VIII (VII) – La grandezza dell’anima, un libro

8.1 Sempre a Roma ho composto un dialogo nel quale vengono indagate e discusse molte questioni relative all’anima quali la sua origine, la sua natura, la sua grandezza, il motivo della sua unione col corpo, ciò ch’essa diviene al momento dell’entrata e dell’uscita dal corpo·. Poiché vi ho discusso con grande impegno e con approfondimenti sottili della sua grandezza, e mio intendimento era quello di dimostrare se possibile che tale grandezza non è riportabile alla dimensione dei corpi materiali, pur trattandosi di qualcosa di veramente grande, il libro nel suo insieme ha ricevuto il suo titolo da quest’unica questione, titolo che, pertanto, suona: La grandezza dell’anima.

8.2 In questo libro ho espresso l’opinione che l’anima abbia recato con sé i contenuti di tutte le arti e che quello che chiamiamo apprendere altro non sia che richiamare alla memoria e ricordare·. Questa affermazione non va però intesa nel senso che si accetta una di queste ipotesi: o che l’anima sia già vissuta in questo mondo, inserita in un altro corpo, o che sia vissuta altrove, non importa se nel corpo o fuori del corpo, e che abbia precedentemente appreso in un’altra vita ciò cui è in grado di rispondere se interrogata, visto che in questa non può averlo appreso·. Può essere infatti, come s’è già detto in quest’opera , che l’anima abbia tale capacità in quanto rientra nella sfera delle nature intelligibili e le realtà cui essa è connessa sono non solo intelligibili, ma anche immortali. Pertanto l’ordine in cui rientra comporta che, ogni qualvolta si volge alle realtà cui è connessa o a se stessa, è in grado di dare su tali realtà risposte conformi al vero in quanto ne ha diretta intuizione. Né ha recato con sé e possiede in quel modo i contenuti di tutte le arti: su quelle che attengono ai sensi del corpo, come per esempio su molti aspetti della medicina e su tutti i contenuti dell’astronomia, non è in grado di esporre se non ciò che ha potuto apprendere in questo mondo. È invece in grado di rispondere, in base a quanto s’è detto, sulle verità colte dalla sola intelligenza ogni qualvolta sia stata correttamente interrogata da se stessa o da altri e quando le abbia richiamate alla memoria.

8.3 In un altro passo ho detto: Vorrei a questo punto dire di più ed impormi, mentre in certo qual modo ti faccio da maestro, di non por mano ad altro se non al compito di restituirmi a me stesso cui soprattutto mi debbo·. Mi sembra che avrei dovuto piuttosto dire: restituirmi a Dio al quale soprattutto mi debbo. Mi ero espresso così poiché l’uomo deve in primo luogo restituirsi a se stesso: solo a questo punto, fatto in un certo senso il primo passo, può alzarsi e salire fino a Dio come il figlio minore della parabola che, dopo esser rientrato in se stesso disse: M’alzerò e andrò da mio padre·. Subito dopo ho aggiunto: e diventare uno schiavo amico del padrone. Quanto alla frase: cui soprattutto mi debbo, è da intendersi in riferimento agli uomini: mi debbo infatti a me stesso più che a tutti gli altri uomini, anche se a Dio più che a me stesso.

Questo libro incomincia così: Poiché vedo che hai molto tempo libero.

IX (VIII) – Il libero arbitrio, tre libri

9.1 Mentre ci trovavamo ancora a Roma si manifestò in noi la volontà di approfondire, attraverso una disputa, il problema dell’origine del male e impostammo la discussione secondo un progetto ben preciso, quello di esperire la possibilità che un’argomentazione ben meditata e articolata, compatibilmente con quanto attraverso tale discussione era possibile realizzare in tale direzione con l’aiuto di Dio, conducesse alla nostra comprensione la verità su questo argomento cui già aderivamo in obbedienza all’autorità divina. E poiché, dopo aver attentamente discusso la questione, giungemmo unanimemente alla conclusione che il male deriva dal libero arbitrio della volontà, i tre libri scaturiti dalla disputa ebbero come titolo Il libero arbitrio. Condussi a termine come potei il terzo e il quarto in Africa, quando ero già stato ordinato sacerdote ad Ippona.

