XX (XIX) – Salmo contro il partito di Donato, un libro

20 Volendo che la questione donatista venisse a conoscenza anche del volgo più umile e della massa dei totalmente incolti e degli illetterati e che, per quanto possibile, si imprimesse nella loro memoria, composi un salmo destinato al canto e fondato sulla successione delle lettere dell’alfabeto latino, ma solo fino alla lettera V, un carme del tipo di quelli che chiamano abecedari. Se ho omesso le tre ultime lettere, le ho sostituite alla fine con una sorta di epilogo nel quale si immagina che la madre Chiesa rivolga loro la parola. Il ritornello, che si ripete, e l’introduzione alla questione, pure destinata al canto, non seguono l’ordine alfabetico, che inizia solo dopo l’introduzione. Non sono ricorso a un vero componimento poetico, per evitare che le esigenze metriche mi costringessero ad usare parole non usuali per la massa.

Questo Salmo incomincia così: Tutti voi che godete della pace, giudicate almeno la verità (che ne è il ritornello).

XXI (XX) – Contro la lettera dell’eretico Donato, un libro

21.1 Sempre al tempo del mio sacerdozio scrissi un libro Contro la lettera di Donato, che fu, dopo Maiorino, il secondo vescovo di Cartagine di parte donatista. In essa Donato si esprime come se il battesimo di Cristo non potesse darsi che nella comunione con lui, una tesi che io combatto in questo libro. In un passo, parlando dell’apostolo Pietro, ho detto che su di lui, come su di una pietra, è fondata la Chiesa. È l’interpretazione che vien tradotta in canto corale nei versi del beatissimo Ambrogio laddove del gallo dice: Al suo canto quello stesso che è pietra della Chiesa ha cancellato la sua colpa. So però di aver in seguito ed assai spesso interpretato diversamente le parole del Signore: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Ho inteso cioè che su questa pietra significasse: su colui che Pietro ha testimoniato con le parole: Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivo, e che pertanto Pietro, per aver ricevuto il suo nome da questa pietra, rappresentasse la persona della Chiesa che è edificata su questa pietra e ha ricevuto le chiavi del regno dei cieli. Non è stato detto all’Apostolo: "·tu sei pietra·", ma: tu sei Pietro. La pietra era dunque Cristo, ed è per averlo testimoniato, come lo testimonia tutta la Chiesa, che Simone ebbe il nome di Pietro. Scelga il lettore quale delle due opinioni sia la più probabile.

21.2 In un altro passo ho detto: Il Signore non cerca la morte di nessuno. L’espressione va intesa nel senso che l’uomo s’è procurato la morte abbandonando Dio e che se la procura chi non ricorre a lui, secondo la frase della Scrittura: Dio non ha fatto la morte. Ma è anche vera l’altra frase: Vita e morte vengono da Dio, che concede la vita come dono e la morte come vendetta.

21.3 In un altro passo ho detto: Donato – l’autore della lettera da me confutata – chiese che l’Imperatore concedesse come giudici fra lui e Ceciliano dei vescovi d’oltremare. In effetti risulta più probabile che a proporre questo sia stato non il nostro, ma un altro Donato, pur se aderente allo stesso scisma: quel Donato cui noi ci riferiamo non era il vescovo donatista di Cartagine, bensì un omonimo originario di Case Nigre, anche se fu lui a perpetrare per primo a Cartagine questo empio scisma. Non fu inoltre Donato di Cartagine a stabilire che i Cristiani dovessero essere ribattezzati, come pensavo quando rispondevo alla sua lettera. Non è neppure vero ch’egli trasse dal bel mezzo di un’espressione dell’Ecclesiastico le parole necessarie al suo scopo. Dove è scritto: Se un uomo è battezzato da un morto e di nuovo lo tocca, a che gli giova il lavarsi? egli ritiene di leggere: Se uno è battezzato da un morto, a che gli giova il lavarsi? Abbiamo successivamente appurato che, prima ancora che esistesse il partito di Donato, moltissimi codici, a dire il vero, africani, non recavano nel contesto le parole: e di nuovo lo tocca. Se l’avessi saputo non avrei pronunciato tante accuse contro di lui, quasi che si trattasse di un ladro o di un profanatore della parola divina.

