SERMONE LXVI

 

 

I. Ancora su questi nuovi eretici; sono questi quelli dei quali specialmente dice l’Apostolo che nell’ipocrisia proferiscono menzogna. II. Condannano le nozze; taluni le ammettono solo per chi è vergine. Confutazione. III. I cibi che giudicano immondi; dicono di consumare il corpo di Cristo, e si dicono «apostolici». IV. Confutazione del fatto che dicono che non si devono battezzare i bambini, non si deve pregare per i defunti, non si deve chiedere la intercessione dei santi. V. Disprezzano gli Ordini e gli statuti della Chiesa, e ciò è segno di maggiore ostinazione, quando sono presi, si danno la morte per le loro sette.

 

 

I. 1, Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne (Cant 2,15). Eccomi nuovamente a queste volpi. Sono esse che camminano fuori strada e vendemmiano la vigna. Non si contentano di abbandonare la strada se non possono disertare anche la vigna, aggiungendo anche la prevaricazione. Non basta loro essere eretici, vogliono essere anche ipocriti, perché il loro peccato sia grande oltre misura. Sono questi quelli che vengono in veste di pecore, per denudare le pecore e spogliare gli arieti. Non ti sembra adempiuta l’una e l’altra cosa quando le popolazioni vengono private della fede e i sacerdoti depredati dalle popolazioni? Chi sono questi predoni? All’abito sono pecore, per l’astuzia volpi, per la crudeltà lupi. Sono questi coloro che vogliono sembrare buoni, non esserlo, essere cattivi, ma non apparire tali. Sono malvagi e vogliono sembrare buoni, per non essere malvagi essi soli; temono di apparire cattivi, per non esser cattivi in pochi. Infatti, la malizia conosciuta ha sempre recato minor danno, né uno buono è mai stato ingannato se non con la simulazione del bene. Così, dunque, costoro cercano di apparire buoni in danno dei buoni; non vogliono apparire cattivi per poter maggiormente malignare. Essi non si preoccupano di coltivare le virtù, ma di colorare i vizi con una patina di virtù. Infine, chiamano religione l’empia superstizione. Dicono solo al di fuori di non portare pregiudizio all’innocenza, attribuendo solo a se stessi il colore dell’innocenza. Per coprire la turpitudine si insigniscono con il voto di continenza. Ritengono che la turpitudine sta nell’aver moglie, mentre le relazioni con questa sono le sole esenti da turpitudine. Sono rozzi e idioti, e del tutto spregevoli; ma, vi dico, non per questo bisogna agire con loro con negligenza: Tendono infatti a far crescere sempre di più nell’empietà, e la loro parola si propaga come una cancrena (2 Tm 2,17).

 

2. E poi non li trascurò lo Spirito Santo che un tempo vaticinò chiaramente di costoro dicendo: Lo Spirito Santo dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia di impostori, e già bollati a fuoco nella loro coscienza. Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie (1 Tm 4,1-3). Questi, proprio di questi parlava. Costoro proibiscono di sposarsi, costoro si astengono da cibi che Dio ha creato, come vedremo in seguito. Ed ora vedete se questo non è un inganno dei demoni, più che degli uomini, secondo che aveva predetto lo Spirito. Chiedi ad essi quale sia l’autore della loro setta. Non indicheranno alcun uomo. Quale eresia non ha avuto tra gli uomini un suo eresiarca? I Manichei ebbero come capo e maestro Mane, i Sabelliani Sabellio, gli Ariani Ario, gli Eumoniani Eumonio, i Nestonani Nestorio. Così tutte le altre pesti del genere ebbero ciascuna i loro maestri, uomini a cui fanno risalire la loro origine e dai quali presero il nome. Sotto qual nome o titolo si possono catalogare questi ultimi? Poiché la loro eresia non ha origine da un uomo, né da uomo l’hanno ricevuta; tanto meno, poi, l’hanno avuta per rivelazione di Gesù Cristo, ma piuttosto come predisse lo Spirito Santo, per suggestione e inganno dei demoni che ipocritamente hanno insinuato la menzogna, proibendo il matrimonio.

 

3. Davvero ipocritamente e con volpina scaltrezza dicono questo, fingendo di dire questo per amore della castità, mentre è un ritrovato per favorire la turpitudine e moltiplicarla. La cosa, tuttavia, è talmente risaputa che mi meraviglio come mai un cristiano possa cadere nei loro lacci: sennonché questi tali sono così bestiali da non accorgersi, come chi condanna le nozze apre le porte a ogni specie di immondizia; oppure sono così vieni di malizia, e presi da diabolica malignità che, pur avvertendo la cosa, la dissimulano, e si fanno un piacere della perdizione degli uomini.

 

II. Togli dalla Chiesa l’onorato connubio, togli il talamo immacolato: non la riempirai forse di concubinari, di incestuosi, di libidinosi e di effeminati, di invertiti e di ogni specie di immondi? Scegliete dunque tra le due cose: o che si salvano tutti questi mostri di uomini, o il numero dei salvati si riduce ai pochi continenti. In un caso come siete stretti, e quanto larghi nell’altro! Ma nessuno di questi due casi conviene al Salvatore. E che? Sarà coronata la turpitudine? Nulla è meno decente per l’Autore dell’onestà. Saranno tutti dannati, eccetto il piccolo numero dei continenti? Non è questo esser Salvatore. Rara è sulla terra la continenza; né per un così piccolo guadagno quella pienezza si è annichilita sulla terra. E in che modo tutti abbiamo da essa ricevuto se ha concesso ai soli continenti la partecipazione di sé? A questo non rispondono, ma neppure a quest’altro, penso io: se in cielo c’è posto per l’onestà e non possono stare insieme l’onesto e il turpe, come non ci può essere società tra la luce e le tenebre, è chiaro che nel luogo della salvezza non vi può essere posto per nessuno degli immondi. Se uno pensa diversamente lo rimprovera la voce dell’Apostolo che dice, togliendo ogni ambiguità: Quelli che operano tali cose non possederanno il Regno di Dio (Gal 5,21). Da quale caverna verrà ora fuori questa piccola volpe? Penso che sia stata presa nella fossa, nella quale si è fatta come due buchi, uno per entrare e uno per uscire. Così era abituata a fare. Vedi ora come da una parte e dall’altra le è preclusa l’uscita. Se nei cieli colloca i soli continenti, viene meno per la massima parte la salvezza; se vuol mettere insieme con i continenti ogni specie di sporcizie non c’è più onestà. Ma é più giusto che perisca essa, e non potendo uscire né di qui né di là resti per sempre rinchiusa e prigioniera nella fossa che ha scavato.

 

4. Alcuni dissenzienti tuttavia dagli altri dicono che il matrimonio si può contrarre solo da persone vergini. Ma non vedo quali ragioni possano addurre per giustificare questa distinzione. Solo questo risulta evidente, che fanno a gara tra di loro per lacerare con denti di vipera i sacramenti della Chiesa, come le viscere della madre, ognuno a suo capriccio. Quello, infatti, che pretendono circa i primi coniugi, che cioè erano vergini, non pregiudica affatto la libertà del matrimonio, per cui non sia lecito contrarlo dai non vergini. Ma non so che cosa sussurrino di aver trovato nel Vangelo che pensano dar ragione alla loro opinione. Forse quel passo dove il Signore, premessa la testimonianza della Genesi:E Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, li creò maschio e femmina, dopo aggiunse: Dunque quello che Dio ha unito l’uomo non separi(Gen 1,27; Mc 10,10). «Questi, dicono, Dio li ha uniti perché erano vergini entrambi, e ormai non si possono più separare: Non sarà, invece, da Dio un’altra unione fatta in diverse condizioni». «Chi ti ha detto che Dio li ha uniti perché erano forse vergini?», riprende. «Lo erano, ma non è lo stesso dire che furono uniti vergini e dire che furono uniti perché vergini. Quantunque neppure questo sia detto espressamente, che cioè erano vergini, sebbene in realtà lo fossero. È stata espressa la diversità dei sessi, non la verginità, essendo detto: Li creò maschio e femmina. E con ragione. L’unione matrimoniale non richiede l’integrità del corpo, ma l’attitudine dei sessi. Giustamente perciò nell’istituirla lo Spirito Santo espresse il sesso, e non parlò della verginità, né diede occasione alle insidiose volpi di andare a caccia di parole. Il che ben volentieri avrebbero fatto, sebbene inutilmente. Se avesse pur detto la Scrittura «li creò vergini», ne dedurresti per questo che si possono sposare solo i vergini? E tuttavia come esulteresti se solo avessi trovato questa frase? Come avresti disprezzato le seconde e le terze nozze? Come avresti insultato la Chiesa Cattolica che unisce tanto più volentieri in matrimonio le meretrici e i lenoni, in quanto non dubita che così essi passano da una vita turpe a una onesta? Forse faresti un rimprovero a Dio, che comanda al Profeta di prendere in moglie una sgualdrina: ma ora non hai questo pretesto, e ti piace essere eretico senza motivo. Poiché l’argomento che hai portato per giustificare il tuo errore è piuttosto contrario e di molto a te, che non in tuo favore.

 

5. Ora senti un argomento che, o ti confonde del tutto, o ti corregge, e distrugge e manda in frantumi la tua eresia. La donna è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito muore è libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore (1 Cor 7,39). È Paolo che concede alla vedova di sposare chi vuole e tu al contrario comandi che nessuna si sposi se non è vergine, e nel caso solo con un uomo vergine, e non con chi lei vuole? Perché mai vuoi accorciare la mano del Signore? Perché restringi la larga benedizione delle nozze? Per quali ragioni riservi alla verginità quello che é stato concesso al sesso? Non concederebbe Paolo questo se non fosse lecito. Ma dico poco «concede»: lo vuole anche: Voglio, dice, che le più giovani si sposino (1 Tm 5,14): né vi è dubbio che non parli alle vedove. Che vi è di più chiaro? Dunque, quello che conce de perché è lecito lo vuole anche perché è conveniente. Ciò che è lecito e conveniente l’eretico lo vieta? Nulla in questa proibizione si spiega se non perché è eretico.

 

III. 6. Ci rimane da scuotere un poco costoro riguardo al rimanente della profezia dell’Apostolo. Come egli predisse, infatti, questi si astengono dai cibi che Dio ha creato perché fossero presi con rendimento di grazie, mostrandosi anche da questo eretici, non perché si astengono, ma perché lo fanno al modo degli eretici. Poiché anch’io talvolta mi astengo, ma la mia astinenza è soddisfazione per i peccati, non superstizione motivata da empietà. Rimproveriamo forse Paolo che castiga il suo corpo e lo riduce in servitù? Mi astengo dal vino, perché nel vino vi è lussuria, o, se sono infermo, lo berrò un poco, secondo il consiglio dell’Apostolo. Mi asterrò dalla carne, perché mentre nutre troppo, non nutra insieme anche i vizi della carne. Cercherò di prendere con misura lo stesso pane, perché non mi renda pesante lo stomaco e provi tedio nell’orazione, e mi rimproveri anche il Profeta perché mangio il mio pane fino alla sazietà. E neanche mi abituerò a riempirmi troppo di semplice acqua, perché la dilatazione del ventre diventi incentivo alla libidine. Diversamente l’eretico: egli ha in orrore il latte e tutti i suoi derivati, è in genere tutto quello che ha relazione con il rapporto carnale. È cosa retta e cristiana se uno se ne astiene non perché provengono dall’unione carnale, ma perché fomentano le passioni della carne.

 

7. Del resto che senso ha questa generale proibizione di mangiare tutto quello che viene prodotto in seguito alla relazione carnale? Mi genera sospetto questa osservanza rispetto ai cibi così espressamente indicata. Tuttavia, se adduci le norme dei medici che prescrivono di mangiare questo e non quello per riguardo alla salute, non condanniamo la cura della carne che nessuno mai ha in odio, purché si eviti ogni esagerazione; se ti rifai alla disciplina degli astinenti, ossia dei medici spirituali, approviamo anche la virtù, con la quale assoggetti la carne e poni un freno alla libidine. Ma se, imitando la stoltezza dei Manichei, pretendi porre dei limiti alla beneficenza di Dio, di modo che quello che egli ha creato e ci ha donato perché lo prendessimo con azioni di grazie, tu, non solo ingrato, ma temerario censore, lo reputi immondo e te ne astieni come da cosa cattiva, non solo non lodo la tua astinenza, ma ho in esecrazione la tua bestemmia, dirò che tu piuttosto sei immondo, tu che dici immonda qualche cosa. Tutto è mondo per i mondi (Tt 1,15), dice quell’ottimo estimatore delle cose, e nulla è immondo se non per colui che stima immonda qualche cosa: Ma agli immondi e agli infedeli nulla è mondo, ma immonda è la loro mente e la loro coscienza (Tt 1,15). Guai a voi che avete respinto i cibi che Dio ha creato e che voi reputate immondi e indegni di essere immessi nei vostri corpi, mentre per questo il corpo di Cristo che è la Chiesa rigetta voi come corrotti e immondi.

 

8. Non ignoro che si gloriano di essere essi soli il corpo di Cristo; lo credano essi, che pensano anche di avere il potere di consacrare ogni giorno alla loro mensa il corpo e il sangue di Cristo, per nutrire sé e le membra del corpo di Cristo. Si vantano, infatti, di essere i successori degli Apostoli, e si chiamano Apostoli, ma non riescono a mostrare alcun segno del loro apostolato. Fino a quando la lucerna è sotto il moggio? Voi siete la luce del mondo(Mt 5,14), fu detto agli Apostoli, e perciò gli Apostoli sono sul candelabro per illuminare il mondo. È vergogna che i successori degli Apostoli non siano luce del mondo, ma luce del moggio e tenebre per il mondo. Diciamo loro: «Voi siete le tenebre del mondo» e passiamo ad altro. Dicono di essere la Chiesa, ma contraddicono colui che ha detto: Non può star nascosta una città posta sul monte (Mt 5,14). E così voi credete che quella pietra staccata dal monte senza mano d’uomo, che è diventata una montagna e ha riempito il mondo, si sia rinchiusa nei vostri antri? E non fermiamoci neanche qui. La fama stessa rifiuta di fare pubblicità, contenta del sussurro. Ha e avrà sempre Cristo integra la sua eredità, e come suo possesso i confini della terra. A questa grande eredità sottraggono se stessi coloro che si sforzano di sottrarla a Cristo.

 

9. Vedete i detrattori, vedete i cani.

 

IV. Ci deridono perché battezziamo i bambini, perché preghiamo per i morti, perché ci raccomandiamo ai Santi. Da ogni genere di uomini e da ogni sesso si affrettano a proscrivere Cristo, dagli adulti, dai bambini, dai vivi e dai morti; dai bambini, dico, a causa dell’impossibilità della natura, dagli adulti per la difficoltà della continenza, defraudando i morti dell’aiuto dei viventi, e i viventi dell’intercessione dei Santi passati a miglior vita. Ma non è così: Dio non abbandona il suo popolo, che è numeroso come la sabbia del mare, né si accontenterà di pochi eretici colui che ha redento tutti. Non è, infatti, piccola, ma abbondante presso di lui la redenzione. Quanto invece è il numero di costoro, in paragone con l’enormità del prezzo? Ma piuttosto si privano del prezzo coloro che si sforzano di renderlo inutile. Che importa, infatti, se il bambino non può parlare per se stesso, se per lui la voce del sangue di suo fratello, e quale fratello, grida a Dio dalla terra? È presente e grida anche la madre Chiesa. E il bambino? Non ti sembra che anch’egli sospiri in certo qual modo verso le fonti del Salvatore, che gridi a Dio, e con i suoi vagiti esclami: Signore, soffro violenza, rispondi per me (Is 38,14)? Implora l’aiuto della grazia perché soffre violenza dalla natura. Grida l’innocenza del misero, grida l’innocenza del pargolo, grida la debolezza del servo. Gridano, dunque, tutte queste cose, il sangue del fratello, la fede della madre, la necessità del misero e la miseria del bisognoso. E si grida al Padre; ora il. Padre non può rinnegare se stesso: è Padre.

 

10. Nessuno mi dica che quel bambino non ha la fede, dal momento che la madre gli dà la sua, avvolgendolo con essa nel Sacramento, fino a che egli sia capace di ricevere la sua evoluta e pura, non tanto con il senso, ma con il suo consenso. È, forse, questa fede una veste corta che non possa coprirli entrambi? Grande è la fede della Chiesa. È, forse, meno grande della fede della Cananea che si sa essere bastata per sé e per la figlia? E perciò si senti dire: O donna, grande è la tua fede! Ti sia fatto come hai domandato (Mt 15,28), È, forse, inferiore alla fede di coloro che, lasciando calare il paralitico attraverso il tetto, ottennero per lui la salute dell’anima e insieme del corpo? Vedendo la loro fede, èdetto, disse al paralitico: abbi fiducia, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati, e poco dopo: Prendi il tuo lettuccio e cammina (Mc 2,5-9). Chi crede queste cose non solo si persuaderà come giustamente la Chiesa creda nella salvezza dei bambini battezzati nella sua fede, non solo, ma anche nella corona del martirio dei bambini uccisi a causa di Cristo. Stando così le cose nessun pregiudizio sarà a carico dei rigenerati per il fatto che è scritto: Senza fede è impossibile piacere a Dio (Eb 11,6), non essendo senza fede coloro che in testimonianza della fede hanno ricevuto la grazia del Battesimo. E neppure per quanto è detto altrove: Chi poi non avrà creduto sarà condannato (Mc 16,16). Che altro, infatti, è credere, se non aver la fede? Così anche la donna potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede (1 Tm 2,15), e nei bambini la salvezza sarà giustificata dal lavacro di rigenerazione, e gli adulti che non potranno essere continenti si redimeranno con il frutto del trenta per cento del matrimonio; anche le preghiere e i sacrifici dei viventi saranno di giovamento, mediante il ministero degli Angeli, ai defunti che ne hanno bisogno e ne sono degni, e non mancheranno i favori di coloro che già sono pervenuti al premio eterno a: pro di quelli che sono ancora in vita, per Dio che è dappertutto, e in Dio nel quale i trapassati continuano ad essere presenti ai vivi per la carità. Infatti anche Cristo per questo è morto ed è ritornato alla vita, per essere il Signore dei morti e dei vivi (Rm 14,9). Per questo anche è nato bambino, e passando per i vari gradini dell’età divenne uomo, perché non fosse estraneo a ogni età.

 

11. Non credono, questi eretici, che il fuoco del purgatorio resta dopo la morte, ma dicono che appena l’anima è separata dal corpo, o passa al riposo o alla dannazione. Chiedano, pertanto, a colui che ha detto esservi un certo peccato che non sarà rimesso né nella vita presente, né nella futura, perché abbia detto questo, se nella vita futura non vi sarà remissione, né purgazione dei peccati.

