e cosa, conoscenza del nome e conoscenza della cosa: a buon diritto noi preferiamo il primo al secondo. Questo nome infatti, nel poema di Persio in cui si dice: "Ma costui è istupidito dal vizio", non solo non introduce alcunché di vizioso nel verso, ma anzi gli conferisce un certo ornamento, sebbene la cosa significata da questo nome, quale che sia il soggetto in cui si trova, lo renda inevitabilmente vizioso. Ma non va così per il terzo termine rispetto al quarto: vediamo che il quarto eccelle sul terzo. La conoscenza di questo nome infatti è di poco valore rispetto alla conoscenza dei vizi.

Adeodato: - E questa conoscenza, secondo te, è ancora da preferirsi anche se rende più infelici? Persio, fra tutte le pene che la crudeltà dei tiranni ha escogitato o la loro cupidigia fa scontare, considera superiore solo quella da cui sono tormentati gli uomini, costretti a riconoscere i vizi che sono incapaci di evitare.

Agostino: - Con questo modo di ragionare tu puoi dire che neppure la conoscenza delle virtù è da preferirsi alla conoscenza del nome relativo, perché vedere una virtù e non possederla è un supplizio con cui il medesimo poeta satirico si è augurato che fossero puniti i tiranni.

Adeodato: - Dio ci scampi da questa follia. Ormai comprendo che non si deve dare la colpa alle conoscenze in se stesse, attraverso le quali l'istruzione più alta e completa riempie l'anima; inoltre che gli uomini affetti da una malattia tale che, contro di essa, non possono giovarsi neppure di un rimedio così efficace, si devono considerare come i più miseri di tutti. Credo che anche Persio fosse di questo avviso.

Agostino: - Hai ben compreso; ma quale che sia l'opinione di Persio a noi cosa importa? In questa materia infatti non siamo soggetti all'autorità di queste persone. D'altronde qui non è facile spiegare se una conoscenza è da preferirsi a un'altra. Per ora mi è sufficiente quello che si è raggiunto, ossia che la conoscenza delle cose che sono significate, anche se non è migliore della conoscenza dei segni, tuttavia lo è dei segni stessi. Ora perciò esaminiamo più in dettaglio quale sia il genere di cose che, come dicevamo, si possono mostrare per se stesse, senza segni, come parlare, passeggiare, sedere, giacere e simili.

Adeodato: - Mi ricordo di ciò che si tratta.

 

 


 

LE COSE PRECEDONO I SEGNI

Agostino: - Secondo te, si possono mostrare senza segno tutte le azioni che siamo in grado di compiere subito dopo che siamo stati interrogati in proposito, o hai qualche eccezione da fare?

Adeodato: - Io, in verità, considerando e riconsiderando tutto questo genere di azioni, non ho trovato ancora niente che si possa insegnare senza segno, a eccezione forse del linguaggio e dell'insegnare, se per caso qualcuno ci chiede cosa sia l'atto di insegnare. Vedo infatti che qualunque atto io compirò per istruire qualcuno, dopo la sua richiesta, non potrò allontanarmi dalla cosa stessa che desidera che gli sia mostrata. Giacché, come si è detto, se qualcuno mi chiede cosa sia camminare quando ho finito di camminare o sto facendo altro e io tento di insegnargli senza segno ciò che mi ha chiesto mettendomi subito a camminare, come potrò metterlo in guardia dal pensare che il camminare si riduce unicamente a quel tanto che avrò camminato? Se pensa così, si ingannerà perché riterrà che non abbia camminato chiunque avrà camminato più o meno di me. E quello che ho detto di questa parola vale per tutto ciò di cui ho ammesso che si può mostrare senza segno, a eccezione dei due casi che abbiamo escluso.

Agostino: - Su ciò sono d'accordo; ma non ti pare che altro è parlare e altro insegnare?

Adeodato: - Certamente, perché, se fossero la medesima cosa, non si insegnerebbe che parlando; ma poiché insegniamo molte cose con altri segni oltre che con le parole, chi potrebbe dubitare di questa differenza?

Agostino: - E che, insegnare e significare non differiscono affatto o differiscono in qualche cosa?

Adeodato: - Penso che siano la medesima cosa.

Agostino: - Non si esprime correttamente chi dice che noi facciamo dei segni per insegnare?