Questo libro incomincia così: Avevo udito da te personalmente.

XXII (XXI) – Contro Adimanto, discepolo di Manicheo, un libro

22.1 In quel medesimo periodo mi capitarono fra le mani alcuni scritti polemici di Adimanto, che era stato discepolo di Manicheo e che in essi attaccava la legge e i profeti nel tentativo di dimostrarne il contrasto con i Vangeli e gli altri scritti degli Apostoli. L’ho confutato riportandone le parole ed opponendo loro le mie risposte ed ho condotto a termine la mia opera con un solo volume. Ad alcune questioni ho risposto non una, ma due volte. Ciò è accaduto perché avevo perduto la prima risposta ed al momento in cui l’avevo ritrovata avevo già scritto la seconda. Alcune di queste medesime questioni hanno trovato la loro soluzione in sermoni da me pronunciati in chiesa e rivolti al popolo. Ad altre non ho ancora risposto: a farmele tralasciare ha senz’altro contribuito il sopraggiungere di altre più urgenti incombenze, ma va aggiunta anche la mia colpevole dimenticanza.

22.2 In questo libro ho detto: Quel popolo che ricevette l’Antico Testamento, prima ancora della venuta del Signore e secondo una mirabile ed ordinatissima distribuzione dei tempi, era limitato nelle sue conoscenze da ben definite ombre e immagini del vero; pur tuttavia nell’Antico vi è un preannuncio ed una anticipazione così piena del Nuovo che nell’insegnamento del Vangelo e degli Apostoli non si trovano precetti e promesse, quale che ne sia l’elevatezza e l’impronta divina, che non compaiano anche in quegli antichi scritti. Avrei però dovuto aggiungere un quasi e dire: Che quasi non si trovano negli insegnamenti del Vangelo e degli Apostoli precetti e promesse, quale che ne sia l’elevatezza e l’impronta divina, che non compaiano anche in quegli antichi scritti. Che senso avrebbero altrimenti le parole pronunciate dal Signore nel discorso evangelico sulla montagna: Avete udito che dagli antichi è stato detto questo, ed io invece vi dico quest’altro, se i suoi precetti non andassero oltre quelli che si leggono in quegli antichi testi? Inoltre non leggiamo che fra le promesse fatte a quel popolo nella legge data per tramite di Mosè sul monte Sinai, fosse compresa quella del regno dei cieli. Trattasi in effetti di quello chiamato con termine proprio Antico Testamento, che l’Apostolo dice figurato dalla schiava di Sara e da suo figlio. Senonché in quel medesimo passo anche il Nuovo è figurato dalla stessa Sara e da suo figlio. È pertanto vero che, una volta interpretate le figure, nell’Antico si trova profetato tutto ciò che è stato manifestato o che si attende sia manifestato dal Cristo. Tuttavia in considerazione di certi precetti non espressi in forma indiretta, ma diretta e che non si trovano nell’Antico Testamento, ma solo nel Nuovo, ci si dovrebbe esprimere con maggior cautela e moderazione: si dovrebbe dire che quasi nessun precetto, non che nessun precetto è reperibile nel Nuovo che non sia anche nell’Antico, anche se è vero che proprio nell’Antico compaiono già quei due precetti sull’amore di Dio e del prossimo ai quali giustamente fanno riferimento gli insegnamenti della Legge, dei Profeti, del Vangelo e degli Apostoli.

22.3 Così l’affermazione che nelle Sacre Scritture il nome di figlio ha tre diverse accezioni non è molto meditata. Abbiamo certamente tralasciato altre accezioni: si dice, per esempio, figlio della geenna e figlio adottivo, anche se in questi casi la figliolanza non è proclamata tale né secondo natura, né secondo istruzione né secondo imitazione. Di queste tre accezioni, quasi fossero le sole, ho fornito i seguenti esempi: secondo natura, come i Giudei sono discendenti di Abramo; secondo istruzione, come l’Apostolo chiama suoi figli coloro ai quali ha insegnato il Vangelo; secondo imitazione, come noi siamo figli di Abramo, di cui imitiamo la fede. Ho anche detto: Quando l’uomo si sarà rivestito di incorruttibilità e di immortalità non ci sarà più né carne né sangue. Ciò significa che non ci sarà più carne in considerazione della sua corruttibilità, non della sua sostanza: è in riferimento alla sostanza che il corpo del Signore è chiamato carne anche dopo la risurrezione.