 

V. Infine, non fa meraviglia se, non riconoscendo la Chiesa, parlano male degli Ordini della Chiesa e non ne accettano gli statuti, se disprezzano i sacramenti, se non obbediscono ai precetti. «Peccatori dicono sono gli apostolici, gli arcivescovi, i vescovi, i sacerdoti, e per questo non sono idonei né ad amministrare, né a ricevere i sacramenti. Non convengono mai queste due cose: essere vescovo o peccatore». È falso: vescovo era Caifa, e tuttavia quanto grande peccatore, lui che ha dettato la sentenza di morte contro il Signore! Se neghi che fosse vescovo è contro di te la testimonianza di Giovanni, che in testimonianza del suo pontificato riferisce pure che ha profetato. Apostolo era Giuda, e benché avaro e scellerato era stato scelto dal Signore. Dubiti forse che fosse apostolo chi era stato eletto dal Signore? Non vi ho forse scelti io tutti e dodici, e uno di voi è un diavolo? (Gv 6,70). Senti come il medesimo Apostolo è detto scelto e chiamato diavolo; puoi negare ancora che sia vescovo chi è peccatore? Sulla cattedra di Mosè sedettero Scribi e Farisei (Mt 23,2) e chi non obbedisce loro come a vescovi è reo di disobbedienza, dicendo il Signore e ordinando: Fate quello che dicono (Mt 23,3). È chiaro che per quanto Scribi, per quanto Farisei, per quanto grandi peccatori, per riguardo tuttavia alla cattedra di Mosè, appartiene anche ad essi quello che dice il Signore: Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me (Lc 10,16).

 

12. A questo popolo stolto e insipiente gli spiriti dell’errore, che ipocritamente proferiscono menzogne, hanno insegnato molte altre cose; ma non è il caso di rispondere a tutte. E chi le conosce tutte? E poi sarebbe un lavoro infinito voler rispondere a tutte, e per nulla necessario. Poiché, quanto a costoro, né si convincono con ragioni, perché rion capiscono, né si correggono con autorità, perché non la ricevono, né si piegano con argomenti, perché sono perversi. Si è provato: preferiscono morire piuttosto che convertirsi. La loro fine è la morte, e per ultimo li aspetta il fuoco. Essi sono stati antecedentemente prefigurati nel fatto di Sansone e nelle code delle volpi incendiate. Più volte dei fedeli, messe loro le mani addosso, ne trascinarono alcuni in tribunale. Richiesti della loro fede, negando, secondo il costume, tutti gli errori di cui erano sospettati, esaminati con iI giudizio dell’acqua, furono trovati bugiardi. Non potendo ormai più negare perché scoperti, l’acqua infatti non li riceveva e afferrato, come si dice, il freno con i denti, tanto miseramente quanto liberamente non confessarono le loro empietà, ma professarono la pietà apertamente e con prove, pronti a subire per essa la morte che i circostanti erano parimenti pronti a infliggere loro. Così, assalitili, il popolo diede agli eretici nuovi martiri della loro perfidia. Approviamo lo zelo, non consigliamo il fatto, perché la fede deve entrare per persuasione, non venire imposta dalla forza. Quantunque sia senza dubbio meglio che siano costretti con la spada, di colui cioè che non porta inutilmente la spada, piuttosto che si permetta loro di attirare molti altri al loro errore. È, infatti, egli ministro di Dio, incaricato di punire chi agisce male.

 

13. Si stupiscono alcuni che non solo si mostrassero pazienti, ma lieti, mentre erano condotti alla morte; questo perché non pensano quanto potere abbia il diavolo, non solo sui corpi, ma anche sul cuore degli uomini, una volta che gli si è permesso di possederli. Non è forse cosa più grave che un uomo uccida se stesso, che sopportare volentieri di venire ucciso da un altro? Eppure abbiamo l’esperienza che il diavolo spesso ha potuto far questo, in molti che si annegarono volontariamente o si impiccarono. Anche Giuda si è impiccato, certamente per suggestione del diavolo. Io tuttavia mi meraviglio e stimo più grave che abbia potuto mettergli in cuore di tradire il Signore che non di andarsi a impiccare. Non ha nulla a che vedere la costanza dei martiri con la pertinacia di costoro, perché il disprezzo della morte era prodotto nei martiri dalla pietà, in questi dalla durezza di cuore. E perciò il Profeta diceva, forse con la voce del martire: Torpido come il grasso è il loro cuore, ma io mi diletto nella tua legge (Sal 118,70). Per significare che, anche se la pena sembrava la medesima, molto diversa era l’intenzione, mentre l’eretico induriva il suo cuore davanti al Signore, il martire invece meditava nella legge del Signore.

 

14. Stando così le cose non è il caso di dire, come ho accennato, molte cose inutilmente contro uomini stoltissimi e ostinatissimi. Basta averli fatti conoscere, perché se ne stia in guardia. Per la qual cosa per scoprirli si devono costringere o a mandar via le donne, o a uscire dalla Chiesa, perché la scandalizzano con la convivenza con esse. Si deve molto lamentare che non solo principi laici, ma anche, come si dice, alcuni del clero, nonché dell’ordine dei vescovi, i quali più di tutti avrebbero dovuto combatterli, li lascino stare per interesse, ricevendo da essi dei regali. «E come dicono li condanneremo, senza che siano convinti e confessino?». Frivola, non dico ragione, ma pretesto. Anche se non vi fosse altro, li puoi scoprire facilmente se, come ho detto, separi a vicenda uomini e donne che si dicono continenti, e costringi le donne a vivere con altre donne che hanno il medesimo voto, e gli uomini ugualmente con gli uomini di uguale proposito. Con questo si provvederà nello stesso tempo a mantenere il voto e la fama, avendo così testimoni e custodi della propria continenza. Se non si adattano a queste precauzioni giustissimamente saranno eliminati dalla Chiesa che scandalizzano con aperta e illecita coabitazione. Bastino, dunque, queste cose per scoprire gli inganni di queste volpi, e per darne cognizione e cautela alla diletta e gloriosa sposa del Signore nostro Gesù Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXVII

 

 

I. Con chi parla la sposa quando dice: «Il mio diletto a me ecc.» e come la parola dello sposo sia paragonabile a un banchetto. II. La migliore interpretazione è che parli con se stessa e quale è il motivo di un’espressione cosi ellittica. III. La parola della sposa è quasi un rutto; il gusto e l’odorato; ciò che il giusto gusta il peccatore lo odora. IV. L’altra accezione dell’attesa con cui il giusto attende, il peccatore no; il rutto di Davide o di Giovanni o di Paolo. V. Che cosa queste parole sottintendano; il fine delle parole della sposa o del Profeta. VI. Grazia preveniente e susseguente.

 

 

I. 1. Il mio diletto è a me e io a lui (Cant 2,16). Fino a ora erano parole dello Sposo. Ci stia egli vicino, perché possiamo degnamente, a gloria di lui e a salvezza delle nostre anime, investigare le parole della sua sposa. Sono infatti tali che non possono da noi essere considerate e discusse come meritano, se egli non ci guida parlandoci interiormente. Sono infatti queste parole tanto soavi per la grazia quanto ricche di senso e di profondi misteri. A che cosa le assomiglierò? Per ora a una qualche vivanda che abbia eminentemente queste tre doti: deliziosa al palato, che costituisce un solido nutrimento e un’efficace medicina. Così, dico, così ogni singola parola della sposa eccita l’affetto per la sua dolcezza, impingua e nutre la mente per la molteplicità dei sensi e la profondità dei misteri, mentre tanto più esercita l’intelligenza, tanto più incute timore, sanando in modo mirabile il timore della scienza che gonfia. Infatti, se uno di quelli che si credono saputelli si applica con curiosità a scrutare queste cose, scorgendo come le forze del suo ingegno sono del tutto insufficienti, e sentendo ridursi in cattività tutta l’intelligenza, non sarà forse costretto a dire: Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta e io non la comprendo (Sal 138,6)? Pertanto, fin dalle prime parole quanta dolcezza dimostra! Ecco come comincia: Il mio diletto è a me e io a lui. Sembra una semplice voce, perché il suo suono è soave; di questo si vedrà in seguito.

 

2. Ora comincia dalla dilezione, prosegue circa il diletto, giudicando di non sapere altro se non il diletto. È chiaro di che cosa parla; non è ugualmente evidente con chi. Non è, infatti, permesso sentire come quando era con lui, dato che ora lui non è presente. Di questo non v’è dubbio, sembra infatti che ella lo richiami, e quasi gli gridi dietro: Ritorna, diletto mio (Cant 2,17). Siamo perciò indotti a pensare che, finite le sue parole, nuovamente, secondo il suo modo di fare, si sia assentato, ed essa sia rimasta a parlare di lui che non è in effetti mai lontano da lei. Così è: ritenne nella bocca colui che non si assentava dal cuore, anche quando se ne andava. Quello che esce dalla bocca viene dal cuore, e la bocca parla dall’abbondanza del cuore (Lc 6,45). Parla dunque del diletto, come vera diletta e veramente degna di essere amata, perché ama molto. Cerchiamo con chi parli, perché sappiamo di chi parla. E non si presentano altri interlocutori al di fuori delle giovinette, le quali non possono stare lontano dalla madre quando lo Sposo se n’è andato.

 

II. Ma è meglio che riteniamo, penso io, che ella abbia parlato a se stessa, e non con un altro, specialmente perché la stessa espressione è tronca e non sembra aver senso, insufficiente davvero a far comprendere a chi ascolta. E normalmente noi parliamo tra di noi soprattutto per farci comprendere. Il mio diletto è a me e io a lui. Niente più? La frase è sospesa, non solo, ma manca qualche cosa. L’uditore pure rimane sospeso, né viene informato ma reso attento.

 

3. Che cosa significa «lui a me e io a lui»? Non sappiamo che cosa voglia dire perché non sentiamo quello che lei sente. O anima santa, che cosa è per te quel tuo, e che cosa sei tu per lui? Quale, di grazia, è questa vostra vicendevole disponibilità che vi scambiate con tanta familiarità e devozione? Egli è a te, e tu a tua volta a lui. Ma che cosa? Sei tu per lui lo stesso che lui è per te, o diverso? Se parli a noi, alla nostra intelligenza, dicci chiaramente quello che senti. Fino a quando ci tieni sospesi? O, secondo il Profeta, il tuo segreto lo tieni per te? È così: ha parlato l’affetto, non l’intelletto, e perciò non all’intelligenza. A che cosa dunque? A nulla. Se non che piena di meraviglioso diletto e fortemente bramosa verso i desiderati colloqui, quando egli vi pose termine non poté tacere del tutto, né fu in grado di esprimere quello che sentiva. A questo non erano dirette le parole che disse, ma solo per non tacere. Dall’abbondanza del cuore la bocca ha parlato, ma non per esprimere quell’abbondanza. Gli affetti hanno le loro parole con le quali, anche quando non vogliono, si tradiscono. Quelle del timore per esempio sono meticolose, quelle del dolore gemebonde, e quelle dell’amore gioconde. Forse che i pianti dei sofferenti, i singulti degli afflitti o i gemiti di chi è sottoposto alle percosse, e così le grida improvvise e strazianti di chi è colto da spavento, o anche i rutti di chi è sazio sono creati dall’usanza o eccitati dalla ragione, o prodotti liberamente, o premeditati? Certo queste cose nonescono per un cenno dell’animo, ma erompono per un movimento istintivo. Così l’amore ardente e veemente, specialmente quello divino, quando non riesce a contenersi in sé non bada a quale ordine, per quale legge, attraverso quali numerose o poche parole si sfoghi, purché non senta da ciò alcun danno per sé. Talvolta non cerca neppure delle parole, contentandosi di sospiri. Di qui deriva che la sposa, infuocata di santo amore e questo in modo incredibile, per quanto si può dedurre dal quel po’ di irradiazione del fuoco che la infiamma, non bada a quello che dice o come lo dica, ma erutta, più che esporre quanto le viene in bocca sotto la spinta dell’amore. Che cosa non dovrebbe eruttare lei cosi nutrita, così piena?

 

4. Ripassa il testo di questo epitalamio dall’inizio fin qui, e vedi se in tutte le visite e in tutti i colloqui dello Sposo sia stata data mai tanta abbondanza di grazia come questa volta, e se mai dalla bocca di lui abbia sentito, non dico così numerose, ma così dolci parole. Colei, dunque, che aveva saziato il suo desiderio di tali beni, che meraviglia c’è se ha messo fuori un rutto più che una parola? E se ti sembra una parola, pensala eruttata, non preparata o pre-ordinata. Né la sposa pensa di fare una rapina se si applica il detto del Profeta: Il mio cuore eruttò una buona parola (Sal 44,1), in quanto ripiena del medesimo spirito.

 

III. Il mio diletto a me e io a lui. Non si può trarne una conseguenza, in quanto è una frase mancante. Allora? È un rutto. Come cercare in un rutto le connessioni delle frasi, le espressioni solenni? Quali regole o leggi puoi imporre a un rutto? Non riceve la tua moderazione, non aspetta che tu lo disponga a dovere, non cerca la comodità o l’opportunità. Da sé erompe dall’intimo, non solo quando non vuoi, ma quando non te ne accorgi, strappato più che emesso. E tuttavia il rutto porta un odore a volte buono, a volte cattivo, secondo le qualità contrarie dei vasi dai quali sale. L’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre il cattivo cose cattive (Mt 12,35). È un vaso buono la sposa del mio Signore, ed è buono per me l’odore che emana da lei.

 

5. Ti ringrazio, Signore Gesù, che ti sei degnato di ammettermi almeno a sentire il profumo. Così Signore: poiché anche i cagnolini si nutrono delle briciole che cadono dalla mensa dei loro padroni (Mt 15,27). Per me ha buon odore il rutto della tua diletta, e ben volentieri ricevo, sia pure poco, dalla pienezza di lei. Mi erutta la memoria dell’abbondante tua soavità, ed ho sentito un certo ineffabile profumo della tua degnazione in queste parole: Il mio diletto a me e io a lui. Essa, come è giusto, banchetti ed esulti nel tuo cospetto, e sia piena di letizia; tuttavia sia esuberante con te e sobria per noi. Sia essa ripiena dei beni della tua casa, e si abbeveri al torrente della tua voluttà; ma, di grazia, giunga anche a me povero almeno un tenue odore mentre lei, una volta saziata, erutterà. Bene per me eruttò Mosè e nel suo rutto vi fu un buon odore, di potenza creatrice: In principio, dice, Dio creò il cielo e la terra (Gen 1,1). Bene eruttò Isaia: Ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato tra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori (Is 53, 12) perché non perissero. Che cosa mai ha così profumo di misericordia? Buono anche il rutto di Geremia, buono quello di Davide che dice: Il mio cuore eruttò una buona parola (Sal 44,2). Furono ripieni di Spirito Santo ed eruttando riempirono ogni cosa di bontà. Chiedete il rutto di Geremia? Non mi sono dimenticato, già lo stavo preparando: È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore (Lam 3,26). È di lui, non mi sbaglio: accostate le narici; vince il balsamo il soave profumo che emana dalla giustizia che ricompensa. Vuole che io aspetti con pazienza la giusta mercede in futuro, non che la riceva al presente, perché la mercede della giustizia è la salvezza che viene non dal secolo, ma dal Signore. Se tarda, aspettalo (Ab 2,3) e non mormorare, perché è bene aspettare in silenzio. Farò, dunque, quanto mi consiglia: Aspetterò il Signore mio Salvatore(Mi 7,7).

 

6. Ma sono peccatore e mi resta da percorrere ancora una lunga strada perché lontana dai peccatori è la salvezza (Sal 118,155). Non mormorerò tuttavia. Nel frattempo mi consolerò con l’odore. Il giusto si rallegrerà nel Signore, sperimentando con il gusto quello che io sento con l’odorato. Ciò che il giusto contempla il peccatore lo aspetta, e l’attesa è l’odorato: La creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (Rm 8,19). Ora, aspettare è gustare e vedere come è soave il Signore.

 

IV. O non piuttosto è il giusto che aspetta, e chi già possiede è beato? L’attesa dei giusti è gioia (Pr 10,28). Il peccatore, infatti, non aspetta nulla. È appunto peccatore perché non solo trattenuto dai beni presenti, ma contentandosi di essi, nulla aspetta nel futuro, sordo a quella voce:Aspettatemi, dice il Signore, nel giorno della mia resurrezione in futuro (Sof 3,8). E perciò era giusto Simeone, perché aspettava e adorava già Cristo in spirito prima che potesse adorarlo nella carne; e beato nella sua attesa, e per l’odore dell’attesa pervenne al gusto della contemplazione. E infine disse: I miei occhi hanno visto la tua salvezza (Lc 2,30). Giusto anche Abramo, che aspettò anche lui di vedere il giorno del Signore, e non fu confuso nella sua attesa perché lo vide e ne fu pieno di gioia. Giusti gli Apostoli quando udivano: E voi simili a uomini che aspettano il loro Signore (Lc 12,36).

 

7. Giusto anche Davide quando diceva: Ho aspettato, ho aspettato il Signore (Sai 39,2). Egli è il quarto dei miei ruttatori che ho sopra nominati e che quasi lasciavo in disparte. Ciò non conviene. Questi ha aperto la sua bocca e attirò lo spirito, e, sazio, non solo eruttò, ma cantò anche. O Gesù buono, quanta dolcezza ha questi infuso alle mie narici e ai miei orecchi nel suo rutto e canto circa l’olio di esultanza di cui ti ha unto Dio a preferenza dei tuoi eguali, e la mirra, l’aloe e la cassia delle tue vesti, e i palazzi d’avorio da cui ti allietano le cetre e le figlie di re tra le tue predilette! (Sal 44,8-10). Oh! se mi concedessi di incontrare un così grande Profeta e amico tuo nel giorno della solennità e della letizia, quando esce dal tuo talamo cantando il suo epitalamio, con la cetra melodiosa e con l’arpa, traboccante di gioia, asperso e cospergendo ogni cosa di polvere aromatica! In quel giorno, o piuttosto, in quell’ora quando si tratta di un’ora, e forse una mezz’ora, secondo il detto della Scrittura: Si fece silenzio in cielo per quasi una mezz’ora (Ap 8,1) dunque in quell’ora si riempirà di gaudio la mia bocca e la mia lingua di esultanza, poiché i singoli, non dico Salmi ma versetti li sentirò come altrettanti rutti, e profumati più di ogni aroma. Che cosa più fragrante del rutto di Giovanni, che mi sa di eternità del Verbo, della sua generazione, della sua divinità? Che dirò dei rutti di Paolo, di quanta soavità abbiano riempito il mondo? Egli era il buon odore di Cristo in ogni luogo. Anche se non proferisce le parole ineffabili che ha udito, di modo che io pure le possa udire, ne parla tuttavia per accendere il mio desiderio, e mi piaccia odorare quello che non è possibile udire. Non so infatti per quale ragione le cose che più sono nascoste piacciono maggiormente, e bramiamo con più avidità quelle che ci sono negate.

 

V. Ma nota ora una cosa simile nella sposa: come, alla maniera di Paolo, in questo capitolo non svela il segreto, né lo nasconde completamente, concedendo qualche cosa al nostro olfatto, che non giudica forse adatto per ora al nostro gusto, sia per la nostra indegnità, sia per la nostra incapacità.

 

8. Il mio diletto è a me e io a lui. Quello di cui non v’è dubbio è che il vicendevole amore dei due è ardente; ma in questo amore risalta la somma felicità dell’una, e la mirabile adeguazione dell’altro. Poiché questo mutuo amore e mutua unione non è tra due esseri pari. Del resto quell’amore che la sposa si gloria di ricevere per tanta degnazione dello Sposo, e che ricambia con tanto ardore, nessuno può a fondo presumere di conoscere se non chi, per una particolare purezza di mente e santità di corpo, avrà meritato di sperimentare una tale cosa in se stesso. La cosa consiste negli affetti, né vi si arriva con la ragione, ma con la conformità della volontà. Quanto pochi sono quelli che possono dire: E noi a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello spirito del Signore (2 Cor 3,18).