Adeodato: - Certo, parla in modo corretto.

Agostino: - Bene. E se un altro dicesse che noi insegniamo per fare dei segni, non sarebbe facile smentirlo sulla base del principio stabilito sopra?

Adeodato: - Sì.

Agostino: - Se dunque facciamo dei segni per insegnare e non insegniamo per fare dei segni, altro è insegnare e altro è fare dei segni.

Adeodato: - Dici il vero ed erroneamente ho risposto che si tratta della medesima cosa.

Agostino: - Ora rispondi a questa domanda: chi insegna cosa sia insegnare lo fa facendo dei segni o in altro modo?

Adeodato: - Non vedo come sia possibile in altro modo.

Agostino: - È dunque errato ciò che hai detto poco fa, ossia che si può insegnare la cosa senza segni quando si chiede cosa sia l'insegnare. Vediamo infatti che neppure ciò si può fare senza segni dal momento che hai concesso che altro è fare dei segni e altro è insegnare. Se infatti sono due atti diversi, come è evidente, e se l'uno non può essere mostrato che mediante l'altro, vuol dire che esso non si mostra da sé, come ti era sembrato. Finora dunque non abbiamo trovato nulla che possa mostrarsi da se stesso all'infuori del linguaggio che, fra le altre cose, significa anche se stesso. Ma siccome anche il linguaggio è un segno, non c'è assolutamente nulla che, come sembra, si possa insegnare senza segni.

Adeodato: - Non ho alcun motivo per dissentire.

Agostino: - Da quanto detto dunque risulta che niente si può insegnare senza segni e che la conoscenza in sé è per noi più pregevole dei segni con cui conosciamo, sebbene non tutti gli oggetti che sono significati possano essere migliori dei loro segni.

Adeodato: - Mi pare che sia così.

Agostino: - Ma dimmi. Ricordi quanti giri abbiamo compiuto per ottenere un risultato così modesto? Infatti, da quando abbiamo cominciato a scagliarci contro le parole - ed è molto che lo facciamo -, ci siamo affannati per trovare le risposte a questi tre problemi: se si può insegnare qualche cosa senza segni; se ci sono segni che sono da preferire alle cose che essi significano; e se la conoscenza stessa delle cose è preferibile ai segni. Ma c'è una quarta questione su cui vorrei avere in breve una tua opinione, e cioè se, secondo te, le soluzioni che abbiamo trovato sono tali che ormai non se ne può più dubitare.

Adeodato: - Avrei voluto in verità che, dopo tanti giri e tortuosità, si fosse giunti a risultati certi; ma questa tua ultima domanda, non so come, mi inquieta e non mi consente di dare l'assenso. Mi sembra infatti che non me l'avresti posta se non avessi qualche cosa da obiettare. La complessità stessa delle cose mi impedisce di esaminare l'insieme e di rispondere con sicurezza; temo appunto che, fra tante pieghe, si nasconda qualche cosa su cui l'acutezza della mia mente non è in grado di far luce.

Agostino: - Accolgo con piacere la tua esitazione perché è il segno di uno spirito non avventato ed è la più grande salvaguardia della tranquillità intellettuale. E’ infatti assai difficile non turbarsi quando le opinioni che accettavamo con spontanea e piena adesione crollano di fronte a dimostrazioni in senso contrario e ci vengono quasi strappate dalle mani. Pertanto, come è bene cedere di fronte ad argomenti ben considerati e attentamente esaminati, così è pericoloso ritenere per conosciuto ciò che non lo è. C'è da temere appunto che, poiché spesso vengono demolite opinioni che si presumevano stabili e durature, cadiamo in tale avversione o tale apprensione nei confronti della ragione, che riteniamo di non dover prestare fede neppure alla verità più evidente.

Ma su, ora esaminiamo con l'animo più libero se a buon diritto hai ritenuto di dover dubitare. Ti pongo una questione. Supponi che un tale, inesperto della caccia agli uccelli che si pratica con panie e visco, s'imbatta in un uccellatore, naturalmente armato dei suoi strumenti, ma che non intende servirsene e procede per la sua strada. A questa vista il nostro uomo tratterrà il passo e, meravigliandosi, come capita, rifletterà fra sé e si chiederà a che cosa possa servire quell'attrezzatura. L'uccellatore, vedendosi osservato, per il desiderio di mettersi in mostra preparerà le canne e poi, scoperto nelle vicinanze un uccelletto, con il fusto di una canna e con il falcone lo immobilizzerà, gli metterà le mani sopra e lo catturerà. Quest'uomo non ha insegnato a colui che lo osserva ciò che voleva sapere, senza ricorrere ad alcun segno ma mediante la cosa stessa?