22.4 In un altro passo ho detto: A nessuno, salvo che non cambi la sua volontà, è possibile operare il bene; e cambiare è in nostro potere, come afferma il Signore in un altro passo con le parole: "·Rendete un albero buono e il frutto che otterrete sarà buono; rendetelo cattivo, e il frutto sarà cattivo·". Questa affermazione non è contro la grazia di Dio che noi predichiamo. In effetti è in potere dell’uomo mutare la sua volontà in meglio, ma quel potere non esisterebbe se non gli fosse dato da Dio, di cui è detto: Diede loro il potere di diventare figli di Dio. Se è vero infatti che è in nostro potere tutto ciò che noi possiamo realizzare quando lo vogliamo, nulla è maggiormente in nostro potere quanto la stessa volontà: ma è il Signore che predispone la volontà ed è questo il modo con cui concede il potere. Allo stesso modo va inteso anche quanto ho detto in seguito, che cioè è in nostro potere meritare due opposte alternative: o di essere innestati dalla bontà divina o di essere recisi dalla sua severità. Non è in nostro potere se non ciò che realizziamo con la nostra volontà e se questa, a sua volta, è stata predisposta e resa forte e potente dal Signore, anche un’opera di pietà, che è inizialmente difficile e impossibile, diventa agevole a compiersi.

Questo libro incomincia così: A partire da ciò che è stato scritto:"In principio Dio fece il cielo e la terra·".

XXIII (XXII) – Commento di alcune proposizioni della Lettera dell’Apostolo ai Romani, un libro

23.1 Mentre ero ancora sacerdote avvenne che a Cartagine, durante una lettura fatta fra noi della Lettera dell’Apostolo ai Romani, mi venissero rivolte alcune domande da parte dei fratelli. Risposi come potei, ma essi vollero che le mie parole fossero messe per iscritto, piuttosto che venir disperse senza un testo. Detti loro ascolto e un nuovo libro venne ad aggiungersi ai miei precedenti opuscoli. In questo libro ho detto: Le parole: "·Sappiamo che la legge è spirituale, mentre io sono carnale·", mostrano a sufficienza che non possono adempiere la legge se non gli spirituali che rende tali la grazia divina. Non avevo assolutamente voluto che questa frase si intendesse riferita all’Apostolo, che era già spirituale, bensì all’uomo posto sotto la legge, ma non ancora sotto la grazia. Così in precedenza intendevo queste parole. In seguito però, dopo aver letto alcuni commentatori dei testi divini dei quali apprezzavo l’autorità, considerai la questione più a fondo e compresi che le parole: Sappiamo che la legge è spirituale, mentre io sono carnale, possono essere riferite anche alla persona dell’Apostolo. Ho cercato di chiarire la cosa con la maggiore precisione possibile nei libri che ho scritto di recente contro i Pelagiani. In questo libro ho preso in considerazione anche le parole dell’Apostolo: Mentre io sono carnale e tutto il resto fino al punto in cui dice: O infelice uomo che sono, chi mi libererà dal corpo di questa morte? La grazia di Dio, per tramite del Signore nostro Gesù Cristo. Ho detto che in tale contesto è descritto l’uomo che è ancora sotto la legge, e non è già sotto la grazia, l’uomo che vorrebbe agire rettamente, ma che, vinto dalla concupiscenza della carne, compie il male. Dal dominio di questa concupiscenza ci libera solo la grazia di Dio per tramite del Signore nostro Gesù Cristo per un dono dello Spirito Santo. È con l’aiuto dello Spirito che l’amore, diffuso nei nostri cuori, vince gli impulsi della concupiscenza della carne distogliendoci dal dar loro il nostro assenso a compiere il male e inducendoci piuttosto a fare il bene. Viene così sradicata l’eresia di Pelagio secondo la quale l’amore grazie al quale viviamo secondo bontà e pietà non verrebbe da Dio, ma da noi stessi. Nei libri da noi pubblicati contro i Pelagiani abbiamo invece mostrato che le parole dell’Apostolo s’intendono meglio se riferite anche all’uomo spirituale già posto sotto la grazia. Così abbiamo concluso in considerazione del corpo carnale, che ancora non è spirituale e lo sarà solo al momento della risurrezione dei morti e tenendo conto della stessa concupiscenza della carne: con essa debbono combattere i santi che, pur non acconsentendo a fare il male, non sono ancora liberi in questa vita dai suoi impulsi ai quali pure oppongono resistenza. Ne saranno invece esenti nell’altra vita, quando la morte sarà assorbita nella vittoria. È in considerazione di questa concupiscenza e dei suoi stessi impulsi – resistere ai quali non comporta la loro assenza – che ogni santo già posto sotto la grazia può usare tutte quelle espressioni che io in questo libro ho definito proprie dell’uomo non ancora posto sotto la grazia, ma sotto la legge. Sarebbe troppo lungo chiarire qui tutta la questione e, d’altronde, ho anche già detto dove l’ho chiarita.