 

9. Ma per ridurre a una qualche forma intellegibile ciò che si legge, salvo sempre il singolare segreto della sposa, al quale per il momento non ci è concesso di accostarci, a noi specialmente, così come siamo, si deve presentare qualche cosa tanto più adattata al senso comune quanto più di uso comune, che esprima il legame delle parole e si renda comprensibile ai piccoli. E a me sembrerebbe sufficiente alla nostra grossolana e in un certo modo popolare intelligenza se dicendo il mio diletto a me, sottintendiamo «si rivolge», in modo che il senso sia: «Il mio diletto si rivolge a me, e io a lui». Non sarei il solo a pensare così, perché il Profeta prima di me ha detto: Ho aspettato, ho aspettato il Signore; e si è rivolto a me (Sal 39,2). Hai qui apertamente il voltarsi del Signore al Profeta e del Profeta al Signore, perché chi aspetta si volge, e aspettare è voltarsi là di dove si aspetta. Così sarebbero quasi le stesse le parole del Profeta e della sposa, salvo che il Profeta avrebbe messo prima quelle che la sposa ha messo dopo e viceversa.

 

10. Del resto la sposa ha parlato più rettamente e senza pretendere il merito, ma premettendo il beneficio, e confessando di essere prevenuta dalla grazia del diletto. Giusto veramente. Poiché chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio? (Rm 11, 35). E infine, senti come la pensa Giovanni nella sua epistola a questo riguardo: In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi per primo (1 Gv 4, 10). Il Profeta, tuttavia, anche se non accennò alla prevenzione della grazia, non negò la conseguenza. Ma senti la sua confessione su questo argomentò, più chiara, in altro passo: La tua misericordia, dice, mi seguirà tutti i giorni della mia vita (Sal 22, 6). Senti anche il suo pensiero non meno certo circa la prevenzione di Dio: La tua misericordia, o Dio, mi preverrà (Sal 58, 11); e ancora:Presto ci venga incontro la tua misericordia, poiché siamo troppo infelici (Sal 78, 8).

 

VI. Bene la sposa più avanti mette queste stesse parole non nello stesso ordine, ma segue anche lei l’ordine del Profeta dicendo così: Io al mio diletto e il mio diletto a me (Cant 6,2). Perché così? Per dimostrarsi allora maggiormente piena di grazia quando egli le ha dato tutte le grazie, attribuendo cioè a lui le prime e le ultime parti. Diversamente come sarebbe piena di grazia, se ha avuto qualche cosa non dalla grazia? Non c’è posto per la grazia dove il merito occupa tutto. Dunque, la piena confessione della grazia dimostra nell’anima che fa questa confessione la pienezza della medesima grazia. Poiché se c’è qualche cosa di proprio, in quanto c’è, la grazia gli deve cedere il posto. Manca alla grazia quanto attribuisci ai meriti. Non voglio il merito che escluda la grazia. Ho orrore di tutto quello che viene da me per essere mio, se non che forse è maggiormente mio quello che fa mio me. La grazia mi rende giustificato gratuitamente, e così liberato dalla schiavitù del peccato. E poidove è lo spirito, ivi è la libertà (2 Cor 3,17).

 

11. Oh, sciocca sposa Sinagoga, che disprezzando la giustizia di Dio, cioè la grazia del suo Sposo, e volendo costituire la giustizia propria non è soggetta alla giustizia di Dio! Per questo la misera è stata ripudiata, e non è ormai più sposa, ma sposa è la Chiesa, alla quale viene detto: Ti ho sposata nella fede, ti ho sposata a me nel diritto e nella giustizia, ti ho sposata a me nella misericordia e nell’amore (Os 2,19). Né tu hai scelto me, ma io ho scelto te, né per sceglierti ho guardato ai tuoi meriti, ma li ho prevenuti, così dunque ti ho sposata a me nella fede, e non nelle opere della legge. E ti ho sposato nella giustizia, ma nella giustizia che viene dalla fede, non dalla legge. Resta che tu giudichi rettamente tra me e il giudizio in cui ti ho sposata, dove è chiaro che non è intervenuto alcun tuo merito, ma il mio beneplacito. Questo è il giudizio, che tu non faccia gran caso dei tuoi meriti, non preferisca le opere della legge, non ti vanti di aver sopportato il peso del giorno e del calore, tu che conosci di essermi stata sposata piuttosto nella fede e nella giustizia che viene dalla fede, nonché nella misericordia e nella compassione.

 

12. Colei che è veramente sposa conosce queste cose, e confessa l’una e l’altra grazia: anzitutto quella che è la prima, che cioè è stata prevenuta, e poi anche quella seguente. Dice parlando adesso: il mio diletto a me e io a lui, attribuendo il principio al diletto; dirà in seguito: Io al mio diletto e il mio diletto a me, concedendo ancora a lui la consumazione. Ora vediamo che cosa dice: Il mio diletto a me. Se questo si prende in modo da sottintendere «si rivolge», come già abbiamo detto e come dice il Profeta: Ho aspettato, ho aspettato il Signore, ed egli si è rivolto a me, io in queste parole sento un non so che di non piccolo, né di mediocre prerogativa. Ma non è bene esporre una cosa degna di ogni attenzione a orecchie e menti stanche. Se non riesce gravoso differiamo questo discorso, e non di molto. Domani il sermone comincerà di qui. Solamente pregate perché ci difenda nel frattempo dalle assillanti occupazioni la grazia e la misericordia dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXVIII

 

 

I. Quanto lo sposo si prenda cura della sposa e viceversa; soltanto della sposa egli si prende cura. II. Dallo stato e dalla consumazione della Chiesa dipende la fine di tutti. III. I meriti o la presunzione della Chiesa, e donde i suoi meriti.

 

 

I. 1. Ascoltate ora quello che ieri abbiamo rimandato, udite il gaudio che io ho provato. È anche vostro: udite con gioia. Ho avuto questa sensazione a una sola parola della sposa, e, dopo averne sentito il profumo, l’ho nascosta per servirla oggi a voi, tanto più piacevolmente, quanto più tempestivamente. La sposa ha parlato, e ha detto che lo Sposo era rivolto a lei. Chi è la sposa, e chi è lo Sposo? Questi è il nostro Dio, e quella, se oso dirlo, siamo noi, con la rimanente moltitudine dei prigionieri che egli conosce. Godiamo, la nostra gloria è questa: siamo noi quelli verso i quali si rivolge Dio. Quanta disparità tuttavia! Che cosa sono gli abitanti della terra e i figli dell’uomo di fronte a lui? Secondo il Profeta: Sono come non fossero, e quasi un nulla e vanità sono considerati da lui (Is 40,17). Che cosa significa, dunque, questa comparazione tra esseri così disparati? O la sposa immensamente si vanta, o lo Sposo immensamente ama. Com’è meraviglioso che questa si attribuisca come cosa propria il fatto che lo Sposo è rivolto a lei, dicendo: Il mio diletto a, me! Né tuttavia contenta di ciò continua a vantarsi maggiormente che essa risponde a lui, quasi imitandone l’atteggiamento e per dargliene ricambio. Segue infatti: E io a lui. Parola insolente: E io a lui, né meno insolente: Il mio diletto a me, ma più insolente dell’una e dell’altra, l’una e l’altra insieme.

 

2. Oh, che cosa può osare un cuore puro e una buona coscienza e una fede sincera! «È rivolto a me», dice. Così dunque è rivolta a costei quella maestà a cui appartiene il governo e insieme l’amministrazione dell’universo, e la cura dei secoli si traduce nei soli affari, anzi ozi dell’amore e del desiderio di costei? Proprio così. Essa è infatti la Chiesa degli eletti, dei quali dice l’Apostolo: Tutte le cose per gli eletti (2 Tm 2,10). E chi dubita che la grazia e la misericordia di Dio sia nei suoi santi, e il suo sguardo sui suoi eletti? Dunque, non neghiamo la provvidenza per tutte le altre creature, la cura la sposa la riserva a sé. Ha forse Dio cura dei buoi? (1 Cor 9, 9). Certamente possiamo dire lo stesso dei cavalli, dei cammelli, degli elefanti, e di tutte le bestie della terra; così dei pesci del mare e degli uccelli del cielo, insomma di ogni cosa che vi è sulla terra, eccetto soltanto coloro ai quali è detto: Gettando in lui ogni vostra preoccupazione perché egli ha cura di voi (1 Pt 5,7). Non ti sembra che con queste parole voglia dire: «Rivolgetevi a lui, perché egli si è rivolto a voi»? E osserva l’Apostolo Pietro – sono infatti parole sue – come egli ha osservato l’ordine delle parole della sposa. Non dice infatti gettando in lui ogni vostra preoccupazione perché egli si prenda cura di voi, ma: perché egli ha cura di voi, dimostrando con ciò apertamente quanto gli sia cara la Chiesa dei santi, non solo, ma perché essa è stata amata per la prima.

 

3. Si sa che non la riguarda affatto quello che dei buoi ha detto l’Apostolo, ha infatti cura di lei colui che l’ha amata e ha dato se stesso per lei. Non è questa la pecora errante per cercare la quale ha lasciato i greggi celesti? Lasciati quelli, il Pastore è disceso a questa, l’ha diligentemente cercata, trovatala non l’ha ricondotta, ma riportata, e indisse con essa e per essa nuove feste nei cieli, invitando le moltitudini degli Angeli a questa solennità. Che dunque? L’ha portata sulle sue spalle, e non avrà cura di lei? Perciò essa non si vergogna di dire: Di me ha cura il Signore(Sal 39,18). Né pensa di sbagliare quando dice ancora: Il Signore provvederà per me (Sal 137,8), e altre espressioni che indicano come Dio si prenda cura di lei. Per questo chiama suo diletto il Signore degli eserciti, e si gloria che colui che con tranquillità giudica tutte le cose si rivolga a lei. Perché non dovrebbe gloriarsene? Ha sentito dire da lui: Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio del suo seno? E se ce ne fosse una che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai (Is 49, 15). E infine: Gli occhi del Signore sui giusti(Sal 33,16). Che cosa è la sposa se non la congregazione dei giusti? Che cosa è se non la generazione di quelli che cercano Dio, che cercano il volto dello Sposo? Non è, infatti, che lo Sposo si rivolga alla sposa e questa non si rivolga a lui. Per questo mette le due cose «Egli a me e io a lui». Egli a me perché è benigno e misericordioso (G1 2,13), io a lui perché non sono ingrata. Egli mi dà la grazia per grazia, io gli rendo grazie per la grazia; egli opera per la mia liberazione, io per il suo onore; egli per la mia salvezza, io per la sua volontà; egli a me e non a un’altra, perché sono l’unica sua colomba; io a lui e non a un altro, perché non ascolto la voce degli stranieri, né sto a sentire chi mi dice: Ecco qui il Cristo, o eccolo là (Mc 13,21). Questo per quanto riguarda la Chiesa.

 

II. 4. E per ciascuno di noi? Pensiamo che ci sia qualcuno di noi al quale possa adattarsi quello che è detto? Che cosa ho detto: tra di noi? Ma io non avrei nulla da dire in contrario se mi si chiedesse se ciò possa applicarsi a chiunque fa parte della Chiesa. Quello che vale per uno, infatti, vale molto più per molti. Dio, infatti, ha fatto e patito tante cose non per un’anima sola, ma per raccoglierne molte in una sola Chiesa, per formarsene un’unica sposa; per questo ha operato la salvezza nella nostra terra (Sal 79,12). Questa è quella carissima, unica per l’unico, che non aderisce ad altro sposo, che non cede il posto ad altra sposa. Che cosa non è capace di osare costei presso un tale ambizioso amante? Che cosa non spererà da lui che l’ha cercata dal cielo, l’ha chiamata dai confini della terra? Non solo l’ha cercata, ma acquistata. Aggiungivi a che prezzo, il sangue dell’acquirente. Perciò altrove, come di solito, maggiormente presume, perché guardando al futuro non ignora che il Signore ha bisogno di lei. Chiedi per che cosa? Per vedere la felicità dei suoi eletti, godere della gloria del suo popolo, ed essere glorificato con la sua eredità. Non ritenere piccola questa impresa, non resterà alcuna opera perfetta se questa tentennerà. Togli questa e invano la creatura inferiore aspetta la rivelazione dei figli. Togli questa e né i Patriarchi, né i Profeti vedranno la consumazione, mentre Paolo asserisce che Dio ha provveduto per noi che senza di noi non ottenessero la perfezione. Togli questa e la stessa gloria dei santi Angeli, a causa dell’imperfezione del loro numero sarà monca, né la città di Dio godrà della sua integrità.

 

5. Come, dunque, si adempirà il progetto di Dio e il mistero della sua volontà e quel grande sacramento della pietà? Come, infine, mi darà infanti e lattanti dalla bocca dei quali Dio formi la sua lode? Il cielo non ha bambini, ne ha la Chiesa, e ad essi dice: Vi ho dato da bere latte e non cibo solido (1 Cor 3,2). E questi, quasi per completare la lode sono invitati dal Profeta che dice: Lodate, o fanciulli, il Signore (Sal 112,1). Tu pensi che il nostro Dio avrà tutta la lode della sua gloria quando verranno coloro che al cospetto degli Angeli cantino a lui: Ci siamo rallegrati per i giorni in cui abbiamo visto la sventura (Sal 89,15). Questo genere di letizia i cieli non lo conobbero se non per i figli della Chiesa; questonon lo provano coloro che sono sempre stati nella gioia. Opportunamente dopo la tristezza viene il gaudio, dopo la fatica il riposo, dopo il naufragio il porto. Piace a tutti la sicurezza, ma maggiormente a colui che è stato nel timore. Gioconda per tutti é la luce, ma più gioconda per chi evade dal potere delle tenebre. L’essere passati dalla morte alla vita raddoppia la grazia della vita. Questa è la mia parte nel celeste convito, e a parte dagli stessi spiriti beati. Oso dire che la stessa vita beata è priva della mia beatitudine, a meno che si degni di confessare che ne gode in me e per me per mezzo della carità. In verità sembra anche che si sia aggiunta qualche cosa a quella perfezione per mezzo mio. E questo non è poca cosa. Godono gli Angeli per un peccatore che fa penitenza. Che se le mie lacrime sono la delizia degli Angeli, che cosa sarà delle mie delizie? Tutta la loro occupazione è lodare Dio; ma manca qualche cosa alla lode se non ci sono quelli che dicono: Ci hai fatto passare per il fuoco e l’acqua, ma poi ci hai dato sollievo (Sal 65,12).

 

III. 6. Felice dunque la Chiesa nella sua universalità, il suo vanto è inferiore alla ragione che ha di gloriarsi, non solo per le cose che per lei già sono state fatte, ma per quelle che a suo riguardo devono ancora farsi. Poiché, perché deve essere sollecita circa i meriti, mentre essa possiede un motivo di vanto più grande e più sicuro del proposito di Dio? Dio non può negare se stesso, né non fare quello che ha già fatto, come è scritto, lui che ha fatto le cose che saranno. Le farà, le farà, né mancherà Dio al suo proposito. Così non ti occorre cercare per quali meriti noi speriamo i beni, specialmente sentendo quello che dice il Profeta: Non per voi io agisco, ma per me, dice il Signore (Ez 36,22). Basta per il merito sapere che non bastano i meriti. Ma come per meritare è sufficiente non presumere dei meriti, così essere privo di meriti è sufficiente per esser giudicato; ora, dei bambini battezzati nessuno è senza meriti, ma hanno i meriti di Cristo. Si rendono, però, indegni di questi se, potendolo, trascureranno di aggiungervi i loro propri: questo è il pericolo dell’età adulta.

Cerca, dunque, di procurarti dei meriti. Una volta che li hai, sappi che li hai ricevuti; spera come frutto la misericordia di Dio; e così avrai evitato ogni pericolo della povertà, dell’ingratitudine, della presunzione. È dannosa la povertà, la penuria di meriti; le vane ricchezze sono presunzione di spirito. E perciò: Non darmi, o Signore, la ricchezza o la povertà, dice il Saggio (Pr 30,8). Felice la Chiesa a cui non mancano i meriti senza presunzione, né la presunzione senza i meriti. Ha di che presumere, ma non per i meriti; ha meriti, ma non per presumere, ma per la ricompensa. Il fatto stesso di non presumere non è forse meritare? Dunque, tanto più sicuramente presume quanto meno presume, e non ha da confondersi nel vantarsi, avendone molte ragioni. Grandi sono le misericordie del Signore, e la sua fedeltà dura in eterno.

 

7. Come non gloriarsi sicura quando, per dare ad essa testimonianza, la misericordia e la verità si incontrano? Sia dunque che dica: Il mio diletto a me, sia che dica: Ho aspettato il Signore e si è rivolto a me, o tante altre simili espressioni che esprimono un certo affetto divino o un singolare favore, nulla di ciò riterrà estraneo a sé, perché ha in sé la ragione di presumere del Signore, specialmente perché non vede un’altra sposa o un’altra Chiesa alla quale si possono fare quelle cose che non possono non essere fatte. Dunque, riguardo alla Chiesa è chiaro che essa non avrà timore di applicare a sé tutte quelle cose. Circa un’anima singola si può chiedere se sia spirituale e santa, e se sia lecito a lei osare tali cose. Non potrebbe, infatti, una della moltitudine, per quanto sia eminente in santità, arrogarsi tutte le prerogative che spettano alla sola cattolica moltitudine, per la quale tutte sono fatte. Io penso che sia molto difficile che si trovi in che modo possa una tale presunzione essere lecita. Credo, pertanto, necessario tentare questo in un altro sermone, e non entrare adesso nella via di una scrupolosa discussione di cui ignoriamo l’esito, se prima non avremo pregato colui che apre e nessuno chiude, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXIX

 

 

I. A quale anima spetta dire: «Il mio diletto a me...» e perché. Il. Che cosa è la venuta del Figlio e del Padre nell’anima; il Padre abbassa con la sua ira ardente ogni altezza. III. Lo zelo di carità nel quale il Padre e il Figlio vengono; la loro inabitazione e i segni per mezzo dei quali l’anima avverte.