Adeodato: - Temo che si tratti di qualche cosa di simile a ciò che ho detto di colui che chiede che cosa sia camminare. Vedo che neanche nel caso della cattura degli uccelli l'operazione è stata mostrata nella sua totalità.

Agostino: - E' facile liberarti da questa preoccupazione. Aggiungo la clausola che l'osservatore sia abbastanza intelligente da capire tutta intera questa tecnica a partire da ciò che vede. Giacché, per il nostro assunto, è sufficiente che, se non tutte le cose, almeno alcune possano essere insegnate senza segni ad alcuni uomini.

Adeodato: - Ma anch'io posso aggiungere una clausola: se è abbastanza intelligente, una volta che gli è stato indicato con pochi passi cosa è il camminare, capirà in che cosa consiste nella sua totalità.

Agostino: - Fallo pure; da parte mia non solo non mi oppongo, ma anzi ti assecondo. Vedi dunque che ciascuno di noi ha stabilito che alcune cose si possono insegnare ad alcune persone senza segni e che quindi è falso ciò che pensavamo poco fa, ossia che non vi è assolutamente nulla che si possa mostrare senza segni. A partire da questi casi non sono una o due, ma mille le cose che vengono alla mente come tali che si possono mostrare di per sé senza il ricorso ad alcun segno. E allora, scusa, perché ne dubitiamo? Per non parlare dei tanti spettacoli che, in tutti i teatri, gli attori presentano senza ricorrere ai segni ma mediante le cose stesse, Dio e la natura non fanno sì che si mostrino da se stessi a coloro che li osservano questo sole, cioè la luce che inonda e riveste tutte queste cose, la luna e le stelle, le terre, i mari e gli innumerevoli esseri che vi sono generati?

E se consideriamo la questione con maggiore attenzione, forse non troverai nulla che si apprenda mediante i suoi segni. Quando infatti mi viene dato un segno, se io non so di che cosa è segno, esso non può insegnarmi nulla; se invece lo so, che cosa apprendo mediante il segno?

Così quando leggo Et sarabarae eorum non sunt mutatae, la parola non mi mostra la cosa che significa. Se infatti con tale nome si chiamano certi copricapo, forse che, una volta uditolo, ho appreso cosa è il capo e cosa sono i copricapo? Queste cose le conoscevo già; non ne ho acquistata nozione perché le ho sentite nominare da altri, ma perché le ho viste da me. Non è infatti quando per la prima volta le due sillabe della parola "capo" hanno colpito le mie orecchie, come non è quando per la prima volta ho sentito o letto sarabare che ne ho conosciuto il significato. Ma piuttosto, sentendo spesso dire "capo", ho notato e fatta attenzione alla circostanza in cui era pronunciato, così ho trovato che il termine designava una cosa che mi era già ben nota per averla vista. Prima di questa scoperta la parola per me era soltanto un suono; ho appreso che era un segno quando ho trovato di quale cosa era segno. Ma, come ho detto, questa cosa l'ho appresa non per mezzo del significato, ma per mezzo della vista. Perciò è il segno che si apprende attraverso la conoscenza della cosa e non già la cosa stessa attraverso l'emissione del segno.

Per comprendere meglio la questione, supponi che ora, per la prima volta, udiamo il termine "capo". Non sapendo se è soltanto il risuonare di una voce oppure se ha anche un significato, domandiamo che cosa è il capo. (Ricordati che desideriamo conoscere non la cosa significata, ma il segno stesso, conoscenza di cui evidentemente siamo privi fino a che ignoriamo di che cosa è segno). Se dunque alla nostra richiesta ci viene mostrata col dito la cosa stessa, nel vederla apprendiamo il segno che avevamo soltanto udito, ma non ancora conosciuto. Ora, poiché questo segno presenta due aspetti, il suono e il significato, certamente non abbiamo percepito il suono mediante il segno ma mediante l'udito percosso dal suono e il significato mediante la percezione della cosa significata. Il dito teso infatti non può significare niente altro che ciò verso cui esso è teso. Ora il dito non è teso verso il segno, ma verso quella parte del corpo che è chiamata capo; quindi, mediante questo gesto, non posso conoscere né la cosa che conoscevo già né il segno perché il dito non è teso verso di esso.