9.2 In questi libri i temi discussi erano talmente tanti da indurmi a rimandare la soluzione di talune questioni che mi si erano presentate cammin facendo e che non ero riuscito a sviluppare adeguatamente o che avrebbero comunque richiesto sul momento un lungo discorso. S’era però fatto in modo che, partendo da due o da tutte le posizioni alternative che quelle questioni, in mancanza dell’evidenza del vero, comportavano, il nostro argomentare dovesse comunque addivenire al risultato che, quale che fosse la vera fra le soluzioni proposte, si fosse tenuti a ritenere o anche a dimostrare che a Dio spetta la lode. Quella discussione fu intrapresa per coloro che escludono che l’origine del male possa essere ricondotta al libero arbitrio della volontà e sostengono che, se si accetta tale origine, si è costretti ad attribuirne la colpa a Dio, creatore di tutti gli esseri. Scopo di questo loro atteggiamento è l’introduzione di un principio del male immutabile e coeterno a Dio e ciò fanno – trattasi infatti dei Manichei – per tener fede a un errore della loro empia dottrina. Da quei libri invece, data la specificità della questione proposta, è del tutto assente ogni discussione sulla grazia mediante la quale Dio ha predestinato i suoi eletti predisponendo la volontà di quelli fra loro che già nell’esercitare tale volontà fruiscono del libero arbitrio. Quando se n’è offerta l’occasione se n’è fatta solo una rapida menzione e si è evitato di fornirne una approfondita e laboriosa difesa quasi che quello fosse il tema affrontato. Altro è infatti interrogarsi sull’origine del male, altro è chiedersi donde prendere l’avvio per tornare al bene di un tempo o per raggiungerne uno maggiore.

9.3 Non si esaltino troppo però i nuovi eretici seguaci di Pelagio. Se in questi libri ci siamo lasciati andare a molte affermazioni favorevoli al libero arbitrio in conformità con quanto il tema affrontato esigeva, ciò non significa che intendessimo metterci sullo stesso piano di gente come loro, che sostengono il libero arbitrio della volontà fino al punto di togliere spazio alla grazia divina e di ritenere che questa ci sia concessa in conseguenza dei nostri meriti. Ho detto, è vero, nel primo libro: Le cattive azioni sono punite dalla giustizia di Dio; ed ho aggiunto: Non sarebbe giusta la punizione se non fossero commesse volontariamente·. Parimenti, nel sostenere che la buona volontà è un bene così grande da sopravanzare giustamente tutti i beni propri del corpo e ad esso esterni, ho detto: Ti sarà ormai chiaro, a quanto mi par di capire, che dipende dalla volontà il fruire o il non fruire di un bene così grande e così autentico: che v’è infatti di più interno alla volontà della volontà stessa? E in un altro passo: Che motivo c’è di porre in dubbio una verità come questa, che cioè è in forza della volontà che noi, pur se in passato fummo sempre privi di saggezza, conduciamo meritatamente una vita apprezzabile e felice e che, sempre per opera della volontà, ne conduciamo una indegna ed infelice? Così pure ho scritto in un altro passo: Ne consegue che chiunque vuol vivere con rettitudine ed onestà, se è sua volontà il volerlo, rinunciando ai beni fugaci, conseguirà un bene così grande con tanta facilità che per lui il conseguire l’oggetto della sua volontà coinciderà con l’atto stesso di volerlo. Così pure altrove ho scritto: Quella legge divina, che è tempo di riprendere in considerazione, ha fissato con immutabile decreto questo principio, che nella volontà stia il merito, nella felicità e nella miseria il premio e il castigo. E altrove: Risulta legata alla volontà la decisione che ciascuno sceglie liberamente di seguire e di adottare. Nel secondo libro poi ho detto: L’uomo stesso, infatti, in quanto uomo, è un bene, dal momento che, qualora lo voglia, può realizzare una retta condotta di vita. In un altro passo dello stesso libro ho affermato che il libero arbitrio della volontà è condizione necessaria per un agire corretto. Nel terzo libro poi ho detto: Che motivo c’è di chiedersi donde derivi questo impulso in conseguenza del quale la volontà è stornata da un bene non soggetto a mutamento e volta verso un bene mutevole? Non riconosciamo forse che tale impulso è peculiare dell’anima, volontario e per ciò stesso colpevole e che ogni regola utile al riguardo ha un ben preciso scopo, quello di disapprovare e fermare quell’impulso e di volgere la nostra volontà dalla mutabilità di ciò che è temporale alla fruizione del bene eterno? In un altro passo ho detto: Ciò che dici di te è la verità a proclamarlo nel modo migliore. Non potresti avvertire che è in nostro potere se non il fatto stesso di fare ciò che vogliamo. Nulla pertanto è in nostro potere quanto la stessa volontà: essa infatti è completamente e senza indugio a nostra disposizione non appena lo vogliamo. Così pure ho detto in un altro passo: Se ricevi lode quando vedi ciò che devi fare, anche se non lo vedi se non in colui che è l’immutabile verità, quanto più si dovrà rendere lode a colui che ci ha ordinato di volerlo, ci ha offerto la possibilità di farlo e non ha permesso che rimanesse impunito il nostro rifiuto. Quindi ho aggiunto: Se il dovere di ciascuno è in rapporto con ciò che ha ricevuto e se l’uomo è fatto in modo che deve necessariamente peccare, il suo dovere sarà di peccare. Quando dunque pecca fa ciò che deve. Ma poiché dire questo è un delitto, ne deriva che nessuno è spinto dalla sua peculiare natura a peccare. E ancora: Quale infine potrà essere una causa della volontà che preceda la volontà? O infatti si identifica con la volontà stessa e non ci si allontana da quella prima radice che è la volontà, o è altro dalla volontà e non contempla alcun peccato. O dunque la volontà è la prima causa del peccare, o nessun peccato lo può essere. Ma non si può ragionevolmente imputare il peccato se non a chi pecca. Non è quindi giusto imputarlo ad alcuno se non a chi pecca volontariamente. Dico poco più avanti: Chi pecca nel fare ciò che non può assolutamente essere evitato? Visto però che di fatto si pecca, ciò significa che evitare è possibile. Di questa mia testimonianza si è servito Pelagio in un suo libro, ed io, nel rispondergli con un altro libro, ho voluto che il titolo del mio fosse: La natura e la grazia.