23.2 Inoltre, discutendo della scelta fatta da Dio in un uomo non ancora nato, al cui servizio predice che si sarebbe posto il fratello maggiore, e discutendo altresì della riprovazione espressa nei riguardi di questo stesso fratello maggiore, anche lui non ancora nato – è per questo che nei riguardi dei due fratelli vien riportata, anche se alquanto più avanti, la testimonianza del Profeta che suona: Ho amato Giacobbe, ma ho odiato Esaù – così ho condotto la mia argomentazione: Dio non ha scelto, nella sua prescienza le opere di alcuno, quelle opere ch’egli stesso gli avrebbe concesso di fare; nella sua prescienza ha scelto però la fede: conoscendo in anticipo l’uomo che avrebbe creduto in lui, questo ha prescelto per concedergli lo Spirito Santo sì che, operando il bene, conseguisse anche la vita eterna. Non avevo ancora cercato con attenzione e non avevo ancora scoperto in che consista l’elezione della grazia a proposito della quale lo stesso Apostolodice:

Ciò che resta d’Israele è fatto salvo per elezione della grazia. E la grazia non è tale se è preceduta dai meriti: in tal caso infatti un bene concesso non per grazia, ma perché dovuto, sarebbe un compenso dei meriti, non un dono. Subito dopo ho detto: Dice lo stesso Apostolo: "·Lo stesso Dio che opera ogni cosa in tutti·"Da nessuna parte però è detto: Dio crede ogni cosa in tutti. Ho quindi aggiunto: Credere è opera nostra, fare il bene è opera di colui che dà, a coloro che credono, lo Spirito Santo. Non mi sarei certamente espresso così se già avessi saputo che anche la fede fa parte dei doni che ci vengono concessi dallo stesso Spirito. Entrambe le cose, credere e ben operare, ci appartengono in virtù dell’arbitrio della volontà ed entrambe, tuttavia, ci vengono date attraverso lo Spirito della fede e della carità. Né la carità sta da sola ma, come è scritto, ci vien data, assieme alla fede, da Dio Padre e dal Signore nostro Gesù Cristo.