Ma non voglio occuparmi troppo del dito teso, poiché mi sembra che sia il segno dell'azione stessa del mostrare piuttosto che delle cose che sono da esso mostrate, come avviene, per esempio, quando diciamo "ecco"; infatti, nel pronunciare questo avverbio siamo soliti anche tendere il dito come se un segno solo per mostrare non sia sufficiente. Ora, se mi sarà possibile, cercherò soprattutto di persuaderti che non apprendiamo nulla con i segni che chiamiamo parole. Infatti, come ho detto, piuttosto che la conoscenza della cosa a partire dal suo significato, apprendiamo il valore della parola (ossia il suo significato che si nasconde nel suono) a partire dalla conoscenza della cosa significata.

E ciò che ho detto del capo lo potrei dire anche dei copricapo e di innumerevoli altre cose; ma queste le conoscevo già, mentre le famose sarabare non so ancora cosa siano. E se qualcuno me le indicasse con un gesto o me le dipingesse oppure mi mostrasse qualche cosa di simile, non direi che non me le ha insegnate - cosa che potrei provare facilmente se volessi dilungarmi un po' - ma dico qualche cosa di molto simile e cioè che non me le ha insegnate con le parole. Se poi, scorgendole davanti a me, mi avvertisse dicendo: "ecco le sarabare", apprenderei una cosa che non conoscevo, però non già per mezzo delle parole pronunciate, ma mediante la percezione diretta delle sarabare. Ne deriverebbe che conoscerei e apprenderei anche il valore di questo nome. Nell'apprendere la cosa infatti non è alle parole altrui che ho prestato fede, ma ai miei occhi; alle parole tuttavia forse ho creduto per prestare attenzione, cioè per cercare con lo sguardo la cosa da vedere.

 

 


 

L’UTILITÀ DEL LINGUAGGIO

Le parole hanno valore entro questi limiti; per valutarle quanto più è possibile dirò che ci stimolano soltanto a cercare le cose, ma non ce le presentano perché le conosciamo. Invero mi insegna qualche cosa soltanto chi mi presenta agli occhi o a qualche altro senso del corpo oppure alla mente stessa ciò che voglio conoscere. Dunque, con le parole apprendiamo soltanto le parole, anzi il suono e lo strepito delle parole. Se infatti non sono parole quelle che non sono segni, nell'ascoltare una parola non so se è tale fino a che non ne conosco il significato.

Dunque, con la conoscenza delle cose si ottiene anche la conoscenza delle parole, mentre con l'udire le parole non si apprendono neanche le parole. Infatti non apprendiamo le parole che conosciamo: oppure possiamo affermare che abbiamo apprese quelle che non conosciamo solo dopo che ne abbiamo percepito il significato, la qualcosa avviene non già con l'ascolto delle parole proferite, ma con la conoscenza delle cose significate. È un ragionamento verissimo e formulato in modo ineccepibile quello secondo cui, quando si proferiscono parole, o sappiamo ciò che significano o non lo sappiamo; se lo sappiamo, lo richiamiamo alla memoria piuttosto che apprenderlo; se invece non lo sappiamo, neppure lo richiamiamo alla memoria, ma forse siamo sollecitati a cercarlo.

Ammettiamo poi, dopo aver detto a proposito dei famosi copricapo, il cui nome è da noi percepito soltanto come un suono, che non possiamo conoscerli se non dopo averli visti e che ne possiamo conoscere meglio il nome solo dopo averli conosciuti, che tu obiettassi che abbiamo appreso solo per mezzo di parole come questi fanciulli hanno superato con la fede e la pietà le fiamme e il re, quali lodi hanno cantato a Dio, quali onori si sono meritati perfino dal loro nemico. In tal caso io ti risponderei che conoscevamo già tutto ciò che queste parole significano. Infatti sapevo già cosa sono tre fanciulli, la fornace, il fuoco, il re e, infine, cosa voglia dire illesi dal fuoco e tutto il resto che quelle parole significano. Quanto ad Anania, Azaria e Misael, essi mi sono ignoti tanto quanto le famose sarabare e i loro nomi non mi hanno aiutato per conoscerli né mi potranno ormai più aiutare.