 

 

I. 1. Il mio diletto a me e io a lui (Cant 2,16). Nel sermone precedente abbiamo attribuito queste parole alla Chiesa universale a motivo delle promesse fatte ad essa circa la vita presente e quella futura. Ora la questione da risolvere è se l’anima, poiché non può essa sola arrogarsi ciò che può pretendere l’insieme di tutte, non possa neppure in qualche modo attribuirsi tale prerogativa. Se non le è lecito dobbiamo dire che queste parole e le altre simili che indicano grandi cose come: Ho aspettato il Signore e si è rivolto a me (Sal 39,2), o altre che abbiamo sopra riferite, vanno riferite alla Chiesa e in nessun modo a una singola persona. Se qualcuno, al contrario, dice che questo è lecito, e io non dico di no, bisogna vedere di chi si tratta; non è infatti certamente lecito a chiunque. La Chiesa di Dio ha senz’altro i suoi uomini spirituali, i quali non solo fedelmente, ma con fiducia trattano con lui, parlano con Dio quasi con un amico, e la loro coscienza rende loro testimonianza di questo favore. Chi siano questi è un segreto di Dio; ma tu ascolta quale devi essere, se desideri essere uno di questi. Quello che dico non è tanto perché ne abbia fatto esperienza, quanto perché vorrei fare questa esperienza. Dammi un’anima che nulla ami all’infuori di Dio e di ciò che si deve amare per Dio, per la quale non solo vivere sia Cristo, ma lo sia già stato da molto tempo, che abbia a cura e spenda il suo tempo a tenere presente il Signore sempre, che sia sollecita nel camminare con il Signore suo Dio, non dico con grande, ma con una sola volontà con lui, e non le manchi la capacità di farlo, dammi dico, una tale anima e io non la nego degna della cura dello Sposo, dello sguardo della maestà, del favore del dominatore, della sollecitudine del governatore; e se vorrà gloriarsene non sarà insipiente: purché chi si gloria, si gloria nel Signore. Così in ciò di cui molti si vantano, si vanterà anche uno solo, ma per un’altra ragione.

 

2. Infatti, la santa moltitudine è resa fiduciosa dalle cause sopra dette, l’anima santa per una duplice ragione. Prima di tutto la divinità dello Sposo, per la sua natura semplicissima, può guardare molti come fossero uno solo, e uno solo come fossero molti. Né si fa molteplice rispetto alla moltitudine, né raro rispetto a pochi; né è diviso di fronte alla diversità, né ristretto rispetto a uno solo; né ansioso nelle cure, né turbato o agitato nelle sollecitudini. Egli è così intento a uno solo senza rendersene schiavo, e così intento ai più senza esserne diviso. E poi, cosa soavissima, ma che molto raramente si può provare, tanta è la degnazione del Verbo, tanta la benevolenza del Padre del Verbo verso l’anima ben disposta e ben regolata, il che è effetto del lavoro del Padre e del Verbo, che degnano anche della loro presenza quella che hanno prevenuto con tale loro benedizione e si sono così preparata, e così non solo vengono ad essa, ma pongono in essa la loro dimora. Non basta, infatti, a loro farsi vedere, ma vogliono darsi con abbondanza.

 

II. Che cosa si vuol dire dicendo che il Verbo viene all’anima? Che la istruisce nella sapienza. E che viene il Padre? Che le infonde l’amore della sapienza, sicché essa possa dire: Sono divenuta amante della sua bellezza (Sap 8,2). È proprio del Padre amare, e perciò la venuta del Padre si dimostra dall’amore infuso. Che cosa gioverebbe l’erudizione senza la dilezione? Gonfierebbe. Che cosa farebbe l’amore senza l’erudizione? Cadrebbe nell’errore. Erravano infatti quelli dei quali si diceva: Rendo loro testimonianza che hanno lo zelo di Dio, ma non secondo la scienza(Rm 10,2). Non è decente che la sposa del Verbo sia stolta; ma il Padre non la sopporterebbe gonfia di superbia. Il Padre, infatti, ama il Figlio, ed è sempre pronto a scacciare e distruggere ogni altezza che si erge contro la scienza del Verbo, sia dando mano allo zelo, sia volgendosi con affetto, due cose che sono effetto una della misericordia, l’altra della giustizia. Oh! Si degni di comprimere, anzi di scacciare e ridurre al nulla in me ogni forma di orgoglio, non con l’accendere il suo furore, ma con l’infusione del suo amore! Possa io imparare a non insuperbirmi piuttosto per effetto della sua bontà che non per il timore del castigo! Signore, non punirmi nel tuo sdegno (Sal 6,2), come l’Angelo che si innalza nel cielo, non castigarmi nel tuo furore (Sal 6,2) come l’uomo nel paradiso. Entrambi hanno tramato iniquità, bramando di salire più in alto, il primo con la potenza, il secondo con la scienza. La donna stolta ha creduto al demonio che prometteva per sedurla: sarete come dèi, conoscitori del bene e del male (Gen 3,5). Già prima aveva sedotto se stesso, persuadendosi che sarebbe diventato simile all’Altissimo poiché chi si crede di essere qualche cosa, mentre non è niente, seduce se stesso (Gal 6,3).

 

3. Ma l’una e l’altra altezza fu precipitata giù, ma nell’uomo con più mitezza, così giudicando colui che tutto fa in peso e misura. Poiché, mentre l’Angelo fu punito nel furore, anzi dannato, l’uomo sentì soltanto l’ira, non il furore. Nell’ira, infatti, si ricordò della misericordia (Ab 3,2). Perciò i suoi discendenti sono figli dell’ira e non del furore, fino al giorno d’oggi. Se non nascessi figlio d’ira non avrei bisogno di rinascere; se fossi nato figlio del furore, non sarei rinato, o non avrebbe giovato rinascere. Vuoi vedere un figlio del furore? Se hai veduto Satana precipitare come un fulmine dal cielo, vale a dire precipitato in un impeto di furore; hai avuto un’idea del furore di Dio. E poi non si è ricordato della sua misericordia, mentre dopo che si è adirato si ricorderà della sua misericordia, non così quando è giunto fino al furore. Guai ai figli della diffidenza, anche quelli che sono figli di Adamo, i quali, nati figli d’ira, cambiano a se stessi con diabolica ostinazione l’ira in furore, la verga in bastone, anzi, in martello! Essi accumulano per sé la collera per il giorno dell’ira. L’ira accumulata che cosa è se non il furore? Peccarono con il peccato del diavolo, e sono abbattuti con la condanna del diavolo. Guai anche, seppure con più mitezza, a certi figli d’ira, che nati nell’ira non aspettarono di rinascere nella grazia! Essi sono morti per il fatto che sono nati e resteranno figli d’ira. Dico ira, non furore perché, come piissimamente si crede e assai umanamente si compiange, sono assai miti le pene di coloro che traggono tutto il loro capo d’accusa da altri.

 

4. Dunque, il diavolo è stato giudicato nel furore, perché la sua iniquità è stata degna di odio; quella dell’uomo, invece, è meritevole d’ira, e perciò nell’ira viene punito. Così ogni elevazione viene stroncata, sia quella che gonfia, sia quella che merita di venire precipitata. Il Padre, infatti, tela l’onore del Figlio, e l’una e l’altra specie di elevazione fa torto al Figlio, sia perché usurpa la potenza nei riguardi della forza di Dio, che è lui, sia perché presume di una scienza ottenuta per via diversa dalla sapienza di Dio che è pure lui. O Signore, chi è simile a te? Chi, se non la tua immagine? Chi, se non lo splendore e la figura della tua sostanza? Lui solo nella tua forma, lui solo non ritenne come una rapina l’essere uguale a te, Altissimo Figlio dell’Altissimo. Come non uguale? Siete anzi una cosa sola, tu e lui. Ha il suo seggio alla tua destra, non sotto i tuoi piedi. Chi può mai osare di occupare il posto del tuo Unigenito? Sia precipitato. Pone in alto il suo seggio? Sia rovesciata la cattedra della pestilenza. Così pure chi insegna all’uomo la scienza? (Sal 93,10). Non eri forse tu, o chiave di Davide, che apri a chi vuoi e a chi vuoi chiudi? E come si tentava di non entrare, ma di irrompere nei tesori della sapienza e della scienza? Chi non entra per la porta è un ladro e un brigante (Gv 10,1). Entrerà dunque Pietro che ha ricevuto le chiavi, ma non solo, poiché, se vorrà, introdurrà anche me, ed escluderà un altro che forse vorrebbe, per la scienza e la potestà conferitagli dall’alto.

 

5. E quali sono queste chiavi? La potestà di aprire e di chiudere, e il discernimento tra quelli che devono essere ammessi e quelli che vanno esclusi, e i tesori non sono nel serpente, ma in Cristo. E perciò il serpente non poté dare la scienza che non aveva; ma chi l’aveva la diede. Né il diavolo poté avere la potenza, che non aveva ricevuta, ma l’ebbe chi l’aveva ricevuta. La diede Cristo, la ricevette Pietro, né si gonfiò per la scienza, né fu precipitato per la presunzione della potenza. Perché? Perché né nell’una, né nell’altra si innalza contro la scienza di Dio, lui che non ha cercato nessuna delle due cose fuori della scienza di Dio, come ha fatto invece colui che ha agito con inganno al suo cospetto, sicché la sua iniquità è divenuta meritevole di odio. Come, infine, avrebbe ambito queste cose fuori della scienza di Dio lui che si definisce apostolo di Gesù Cristo secondo la prescienza di Dio Padre (1 Pt 1,1-2)? Ciò sia detto per quel che riguarda lo zelo di Dio, che lo fece intervenire contro l’Angelo e l’uomo prevaricatori poiché trovò il male in entrambi distruggendo nella sua ira e nel suo furore la loro superbia che si innalzava contro la scienza di Dio.

 

III. 6. Ora è tempo che ricorriamo allo zelo della misericordia, cioè non quello che si rivolge contro, ma quello che viene immesso, perché quello che si rivolge contro, come già abbiamo detto, è zelo di giustizia, e ci ha atterriti abbastanza con gli esempi ricordati di coloro che furono così gravemente puniti. Perciò io me ne andrò al luogo di rifugio per nascondermi dal furore del Signore, a quello zelo cioè di pietà che arde soavemente ed espia efficacemente. Non espia forse la carità? Molto. Ho letto che essa copre una moltitudine di peccati. Ma dico: non è forse idonea, capace cioè di scacciare e umiliare ogni arroganza degli occhi e del cuore? Certamente, e in massimo grado: poiché la carità non si innalza, non si gonfia. Se, dunque, il Signore si degnerà di venire a me, o piuttosto in me, non nello zelo del suo furore, e neppure nella sua ira, ma nella carità e nello spirito di mansuetudine, geloso di me della gelosia di Dio che cosa è, infatti, talmente di Dio come la carità? Dio, infatti, è carità se, dico, verrà in questa, in questo conoscerò anche che non è solo, ma che è venuto con lui anche il Padre suo. Poiché che cosa è talmente paterno come la carità? Per questo è stato chiamato non solo Padre del Verbo, ma anche Padre delle misericordie (2 Cor 1,3), perché gli è innato avere sempre pietà e perdonare. Se mi accorgerò che mi viene aperta l’intelligenza per comprendere le Scritture, o che un discorso sapiente quasi mi ribolle dall’intimo, o che mi si rivelano i misteri alla luce celeste infusa dall’alto, o se mi sembrerà che mi si apra come un amplissimo grembo del cielo, e discendano nell’animo abbondanti piogge di meditazioni, non dubito che lo Sposo è presente. Sono, infatti, queste ricchezze del Verbo, e queste abbiamo ricevuto dalla sua pienezza. Che se verrà parimenti infusa una certa umile, ma pingue devozione a guisa di intima aspersione, di modo che l’amore della verità conosciuta generi necessariamente un certo odio e disprezzo per la vanità, affinché non capiti che la scienza mi gonfi, o la frequenza delle visite mi faccia insuperbire, allora non dubito della presenza del Padre, di cui riconosco in me l’azione paterna. Se poi avrò perseverato nel corrispondere sempre a questa degnazione con degni affetti ed opere, per quanto sta in me, e la grazia di Dio non sarà stata vana in me, allora anche faranno presso di me la loro dimora sia il Padre che dà il nutrimento, sia il Figlio che dà l’insegnamento.

 

7. Pensa quanta grazia di familiarità tra l’anima e il Verbo derivi da questa abitazione, e dalla familiarità quanta fiducia. Una tale anima non ha più da temere di dire: Il mio diletto a me, perché sentendo di amarlo e con ardore, non dubita di essere anch’essa da lui grandemente amata, ed essendo singolarmente applicata a lui con sollecitudine, cura operosa, diligenza e studio, con cui vigila incessantemente e con ardore per piacere a Dio, così riconosce senza esitare tutte queste cose in lui a suo riguardo, ricordando le sue promesse: Con la misura che avrete usato sarà rimisurato a voi (Mt 7,2), se non che la restituzione del favore la sposa prudente ebbe cura di tirarla dalla sua parte, sapendo bene di essere piuttosto prevenuta dal diletto. Perciò pone in primo luogo l’opera del diletto: Il mio diletto a me, io a lui. Dunque, dalle proprie disposizioni, che sono note a Dio, riconosce, né dubita di essere amata colei che ama. È così: l’amore di Dio genera l’amore dell’anima, e rivolgendosi per primo verso di lei, fa sì che anch’essa sia tutta intenta a lui, e la sollecitudine di lui rende sollecita anche lei. Non so, infatti, per quale vicinanza di natura, una volta che l’anima può a faccia scoperta contemplare la gloria di Dio, subito necessariamente le diviene conforme e si trasforma nella medesima immagine. Pertanto, quale tu ti preparerai per Dio tale ti apparirà Dio: sarà santo con il santo, e con l’uomo integro sarà integro. Così, similmente, amante con chi lo ama, si tratterrà con chi si trattiene volentieri con lui, si rivolgerà a chi si rivolge a lui, sollecito con chi è sollecito per lui Infine dice: Amo quelli che mi amano, e quelli che mi cercano mi troveranno (Pr 8,17). Vedi come non solo ti assicura del suo amore se tu lo ami, ma anche della sua sollecitudine per te, se sentirà che tu sei sollecito nei riguardi di lui. Vegli tu? Veglia anche lui. Alzati nella notte al principio delle tue vigilie, anticipa quanto vuoi queste vigilie, lo troverai, non lo preverrai. Sbagli se in questo pensi di fare tu qualche cosa prima o più di lui: egli ama di più e prima. Se l’anima sa queste cose, anzi, perché le sa, c’è da meravigliarsi se si gloria che quella maestà, quasi non curando le altre cose si rivolga a lei sola, e lasciando da parte tutte le altre faccende lei intanto si applica con tutta devozione a lui solo? Il sermone deve finire, ma dico ancora una cosa sola agli spirituali che sono tra di voi, meravigliosa, ma vera: l’anima che vede Dio, lo vede come se essa sola fosse vista da Dio. Dice dunque con fiducia che Dio è rivolto a lei, e lei a lui, null’altro vedendo tra sé e lui.Sei buono, o Signore, per l’anima che ti cerca! Le vieni incontro, l’abbracci, ti mostri Sposo tu che sei Signore, anzi, che sei sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXX

 

 

I. Poi lo sposo è divenuto «diletto» perché si è pasciuto fra i gigli. II. I gigli spirituali fra i quali lo sposo si pasce. III. Molto appropriatamente la verità è paragonata al giglio; il motivo per cui la mansuetudine e la giustizia sono gigli. IV. Tutte le cose riguardanti lo sposo sono gigli; quali gigli hanno gli amici dello sposo; almeno due gigli sono necessari alla salvezza.

 

 

I. 1. Il mio diletto a me e io a lui che si pasce tra i gigli (Cant 2,16). Chi taccerà ormai la sposa si presuntuosa e si insolente se dice di aver stabilito un rapporto di amicizia con colui che si pasce tra i gigli? Anche se si pascesse tra le stelle, per il solo fatto che si pascesse, non so che cosa di straordinario ci possa essere nell’avere amicizia o familiarità con lui. Pascersi significa qualche cosa di basso, di umile. Ma ora, quando si dice di lui che si pasce tra i gigli, ogni idea di bassezza viene esclusa, e si affaccia l’idea di temerità. Che cosa, infatti, sono i gigli? Secondo la parola del Signore: Erba che oggi c’é e domani si mette nel forno (Mt 6,30). Quanto grande è costui che si pasce di fieno, come un agnello o un vitello? È veramente un agnello e un vitello grasso. Ma tu forse hai intelligentemente avvertito che in questo passo non è designato il pascolo, ma il luogo; non è detto, infatti, che si pasce «di gigli», ma tra i gigli. Sia. Non mangia fieno come un bue; stare tuttavia in mezzo al fieno e giacere sul fieno come uno della plebe, che cosa può avere di speciale? E che gloria è avere un diletto che fa questo? Secondo la lettera appare abbastanza chiara la verecondia e la prudenza nel parlare della sposa, che dispone le sue parole con giudizio e tempera la gloria delle cose con la modestia delle parole.

 

2. Altre volte non ignora che è lo stesso e che si pasce e che pasce, che dimora tra i gigli e regna sopra gli astri. Ma più volentieri ricorda le cose umili del diletto, per l’umiltà, come ho detto, ma ancora più perché ha cominciato ad essere diletto quando appunto ha cominciato a pascersi. Poiché, colui che nell’alto dei cieli è il Signore, nelle infime cose è il diletto: sui cieli regna, e tra i gigli ama. Amava anche sopra i cieli, perché mai e in nessun luogo poté non amare, lui che è amore, ma fino a che non discese tra i gigli e fu visto pascersi tra i gigli né fu amato, né divenne diletto. Come? Non fu amato dai Patriarchi e dai Profeti? Sì, ma non prima di essere stato visto da essi pascersi tra i gigli. Essi, infatti, videro colui che previdero, a meno che qualcuno senza spirito pensi che vedere in spirito sia vedere nulla. Per quale ragione, dunque, sono stati chiamati «veggenti» se non videro nulla? Perciò vollero veder colui che non videro. E non potevano volerlo vedere nel corpo se non l’avessero veduto in spirito. Ma dico: forse sono tutti o quasi Profeti quelli che hanno voluto vedere, o hanno tutti creduto? Quelli che videro, infatti, o furono Profeti, o credettero ai Profeti. E credere è come aver veduto. Non mi sembra che sbagli chi dice di vedere in spirito, sia chi vede per spirito di profezia, sia chi vede per la fede.

 

3. Così dunque il fatto di essersi degnato di scendere tra i gigli, e di pascersi tra i gigli, lui che tutti pasce, lo ha reso diletto, perché non poteva esser amato prima di essere conosciuto. E per questo quando è stata fatta menzione del diletto, è stato anche ricordato ciò che fu causa di dilezione e di conoscenza.

 

II. Questo pascersi tra i gigli deve avere un significato spirituale; è ridicolo, infatti, pensare a un pasto corporeo. Dovremo, per quanto possibile, mostrare anche il significato spirituale dei gigli. Penso che dovremo anche chiarire di che cosa si pasca il diletto, se degli stessi gigli, o delle altre erbe o fiori nascosti tra i gigli. E a me pare più difficile il fatto che si dice che lo Sposo si pasce, non che pasce. Non c’è dubbio che egli pasce, e questa non è cosa indegna di lui; ma pascersi suona indigenza, e neppure in senso spirituale si può facilmente attribuirlo a lui senza recare ingiuria alla maestà. Né mi ricordo di aver mai fino a ora nel commento di questo Cantico trovato che lo Sposo si pasca, mentre ricordate anche voi come lo abbiamo trovato a pascere. La sposa ha chiesto una volta che le mostrasse dove pascesse e riposasse nel meriggio. E ora, cosa che non aveva ancora detto, lo presenta che si pasce, ma non chiede che le venga indicato il posto; lei stessa lo indica dicendo: tra i gigli. Questo lo sa, quell’altro non lo sa, perché non è ugualmente a portata di mano ciò che è sublime e dimora nell’alto dei cieli e ciò che è umile e sopra la terra. Sublime opera, sublime anche il luogo, né per il momento vi può accedere neppure la sposa.