9.4 Poiché nelle espressioni citate e in altre consimili non si fa menzione alcuna della grazia divina, che non era allora in questione, i Pelagiani ritengono o possono ritenere che noi fossimo sulla loro stessa linea. Ma è una supposizione infondata. È certamente la volontà che ci fa peccare e vivere rettamente, e questo è il concetto che abbiamo sviluppato nelle espressioni qui riportate. Se quindi non interviene la grazia divina a liberare la stessa volontà dalla condizione servile che la fa schiava del peccato e non l’aiuta a superare i suoi difetti, non è possibile ai mortali vivere secondo pietà e giustizia. E se questo benefico intervento divino, che libera la volontà, non la precedesse, lo si dovrebbe considerare come un compenso concesso ai suoi meriti e non sarebbe più grazia, visto che per grazia s’intende in ogni caso ciò che è dato gratuitamente. Di questo abbiamo sufficientemente trattato in altri nostri opuscoli, nel contesto della confutazione dei nuovi eretici che di questa grazia si dichiarano nemici. Ciò non toglie che nei libri sul libero arbitrio ora in esame, che non abbiamo assolutamente scritto contro di loro, visto che a quel tempo ancora non esistevano, bensì contro i Manichei, non abbiamo del tutto passato sotto silenzio codesta grazia divina ch’essi si sforzano di togliere di mezzo con indicibile empietà. Abbiamo detto nel secondo libro: Non solo i beni grandi, ma anche gli infimi non possono trarre il loro essere che da colui che è la fonte di tutti i beni, cioè da Dio. E poco oltre: Le virtù, grazie alle quali viviamo rettamente, sono dei beni grandi. I pregi esteriori dei corpi, quali essi siano, la cui assenza è compatibile con una vita conforme a rettitudine, sono beni infimi. Le potenzialità dell’anima, in mancanza delle quali vivere rettamente è impossibile, sono beni medi. Ora non c’è nessuno che faccia cattivo uso delle virtù, ma chiunque non solo può far buon uso degli altri beni, cioè dei medi e degli infimi, ma anche farne uno cattivo. E il motivo per cui nessuno può far cattivo uso della virtù consiste nel fatto che funzione della virtù è il buon uso di quei beni dei quali è possibile anche fare un uso non buono. Ma nessuno, facendone buon uso, può farne uno cattivo. È per questo che la generosità e la grandezza della bontà divina ha concesso che ci siano beni grandi, ma anche beni medi ed infimi. La sua bontà va lodata più nei grandi beni che nei medi, e più nei medi che negli infimi. Ma in tutti più che se non ce li avesse tutti forniti. E in un altro passo ho detto: Tu però mantieni saldo il tuo sentimento religioso sì che alla tua sensibilità, o alla tua intelligenza, o al tuo pensiero, comunque sia orientato, nulla si presenti come un bene che non derivi da Dio. Così pure in un altro passo ho detto: Ma poiché l’uomo, che di sua iniziativa è caduto, non può allo stesso modo risollevarsi di sua iniziativa, afferriamo con fede sicura la mano di Dio che ci vien tesa dall’alto nella persona del Signore nostro Gesù Cristo.