Del resto confesso più di credere che di sapere che tutto ciò che si legge di quella storia sia avvenuto in quel tempo così come è scritto. Questa differenza era nota anche a coloro ai quali crediamo; dice infatti il Profeta: Se non crederete, non comprenderete, e di certo non 1'avrebbe detto se non avesse ritenuto che non c'è nessuna differenza. Dunque ciò che comprendo, lo credo anche; ma non tutto ciò che credo lo comprendo. E so tutto ciò che comprendo, ma non tutto ciò che credo. Del resto non ignoro quanto sia utile credere molte cose che ignoro; e appunto tra le cose utili metto anche la storia dei tre fanciulli.

Dunque, poiché non posso sapere un buon numero di cose, tuttavia so quanto è utile credervi.

Ma su tutte le realtà che comprendiamo interpelliamo la verità non in quanto risuona al di fuori di noi, ma in quanto presiede interiormente allo spirito stesso stimolati forse dalle parole. Ora, colui che noi interpelliamo è colui che insegna, il Cristo di cui si è detto che abita nell'uomo interiore, ossia la Potenza immutabile e la Sapienza eterna di Dio. E' essa che tutte le anime razionali interpellano, ma si apre a ciascuna nei limiti in cui può accoglierla secondo la propria buona o cattiva volontà. E se talora l'anima sbaglia, non avviene per difetto della Verità interpellata, come non è per difetto della luce esterna che gli occhi corporali spesso ci ingannano; questa luce, dobbiamo confessare, la interpelliamo relativamente alle cose visibili, perché ce le mostri secondo le nostre capacità di vedere.

 

 


 

LA VERITÀ INTERIORE

Ma se per i colori interpelliamo la luce e per le altre qualità che percepiamo con il corpo interpelliamo gli elementi di questo mondo, i corpi stessi che percepiamo e i sensi dei quali la mente si serve come interpreti per conoscere questa sorta di oggetti, per le cose intelligibili invece interpelliamo la verità interiore, mediante la ragione. Che cosa si può dire allora per mostrare che con le parole apprendiamo una cosa diversa dal suono che colpisce i nostri orecchi? In effetti tutti gli oggetti che percepiamo li percepiamo o con i sensi o con la mente; gli uni li chiamiamo sensibili, gli altri intelligibili o, per parlare alla maniera dei nostri autori, gli uni carnali, gli altri spirituali. Interrogati sui primi, se sono presenti, rispondiamo dicendo ciò che percepiamo, come quando, per esempio, ci si chiede quale o dove sia la luna nuova mentre la stiamo guardando. In questo caso chi interroga, se non vede lui stesso, crede alle parole, ma non sempre. Ad ogni modo non apprende se non vede egli stesso ciò che gli si dice, e perciò non apprende dal suono delle parole ma dalle cose stesse e dai suoi sensi, poiché le parole, mentre vede, hanno il medesimo suono di quando non vedeva.

Ma quando ci interrogano non più sulle cose che percepiamo direttamente, ma su quelle che abbiamo percepito in precedenza, allora il nostro discorso non riguarda più le cose stesse, ma le immagini che queste hanno impresso nella nostra memoria e che hanno ad essa affidato. In questo caso non so proprio come possiamo dire cose vere, dal momento che ce ne rappresentiamo false, a meno che parliamo non già di ciò che vediamo e percepiamo, ma di ciò che abbiamo visto e percepito. Così, portiamo nel profondo della nostra memoria queste immagini come documenti di cose percepite precedentemente e, quando ne facciamo oggetto di pensiero, abbiamo consapevolezza di non errare nel parlarne. Ma è per noi che queste immagini sono documenti; perciò chi ci ascolta, se le ha percepite lui stesso direttamente, non le apprende mediante le mie parole, ma le riconosce grazie alle immagini che egli stesso ha portato con sé. Se invece non le ha percepite, allora chi non comprende che crede alle parole piuttosto che istruirsi con le cose?