 

4. E per questo egli si è annichilito fino a questo punto, per pascersi, egli sommo pastore; e fu trovato tra i gigli, e veduto dalla Chiesa fu amato dal povero egli stesso povero, divenuto diletto a causa della somiglianza. E non solo per questa, ma anche per la verità, la mansuetudine e la giustizia: perché cioè per lui si sono adempiute le promesse, rimesse le iniquità, perché i superbi demoni sono stati giudicati insieme con il loro principe. Apparve, dunque, tale da essere amato, verace per sé, mite per gli uomini, giusto per gli uomini. O Sposo veramente degno di essere amato e abbracciato con tutto l’affetto del cuore! Che cosa aspetta la Chiesa a darsi tutta con tutta devozione a un tale fidato restitutore, a un così pio perdonatore, a un così giusto propugnatore? Il Profeta aveva promesso dicendo: Per la tua avvenenza e la tua bellezza avanza prosperamente (Sal 44,5). Da dove questa avvenenza e bellezza? Penso dai gigli. Che cosa c’è di più bello dei gigli? Così nulla è più bello dello Sposo. Quali sono dunque quei gigli per i quali rifulge lo splendore della sua bellezza? Avanza, dice, e regna per la verità e la mansuetudine e la giustizia (Sal 49,2). Sono gigli; gigli, dico, nati dalla terra, che splendono sulla terra, eminenti tra i fiori della terra, fragranti più dell’odore degli aromi. Tra questi gigli, dunque, e per questi lo Sposo è leggiadro e bello. Altre volte, invece, per quanto riguarda l’infermità della carne, non vi era in lui né apparenza, né bellezza.

 

5. Un buon giglio è la verità, magnifico per il candore, eccellente per il profumo; è, infatti, candore della luce eterna, splendore e figura della sostanza di Dio. Giglio veramente che la nostra terra alla nuova benedizione ha prodotto e ha preparato davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti. Fino a che la terra fu sotto la maledizione germogliò triboli e spine. Ma ora la verità è uscita dalla terra, sotto la benedizione di Dio, fiore bellissimo dei campi e giglio delle valli. Riconosci il giglio dal candore che appena nato risplendette ai pastori nella notte, come dice il Vangelo: Un Angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce (Lc 2,9). È detto bene: La gloria del Signore,perché non candore dell’Angelo, ma del giglio: l’Angelo era presente, ma il giglio splendeva di là fino a Betlemme. Riconosci il giglio dal profumo con il quale si fece conoscere ai Magi lontani. È vero che apparve loro la stella; ma quegli uomini prudenti non l’avrebbero affatto seguita se non fossero stati attirati da una certa intima soave fragranza del giglio nato. E veramente è giglio la verità, il cui odore anima la fede, e il cui splendore illumina l’intelletto.

 

III. Ora alza anche gli occhi alla persona stessa del Signore, che dice nel Vangelo: Io sono la verità (Gv 14,6) e vedi come giustamente la verità sia paragonata al giglio. Se non hai fatto attenzione osserva al centro di questo fiore tante virgole d’oro che vengono fuori, circondate dal candidissimo fiore che è posto tutto intorno come corona, e riconosci in Cristo l’aurea divinità, coronata dalla purità dell’umana natura, cioè Cristo con il diadema con cui lo ha coronato sua madre. Poiché, in quanto coronato dal Padre suo abita la luce inaccessibile, né potresti per ora vederlo. Ma di questo si parlerà altre volte.

 

6. Ora, dunque, giglio è la verità; è anche la mansuetudine. E a proposito giglio è la verità; è anche la mansuetudine, avendo il candore dell’innocenza e il candore della speranza, perché l’uomo pacifico avrà una discendenza (Sal 36,37). Di buona speranza l’uomo mansueto, né meno splendido esempio, anche nella vita presente, di vita sociale. Non è, forse, un giglio colui che splende per il dovere e dà il profumo per la speranza? Inoltre, come la verità è germogliata dalla terra, così anche la mansuetudine. A meno che qualcuno dubiti che è nato dalla terra l’Agnello dominatore della terra, quell’Agnello che fu condotto ad essere ucciso, e non aprì bocca. E non soltanto la mansuetudine e la verità sono germogliate dalla terra, ma anche la giustizia. Disse il Profeta: Stillate cieli dall’alto, e le nubi facciano piovere la giustizia, si apra la terra e produca la salvezza, e germogli insieme la giustizia (Is 45,8). Che poi la giustizia sia un giglio, ricordati della Scrittura: Il giusto germoglierà come giglio, e fiorirà in eterno davanti al Signore (Os 14,6). Questo giglio non è quello di cui è detto che oggi è e domani viene gettato nel forno, perché esso fiorirà in eterno. E fiorirà davanti al Signore nella eterna memoria del quale sarà il giusto, né temerà annunzio di sventura: quell’annunzio cioè con cui i peccatori vengono mandati nella fornace di fuoco. Pertanto, il candore di questo giglio a chi non splende, se non a chi non piace? Infine, è un sole, ma non quello che nasce sopra i buoni e sopra i cattivi.

Infatti, quelli che diranno: Il sole di giustizia non è sorto per noi (Sap 5,6), non hanno mai visto la sua luce. La videro, invece, quanti udirono:Per voi che temete Dio nascerà il sole di giustizia (Ml 4,2). Dunque, il candore di questo giglio è conosciuto dai giusti, la sua fragranza si diffonde anche fino agli iniqui, anche se non a loro vantaggio. Infine, sentiamo che i giusti dicono: Siamo il buon odore di Cristo (2 Cor 14,16) in ogni luogo, che per gli uni, però, è odore di vita per la vita, per altri è odore di morte per la morte. Chi, anche se scelleratissimo non approva il buon nome di giusto, anche se non amale opere che lo procurano? E beato se non si giudica per il fatto che approva. Giudica, infatti, approvando il bene senza amarlo, e perciò non beato davvero, ma misero, condannato dal proprio giudizio. Chi più è miserabile di colui per il quale l’odore della vita è annunziatore, non della vita, ma della morte? Anzi, neanche annunziatone, ma apportatore.

 

IV. 7. Presso lo Sposo vi sono molti altri gigli oltre questo che abbiamo incontrati nel Profeta, cioè la verità, la mansuetudine e la giustizia; e non sarà difficile ormai a chiunque di voi trovarne di simili da se stesso nel giardino di uno Sposo così delizioso. Ve n’è in grande abbondanza, chi potrebbe contarli? Tante virtù, altrettanti gigli. C’è un limite alle virtù nel Signore delle virtù? Che se in Cristo vi è la pienezza delle virtù, vi è anche la pienezza dei gigli. E forse per questo egli si è chiamato giglio perché è tutto tra i gigli e tutte le cose sue sono gigli: la concezione, la natività, la vita, le parole, i miracoli, i sacramenti, la passione, la morte, la risurrezione, l’ascensione. Quale di queste cose non è candida e soavemente odorosa? Nella sua concezione rifulse tanto splendore di luce celeste per l’abbondanza dello Spirito sopravvenuto, che neppure la stessa Vergine Santa l’avrebbe sopportato se non fosse stata adombrata dalla virtù dell’Altissimo. La sua natività fu resa candida dalla verginità incorrotta della Madre, la sua vita dall’innocenza della condotta, le sue parole dalla verità, i miracoli dalla purità, i sacramenti dall’arcano della pietà, la passione dalla volontà di soffrire, la morte dalla facoltà che aveva di non morire, la risurrezione dalla fortezza dei martiri, l’ascensione dalla esposizione delle promesse. Che buon odore di fede in queste singole cose, che riempie i tempi e le viscere di noi che non abbiamo veduto il suo candore! Beati coloro che non videro e hanno creduto (Gv 20,29)! Tra queste cose c’è la parte mia, l’odore di vita che procede da esse. Inondato da questi profumi, mediante una specie di strumento della fede adattato alle mie narici, e abbondantemente per la moltitudine di gigli, sento in realtà più leggero l’esilio, mentre il desiderio assiduo della patria si rinnova nel mio cuore.

 

8. Hanno gigli anche alcuni compagni dello Sposo, ma non in abbondanza. Tutti, infatti, hanno ricevuto lo Spirito con misura, con misura le virtù e i doni; solo per lo Sposo non c’è misura, avendo egli tutto. Altro è avere dei gigli, altro non avere che gigli. Chi ci sarà tra i. figli della cattività così innocente e santo, che abbia potuto occupare tutta la sua terra in questi fiori? Neppure un bambino di un sol giorno è senza macchia sopra la terra. È grande colui che avrà potuto far crescere nella sua terra tre o quattro gigli, in mezzo a tanto rigoglio di spine e di triboli che sono germi inveterati dell’antica maledizione. Per me poi che sono povero, va bene se sarò capace una volta, in mezzo a questa pessima vegetazione di iniquità e di vizi, di salvare un pezzetto della mia terra, estirpando e coltivando, perché possa produrre anche un solo giglio, e così anche presso di me si degni talvolta di venire a pascersi colui che si pasce tra i gigli.

 

9. Ma ho detto poco dicendo un giglio solo: la mia bocca ha parlato dalla penuria del mio cuore. Uno solo proprio non basta, ne occorrono almeno due. Dico la continenza e l’innocenza, di cui l’una non salverà senza l’altra. Invano, dunque, a una di queste inviterò lo Sposo che non si pasce presso un giglio, ma tra i gigli. Mi sforzerò, pertanto, di avere dei gigli, perché egli non sia urtato per la presenza di un solo giglio, non volendo egli pascersi se non tra i gigli, e nel caso passi oltre irritato. Pongo, dunque, prima di tutte l’innocenza; e se a questa riuscirò a unire la continenza, mi riterrò ricco possessore di due gigli. Sono addirittura re se ne potrò aggiungere una terza: la pazienza. E possono bastare queste; ma poiché nelle tentazioni possono venir meno è infatti una tentazione la vita dell’uomo sulla terra (Gb 7,1) la pazienza è necessaria per essere quasi la nutrice e custode delle due precedenti. Penso che se verrà quell’amatore di gigli, e troverà così le cose, non disdegnerà di pascersi tra di noi, e fare presso di noi la pasqua, trovando molta soavità nelle due e molta sicurezza per la terza. Ma per qual ragione si dica che si pasce colui che pasce tutte le cose, lo vedremo dopo. Ora, intanto, è chiaro che lo Sposo non solo appare tra i gigli, ma per nessun modo si può trovare fuori dei gigli, essendo egli stesso tutto quello che si dice di lui, essendo cioè egli stesso giglio, Sposo della Chiesa Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXI

 

 

I. In che cosa consista il candore o l’odore del giglio, cioè della virtù. II. In che cosa è il candore dell’anima e come lo Sposo si pasce e insieme pasce tra i gigli. III. Come Dio dall’uomo e l’uomo da Dio è mangiato, e la differenza di unità con cui Padre e Figlio sono uno e Dio e l’uomo sono un medesimo spirito. IV. L’unità sostanziale del Padre e del Figlio e di quella per consenso della volontà fra l’uomo e Dio, e come l’uomo ab aeterno sia in Dio ma non è vero il contrario. V. Il terzo senso del pascolo dello Sposo, che è Verbo di Dio; ciò che non è opera buona e non è fra le virtù, cioè fra i gigli, non è oggetto del suo pascolo.

 

 

I. 1. Questo sermone comincia dove il precedente è terminato. È, dunque, lo Sposo un giglio, ma non un giglio tra le spine (Cant 2,2), perché non ha spine colui che non ha fatto peccato. Ha detto che la sposa è come un giglio tra le spine, perché se essa almeno dicesse che non ha spine ingannerebbe se stessa e non vi sarebbe verità in lei. Se stesso, invece, ha chiamato fiore e giglio, non tuttavia tra le spine, ma piuttosto fiore del campo e giglio delle valli (Cant 2,1). E non c’è menzione di spine perché egli è il solo degli uomini che non abbia necessità di dire: Mi rivolto solo nel mio dolore mentre mi trafigge la spina (Sal 31,4). Dunque, non è mai senza gigli colui che è sempre senza vizi, perché tutto e sempre è candido e bello tra i figli degli uomini. Tu, dunque, che senti o leggi queste cose, abbi cura di avere dei gigli presso di te, se vuoi che questo abitatore tra i gigli abiti in te. Il tuo lavoro, la tua applicazione, il tuo desiderio siano gigli, e lo dimostrino il morale candore e il profumo di queste cose. Hanno i costumi i loro colori e i loro odori. Non è, infatti, nelle cose spirituali la stessa cosa il colore e l’odore, non più che in quelle corporali. Dunque, al colore provvede la coscienza, all’odore la fama: Hai fatto puzzare l’odore di noi davanti al faraone e ai suoi servi (Es 5,21), dicevano gli Israeliti a Mosè, alludendo all’opinione. Il colore, poi, lo dà alla tua azione l’intenzione del cuore e il giudizio della coscienza. Sono neri i vizi, candida la virtù. Tra questa e quelli la coscienza consultata sceglie. Resta la sentenza del Signore circa l’occhio cattivo e l’occhio limpido, perché tra il candido e il nero fissò certi limiti, dividendo la luce dalle tenebre. Quello, dunque, che procede da un cuore puro e da una buona coscienza è candido, ed è virtù. Se poi è seguita una buona fama è anche giglio, in quanto non gli manca né il candore, né l’odore.

 

2. La virtù diventa se non più grande più bella tuttavia e più appariscente. Se nella coscienza c’è un neo anche ciò che procede da essa avrà un neo. Poiché, se la radice è viziata, lo sarà anche il ramo, e per questo qualunque cosa la radice viziata produce tramite un vizio, come ad esempio un discorso, un’azione, una preghiera, anche se ottenga il plauso della fama non può essere detto giglio, perché anche se sembra esserci l’odore, manca però il colore. Come, infatti, vi può essere un giglio con una macchia di impurità? Né potrà la fama rendere virtuoso quello che la coscienza riconosce come vizio. Si contenterà, infatti, la virtù del candore della coscienza dove non potrà seguirne l’odore della fama; ma l’odore della fama non potrà scusare il vizio della coscienza senza colore. L’uomo cercherà, tuttavia, di compiere le buone opere della virtù non solo davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini, perché tale virtù sia veramente un giglio.

 

II. 3. Ma è anche candore dell’anima l’indulgenza di Dio, come egli stesso dice: Se i vostri peccati fossero come scarlatto diventeranno bianchi come neve; se fossero rossi come porpora diverranno bianchi come lana (Is 1,18). Ed è il candore di cui si riveste colui che ha compassione di buon cuore. Se guardi, infatti, colui che il Profeta dipinge come un uomo allegro che ha compassione e dà in prestito, non ti sembra che costui dalla giocondità dell’animo abbia diffuso un certo candore di pietà, ugualmente sul suo volto e sulla sua opera? Come all’opposto, se uno dà con tristezza e come per necessità, non mostra un colore candido certamente, ma tetro, e sulla mano e sulla fronte. E perciò Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9,7). Ama anche il donatore triste? Ora, colui che ha guardato ad Abele per il candore della sua devozione, ha distolto lo sguardo da Caino perché la sua faccia era rabbuiata per la tristezza e il livore. Considera quale sia il colore della tristezza e il livore. Considera quale sia il colore della tristezza e dell’invidia che distoglie lo sguardo di Dio. Bene ed elegantemente nel dar colore al beneficio è stato lodato il candore della giocondità in quel verso del Poeta: «Soprattutto si presentarono volti sereni» (Ovidio, Metamorfosi, 8, 677-678). Né solamente chi dà con gioia è amato da Dio, ma anche chi lo fa con semplicità. Anche la semplicità è candore. Lo proviamo dal contrario: il neo significa doppiezza, ho detto poco il neo è una macchia. Che cosa è la doppiezza, se non inganno? Ma chi agisce con inganno al cospetto di Dio , la sua iniquità diventa odiosa. E perciò beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male, e nel cui spirito non è inganno (Sal 31,2). Bene il Signore ha notato entrambe le macchie in poche parole, l’inganno e la tristezza: Non siate, dice, tristi come gli ipocriti (Mt 6,16). Lo Sposo, pertanto, essendo virtù, si compiace nelle virtù, ed essendo giglio, dimora volentieri tra i gigli, ed essendo candore, si diletta tra i candidi.

 

4. E forse pascersi tra i gigli vuol proprio dire compiacersi del candore e del profumo delle virtù. Un tempo si pasceva corporalmente presso Maria e Marta, e si metteva a tavola tra gigli anche col corpo esse, dico, poiché erano gigli ma rifocillava tuttavia lo spirito con la devozione e le virtù delle due donne. Che se in quel momento fosse entrato un Profeta o un Angelo, o qualsiasi altra persona spirituale, non ignorando quale fosse la maestà che era là seduta, non avrebbe dichiarato con stupore, per tanta degnazione e familiarità che vedeva dimostrare con anime pure e corpi illibati, ma tuttavia terreni e di sesso più debole, di averlo veduto non solo stare, ma pascersi tra i gigli? Così, dunque, secondo l’uno e l’altra, lo spirito cioè e la carne, lo Sposo fu trovato a pascersi tra i gigli. Penso che egli pascesse anche da parte sua, ma in spirito. Per ciò stesso che si pasceva, come pasceva! Come, dico, confortava la timidezza di quelle donne, ne rallegrava l’umiltà, ne accresceva la devozione! Ma se hai visto come il pascersi per lui sia anche pascere, vedi anche ora come viceversa per lui pascere equivalga a pascersi.Signore che mi pasci dalla mia gioventù (Gen 48,15), dice il santo Patriarca Giacobbe. Buon padre di famiglia quello che prende cura dei suoi domestici, specialmente nei tempi difficili, per nutrirli in tempo di fame, cibandoli col pane di vita e di intelligenza, e nutrendoli per la vita eterna. Ma pascendoli, così io penso, si pasce egli stesso, e con i cibi che gli sono graditi, i nostri profitti. Poiché gaudio del Signore è la nostra fortezza (Ne 8,10).

 

5. Così dunque, quando si pasce pasce, e si pasce quando pasce, nutrendoci del suo gaudio spirituale, e godendo egli stesso ugualmente del nostro spirituale profitto. È suo cibo la mia penitenza, suo cibo la mia salvezza, suo cibo io stesso. Non mangia forse la cenere come pane? E io perché sono peccatore, sono cenere da essere mangiata da lui. Sono masticato quando sono rimproverato, sono deglutito quando vengo formato, sono cotto quando sono mutato, sono digerito quando sono trasformato, udito quando sono conformato. Non meravigliatevi di questo: egli ci mangia ed è mangiato da noi affinché ci uniamo più strettamente a lui. Diversamente non saremmo perfettamente uniti con lui. Poiché se io mangio e non sono mangiato egli sembrerà essere in me, ma non ancora io in lui. Che se sono mangiato e non mangio, sembrerà che egli mi abbia in sé, ma non sia in me; né vi sarà perfetta unione in una sola di queste cose. Ma egli mangi me, perché abbia me in sé, e da me a sua volta sia mangiato perché sia in me, e vi sarà così stretta connessione e integra complessione quando io sarò in lui e lui in me.