9.5 Nel terzo libro, l’ammetto, ero ricorso a un’espressione che, come s’è ricordato, aveva indotto Pelagio a trarre dai miei scritti argomenti a suo favore. Essa suona: Chi pecca nel fare ciò che non può essere evitato? Visto però che di fatto si pecca, ciò significa che evitare è possibile. Subito dopo però avevo aggiunto: E tuttavia ci sono azioni compiute per ignoranza che vengono riprovate e che si ritiene debbano essere corrette in base all’autorità delle Sacre Scritture. Dice infatti l’Apostolo: "·Ho ottenuto misericordia poiché ho agito per ignoranza·"E il Profeta: "·Dimentica i peccati dovuti alla mia giovane età ed alla mia ignoranza·"Anche ciò che si fa per necessità va riprovato, quando l’uomo vuole agire correttamente, ma non è in grado di farlo. Che fondamento avrebbero altrimenti espressioni come questa: "·Non faccio il bene che voglio, ma il male che odio·"; o l’altra: "·Non mi manca la volontà, ma la possibilità di fare il bene·"o l’altra ancora: "·La carne concepisce desideri in contrasto con lo spirito, e lo spirito in contrasto con la carne: queste due componenti infatti si avversano reciprocamente sì da non permettervi di fare ciò che volete·"Ma tutte queste miserie sono appannaggio degli uomini che hanno alle loro spalle la nota condanna a morire. Se infatti questa non è una punizione per l’uomo, ma una legge di natura, allora codesti non sono peccati. E se non si allontana da quella situazione nella quale è stato creato e che non contempla un miglioramento, l’uomo, comportandosi come si comporta, fa solo ciò che deve. Ovviamente se l’uomo fosse buono, la sua situazione sarebbe diversa. In realtà però, dato ch’è così com’è, non è buono e non ha la possibilità di esserlo sia che non veda quale dovrebbe essere, sia che lo veda e non riesca ad essere quale vede di dover essere. Chi dubiterebbe che questa sia una punizione? Ma ogni punizione, se è giusta, è punizione del peccato e prende il nome di castigo. Se invece è ingiusta, visto che nessuno pone in dubbio che si tratti di una punizione, ciò vuol dire che è stata inflitta all’uomo in forza di un potere ingiusto. Poiché tuttavia è da folle dubitare dell’onnipotenza e della giustizia di Dio, questa punizione è giusta e viene scontata per qualche peccato. È infatti impensabile che un tiranno ingiusto abbia potuto o sottrarre l’uomo a Dio senza che se n’accorgesse o che, al fine di tormentare l’uomo con una ingiusta punizione, glielo abbia strappato suo malgrado e abbia approfittato della sua debolezza terrorizzandolo o lottando con lui. Resta dunque come unica soluzione che questa giusta punizione derivi da una condanna nei riguardi dell’uomo·. E in un altro passo ho detto: Sostenere il falso in luogo del vero pur cadendo nell’errore contro la propria volontà e non riuscire a trattenersi da un comportamento passionale per la resistenza e il tormento provocati dalla dolorosa schiavitù della carne, non rientra nella naturale costituzione dell’uomo, ma costituisce la pena di un condannato. Quando perciò parliamo della libera volontà di agire rettamente, intendiamo riferirci a quella libertà nella quale l’uomo è stato creato.