Quando poi si tratta di ciò che percepiamo con la mente, cioè con l'intelletto e la ragione, sicuramente esprimiamo ciò che intuiamo nella luce interiore della verità che inonda di chiarezza e di godimento quello che chiamiamo l'uomo interiore. Ma anche in tal caso chi ci ascolta, se vede anch'egli queste cose con il puro occhio interiore, conosce ciò che io dico con il proprio pensiero e non mediante le mie parole. Neanche a lui perciò insegno, pur dicendo la verità, perché la contempla da solo; infatti è ammaestrato non dalle mie parole, ma dalle cose stesse che gli si manifestano perché Dio gliele svela nell'interiorità, e quindi potrebbe senz'altro rispondere se fosse interrogato su di esse. Non c'è quindi nulla di più assurdo che pensare che è ammaestrato dal mio linguaggio chi potrebbe spiegare le cose stesse prima ancora che gliene parli, se fosse interrogato su di esse.

Accade spesso, è vero, che, interrogati, si comincia col negare ciò che successivamente, pressati con altre richieste, si è costretti ad ammettere. Ma ciò dipende dalla debolezza di chi guarda perché è incapace di riflettere la luce di verità sull'oggetto nella sua totalità. Allora è indotto a farlo in maniera parziale quando è interrogato sulle parti stesse di cui consta l'insieme che non riusciva a vedere nella sua totalità. E anche se vi è condotto dalle parole del suo interlocutore, tuttavia non sono tali parole che insegnano poiché esse ricercano soltanto se egli è idoneo ad apprendere interiormente allo stesso modo dell'interlocutore.

Così, ad esempio, ti potrei domandare, in merito a ciò che stiamo trattando, se con le parole non si possa insegnare nulla. La domanda dapprima ti sembrerebbe assurda perché non sei capace di abbracciare l'intera questione. Sarebbe quindi opportuno che, tenendo conto delle forze di cui disponi per ascoltare il maestro interiore, ti chiedessi: "Da chi hai appreso le cose che, stando alle mie parole, riconosci esser vere, di cui sei certo e che affermi di conoscere?" Tu forse risponderesti che te le ho insegnate io. Allora io soggiungerei: "E che, se ti dicessi che ho visto un uomo volare, le mie parole ti renderebbero così certo come se sentissi dire che i saggi sono migliori degli stolti?". Tu certamente lo negheresti e risponderesti che non credi alla prima affermazione o, anche se vi credessi, tuttavia non ne hai conoscenza, mentre conosci con assoluta certezza la seconda. Allora ti renderesti conto che, tanto relativamente alla prima, che non conosceresti nonostante la mia affermazione, quanto relativamente alla seconda, che invece conosceresti perfettamente, non hai appreso nulla dalle mie parole perché, se fossi interrogato su ciascuna delle due separatamente, confermeresti che la prima ti è ignota e la seconda nota. E quindi dovresti ammettere completamente la tesi che avevi precedentemente negata, poiché avresti acquisito una conoscenza chiara e certa delle parti che la compongono e cioè che, a proposito di tutto ciò che diciamo, l'uditore o ignora se è vero o non ignora che è falso oppure sa che è vero. Nel primo di questi tre casi egli crede, congettura o dubita; nel secondo nega decisamente e nel terzo afferma: in nessun caso però apprende. È indubbio infatti che dalle mie parole non ha appreso nulla tanto chi non sa nulla della cosa dopo le nostre parole, quanto chi sa di aver ascoltato falsità e chi, interrogato, sarebbe in grado di rispondere dicendo le medesime cose che sono state dette.

 

 


 

LE APORIE DEL LINGUAGGIO

Perciò, anche relativamente alle realtà che si percepiscono con la mente, chi non è capace di percepirle ascolta inutilmente le parole di chi le percepisce, se non per il fatto che è utile credervi fintanto che si ignorano. Ma chiunque è in grado di percepirle è interiormente discepolo della Verità, all'esterno è giudice di chi parla o, meglio, delle sue parole, perché per lo più conosce le cose di cui si parla, anche se le ignora chi ne parla. Ad esempio, un tale, che è seguace dell'epicureismo e che ritiene l'anima mortale, enuncia gli argomenti proposti sull'immortalità dagli uomini più saggi in presenza di un uditore capace di comprendere le verità spirituali. Questi giudica che l'altro dice il vero, mentre colui che parla non solo ignora se dice il vero, ma anzi lo considera completamente falso. Si deve dunque ritenere che insegna ciò che ignora? Eppure si serve delle medesime parole di cui si potrebbe servire se sapesse.