 

6. Vuoi che ti mostri con qualche cosa di simile quanto ho detto? Alza ora i tuoi occhi in una cosa molto più sublime, ma simile a questa. Se lo stesso Sposo fosse nel Padre senza che il Padre fosse in lui, o se il Padre fosse bensì in lui, ma non lui nel Padre, oserei dire che anche la loro unità non sarebbe perfetta, se pure fosse ancora unità. Ma egli é nel Padre, e il Padre è in lui, e quindi la loro unità non zoppica, ma veramente e perfettamente formano una cosa sola lui e il Padre. Così, dunque, l’anima che considera suo bene l’aderire a Dio non pensi di essere perfettamente unita a lui prima di sentire che egli abita in sé e lei in lui. Non che neppure allora formi con Dio una cosa sola, come sono una cosa sola il Padre e il Figlio, quantunque chi aderisce a Dio forma con lui un solo spirito (1 Cor 6,17). Ho letto questo, ma non ho letto che formi una cosa sola con Dio. Non dico di me, che sono nulla, ma assolutamente nessuno, sia della terra, sia del cielo, potrà usurpare per sé quella parola dell’Unigenito: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30). Io tuttavia, benché polvere e cenere, sull’autorità della Scrittura non temo affatto di dire che sono un solo spirito con Dio, se mi permetteranno di affermarlo certe esperienze, che io aderisco a Dio come uno di coloro che rimangono nella carità, e per questo dimorano in Dio e Dio in loro, mangiando in qualche maniera Dio, e mangiati da Dio. Poiché penso che di tale adesione sia stato detto: Chi aderisce a Dio forma un solo spirito con lui. Che dunque? Dice il Figlio: Io nel Padre e il Padre è in me, e siamo una cosa sola (Gv 10,38); dice l’uomo: io in Dio, e Dio è in me, e siamo un solo spirito.

 

7. Ma forse il Padre e il Figlio per esser l’uno nell’altro, e perciò formare una cosa sola, si mangiano a vicenda come Dio e l’uomo quasi per una vicendevole manducazione passano l’uno nell’altro, anche se con questo non diventano una cosa sola, ma un solo spirito? Per nulla affatto. Poiché è diverso il modo di essere l’uno nell’altro nei due casi, e non è la medesima unità che ne risulta. Il Padre e il Figlio sono l’uno nell’altro in modo non solo ineffabile, ma incomprensibile, così ampi e capaci di contenersi a vicenda, ma ampi senza possibilità di dividersi in parti, e capaci senza possibilità di parteciparsi. Così infatti canta la Chiesa nell’inno:

 

Nel Padre tutto il Figlio

e tutto nel Verbo il Padre.

 

Il Padre è nel Figlio, nel quale sempre si è compiaciuto; il Figlio è nel Padre dal quale da sempre è nato e mai separato. Ora l’uomo è in Dio per la carità e Dio nell’uomo, al dire di San Giovanni, che chi rimane nella carità rimane in Dio e Dio in lui (1 Gv 4,16). Questo è un certo accordo delle volontà, per cui due sono in un solo spirito, anzi, formano un solo spirito. Vedi la diversità? Non è lo stesso avere la medesima sostanza e avere il medesimo sentire. Del resto se hai fatto attenzione ti è abbastanza indicata la differenza delle unità nelle parole: «una cosa sola» e «un solo spirito», poiché non si potrà dire che il Padre e il Figlio siano «uno», né che l’uomo e Dio siano «una cosa sola». Non si possono dire «uno» il Padre e il Figlio, perché il primo è Padre e l’altro è Figlio; si dicono però e sono una cosa sola, perché unica è la loro sostanza, né ognuno di essi ha la sua. Invece, l’uomo e Dio, non essendo di un’unica sostanza o natura, non possono dirsi una cosa sola; si dicono tuttavia formare un solo spirito con certa e assoluta verità se aderiscono all’altro con il vincolo dell’amore. Questa unità, infatti, non è costituita dall’unità dell’essenza, ma dalla connivenza delle volontà.

 

9. Mi sembra che sia chiara non solo la diversità, ma anche la disparità delle unità costituite una da una sola essenza, l’altra da diverse sostanze. Che c’è di più distante che l’unità di parecchi, e l’unità di una cosa sola? Così tra le unità, come ho detto, si distinguono «uno» e «una cosa sola» perché per «una cosa sola» viene designata l’unità di essenza nel Padre e nel Figlio, e invece per «uno» non è indicata questa, ma una certa pietà comune di affetti tra Dio e l’uomo. Con un’aggiunta tuttavia anche il Padre e il Figlio si dicono rettamente «uno», per esempio: un solo Dio, un solo Signore, e tutto ciò che si dice di uno di essi e non di entrambi. Non vi è, infatti, in essi diversa divinità o maestà, non più che sostanza o essenza o natura: ma tutte queste cose, se bene consideri, non sono diverse in essi, o divise, ma sono una cosa sola.

 

IV. Ho detto troppo poco: sono una cosa sola con essi. Che cosa dire di quella unità per cui molti cuori e molte anime si legge che formassero una cosa sola? Non è da considerare neppure unità rispetto a questa, dove non vengano unite molte cose, ma designa singolarmente una cosa sola. Dunque è singolare e somma quella unità che non risulta dal riunire insieme cose prima separate, ma esiste dall’eternità. Né questa unità è prodotta da quella manducazione spirituale di cui si è parlato. Non viene prodotta, ma è. Molto meno si deve pensare che la produca una qualsiasi congiunzione di essenze o consenso di volontà, perché non sono. Una sola, infatti, come si è detto, è in essi l’essenza e la volontà; ma dove c’è uno solo non vi è consenso, non composizione, non unione o qualcosa di simile. Vi devono essere per lo meno due volontà perché ci sia il consenso, due essenze perché vi sia congiunzione o unione per consenso. Nulla di questo nel Padre e nel Figlio, perché né ci sono in essi due essenze, né due volontà. In essi unica è l’essenza e unica la volontà, anzi in essi queste due sono una cosa sola, come mi ricordo di aver detto, e formano con essi una cosa sola, per questo essi, rimanendo vicendevolmente l’uno nell’altro in modo incomprensibile e incomparabile, veramente e singolarmente sono una cosa sola. Se tuttavia qualcuno dice che tra il Padre e il Figlio c’è un consenso, non dico di no, purché non si intenda l’unione di due volontà, ma l’unità di una sola volontà.

 

10. Dio, invece, e l’uomo, che possiedono e si differenziano per volontà e per l’essenza che è propria a ciascuno dei due, rimangono l’uno nell’altro in un modo molto diverso, cioè non per la confusione delle due sostanze, ma per l’uniformità delle due volontà. E questa unione è per essi comunione di volontà e consenso nella carità. Felice unione, se ne fai l’esperienza. Nulla se la metti a confronto con l’altra. Voce di un esperto: Buona cosa per me aderire a Dio (Sal 72,28). Buona cosa veramente se aderirai da ogni parte. Chi è che aderisce perfettamente a Dio se non colui che, rimanendo in Dio in quanto amato da Dio, amandolo a sua volta ha attirato Dio in sé? Dunque, quando da ogni parte aderiscono a vicenda l’uomo e Dio, aderiscono da ogni parte per la mutua intima dilezione che li rende come inviscerati l’uno nell’altro per questo direi che non vi è dubbio essere Dio nell’uomo e l’uomo in Dio. Ma l’uomo è in Dio dall’eternità, in quanto dall’eternità amato, se tuttavia è di quelli che dicono che Dio ci ha amati e gratificati nel suo diletto Figlio prima della creazione del mondo; Dio, invece, é nell’uomo da quando è amato dall’uomo. E se è così l’uomo è si in Dio, anche quando Dio non è nell’uomo; Dio, invece, non è nell’uomo se questi non è in Dio. Rimanere infatti nell’amore non può, anche se ama per un certo tempo, chi non è amato. Può, però, non ancora amare ed essere già amato; diversamente come potrebbe stare: perché egli per primo ci ha amati (1 Gv 4,10). Ora, quando ama anche colui che già prima era amato allora l’uomo è in Dio e Dio è nell’uomo. Chi poi mai ha amato, consta che mai è stato amato, e perciò né egli è in Dio, né Dio in lui. Abbiamo detto queste cose per far rilevare la differenza tra quella connessione per cui il Padre e il Figlio sono una cosa sola, e quella per cui un’anima aderendo a Dio, forma con lui un solo spirito, perché non capiti che essendo scritto che l’uomo che rimane nella carità rimane in Dio e Dio in lui, e che il Figlio è nel Padre e il Padre è in lui, si attribuisse anche all’uomo adottato quello che è prerogativa del Figlio unico.

 

V. 11. Terminata questa questione dobbiamo ritornare a colui che si pasce tra i gigli, perché di là abbiamo fatto questa digressione fino qui; se non sia stata cosa inutile giudicatelo voi. E già di quel passo avevo proposto due sensi: sia che si pasce delle virtù di coloro che si sono resi candidi colui che è virtù e candore, sia che riceve i peccatori a penitenza nel suo corpo, che è la Chiesa, per incorporarsi i quali fece se stesso peccato, lui che non commise peccato, perché fosse distrutto il corpo del peccato al quale si erano conformati quelli che peccarono, e divenissero giustizia, gratuitamente giustificati in lui (Rm 3, 24; 2 Cor 5, 21).

 

12. Ne aggiungo un terzo che mi viene in mente, e basterà sia per la spiegazione del passo, sia per chiudere il sermone. La parola di Dio è verità, e lo stesso sposo. Sapete questo. Ascoltate il resto. Questa parola, quando viene ascoltata e non le si obbedisce, resta in qualche modo per il momento vuota e digiuna, del tutto triste, e si lamenta di essere stata pronunziata invano. Se invece le si obbedisce non ti sembra che la parola cresca e in qualche modo metta corpo, perché alla parola si è aggiunta l’azione, nutrita da certi frutti di obbedienza, da messi di giustizia? Per questo si dice nell’Apocalisse: Ecco, io sto alla porta e busso, se qualcuno ascolterà la mia voce e aprirà la porta, entrerò da lui, e cenerò con lui e lui con me (Ap 3,20). Questo senso sembra venire approvato, e anche la sentenza del Signore presso il Profeta, dove dice che la sua parola non tornerà a lui vuota, ma prospererà e farà quello per cui l’ha mandata. Non tornerà, dice, a me vuota (Is 55,11), ma quasi prosperando in tutto si saturerà degli atti buoni di coloro che, animati dall’amore gli obbediscono. Infine, secondo il modo di parlare si dice che la parola si è adempiuta quando ha ottenuto l’effetto, come se fosse in qualche modo famelica e si sentisse vuota, fino a che sia riempita dall’esecuzione dell’opera.

 

13. Ma ascolta Cristo stesso che dice di quale cibo si nutra: Il mio cibo, dice, è di fare la volontà del Padre mio (Gv 4,34). È parola del Verbo che indica chiaramente essere suo cibo un’azione buona, se la troverà tra i gigli, cioè tra le virtù. Diversamente, se la trova fuori, anche se il cibo in sé sembra buono, non lo toccherà colui che si pasce tra i gigli. Per esempio, non accetta l’elemosina dalla mano di un ladro o di uno strozzino, e neppure da quella di un ipocrita che facendo l’elemosina suona la tromba davanti a sé per essere glorificato dagli uômini. E neppure esaudirà in qualche modo l’orazione di colui che ama pregare negli angoli delle piazze per essere veduto dagli uomini. L’orazione del peccatore, infatti, sarà esecrabile. Invano pure offre la sua offerta all’altare colui che sa che il suo fratello ha qualche cosa contro di lui. Infine, Dio non guardò all’offerta di Caino perché non si comportava rettamente nei riguardi di suo fratello. Secondo la testimonianza del Profeta Dio aveva anche in abominio i sabati, le neomenie e i sacrifici dei Giudei, talmente da protestare che la sua anima odiava queste cose, e diceva:Quando venivate al mio cospetto, chi ha richiesto queste cose dalle vostre mani? (Is 1, 12). Credo che quelle mani non odoravano di gigli, e perciò respingeva l’offerta presentata da esse colui che è solito pascersi tra i gigli, e non tra le spine; non avevano forse mani spinose quelli ai quali diceva: Le vostre mani sono piene di sangue? (Gen 27,23). Anche le mani di Esaù erano pelose, con peli simili a spine; perciò non furono ammesse per il servizio del Santo.

 

14. Temo che tra di noi vi siano alcuni dei quali lo Sposo non accetti le offerte, perché non sanno di gigli. Infatti, se nel mio digiuno si trova la mia volontà, tale digiuno non è adatto allo Sposo, né egli gusta il mio digiuno che sa non di obbedienza, ma del vizio della volontà propria. Io penso la stessa cosa non solo del digiuno, ma del silenzio, delle veglie, dell’orazione, della lettura, del lavoro manuale, insomma di ogni osservanza del monaco dove si trova la volontà propria e non l’obbedienza al maestro. Non penso affatto che tali osservanze, pure buone in sé, siano da annoverarsi tra gigli, vale a dire tra le virtù. Ma chi fa queste cose si sentirà dire dal Profeta: È forse questo l’ossequio che io cerco? dice il Signore. E aggiungerà: Nel giorno dei tuoi beni si trova la tua volontà. Grande male la volontà propria, la quale fa si che i tuoi beni non siano beni per te. Bisogna, pertanto, che queste cose diventino gigli, perché colui che si pasce tra i gigli non gusterà nulla che sia inquinato dalla propria volontà. La sapienza arriva dappertutto per la sua mondezza, e nulla di inquinato si trova in essa. Così, dunque, lo Sposo ama pascersi tra i gigli, cioè presso i cuori mondi e nitidi. Ma fino a quando? Fino a che aspiri il giorno e si inclinino le ombre (Cant 2,17). È un luogo ombroso e fitto. Non entriamo in questa selva di profondo mistero se non alla chiara luce del giorno. Ormai, infatti, il mio discorso si è prolungato più del solito e il giorno è avanzato, e così contro voglia siamo costretti ad allontanarci da questi gigli. Non sono vinto dalla prolissità del discorso perché l’odore di questi fiori mi toglie ogni stanchezza. Pare che resti poco di questo capitolo, ma questo poco è pieno di mistero, come del resto tutto in questo cantico. Ma chi rivela i misteri sarà là, lo spero, quando cominceremo a bussare, perché non chiuda la bocca di quelli che parlano di lui, essendo a lui cosa familiare aprire le cose chiuse, lui che è Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXII

 

 

I. Come si aggiunge a entrambi i capitoli delle parti: «Finché aspiri» e come allora lo Sposo non si pasce, ma beve. II. Il giorno e le ombre spirituali, e come, spirando il giorno, si inclinano o scompaiono. III. Il giorno spira o inspira, espira o cospira, respira, la notte sospira. IV. Come coloro che respirano di giorno crescano nell’abbondanza, coloro che sospirano nella notte maggiormente sono impoveriti.

 

 

I. 1. Il mio diletto a me e io a lui che si pasce tra i gigli fino a che aspiri il giorno e si inclinino le ombre (Cant 2,1617). Abbiamo da parlare soltanto dell’ultima parte di questo versetto, e, cominciando, non so a quale riallacciarla delle due parti precedenti: posso farlo con l’una o con l’altra indifferentemente. Sia infatti che si dica: Il mio diletto a me e io a lui fino a che aspiri il giorno, saltando solo che si pasce tra i gigli, sia che si dica, seguendo la lettera: che si pasce tra i gigli fino a che aspiri il giorno e si inclinino le ombre, non c’è inconveniente alcuno per l’una o l’altra versione. C’è una cosa, che quel fino a che unito alla prima parte include anche la seconda; se lo metti in mezzo escludi la prima parte per forza. Ammettiamo che lo Sposo cessi di pascersi tra i gigli quando spira la brezza del giorno, cesserà similmente anche di essere rivolto alla sposa e lei a lui? Certamente no. Per sempre persevereranno a tendere l’uno verso l’altra, e viceversa, e più felicemente nell’eternità, dove questa tendenza sarà anche più veemente, più veemente perché più libera. Abbia dunque questo fino a che quel senso che ha presso il Vangelo di Matteo, dove si racconta che Giuseppe non conobbe Maria fino a che partorì il suo figlio primogenito (Mt 1,25), infatti non è che la conobbe dopo; ovvero come nel salmo: I nostri occhi al Signore nostro Dio finché abbia pietà di noi (Sal 122,2) non vuol dire che cesseranno di essere rivolti a Dio quando comincerà ad avere pietà; oppure ancora come quando il Signore disse agli Apostoli: Ecco io sono con voi fino alla consumazione dei secoli (Mt 26,20), il che non significa che dopo non sarà più con loro. Questo va bene se fino a che si riferisce alle parole il mio diletto a me e io a lui. Se invece preferisci che si riferisca a quelle altre che si pasce tra i gigli, sarà da prendere in altro senso. Resta più difficile da dimostrare come il diletto cessi di pascersi quando spunterà il nuovo giorno. Se questo, infatti, è il giorno della Risurrezione perché non dovrebbe più pascersi quando vi sarà molto più grande abbondanza di gigli? Ciò per quanto riguarda il senso da dare alla lettera.

 

2. Ora osserva con me che in tutto il regno dove lo Sposo sta e si delizia tra tanti fulgidi gigli, non si dice però che si pasce, secondo quello che era solito fare prima. Dove sono infatti ormai i peccatori che Cristo cerca di incorporarsi, masticati e morsicati in certo qual modo dai denti di un’austera disciplina, cioè con l’afflizione della carne e la contrizione del cuore? Ma ormai il Verbo Sposo non ha più bisogno di cibo che gli venga procurato da alcuni fatti o opere di obbedienza, là dove ogni attività è riposo, solo consistendo nella visione e nell’affetto. Certo è suo cibo fare la volontà del Padre suo, ma qui, non lassù. Perché, infatti, fare quella che è già fatta? Consta che allora sarà anche perfetta. Tutti i santi, infatti, proveranno allora quale sia la volontà di Dio, buona, gradita e perfetta (Rm 12,2). E certamente, dopo ciò che è perfetto non resta da fare nulla, resta solo da godere, non da fare, da sperimentare, non da operare, da vivere in essa, non da esercitarsi in essa. Non è, forse, quella stessa volontà che con istantissima orazione, istruiti dal Signore, chiediamo che si faccia così in terra come in cielo, dove ne gusteremo il frutto senza che l’azione ci procuri fatica? Non vi sarà, dunque, per il Verbo Sposo il cibo delle opere, perché verrà meno necessariamente ogni opera, dove in ogni modo più pieno da tutti si percepisce la sapienza: poiché chi ha poca attività la percepisce (Eccli 38,25).