9.6 Ed ecco che, prima ancora che facesse la sua comparsa l’eresia pelagiana, avevamo impostato la nostra discussione come se già avessimo i Pelagiani come bersaglio. Visto che, come s’è detto, tutti i beni derivano da Dio, sia quelli grandi, sia quelli medi, sia quelli infimi, il libero arbitrio della volontà trova posto fra i medi, in quanto se ne può fare anche un uso cattivo; e tale sua classificazione è valida anche se esso è tale che, ove venga a mancare, è impossibile tenere una corretta condotta di vita. Il suo buon uso però è già una virtù che fa parte dei grandi beni dei quali nessuno può far cattivo uso. E poiché, come si è detto, tutti i beni, sia quelli grandi, sia quelli medi, sia quelli infimi, derivano da Dio, se ne conclude che da Dio deriva anche il buon uso della libera volontà che è una virtù ed è annoverato fra i grandi beni. Quindi si è detto: possa la grazia divina liberarci da quale infelicità, anche se inflitta ai peccatori con somma giustizia, possa la grazia divina liberarci: è un fatto che l’uomo poté di sua iniziativa cadere in conseguenza del libero arbitrio, ma non allo stesso modo risorgere. A questa infelicità di una giusta condanna si riferisce l’ignoranza e la difficoltà di cui è vittima l’uomo fin dal momento della nascita, né alcuno può essere liberato da questo male senza l’intervento della grazia divina. Negando il peccato originale i Pelagiani escludono che questa infelicità possa discendere da una giusta condanna. Pur tuttavia, anche nel caso che ignoranza e difficoltà fossero ascrivibili alla originaria natura dell’uomo, non per questo Dio sarebbe da incolpare, ma piuttosto da lodare, come risulta dalla discussione contenuta nel terzo libro. La discussione contenuta nell’opera in questione va intesa come rivolta contro i Manichei i quali non accettano le Sacre Scritture comprese nell’Antico Testamento contenente il racconto del peccato originale, e sostengono che quanto si legge al riguardo nelle Lettere degli Apostoli vi sarebbe stato introdotto con detestabile impudenza dai corruttori delle Scritture, quasi che gli Apostoli non ne avessero punto parlato. Contro i Pelagiani invece occorre difendere ciò che raccomandano entrambe le Scritture ch’essi affermano di accettare.

Quest’opera incomincia così: Dimmi, te ne prego, se Dio non sia autore del male.

X (IX) – La Genesi difesa contro i Manichei, due libri

10.1 Quando mi ero stabilito già in Africa scrissi due libri in difesa de La Genesi contro i Manichei. L’intento di oppormi ai Manichei non era estraneo ai libri precedenti ed era già presente in tutte le mie discussioni miranti a dimostrare che Dio nella sua suprema bontà e immutabilità è il creatore di tutte le nature soggette a mutamento e che nessuna natura o sostanza è cattiva in quanto natura o sostanza. Questi due libri però furono scritti espressamente contro costoro a difesa dell’Antica Legge ch’essi attaccano con la veemente passione suscitata in loro da un folle errore. Il primo dei due libri prende avvio dalle parole: In principio Dio creò il cielo e la terra, e prosegue per sette giorni fino al punto in cui è detto che nel settimo giorno Dio si riposò. Il secondo parte dalle parole: Questo è il libro della creazione del cielo e della terra, e continua fino alla cacciata di Adamo e della sua donna dal Paradiso ed alla collocazione di una guardia a difesa dell’albero della vita. Alla fine del libro ho contrapposto la fede della verità cattolica all’errore dei Manichei e ho esposto brevemente, ma con molta chiarezza, le loro e le nostre posizioni.