Alle parole dunque ormai non resta neppure la funzione di rivelarci il pensiero di colui che parla, perché non è certo se conosce le cose di cui parla. Aggiungi poi i mentitori e gli ingannatori: dal loro esempio puoi facilmente comprendere che le parole non solo non svelano il pensiero, ma anzi lo occultano. Non discuto affatto che le parole delle persone veritiere tendono e, in qualche modo, si impegnano a manifestare il pensiero di chi parla e che, per universale consenso, vi riuscirebbero se non si consentisse ai mentitori di parlare. Pur tuttavia abbiamo spesso sperimentato in noi e negli altri che le parole proferite non corrispondono alle cose che si pensano. Questo, secondo me, può accadere in due modi: in primo luogo, quando un discorso imparato a memoria e più volte ripetuto viene pronunciato pensando ad altro (questo ci capita spesso quando cantiamo un inno); in secondo luogo, quando ci escono alcune parole al posto di altre, contro la nostra volontà, per un errore della stessa lingua: neppure in questo caso l'udito percepisce i segni delle cose che abbiamo nella mente. Anche i mentitori certamente pensano alle cose che dicono al punto che, sebbene non sappiamo se dicono il vero, tuttavia sappiamo che hanno nella mente ciò che dicono, salvo che anche per loro non si verifichi uno dei due casi detti sopra. Se poi qualcuno sostiene che questi fenomeni avvengono solo qualche volta e ce se ne accorge quando accadono - benché restino spesso occulti e mi abbiano spesso ingannato quando ascoltavo - non faccio obiezione.

Ma a questi casi se ne aggiunge un altro, sicuramente assai frequente e sorgente di innumerevoli dissensi e controversie; è il caso di chi, parlando, significa ciò che pensa, ma per lo più soltanto per sé e per qualche altro, mentre per l'interlocutore e per alcuni altri non significa la medesima cosa. Così, supponiamo che un tale dica alla nostra presenza che l'uomo è inferiore per valore ad alcune bestie; noi, non riuscendo a sopportare la cosa, respingeremmo con grande energia un'affermazione così falsa e dannosa. Ma egli forse per valore intende le forze del corpo e con questo termine esprime ciò che pensa, per cui, né mente, né erra relativamente alle cose, né connette le parole imparate a memoria pensando ad altro né, per un errore di lingua, proferisce cose diverse da quelle che vuole: soltanto chiama ciò che pensa con un nome diverso dal nostro. A questo proposito saremmo subito d'accordo con lui se potessimo scorgere il suo pensiero; egli però non è riuscito ancora a manifestarcelo, nonostante abbia proferito le parole ed abbia spiegato la sua opinione.

Dicono che ad errori di questo tipo si può rimediare con le definizioni. Fanno rilevare infatti che,

se nella presente questione si definisse il valore, apparirebbe chiaro che la controversia non riguarda la cosa, ma la parola. Però, anche concedendo che sia così, quanti uomini capaci di definizioni è possibile trovare? Per di più contro l'arte del definire sono state avanzate molte obiezioni che in questa sede non è opportuno richiamare e che io, da parte mia, non approvo del tutto.

Lascio da parte il fatto che molte parole non le udiamo bene, eppure ne discutiamo a lungo e molto, come se le avessimo udite. Ad esempio, poco fa, a proposito di una parola punica, mentre io dicevo che significa misericordia, tu dicevi di aver udito dagli esperti di questa lingua che significa pietà. Ma io, opponendomi, asserivo che ti era del tutto sfuggito ciò che avevi udito; mi pareva infatti che non avessi detto pietà ma fede. Eppure eri seduto molto vicino a me e in nessun modo questi due nomi potevano ingannare l'udito per somiglianza di suono. Per molto tempo tuttavia ho ritenuto che non sapessi cosa ti era stato detto; invece ero io che non sapevo ciò che tu avevi detto. Infatti, se ti avessi inteso bene, non mi sarebbe sembrato affatto assurdo che pietà e misericordia in punico siano designate da un solo vocabolo. Queste cose accadono spesso, ma, come ho detto, mettiamole da parte perché non sembri che io accusi le parole della trascuratezza di chi ascolta o anche della sordità degli uomini. Sono più inquietanti i casi enumerati precedentemente, cioè quelli nei quali le parole sono state proferite in latino e percepite in maniera chiara e pur tuttavia non riusciamo a conoscere il pensiero di coloro che parlano, pur essendo della medesima lingua.