 

3. Ma vediamo adesso se quello che diciamo possa reggere anche secondo la sentenza di alcuni che intendono per pascersi tra i gigli il compiacersi del candore delle virtù; abbiamo, infatti, riferito anche questa. Diremo, forse, che allora non vi saranno virtù, o che non saranno gradite allo Sposo? È da stolto pensare l’una o l’altra di queste due cose. Ma osserva come forse se ne compiace in modo diverso perché è certo che ne prova gusto ma forse non come da cibo, quanto come da bevanda. Veramente in questo tempo e in questo corpo nessuna delle nostre virtù è talmente purificata, nessuna così soave e genuina da poter servire da bevanda allo Sposo. Ma colui che vuole che tutti gli uomini si salvino dissimula molte cose, e da quello che non può per il momento deglutire come facile bevanda, cerca di estrarre qualche cosa di saporito, quasi con una certa arte, e un certo lavoro di masticazione. Vi sarà un tempo in cui la virtù sarà facile a deglutirsi, senza lavoro di denti, né fatica da parte di chi mastica, o piuttosto non stancherà chi mastica, e recherà diletto a chi la beve senza fatica, appunto come bevanda, come cibo solido. C’è, infatti, la promessa del Vangelo: Non berrò più del frutto della vite, dice, fino a che beva quel vino nuovo con voi nel regno del Padre mio (Mt 26,29). E del cibo non si fa menzione alcuna. Anche nel Profeta si legge: Come un prode assopito dal vino (Sal 77,65); anche qui non si trova nulla del cibo. La sposa, dunque, conscia di questo mistero, avendo saputo e riferito che lo Sposo si pasce tra i gigli, ha posto un termine a questa sua degnazione, anzi conobbe che era stabilito questo termine e lo ha riferito dicendo: Fino a che aspiri il giorno e si inclinino le ombre. Sapeva, infatti, che gli si doveva dare più da bere che da mangiare. Anche l’usanza sembra appoggiare questo senso, in quanto dopo mangiato si è soliti bère. Dunque, colui che qui mangia di là berrà, e la sua bevanda sarà tanto più dolce quanto più sicura, e deglutirà anche quelle cose che adesso più con minuzia, e in qualche modo, con più fatica, rende liquide masticando.

 

II. 4. Ma ora veniamo a considerare quel giorno e quelle ombre: quale sia quello, e quali queste: perché si dica di quello che spira, e perché si dica che le ombre si inclinano. È detto letteralmente: fino a che aspiri il giorno, al singolare. Solo in questo passo, se non erro, si trova questa frase: il giorno spira. Si dice, infatti, che spirano i venti, le brezze, non i tempi. Respira l’uomo, respirano gli altri animali, ai quali questo ricambio di aria fa continuare la vita. E questo che è se non vento? Spira anche lo Spirito Santo, e per questo si chiama Spirito. Per qual ragione, dunque, si dice che il giorno spira, che non è né vento, né spirito, né animale? Sebbene non è detto neppure che spira, ma che «aspira». Né meno fuori dell’uso comune è detto: e si inclinino le ombre. Infatti, al nascere di questa luce corporea e visibile le ombre non s’inclinano, ma spariscono. Bisogna, dunque, cercare un senso fuori del corporale. E se troveremo un giorno spirituale forse troveremo anche le ombre e la loro inclinazione, e si comprenderà più facilmente come «aspiri» questo giorno. Chi pensa che sia corporeo quel giorno di cui dice il profeta: è meglio un solo giorno nei tuoi atri che mille altrove (Sal 83,11), non so proprio che cosa possa pensare che non sia corporeo. C’è anche un giorno con senso cattivo, quel giorno che hanno maledetto i Profeti. Ma non pensiamo che sia di questi visibili che Dio ha fatto. Dunque, è spirituale.

 

5. Chi vi sarà mai che dubiti che fu spirituale quell’ombra con cui fu coperta Maria nell’atto di concepire, e quella di cui parla così il Profeta:Spirito è davanti alla nostra faccia Cristo Signore, all’ombra di Lui viviamo tra le genti? (Lam 4,20 secondo i LXX). Io, tuttavia, penso che in questo passo siano chiamate ombre le potestà avverse, che non solo come ombre e tenebre, ma come principi delle tenebre vengono designate dall’Apostolo, e quelli della nostra razza che aderiscono a quelli, figli veramente della notte e non della luce o del giorno. Queste tenebre non del tutto spariscono all’apparire del giorno, come fanno le tenebre corporali all’apparire della luce corporea, che non solo spariscono, ma le vediamo completamente dissolversi. Saranno dunque queste spirituali tenebre un po’ meno ridotte che il nulla, ma più miserevoli. Vi saranno ancora, ma inclinate e suddite. S’inclinerà è detto certamente del diavolo, principe delle tenebre, e cadrà quando avrà dominato sui poveri (Sal 9,31). Non sarà, dunque, distrutta la sua natura, ma gli verrà sottratta la potenza; non sarà distrutta la sua sostanza, ma passerà l’ora e la potestà delle tenebre. Vengono tolti i demoni perché non vedono la gloria di Dio, non vengono annientati perché sempre siano tormentati dal fuoco. Come non saranno inclinate le ombre quando saranno deposti i potenti dai loro seggi e saranno posti a sgabello dei piedi? E questo deve avverarsi presto: È l’ultima ora (1 Gv 2,18); la notte è avanzata, il giorno è vicino (Rm 13,12). Spunterà il giorno, sparirà la notte. La notte è il diavolo, è l’angelo di Satana, anche se si trasfigura in angelo di luce. Notte è l’Anticristo, che il Signore ucciderà con il soffio della sua bocca, e distruggerà con la luce della sua venuta. Non è, forse, il Signore il giorno? Giorno veramente illuminante e spirante: col soffio della sua bocca fuga le ombre e distrugge i fantasmi con la luce del suo avvento. Oppure, se piace maggiormente dare alla parola «inclinarsi» nient’altro che il significato di essere distrutto, tanto per non omettere anche questo senso, diciamo ombre le figure e gli enigmi delle Scritture, nonché le locuzioni sofistiche e i cavilli di parole e gli argomenti confusi, tutte cose che allo stato attuale danno ombra alla luce della verità. Imperfetta è infatti la nostra conoscenza, e imperfetta la nostra profezia (1 Cor 13,9). Ma con lo spuntare di questo giorno si inclineranno le ombre, perché tutto venendo occupato dalla pienezza della luce non potrà restarvi alcuna parte di tenebre. Come dice l’Apostolo: Quando verrà quello che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà (1 Cor 13,10).

 

III. 6. Potrebbe bastare quanto è stato detto fin qui su questo argomento, se il testo portasse semplicemente «spiri» e non «aspiri» parlando del nuovo giorno. Per questa piccola differenza penso di dover aggiungere qualche cosa, per spiegare cioè la diversità di queste due parole. Io infatti per dire la verità, sono da un pezzo persuaso che nel testo del sacro e prezioso eloquio non vi sia neppure una particella inutile, senza una ragione. Siamo, dunque, soliti usare questa parola quando desideriamo ardentemente qualche cosa, come per esempio quando diciamo: «Quello aspira a quell’onore o a quella dignità». Viene, perciò, designato con questa parola che si compiranno cose meravigliose e grandiose in quel giorno per opera dello Spirito, quando non solo i cuori, ma anche i corpi nel loro genere, saranno spirituali; e coloro che ne sono degni saranno inebriati dall’abbondanza della casa del Signore, e berranno al torrente della sua voluttà.

 

7. Oppure in altro senso: già per i santi Angeli è spuntato il giorno santificato, spirando ad essi con forza costante e con soffio sempiterno i melliflui arcani dell’eterna divinità. Un fiume impetuoso, dice il Salmo, rallegra la città di Dio (Sal 45,5), ma una città a cui è detto: Coloro che abitano in te sono tutti festanti (Sal 86,7). Quando poi avrà cominciato a spirare anche per noi che abitiamo la terra, non sarà allora soltanto spirante, ma aspirante, per ammettere anche noi nel suo seno dilatato. Oppure, parlando un po’ più difficile, e allargando il discorso, plasmato l’uomo con il fango della terra il Creatore, come narra la vera storia, soffiò nella sua faccia un alito di vita (Gen 2,7), e per lui divenne quello giorno inspirante; ed ecco che la notte invidiosa fece irruzione in questo giorno, simulando astutamente la luce. Infatti, mentre veniva promesso quasi uno splendido lume di scienza,, sparse contro la nuova luce le tenebre insospettate del malvagio consiglio, e portò sui primordi della nostra origine la tetra caligine dell’esiziale prevaricazione. Ahimè! Ahimè! Non capiscóno, non vogliono intendere, avanzano nelle tenebre (Sal 81,5), ignorando, ritenendo le tenebre luce e la luce tenebre (Is 5,20). Insomma la donna mangiò il frutto dell’albero. proibito che le aveva dato e cominciarono a conoscere qualche cosa di nuovo; infatti subito si aprirono i loro occhi, e divenne quello il giorno cospirante, mortificando l’ispirante, e sostituendo l’espirante. Cospirarono infatti e congiurarono insieme contro il Signore e contro il suo Messia (Sal 2,7) l’astuzia del serpente, le lusinghe della donna e la mollezza dell’uomo. Per cui parlavano tra di loro, il Signore cioè e il suo Cristo: Ecco, Adamo è diventato come uno di noi (Gen 3,22) perché si era lasciato sedurre dai peccatori, commettendo ingiuria contro l’uno e l’altro.

 

8. In questo giorno nasciamo tutti. E portiamo tutti impresso il marchio dell’antica cospirazione. Eva cioè vivente nella nostra carne, e, per mezzo della concupiscenza che da lei abbiamo ereditato, il serpente cerca con ogni sollecitudine di indurci a dare il nostro consenso alla sua fazione. Perciò, come ho detto, questo giorno hanno maledetto i santi, desiderandolo breve, e che presto si mutasse in tenebre, perché è giorno di contraddizione e di lotta, nel quale la carne non cessa di avere desideri contrari allo spirito, e la legge delle membra, contraria alla legge della mente, con infaticabile ribellione assiduamente la contraddice. Così il giorno si è fatto morente. Da allora in poi qual è l’uomo che vivrà e non vedrà la morte? Lo dica qualcuno a causa dell’ira; io penserei non meno per la misericordia, perché gli eletti, per i quali tutto viene fatto, non siano troppo affaticati dalla contraddizione per la quale sono anch’essi condotti schiavi della legge del peccato che esiste nelle loro membra. Hanno, infatti, in orrore e sopportano con grande pena questa turpe cattività e triste lotta.

 

9. Affrettiamoci a respirare dalla cospirazione antica e iniqua, perché brevi sono i giorni dell’uomo (Gb 14,5). Ci riceva pure il giorno che respira prima che veniamo assorbiti dalla notte che sospira, per immergerci nelle tenebre esteriori dell’eterna caligine. Chiedi in che consista questa respirazione? In questo: quando comincia lo spirito a desiderare a sua volta cose contrarie alla carne. Se resisti a questa respiri, se con lo spirito mortifichi le opere della carne hai respirato. Castigo, dice l’Apostolo, il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che dopo aver predicato agli altri io stesso venga riprovato (1 Cor 9,27). È la voce di chi respira, anzi di chi aveva già respirato. Va’, e fa’ tu lo stesso per dar prova di aver respirato, perché tu sappia che il giorno inspirante è nuovamente sorto per te.

 

IV. Né la notte della morte prevarrà su questo giorno redivivo; anzi, maggiormente splenderà nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno compreso(Gv 1,5). Io penso che neanche con la fine della vita questo lume si spegnerà, e a uno che muore così, credo che si possano applicare quelle parole: La notte mi illumina nelle mie delizie (Sal 138,11). E come non vedrà più chiaro sciolto dalla nube, o piuttosto, dalla carcassa del corpo? Sarà senza dubbio, libero da vincoli corporei, libero tra i morti, e come uno che vede tra i ciechi. Poiché, come un tempo, mentre tutti erano immersi in fitte tenebre per tutto l’Egitto, solo in mezzo a quelle tenebre ci vedeva chiaramente il popolo che vedeva Dio, cioè il popolo d’Israele, perché dice la Scrittura, dovunque era Israele là c’era luce (Es 10,23), così tra i figli delle tenebre, nella tetra oscurità della morte, rifulgeranno i giusti e vedranno tanto più chiaramente in quanto spogli dalle ombre dei corpi. E quelli che prima non hanno respirato e infatti non domandarono il lume del giorno inspirante, e il Sole di giustizia non è sorto per essi questi tali, dico, andranno dalle tenebre in tenebre più dense, perché quelli che sono nelle tenebre diventino ancora più tenebrosi, e coloro che vedono, vedano con maggiore chiarezza.

 

10. E qui, forse, a proposito si potrà anche addurre la parola del Signore: A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a quello che non ha sarà tolto anche quello che sembra avere (Lc 19,26). Tanto meno gli uni vedono, meno vedranno, fino a che questi ultimi vengano inghiottiti dalla sospirante notte, e gli altri li riceva il giorno aspirante, che sono i novissimi di entrambe le categorie, vale a dire l’estrema cecità e la suprema chiarezza. Da questo momento non è più possibile togliere ancora qualche cosa a chi è già vuoto del tutto, non è più possibile togliere alcunché a chi è pieno, se non quel non so che promesso loro dalle parole: Una misura buona, e colma, e scossa e sovrabbondante vi sarà versata in seno (Lc 6,38). Non ti sembra più che pieno ciò che trabocca? Così senti senza stupirti parlare di pieno e di più pieno, se ricordi di aver letto: In eterno e oltre (Es 15,18). Ecco, questa sarà l’abbondanza del giorno che aspira. Essa, direi, aggiungerà una misura di ispirata pienezza all’abbondanza del giorno inspirante, operando sopra misura in sublime peso di gloria, di modo che ridondi nei corpi la traboccante aggiunta di gloria. Per questa ragione questo giorno non fu detto spirare, ma aspirare, perché vi aggiunge l’ispirazione, come lo Spirito Santo ha voluto significare con l’aggiunta della preposizione «ad» perché quelli che esso interiormente illumina, questo li adorna al di fuori, rivestendoli della stola di gloria.

 

11. E questo basti per dare ragione della parola «aspira». E se volete sapere, il giorno che aspira è lo stesso Salvatore che aspettiamo il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso (Fil 3,20-21). Il giorno ispirante è ancora lui stesso, secondo l’operazione per cui prima ci fa respirare nella luce che ispira, perché siamo anche noi giorno che respira in lui, secondo che il nostro uomo interiore viene rinnovato nello spirito della sua mente, a immagine di colui che l’ha creato, fatto pertanto giorno da giorno e luce da luce. Dato, pertanto, che due giorni precedono in noi, uno inspirante per la vita del corpo, l’altro respirante nella grazia della santificazione, resti il giorno aspirante nella gloria della risurrezione, faccia vedere che un giorno si adempirà nel corpo quello che è preceduto nel capo, grande sacramento di pietà testimoniato dal Profeta che disse: Ci darà vita dopo due giorni, nel terzo ci risusciterà, e vivremo al suo cospetto; affrettiamoci a conoscere il Signore (Os 6,3). Egli è colui nel quale gli Angeli bramano fissare lo sguardo, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXIII

 

 

I. In che senso si dice: «Ritorna...» e che cosa in questo si addice alla Chiesa, che cosa alla Sinagoga. II. Questa espressione si addice alla Chiesa primitiva; che cosa sia da vedere nella capriola e nel cerbiatto. III. Quali sono i monti di Bethel, sui quali allo Sposo secondo la similitudine della capriola e del cerbiatto si chiede di apparire.

 

 

I. 1. Ritorna, sii simile, mio diletto, alla capriola e al cerbiatto (Cant 2,17). Che? Ora se ne va, e ora lo richiami? Che cosa è successo improvvisamente in così breve spazio di tempo? Si è forse dimenticata di qualche cosa? Sì, ha dimenticato tutto quello che non è lui, anche se stessa. Sebbene, infatti, non sia priva di ragione, in questo momento, però, non sembra completamente in sé. E neppure sembra avere affatto nel sentimento quella verecondia che dimostra nella condotta. È un effetto dell’amore eccessivo, che diventa intemperante. È questo, infatti, che trionfando e vincendo in sé ogni senso di pudore, ogni misura di convenienza, e facendo passare sopra ogni considerazione di ragione, produce una certa negligenza e noncuranza di quanto può prescrivere la modestia e la convenienza. Vedi, infatti, ora come, appena ha cominciato ad andarsene, già gli fa pressione perché ritorni. Lo prega anzi di far presto e di correre come i veloci animali della foresta, quali il capriolo e il cerbiatto. Questo è il tenore della lettera, e questa la porzione dei Giudei.

 

2. Ma io, come ho ricevuto dal Signore, scruterò per me nel profondo grembo del sacro eloquio lo spirito e la vita, e questa è la porzione per me che credo in Cristo. Perché non dovrò cavare dalla sterile e insipida lettera un nutrimento dolce e salutare per lo spirito, come grano dalla paglia, dal nocciolo il gheriglio, dall’osso il midollo? Non voglio aver nulla a che fare con questa lettera che al gusto sa di carne, e mangiata dà la morte! Quello, invece, che in essa è nascosto è dallo Spirito Santo. Ora lo Spirito parla dicendo cose misteriose (1 Cor 14,2), secondo l’Apostolo; ma Israele riguardo al mistero svelato ritiene il velo del mistero. E questo perché un velo è ancora posto sopra il suo cuore. Così la lettera come suona, appartiene a lui; quello che significa è mio. E perciò ad esso appartiene il ministero della morte nella lettera, e a me la vita nello spirito. Infatti è lo Spirito che vivifica (Gv 6,64): dà, infatti, l’intelligenza. Non è forse vita l’intelligenza? Dammi l’intelligenza e avrò vita(Sal 118,144) dice il Profeta al Signore. L’intelletto non rimane al di fuori, non si ferma alla superficie, non palpa come un cieco le cose esterne, ma scruta le cose profonde per strapparne e cogliere in sé con somma avidità i tesori di verità, e poter dire poi con il Profeta: Io gioisco per la tua promessa come uno che trova grande tesoro (Sal 118,162). Così infatti il regno della verità patisce violenza e i violenti lo rapiscono (Mt 11,12). Invece, quel fratello maggiore che torna dal campo è figura del popolo vecchio e terreno, il quale edotto ad amare la fatica per l’eredità terrena con fronte stanca geme ansioso sotto il pesante giogo della legge e porta il peso del giorno e del calore, questi dico, perché non haavuto l’intelligenza, se ne sta fuori anche adesso, e neanche invitato dal Padre vuole entrare nella casa del convito, privando se stesso dellapartecipazione alla sinfonia e alla danza e al vitello grasso. Misero, che non vuole sperimentare quanto buona cosa sia e quanto gioconda che i fratelli vivano insieme! Ciò sia detto per distinguere la parte della Chiesa dalla parte della Sinagoga, per cui sia più manifesta la cecità di questadalla prudenza di quella, e la felicità dell’una risalti maggiormente dalla misera stoltezza dell’altra.

 

II. 3. E ora scrutiamo le parole della sposa, e sforziamoci di esprimere i casti affetti del santo amore in modo che nulla nel sacro testo apparisca senza una ragione, nulla meno che decoroso e opportuno. E se verrà alla mente quell’ora quando il Signore Gesù questi è infatti lo Sposo passava da questo mondo al Padre, e nello stesso tempo che cosa provasse nel suo animo quella domestica Chiesa, novella sposa, mentre si vedeva lasciata quasi vedova desolata, con l’unica speranza degli Apostoli, i quali, avendo lasciato tutto avevano seguito Gesù, ed erano rimasti perseveranti con lui nelle sue prove; se penseremo a questo vedremo come a ragione e senza alcuna incongruenza si sia dimostrata tanto triste della sua dipartita, quanto sollecita per il suo ritorno, specialmente se si considerano i suoi sentimenti e lo stato in cui veniva lasciata. Pertanto, e l’affetto e il bisogno erano per lei due ragioni per supplicare il diletto, dato che non era possibile persuaderlo a non andarsene per salire dove era prima, che per lo meno affrettasse il suo promesso ritorno. E questo che qui desidera e chiede, che sia simile a quelle fiere che sono più agili nella corsa, è indizio di un animo impaziente per il desiderio, per il quale nessuna fretta è eccessiva. Non chiede, forse, anche questo ogni giorno quando dice nell’orazione: Venga il tuo regno? (Mt 6,10).