23.3 E' inoltre vero ciò che ho detto poco dopo: È opera nostra credere e volere, di Lui invece concedere a coloro che credono e che vogliono la facoltà di ben operare "·per mezzo dello Spirito Santo" grazie al quale "la carità si diffonde nei nostri cuori·". In base però al medesimo criterio sopra applicato mentre è vero che entrambe le operazioni appartengono a Lui in quanto predispone la volontà, è altrettanto vero che entrambe appartengono a noi in quanto si verificano solo se lo vogliamo. Pure verissimo, per lo stesso motivo, è quello che ho detto anche in seguito: Non possiamo neppure volere, se non siamo chiamati, e quand’anche dopo la chiamata volessimo, non basterebbe la nostra volontà e la nostra corsa, se Dio non ci desse la forza di correre e non ci conducesse dove ci chiama. A queste parole ho aggiunto: Il bene operare "·non dipende evidentemente da chi vuole né da chi corre, ma dalla misericordia divina·". Non ho però molto discusso della chiamata in se stessa, che si verifica in conseguenza di una decisione di Dio. Essa non è tale per tutti i chiamati, ma solo per gli eletti. Totalmente conforme a verità è anche quanto ho detto poco dopo: Come in coloro che Dio ha scelto non sono le opere, ma è la fede che dà inizio al merito, sì che il loro bene operare dipende da un dono di Dio, allo stesso modo in coloro ch’egli condanna sono l’infedeltà e l’empietà che per prime fanno meritare la pena, sì che è conseguenza di questa stessa pena il loro male operare. Ma che anche il merito di aver fede è un dono di Dio né ho ritenuto che dovesse essere oggetto di indagine né l’ho esplicitamente affermato.

23.4 In un altro passo ho detto: Dio fa bene operare colui del quale ha misericordia e abbandona colui del quale ha indurito il cuore perché operi il male. Anche quella misericordia però è accordata al precedente merito della fede mentre l’indurimento è dato come sanzione alla precedente empietà. Ed anche questo è vero. Occorreva però anche chiedersi se anche il merito della fede non dipenda dalla misericordia divina; in altre parole, se codesta misericordia si manifesti nell’uomo solo in quanto è fedele o se si sia manifestata in lui anche perché fosse fedele. Leggiamo le parole dell’Apostolo: Ho ottenuto misericordia perché fossi fedele. Come si può constatare non dice: Perché ero fedele. La misericordia è dunque concessa a chi è fedele, ma è stata data anche perché fosse fedele. Giustissimo è quanto ho detto in un altro passo del medesimo libro: Se siamo chiamati a credere non in conseguenza delle nostre opere, ma della misericordia divina e in seguito a questa fede ci è concesso di ben operare, non dobbiamo negare questa misericordia ai gentili. Non ho però trattato in quel passo in modo sufficientemente approfondito di quella chiamata che si verifica per una decisione divina.

Questo libro incomincia così: Questi sono i "·sensi·" della Lettera dell’apostolo Paolo ai Romani.

XXIV (XXIII) – Commento alla Lettera ai Galati, un libro

24.1 Dopo questo libro ho posto mano a un commento alla Lettera dello stesso Apostolo ai Galati. Non l’ho fatto frammentariamente, omettendo dei passi, ma in modo continuativo e prendendo in considerazione il testo nella sua interezza. Ho fatto rientrare questo commento in un solo volume. In esso ho detto: Furono veritieri i primi Apostoli che vennero inviati non dagli uomini, ma da Dio per tramite di un uomo nella persona di Gesù Cristo, che era ancora mortale. Veritiero fu anche l’ultimo degli Apostoli, che fu inviato per tramite di Gesù Cristo già totalmente Dio dopo la risurrezione. Ho detto già totalmente Dio in considerazione dell’immortalità conseguita solo dopo la risurrezione e non della divinità, che rimase sempre immortale, dalla quale non si allontanò mai, nella quale era totalmente Dio anche quando doveva ancora morire. Questa interpretazione è chiarita da quello che segue. Così infatti ho continuato: Primi sono tutti gli altri Apostoli inviati per tramite del Cristo ancora parzialmente uomo, cioè mortale; ultimo è l’apostolo Paolo inviato per tramite del Cristo già totalmente Dio, vale a dire in tutto e per tutto immortale. Ho detto questo nella mia spiegazione delle parole dell’Apostolo il quale, dicendo non da uomini o per tramite di un uomo, ma per tramite di Gesù Cristo e di Dio Padre, sembra far intendere che Gesù Cristo non è più un uomo. Seguono infatti le parole: che lo risuscitò dai morti, che servono a chiarire il senso della precedente espressione: non per tramite di un uomo. A causa dell’immortalità dunque il Cristo, che è Dio, non è più un uomo; in considerazione però della sostanza propria della natura umana, rivestendo la quale è salito in cieloCristo Gesù, in quanto ancora Mediatore fra Dio e gli uomini, resta un uomo e tornerà in tale veste come poterono osservarlo coloro che lo videro mentre saliva in cielo.