Comunque voglio concederti senza riserve che, quando le parole sono state afferrate dall'udito di uno che le conosce, possa essergli noto che il suo interlocutore ha pensato alle cose che tali parole significano. Ma con questo forse viene a sapere anche ciò che è ora in questione, cioè che gli ha detto la verità?

 

 


 

UNO SOLO É IL MAESTRO DI TUTTI

Forse che i maestri hanno per professione di far percepire e di far tenere a mente i loro pensieri anziché le discipline che pensano di trasmettere con le parole? E chi è preso da così sciocca curiosità da mandare il figlio a scuola perché apprenda ciò che il maestro pensa? Piuttosto, una volta che i maestri abbiano esposto con parole tutte le discipline che professano di insegnare, compresa quella relativa alla virtù e alla saggezza, allora i cosiddetti discepoli considerano in se stessi se ciò che è stato detto è vero, guardando naturalmente alla verità interiore secondo le loro forze. Quindi apprendono e, quando hanno scoperto nella propria interiorità che sono vere le cose dette, lodano i loro maestri, senza sapere che non lodano i maestri ma degli uomini dotti, ammesso che costoro sappiano ciò di cui fanno professione.

Dunque gli uomini si ingannano nel chiamare maestri quelli che non lo sono, perché il più delle volte non c'è intervallo fra il momento della parola e il momento della conoscenza; e, poiché apprendono immediatamente nell'interiorità dopo l’avvertimento di colui che parla, suppongono di aver appreso dal di fuori, da colui che ha richiamato la loro attenzione.

Ma tutta l'utilità delle parole che, a ben considerare, non è poca, se Dio lo consente, la esamineremo un'altra volta. Per ora ti ho già avvertito di non concederle più del dovuto, affinché non solo si creda, ma si incominci anche a comprendere la verità di ciò che è stato scritto per divina sollecitazione. Cioè di non considerare nessuno come nostro maestro sulla terra perché l'unico maestro di tutti è in cielo.

Poi cosa voglia dire "in cielo" ce lo insegnerà colui che ci fa dare dagli uomini con segni, dall'esterno, l'avvertimento a ricevere il suo insegnamento ritornando all'interno, verso di lui. Amare e conoscere lui costituiscono la vita beata che tutti proclamano di cercare, ma che pochi possono compiacersi veramente di aver trovata.

Ma ora vorrei che tu mi dicessi cosa pensi di tutto questo mio discorso. Se infatti riconosci che ciò che è stato detto è vero, qualora fossi stato interrogato su ciascuna delle affermazioni, avresti dovuto rispondere che le sapevi. Puoi dunque comprendere da chi le hai apprese; non certo da me perché, se ti avessi interrogato, mi avresti risposto su ogni cosa. Se invece non riconosci che è vero, non ti abbiamo insegnato né io né lui: io perché non sono mai in grado di insegnare, lui perché tu non sei ancora in grado di apprendere.

Adeodato: - Io, in verità, dall'avvertimento contenuto nelle tue parole ho appreso che con le parole non si fa altro che avvertire l'uomo perché apprenda e che ci sono poche possibilità che il linguaggio riveli qualche cosa del pensiero di colui che parla. Ho appreso inoltre che insegna, se si può dire il vero,

quegli soltanto che, mentre parlava dall'esterno, ci ha avvertito che abita nell'interiorità. Perciò, con l'aiuto della sua grazia, lo amerò tanto più ardentemente quanto più progredirò nell'apprendere.

Comunque ti sono molto grato del discorso che mi hai tenuto, soprattutto perché ha prevenuto e dissolto tutte le obiezioni che ero pronto a farti. Inoltre non hai lasciato da parte assolutamente nulla di ciò che mi rendeva dubbioso e su cui questo oracolo interiore non mi abbia risposto nel modo indicato dalle tue parole.

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