LIBRO·PRIMO

I

La controversia accademica, tre libri

1 Avevo già rinunciato, nell’ambito delle aspirazioni di questo mondo, alle mète che ero riuscito a conseguire o aspiravo ancora a raggiungere e m’ero rifugiato nella pace serena della vita cristiana. Non avevo ancora ricevuto il battesimo e, per prima cosa, mi detti a scrivere Contro gli Academici o Sugli Academici. Mio intendimento era quello di rimuovere con tutte le possibili obiezioni dal mio animo visto che io stesso ne restavo turbato le argomentazioni con le quali costoro tolgono a molti ogni speranza di trovare la verità, e inibiscono al saggio di dare il suo assenso ad alcun enunciato e di giungere ad una dichiarazione di evidenza e di certezza su alcunché: a loro parere infatti tutto sarebbe avvolto nell’oscurità e nell’incertezza. Quest’opera giunse a compimento grazie all’aiuto della misericordia divina.

1.2 In questi stessi miei tre libri però non approvo di aver tanto spesso fatto il nome della fortuna·, anche se non era mio intendimento che con questa denominazione si designasse una qualche divinità, ma solo il fortuito verificarsi di eventi favorevoli o sfavorevoli attinenti alla nostra persona fisica o al mondo esterno. Di qui quei vocaboli che nessuno scrupolo religioso ci vieta di pronunciare: Per caso, forse, per sorte, per avventura, fortuitamente. Il che non toglie, tuttavia, che tutto ciò che viene interpretato in questi termini vada, comunque, ricondotto all’azione provvidenziale di Dio. È quanto, del resto, io stesso non ho passato sotto silenzio in quest’opera quando affermo: Forse quella che prende comunemente il nome di fortuna è retta da un ordine misterioso e null’altro è quello che negli eventi chiamiamo caso se non ciò di cui ci sfugge il senso e la causa·. È vero, ho affermato questo. Mi pento però ugualmente di avere in quel passo menzionato in questo modo la fortuna: mi capita infatti di constatare che gli uomini hanno la pessima abitudine di dire: "·L’ha voluto la fortuna·", quando si dovrebbe dire: "·L’ha voluto Iddio·". Ho poi detto in un passo: È stato così disposto vuoi per responsabilità nostra vuoi per una irrevocabile legge di natura che uno spirito divino che resti legato alle cose mortali non trovi accoglienza nel porto della filosofia·, con ciò che segue. Al riguardo occorreva fare una scelta: o non si sarebbe dovuta menzionare nessuna delle due condizioni alternative, visto che anche così la frase avrebbe un senso compiuto, o sarebbe stato sufficiente dire: per responsabilità nostra, senza aggiungere: per una irrevocabile legge di natura; è un fatto che il nostro attuale stato di miseria deriva da Adamo e la dura necessità inerente alla nostra natura s’è costituita in conseguenza di un precedente e cosciente atto di iniquità. Analogamente la frase: Non si deve tenere in alcun conto e deve essere totalmente rifiutato tutto ciò che è visto da occhi mortali, tutto ciò che è raggiunto dal senso·, andava così integrato: tutto ciò che è raggiunto dal senso del corpo mortale; esiste infatti anche un senso della mente. In quel passo mi esprimevo al modo di coloro che parlano di una sensibilità solo in rapporto col corpo e dicono sensibile solo ciò che è materiale. Ne viene di conseguenza che ogni qualvolta mi sono espresso così non s’è evitata del tutto una certa ambiguità, anche se trattasi di ambiguità nella quale possono cadere solo coloro che non fanno abitualmente uso di quell’espressione. Ho anche detto: Che altro pensi che sia vivere nella felicità se non vivere secondo quella che dell’uomo è la componente più alta?· E poco dopo, chiarendo che cosa avessi inteso definire come componente più alta dell’uomoChi potrebbe dubitare dissi che nell’uomo occupa la posizione più alta quella parte dell’anima alla cui autorità conviene che sottostiano tutte le altre componenti dell’uomo? Si tratta di quella parte perché tu non esiga da me un’altra definizione che possiamo denominare mente o ragione·. E ciò corrisponde senz’altro a verità, visto che, se si considera la natura dell’uomo, nulla vi è in lui di superiore alla mente e alla ragione. Chi però intende vivere nella felicità non deve vivere secondo quella parte: così facendo vive secondo l’uomo, mentre per attingere la felicità bisogna vivere secondo Dio·; e, per raggiungere la mèta, la nostra mente non deve essere paga di se stessa, ma sottomettersi a Dio. Parimenti rispondendo al mio interlocutore: In questo dissi non sbagli, e vorrei tanto che ciò ti fosse di buon auspicio per tutto il resto·. Benché il tono dell’espressione non sia serio, ma scherzoso, preferirei non ricorrere più al termine omen [auspicio]. Non ricordo di averlo rilevato né nelle nostre Sacre Scritture né nel linguaggio di qualche scrittore ecclesiastico, benché da omen derivi abominazione, un vocabolo che ricorre frequentemente nei Libri sacri.