10.2 Ho detto: Quella luce non nutre gli occhi degli uccelli privi di ragione, ma i cuori puri di coloro che credono in Dio e si volgono dall’amore delle realtà visibili e temporanee verso l’adempimento dei suoi precetti; e questo è in potere di tutti gli uomini, qualora lo vogliano. Non credano però i nuovi eretici seguaci di Pelagio che la frase sia stata detta nel senso che intendono loro. È senz’altro vero che tutti gli uomini possono farlo, qualora lo vogliano, ma la loro volontà vien preparata dal Signore e riceve un tale incremento dal dono dell’amore da metterli in grado di farlo. Non ho fatto allora questa precisazione perché non necessaria a chiarire il tema al momento in discussione. Nel mio scritto si legge altresì che la benedizione del Signore espressa con le parole: Crescete e moltiplicatevi, si trasformò, dopo il peccato, in fecondità carnale. Non sono però assolutamented’accordo se si intendono queste mie parole unicamente nel senso che gli uomini non avrebbero avuto figli se non avessero peccato. La constatazione poi che ci sono sia quadrupedi sia volatili, che si nutrono solo di carni, non implica come logica conseguenza che si debba interpretare in senso esclusivamente allegorico quanto si legge nel libro della Genesi, che cioè ad ogni genere di animali e a tutti gli uccelli e a tutti i serpenti vengono forniti, perché possano nutrirsi, erbe fresche e alberi da frutto. Tali animali infatti avrebbero potuto esser nutriti dagli uomini anche coi frutti della terra qualora essi, servendo Dio in perfetta innocenza, avessero meritato, come corrispettivo di tale obbedienza, la totale sottomissione al loro volere di tutte le bestie e di tutti i volatili. Allo stesso modo può meravigliare il modo col quale mi sono espresso a proposito del popolo d’Israele quando ho affermato che quel popolo serviva ancora la legge con la pratica materiale della circoncisione e con i sacrifici, come se si trovasse nel mare dei pagani. In realtà gli Israeliti non avrebbero potuto sacrificare fra i pagani: anche oggi possiamo constatare che non seguono la pratica dei sacrifici, a meno che non si consideri un sacrificio l’uccisione di un agnello in occasione della Pasqua.

10.3 Nel secondo libro non mi sembra congruente l’affermazione che il termine nutrimento potrebbe simboleggiare la vita; i codici che ci hanno trasmesso la traduzione migliore recano fieno e non nutrimento e il termine fieno si adatta assai meno di nutrimento a simboleggiare la vita. Non mi sembra, inoltre, di aver correttamente denominato parole profetiche quelle contenute nel passo della Scrittura che suona: Perché insuperbiscono la terra e la cenere?. Trattasi di un’espressione che non si legge nel libro di un autore al quale siam certi che spetti il nome di profeta. Non ho neppure esattamente inteso il senso del passo dell’Apostolo nel quale egli adduce le parole della GenesiIl primo uomo, Adamo, fu creato come anima vivente. L’errore l’ho fatto nel commentare le parole, sempre della GenesiDio soffiò sul suo volto il soffio della vita e l’uomo fu creato come anima viva o anima vivente. In realtà l’Apostolo aveva addotto quel passo per dimostrare che il corpo umano è fornito di anima, io invece, partendo da quello da me citato, pensavo di poter dimostrare che in principio tutto l’uomo, e non solo il corpo dell’uomo, fu fornito di anima. Ho anche detto che nessuna natura riceve un danno che provenga da peccati non suoi, e l’ho detto in quanto chi fa del male a un giusto non lo fa a lui, che anzi aumenta il suo compenso nei cieli; lo fa invece concretamente a se stesso poiché, in conseguenza della sua volontà di nuocere, riceverà il male che ha fatto. I Pelagiani – inutile dirlo – possono interpretare questa affermazione nel senso da loro voluto e sostenere che i peccati altrui non hanno danneggiato i bambini in quanto sono stato io ad affermare che nessuna natura può ricevere un danno che non provenga da peccati non suoi. Essi però non considerano che i bambini – i quali in ogni caso appartengono alla natura umana – ereditano il peccato originale in quanto fu la natura umana a peccare nei primi uomini: è esatto pertanto dire che nessuna natura riceve un danno che non provenga dai suoi peccati. Sappiamo infatti che fu a causa di un sol uomo, nel quale tutti peccarono, che il peccato entrò nel mondo. Non ho infatti detto che nessun uomo, ma che nessuna natura riceve un danno che provenga da peccati non suoi. I Pelagiani potrebbero anche rifugiarsi nell’affermazione da me fatta poco dopo che non esiste un male naturale. Intendevamo però riferirci alla natura quale era all’inizio, senza difetto alcuno, ed in realtà è quella la natura che vien propriamente definita natura dell’uomo. Noi invece ci serviamo del termine natura in senso metaforico per designare l’uomo qual è alla sua nascita. Ed è in questa chiave che s’esprime l’Apostolo dicendo: Siamo stati anche noi un tempo per natura figli dell’ira come tutti gli altr.

Quest’opera incomincia così: Se i Manichei scegliessero le persone da ingannare.

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