24.2 Ho anche detto: La grazia di Dio ha la funzione di rimetterci i peccati in vista della riconciliazione con Dio, la pace è quella per cui siamo riconciliati con Dio. Queste parole vanno però intese nel senso che entrambe, sia la grazia sia la pace, rientrano più in generale nella sfera della grazia. Lo stesso si può dire della distinzione fra Israele e Giuda nel popolo di Dio: Israele vi appartiene in modo speciale, ma, più generalmente, entrambi fan parte di Israele. Così nella spiegazione della frase, perché dunque la legge è stata data in vista della trasgressione, avevo ritenuto di dover distinguere fra una domanda: perché dunque? e una risposta: la legge è stata data in vista della trasgressione. Questa divisione non è lontana dal vero, ma a me sembra meglio distinguere fra una domanda: Perché dunque la legge? e una risposta: è stata data in vista della trasgressione. Ho anche detto: Seguendo un ordine ben definito l’Apostolo aggiunge: "·Ché se vi lasciate guidare dallo Spirito non siete più sotto la legge·"Con queste parole vuol farci intendere che sono sotto la legge coloro il cui spirito lotta contro la carne, in modo tale, però, ch’essi non sono in grado di fare ciò che vogliono, non si comportano cioè come se fossero invincibili nell’amore della giustizia, ma sono vinti dalla carne che esercita la sua concupiscenza contro di loro. Ciò è in coerenza con l’interpretazione che io davo della frase: "·La carne esercita la sua concupiscenza contro lo spirito e lo spirito contro la carne; queste due componenti si contrastano vicendevolmente e vi impediscono di fare ciò che volete·". Tale frase, secondo la mia interpretazione, riguardava coloro che sono sotto la legge, ma non ancora sotto la grazia. Ancora non avevo compreso che queste parole si adattano anche a coloro che sono sotto la grazia, e non sotto la legge: anch’essi, pur non dando alcun consenso agli impulsi della carne ai quali oppongono quelli dello spirito, preferirebbero esserne esenti. E non riescono a fare ciò che vorrebbero in quanto desidererebbero liberarsi da quegli impulsi, ma non ne sono in grado. Non li subiranno quando non avranno più un corpo corruttibile.

Questo libro incomincia così: Il motivo per il quale l’Apostolo scrive ai Galati è il seguente.

XXV (XXIV) – Inizio di un commento alla Lettera ai Romani, un libro

25 Avevo intrapreso un commento alla Lettera ai Romani del tipo di quello dedicato alla Lettera ai Galati. Per condurre a termine un’opera siffatta sarebbero occorsi più libri e ne avevo già completato uno, limitandomi alla trattazione del saluto iniziale, alla parte cioè che va dall’inizio alle parole: Grazia e pace a voi da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo. Ci era accaduto di indugiare a lungo nel tentativo di risolvere una difficilissima questione nella quale il nostro discorso s’era imbattuto, quella del peccato contro lo Spirito Santo, che non può essere rimesso né in questo mondo né nell’altro. In seguito però ho deciso di rinunciare ad aggiungere al primo altri volumi per commentare l’intera lettera, spaventato dall’imponenza e dalla fatica dell’impresa e ho quindi ripiegato su progetti di più facile esecuzione. M’è così accaduto di lasciare isolato quel primo libro che avevo scritto e che volli fosse intitolato: Inizio di un commento alla Lettera ai Romani. Dovunque in quel libro ho detto che la grazia si ha nella remissione dei peccati e la pace nella riconciliazione con Dio non si deve intendere che la pace stessa e la riconciliazione non riguardino la grazia nella sua accezione più generale, ma ho solo inteso dire che l’Apostolo, col termine grazia, ha designato in senso proprio la remissione dei peccati. Allo stesso modo designiamo anche in senso proprio la legge nell’espressione: la legge e i Profeti, mentre facciamo del termine legge un uso generale quando includiamo in essa anche i Profeti.

Questo libro incomincia così: Nella Lettera che l’Apostolo scrisse ai Romani.

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