1. 3. Nel secondo libro è del tutto sciocca e insulsa quella sorta di favola di filocalia e filosofia che le designa come sorelle e nate dallo stesso padre·. O quella che vien denominata filocalia è da annoverare fra le sciocchezze dei poeti e non è perciò a nessun patto sorella di filosofia, ovvero, se questo nome merita considerazione per il fatto che, tradotto in latino, significa amore della bellezza e designa la vera e suprema bellezza della sapienza, filosofia e filocalia, nella sfera delle supreme realtà immateriali cui appartengono, non possono che essere la stessa persona e non sono quindi in nessun modo assimilabili a due sorelle. In un altro passo, trattando dell’anima, ho detto: Per tornare, resa più sicura, in cielo·. Per maggior sicurezza avrei dovuto dire "·per andare·" piuttosto che per tornare, e ciò per evitare l’errore di coloro secondo i quali le anime umane, cadute o cacciate dal cielo in conseguenza dei loro peccati, verrebbero costrette a entrare in questi nostri corpi. Non ho esitato ad esprimermi in questo modo in quanto dicendo in cielo intendevo dire "·a Dio·", che dell’anima è autore e creatore. Allo stesso modo il beato Cipriano non si è peritato di scrivere: Poiché il nostro corpo deriva dalla terra e il nostro spirito dal cielo, noi stessi siamo nel contempo cielo e terra·; e nell’Ecclesiaste è scritto: Lo spirito ritorni a Dio che l’ha dato, il che va in ogni caso inteso in un senso che non si opponga all’affermazione dell’Apostolo secondo la quale gli uomini non ancora nati nulla hanno compiuto né di bene né di male. Senza alcun dubbio dunque Dio stesso è una sorta di sede originaria della felicità dell’anima, quel Dio che non l’ha creata da se stesso, ma dal nulla, allo stesso modo in cui ha creato il corpo umano dalla terra. Per quanto infatti attiene al problema della sua origine e della sua presenza in un corpo, se cioè derivi da quell’unica anima che fu creata quando fu creato l’uomo come essere vivente o se le anime siano create singolarmente una per ciascuno né lo sapevo allora né lo so adesso.

1.4 Nel terzo libro ho detto: Se vuoi conoscere il mio parere sappi che per me il bene supremo dell’uomo risiede nella mente. Con maggiore aderenza alla verità avrei dovuto dire: "·in Dio·". Di lui infatti la mente, ai fini della felicità, gode come del suo massimo bene. Non mi piace neppure l’altra espressione: Posso giurare per tutto ciò che è divino·. Non è stato del pari corretto da parte mia affermare che gli Academici dimostravano di conoscere la verità per il fatto stesso di definire verisimile ciò che al vero assomiglia e tacciare poi di falsità quel verisimile cui essi danno il loro assenso·. E non è stato corretto per due motivi. Da un lato, stando alle mie parole, sarebbe falso ciò che in qualche modo assomiglia alla verità (ma anche questa, nel suo genere, è una verità); dall’altro, sempre stando alle mie parole, gli Academici avrebbero dato il loro assenso a quelle falsità che definivano verisimili, mentre sono essi stessi a negare quell’assenso ad ogni possibile enunciazione e ad attribuire questo stesso comportamento al sapiente. Se, comunque, mi sono espresso in quel modo su di loro è perché definiscono quel loro "·verisimile·" anche come "·probabile·". Non senza ragione mi sono altresì dispiaciuto di aver esaltato Platone o i Platonici (o Academici che dir si voglia) in una misura che non s’addice certo a pensatori rei d’empietà, visto che è soprattutto contro i loro gravi errori che va difesa la dottrina cristiana. Quanto al fatto che a paragone con le argomentazioni usate da Cicerone nei suoi libri academici, ho definito sciocchezzuole quelle cui ero ricorso per demolire in modo inconfutabile le tesi di quella scuola, è chiaro che il tono era scherzoso e di più che trasparente ironia: non avrei tuttavia ugualmente dovuto esprimermi in quel modo.

Quest’opera incomincia così: Voglia il cielo, o Romaniano, che un uomo ben disposto verso di lei.

II La felicità, un libro

2. Mi è occorso di scrivere il libro su La felicità non dopo la composizione dei libri Sugli Academici, ma in alternanza con essi. Nacque da una circostanza occasionale, la ricorrenza del mio giorno natalizio, e comprende una discussione durata tre giorni, come chiaramente si evince dal testo. Dal libro risulta che tutti noi, che avevamo condotto assieme la ricerca, giungemmo alla fine all’unanime conclusione che la felicità altro non è che la compiuta conoscenza di Dio. Mi rammarico però di avere in quella sede concesso più onore del dovuto a Manlio Teodoro dedicatario del libro, pur trattandosi di persona dotta e cristiana ; e di avere anche lì nominato spesso la fortuna·; e di aver affermato che durante questa nostra vita la felicità alberga solo nell’animo del sapiente, qualunque sia la condizione del suo corpo; affermazione, quest’ultima, in contrasto con le parole dell’Apostolo, il quale manifesta la speranza che la compiuta conoscenza di Dio, nella forma cioè più alta concessa all’uomo, si avrà nella vita futura, la sola che possa essere definita felice, quando anche il corpo, reso incorruttibile e immortale, sarà sottomesso alla sua componente spirituale senza difficoltà o contrasto. Nel mio manoscritto ho trovato questo libro lacunoso e mancante di una parte non piccola; è stato trascritto da alcuni confratelli nelle sue attuali condizioni e nel tempo in cui ho provveduto alla presente revisione non ero ancora riuscito a trovarne in casa di nessuno un esemplare completo che mi permettesse di eseguire le dovute correzioni.

Questo libro incomincia così: Se al porto della filosofia.

III – L’ordine, due libri

3.2 In quel medesimo periodo, e sempre intercalandone la stesura a quella dei libri Sugli Academici, scrissi anche due libri su L’ordine. In essi viene dibattuta la grossa questione relativa alla presenza o meno di tutti i beni e di tutti i mali nell’ordine stabilito dalla provvidenza divina. Mi accorsi però che un argomento di difficile comprensione come quello, con notevole difficoltà avrebbe potuto essere chiaramente recepito da coloro coi quali mi intrattenevo in discussione e preferii quindi limitarmi a parlare dell’ordine degli studi grazie al quale è possibile progredire verso la conoscenza delle realtà immateriali partendo da quelle materiali.

3.3 Mi rammarico però di aver spesso introdotto anche in questi libri il nome della fortuna·; e di non aver aggiunto la specificazione del corpo ogni qualvolta nominavo i sensi del corpo·; e di aver dato troppo peso alle discipline liberali· sulle quali grande è l’ignoranza di molti santi, mentre alcuni, pur conoscendole, non sono dei santi; e di aver menzionato, pur se con tono scherzoso, le Muse come se fossero delle dee·; e di aver chiamato imperfezione il fatto di meravigliarsi·; e di aver affermato che rifulsero della luce della virtù dei filosofi privi della vera fede·. Mi rammarico anche di aver sostenuto, non a nome di Platone o dei platonici, ma come si trattasse di una posizione mia, che esistono due mondi, l’uno sensibile, l’altro intelligibile, e di aver insinuato che questo avrebbe voluto intendere il Signore· in quanto anziché dire: "·Il mio regno non è del mondo·", dice invece: Il mio regno non è di questo mondo ·. Si potrebbe scoprire che alla base di quelle parole v’è una qualche locuzione consacrata dall’uso. In ogni caso, se Cristo Signore fa riferimento ad un altro mondo, lo si potrebbe più convenientemente identificare con quel mondo in cui ci saranno un cielo nuovo ed una terra nuova·, quando avrà compimento quella realtà che invochiamo con le parole: Venga il tuo regno. Né aveva torto Platone nel parlarci di un mondo intelligibile, sempre che ci si voglia riferire alla sua realtà e non al vocabolo mondo che nel linguaggio della Chiesa non assume mai quel significato. Egli infatti ha denominato mondo intelligibile la stessa eterna ed immutabile ragione con la quale Dio ha creato il mondo. Chi ne nega l’esistenza deve, per coerenza, ammettere l’irrazionalità dell’azione creatrice di Dio, o riconoscere che Dio, sia al momento della creazione, sis in precedenza, non sapesse quel che faceva, visto che non ci sarebbe stata in lui la ragione quale criterio del suo operare. Se era in lui, come in realtà lo era, è chiaro che Platone ha inteso riferirsi a tale realtà con l’espressione mondo intelligibile. Non saremmo tuttavia ricorsi a tale denominazione, se fossimo già stati sufficientemente esperti nella letteratura ecclesiastica.

3.3 Neppure questo approvo, di aver detto che occorre impegnarsi in una condotta irreprensibile e di aver subito aggiunto: altrimenti il nostro Dio non potrà esaudirciAiuterà invece assai facilmente chi imposta correttamente la propria vita·. S’è detto questo come se Dio non esaudisse i peccatori·. Qualcuno, è vero, si era espresso in questo modo nel Vangelo, ma si trattava di un uomo che, pur non avendo ancora riconosciuto il Cristo, ne era stato illuminato nel corpo. Neppure approvo di aver tributato al filosofo Pitagora una lode tanto grande da indurre chi ascolta o legge a ritenere che secondo me non ci sarebbe nell’insegnamento di Pitagora errore alcuno·: ce ne sono invece parecchi e gravissimi.

Quest’opera incomincia così: L’ordine delle cose, o Zenobio.

 

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