 

4. Io però, oltre che penso che venga indicata in questi due animali anche la debolezza, nella capriola per il sesso, per l’età nel cerbiatto. Vuole, pertanto, la sposa che lo Sposo venga si con potestà, ma non appaia nella forma di Dio come giudice, bensì in quella forma in cui non solo è nato, ma è nato per noi bambino, e solo per opera di una donna, cioè del sesso più debole. Perché questo? Perché da questo sia portato ad essere mite con i deboli nel giorno dell’ira, e si ricordi nel giudizio di tener più conto della misericordia che della giustizia. Infatti,se guarderà le iniquità, anche degli eletti, chi potrà sussistere? Le stelle non sono monde al suo cospetto, e anche negli Angeli ha trovato malizia. Senti come un santo ed eletto parli a Dio:Tu hai rimesso la malizia del mio peccato, per questo ti prega ogni fedele (Sal 31,5-6). Anche i santi, pertanto, devono pregare per i peccati, perché per la misericordia siano salvati, nonfidandosi della loro giustizia. Tutti infatti hanno peccato (Rm 3,23) e tutti hanno bisogno della misericordia. Affinché, dunque, quando sarà adirato si ricordi della misericordia, viene dallasposa pregato di apparire in quell’abito di misericordia di cui dice l’Apostolo: apparso in forma umana (Fil 2,7).

 

5. Ed è necessario questo. E infatti se, anche con questo addolcimento, tanta sarà nel giudizio l’equità, tanta nel giudice la fierezza, tanta la sublimità nella maestà e novità di fronte alle stesse cose che, secondo il Profeta, non è possibile immaginare il giorno della sua venuta, che cosa pensi che sarebbe se quel fuoco divoratore cioè Dio onnipotente venisse nella grandezza della sua divinità, fortezza, splendore, per mostrare la sua potenza contro una foglia che il vento porta via e per far vendetta contro la paglia secca? È anche uomo, dice. E chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? (Ml 3,2). Quanto più se si presentasse come puro Dio, senza l’umanità, nessun uomo potrebbe sopportarne la vista, in quanto inaccessibile per lo splendore, irraggiungibile per l’altezza, incomprensibile per la maestà. Ora invece quando, d’improvviso, si accenderà la sua ira, come apparirà gradita per i figli della grazia quella dolce figura di uomo, fermezza della fede, forza della speranza, motivo di fiducia, che cioè sia per fare grazia e misericordia ai suoi santi e guardare con benevolenza i suoi eletti (Sap 4,15). E poi lo stesso Padre, Dio, ha dato al Figlio la potestà di fare il giudizio, non perché è figlio suo, ma perché Figlio dell’uomo (2 Cor 1,3). O veramente Padre delle misericordie! Vuole che gli uomini siano giudicati da un uomo, perché questa somiglianza della natura dia fiducia agli eletti. Il santo Davide aveva un giorno predetto questo, pregando insieme e insieme profetando: Dio dà al re il tuo giudizio e al figlio del re la tua giustizia (Sal 71,2). E neanche differisce da questo la promessa fatta dagli Angeli agli Apostoli dopo l’ascensione: Questo Gesù che é stato tra di voi assunto in cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo (At 1,11), cioè nella stessa forma e sostanza corporea.

 

6. Si vede da questo che la sposa possiede il divino consiglio, e non ignora affatto il mistero della superna volontà, mentre sotto la figura di imbelli e deboli animali predice con l’affetto della preghiera e con spirito profetico che nel giudizio il Salvatore si presenterà nella natura più debole, o meglio, nella natura inferiore poiché non sarà più inferma in quanto colui che muoverà il cielo e la terra con la sua forza, cinto di potenza contro gli insensati, apparirà tuttavia soave e mite e quasi del tutto inerme per gli eletti. A questo si può aggiungere che, per discernere gli uni dagli altri avrà bisogno, in certo qual modo, con i salti del cerbiatto, dell’occhio della capriola, per poter vedere e distinguere in tanta moltitudine e in così grande turbamento in quali salire e in quali occorra scavalcare, perché non avvenga che il giusto sia conculcato invece dell’empio quando abbatterà i popoli nella sua ira. Poiché, quanto agli empi, è necessario che si adempia la profezia di Davide, anzi la parola del Signore che parlava per bocca di lui: Li ho dispersi come polvere al vento, calpestati come fango delle strade (Sal 17,43); e così si vedrà adempiuta un’altra profezia fatta da un altro Profeta, quando facendo ritorno agli Angeli, il Redentore dirà: Li ho pigiati nel mio sdegno, li ho calpestati nella mia ira (Is 63,3).

 

II. 7. Se a qualcuno piace di più l’interpretazione secondo cui il nostro cerbiatto debba piuttosto scavalcare i cattivi e salire nei buoni, non contraddico: soltanto pensi che i salti sono disposti per la discriminazione dei buoni e dei cattivi. Così infatti abbiamo detto anche noi in un altro sermone, dove si trovano le stesse parole dell’autore da me commentate. Solamente là si trattava della dispensazione della grazia che nella vita presente ad alcuni viene data, ad altri no, per un giudizio di Dio giusto, ma occulto, e così si diceva che il cerbiatto saliva o scavalcava i vari generi di persone; qui invece questo viene fatto secondo l’ultima e varia retribuzione dei meriti. E forse a questo senso si accordano le ultime parole di questo capitolo che quasi dimenticavo. Dicendo infatti: Sii simile, o mio diletto, alla capriola o al cerbiatto, aggiunge: Sopra i monti di Bethel (Cant 2, 17). Bethel significa «Casa di Dio». Ora nella casa di Dio non vi sono monti cattivi. Per la qual cosa salendo in essi il cerbiatto non conculca, ma rallegra, perché si adempia la Scrittura che dice: I monti e le colline canteranno lodi davanti a Dio (Is 55,12). E vi sono monti che, secondo il Vangelo, vengono trasportati da una fede simile alla senapa, ma non sono i monti di Bethel; quelli, infatti, che sono monti di Bethel la fede non li toglie di mezzo, ma li coltiva.

 

8. Che se i Principati e le Potestà e le altre schiere dei beati Spiriti e le Virtù dei cieli sono monti di Bethel in modo che ad essi applichiamo il detto: Le sue fondamenta sono sui monti santi (Sal 86,1), non è certamente vile e spregevole questo cerbiatto che fu visto apparire sopra monti così eccellenti, diventato tanto superiore agli Angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato (Eb 1, 4). Che importa se nel Salmo lo leggiamo fatto di poco inferiore agli Angeli? Non cessa di essere migliore perché un poco inferiore; né hanno detto cose contrarie l’Apostolo e il Profeta, in quanto animati dal medesimo Spirito. Poiché se l’essere fatto meno degli Angeli fu effetto di degnazione, non di necessità, nulla in questo viene imposto alla bontà, ma piuttosto attribuito ad essa. Infine, il Profeta lo dice non inferiore, ma fatto poco meno degli Angeli, esaltando la grazia ed evitando l’ingiuria. L’essere inferiore, infatti, è ricusato dalla sua natura divina, e la sua minorazione è giustificata dalla causa. Si abbassò, infatti, perché volle, per la sua volontà e la nostra necessità. Ma abbassarsi equivaleva ad avere misericordia. Quale spreco ci fu in questo? In realtà andò ad accrescere la pietà quanto poteva sembrare perduto per la maestà. Ma neppure l’apostolo tacque su questo grande mistero di pietà, ma disse: Quel Gesù che fu fatto di poco inferiore agli Angeli, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore (Eb 2,9).

 

9. Abbiamo detto quanto sopra riguardo al nome e alla similitudine del cerbiatto, per adattarla secondo le parole della sposa, allo Sposo, senza far torto alla sua maestà. Che cosa dico «senza far torto alla maestà», quando neppure la sua infermità restò senza onore? È un cerbiatto, è un piccolo; è presentato anche come una capriola, in quanto nato da donna, ma sopra i monti di Bethel, ma elevato sopra i cieli (Eb 7,26). Non dice: «che è o esiste sopra i cieli», ma elevato sopra i cieli, perché non si creda che ciò è stato detto riguardo a quella natura in cui è colui che è. Ma anche dove è messo sopra gli Angeli, si dice che è stato «fatto migliore» di loro, non che era tale. Dal che appare chiaro che il Cristo vanta una superiorità su tutti i Principati e le Potestà e su ogni creatura non solo per quello che in lui è ab aeterno, ma anche per quello che nel tempo è stato fatto, in quanto primogenito di ogni creatura. Pertanto ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini (1 Cor 1,25). Questo secondo l’Apostolo. A me sembra anche giusto il dire che ciò che è debolezza di Dio e stoltezza di Dio è più forte e più saggio degli Angeli. Così il passo in questione si adatterà bene alla Chiesa universale.

 

10. Per quanto riguarda singolarmente un’anima poiché anche una sola di esse, se ama Dio con dolcezza, sapienza e forza, è sposa chiunque è spirituale può avvertire in se stesso quello che la propria esperienza gli indica. Quanto a me non avrò timore di dire apertamente quanto mi fu dato di sperimentare a riguardo, perché, anche se sarà giudicato forse vile e spregevole quando verrà udito, non m’importa, perché chi è spirituale non mi disprezzerà, a meno che non mi capisca. Tuttavia, se riserverò questo a un altro sermone non mancheranno, forse, di quelli che saranno edificati da quelle cose che, pregato nel frattempo, mi ispirerà il Signore, Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXIV

 

 

I. In che senso questo passo si addice al Verbo, e che cosa significhi andare e ritornare riferito al Verbo riguardo alla sua salutare dispensazione. II. Come si comporta l’anima all’arrivo dello Sposo, e in che cosa ne avverte l’arrivo. III. La grazia e la verità raffigurate dal cerbiatto e dalla capriola, e come la grazia si perda appropriandosene.

 

 

I. 1. Ritorna, dice. È chiaro che non è presente colui che essa richiama, c’è stato però fino a poco prima: sembra infatti che venisse richiamato mentre ancora stava andandosene. Un richiamo intempestivo è indizio di un grande amore da una parte, e di una grande amabilità dall’altra. Chi sono questi cultori della carità e così indefessi nell’esercizio dell’amore, di cui l’uno è oggetto di tanto inquieto amore dal quale l’altra è spronata? A me, come ho promesso, spetta applicare questo passo al Verbo e all’anima, ma per far questo, almeno un poco degnamente, confesso di aver bisogno dell’aiuto del Verbo. Certamente per questo discorso era conveniente che ci fosse uno molto più esperto, molto più addentro all’arcano del santo amore; ma non posso venir meno al mio dovere, anche se non potrò soddisfare del tutto ai vostri desideri. Vedo il mio pericolo, e non mi tiro indietro, voi mi costringete. Voi davvero mi costringete a camminare in cose grandi, superiori alle mie forze. Ahimè! Come temo che non mi vengano rivolte quelle parole: Perché tu descrivi le mie delizie e pronunzi con la bocca il mio mistero? Ascoltatemi tuttavia, come si ascolta un uomo che ha paura di parlare, e non può tacere. Mi scuserà, forse, per avere osato, la stessa mia trepidazione, e ancor più, se ci sarà, la vostra edificazione. E forse anche queste lacrime verranno parimenti considerate. Ritorna, dice. Bene. Stava andandosene, viene richiamato. Chi mi darà la spiegazione del mistero di questa mutabilità? Chi mi spiegherà degnamente questo andare e ritornare del Verbo? Forse lo Sposo è solito cambiare cosi? Come può venire, e poi di nuovo tornare colui che riempie ogni cosa? Infine, quale movimento locale può avere colui che è Spirito? E quale genere di movimento possiamo attribuire a lui che è Dio? Come tale, infatti, è incommutabile.

 

2. Ma chi può capire queste cose le capisca. Quanto a noi, camminando con cautela e semplicità nell’esposizione del sacro e mistico eloquio, seguiamo l’usanza della Scrittura che espone con parole nostre la sapienza nascosta nel mistero; fa entrare nei nostri affetti Dio, mentre lo rappresenta con figure; e insinua nelle umane menti gli attributi sconosciuti e invisibili di Dio, che sono cose preziose, con similitudini note di cose sensibili, e di vile materia. Seguiamo, pertanto, anche noi la consuetudine del casto discorso, e diciamo che il Verbo di Dio, Dio egli stesso, Sposo dell’anima, viene ad essa a seconda che vuole, e nuovamente la lascia: sentiamo questo con il sentimento dell’anima, non con il movimento della parola. Per esempio, quando l’anima sente la grazia, avverte la presenza dello Sposo; quando non la sente si lamenta della sua assenza, e chiede che nuovamente si faccia presente, dicendo con il Profeta: Ha cercato te il mio volto, il tuo volto Signore, io cerco (Sal 26,8). Come non cercarlo? Tolto da sé un così dolce Sposo, l’anima non trova più piacere, non dico a desiderare, ma neanche nel pensare a qualche cosa di altro. Non le resta, dunque, se non ricercare con studio l’assente, richiamarlo quando se ne va. Cosi, dunque, è richiamato il Verbo, ed è richiamato dal desiderio dell’anima, ma di una tale anima a cui abbia fatto una volta gustare quanto egli sia dolce. Non è forse il desiderio una voce? Sì, una voce, e forte. E poi: Il Signore ha esaudito il desiderio dei poveri (Sal 9,38). Quando, dunque, il Verbo se ne va, il continuo desiderio dell’anima è come una voce continuata, come un continuo ritorna, finché venga di nuovo.

 

3. E ora dammi un’anima che il Verbo sia solito visitare frequentemente, alla quale la familiarità abbia dato l’ardire, l’aver gustato la fame, e l’aver disprezzato tutte le cose, abbia conferito il riposo santo: e io a questa do senza esitazione la voce e il nome della sposa, e sarei convinto che il passo che stiamo commentando faccia per lei. È, infatti, una tale anima che qui parla. E di colui che essa richiama dà prova di aver meritato la presenza, anche se non l’abbondanza. Altrimenti non lo richiamerebbe, ma semplicemente lo chiamerebbe. Ritorna è una parola con cui si richiama e forse egli si è sottratto appunto per farsi richiamare con maggiore desiderio, e per essere più fortemente trattenuto. Infatti, talvolta, anche simulava di andare più lontano, non perché intendeva realmente questo, ma voleva sentirsi dire: Resta con noi, perché si fa sera (Lc 24,2829). E così un’altra volta, camminando sopra il mare, mentre gli apostoli navigavano e si applicavano remando, egli fece finta di voler passare oltre, ma neanche allora egli voleva questo, ma provare la loro fede e spingerli a pregarlo. Allora, come dice l’Evangelista, restarono turbati e gridarono, credendolo un fantasma. Pertanto il medesimo Verbo Spirito, al suo modo spirituale, non cessa di comportarsi, ogni tanto, con l’anima a lui devota, in maniera simile, rinnovando quella pia simulazione, anzi salutare disposizione che mostrò un giorno corporalmente il Verbo incarnato. Fingendo di passar oltre vuol essere fermato, andando via vuol essere richiamato. Non è egli, infatti, una Parola irrevocabile: va e torna a suo piacere, quasi visitando di buon mattino e subito mettendo alla prova. L’andarsene, per lui, appartiene in certo modo all’economia, il ritornare, invece, è sempre volontario, l’uno e l’altro pieno di giustizia. Ma le ragioni delle due cose sono un segreto suo.

 

4. Ora, intanto, è certo che nell’anima vi sono queste vicissitudini, del Verbo cioè che se ne va e che ritorna, come egli dice: Vado e torno a voi(Gv 14,28); e ancora: Un poco e non mi vedrete più, e ancora un poco e mi rivedrete (Gv 16,17). O poco e poco! O poco lungo! Pio Signore, chiami poco il tempo in cui non ti vediamo? Sia salva la parola del mio Signore: è lungo, invece, e oltremodo lunghissimo. Tuttavia è vera una cosa e l’altra: è breve per i meriti, lungo per i desideri. Trovi le due cose nel Profeta: Se indugia, dice, aspettalo, perché verrà e non tarderà(Ab 2,3) Come non tarderà se indugia? Ma ciò per riguardo al merito è più che sufficiente, non lo è per il desiderio. Ora, l’anima che ama è portata dai desideri, è trascinata dalla brama, e con fiducia ripete le sue delizie, chiamandolo con la solita libertà non Signore, ma diletto:Ritorna, diletto mio; e aggiunge: Sii simile alla capriola e al cerbiatto sopra i monti di Bethel. Ma di questo diremo in seguito.

 

II. 5. Ora sopportate un po’ di insipienza da parte mia. Voglio dire, poiché mi sono impegnato a farlo, quello che succede a me in questa faccenda. Non sarebbe conveniente, ma mi metterò in vista pur di essere di giovamento, e se voi ne trarrete profitto mi consolerò della mia insipienza; diversamente confesserò la mia stoltezza. Confesso che il Verbo è venuto anche da me, e parecchie volte parlo da insipiente E spesso, essendo entrato da me, non mi accorsi talvolta quando entrava. Sentii che era presente, ricordo che venne; talvolta ho potuto presentire il suo entrare, mai sentirlo, e neppure quando se ne andava, poiché di dove sia entrato nell’anima mia, o dove se ne sia andato lasciandola di nuovo, e per dove sia entrato o uscito, anche ora confesso di ignorarlo, secondo quanto è detto: Non sai di dove venga o dove vada (Gv 3,8). E non fa meraviglia, perché di lui è stato detto: Le sue orme rimarranno invisibili (Sal 76,20). È certo che non è entrato per gli occhi perché non ha colore; né per le orecchie perché non produce suono, né attraverso le narici, perché non si mescola con l’aria, ma con la mente, né penetra nell’aria, ma la crea; neanche per la bocca, perché non è né mangiato né bevuto, né l’ho sentito al tatto, perché non è palpabile. Per dove, dunque, è entrato? Ma forse non è neppure entrato, perché non è venuto dal di fuori. Non è, infatti, alcuna delle cose che sono di fuori. Ora non è neppure venuto dal di dentro di me, perché egli è buono, e so che in me non c’è nulla di buono. Sono salito anche nel mio essere superiore, ed ecco il Verbo era ancora più in alto sopra di questo. Sono disceso anche nella parte inferiore di me, esplorando curiosamente, e neppure di sotto l’ho trovato. Se guardavo fuori venni a sapere che egli era al di là di ogni cosa a me esterna, se guardavo dentro, egli era ancora più addentro. E conobbi quanto è vero quello che avevo letto, che in lui viviamo, ci muoviamo, e siamo (At 17,28); ma è beato colui nel quale egli è, che vive per lui, e che da lui è mosso.

 

6. Chiedi, dunque, come io sappia che il Verbo è presente, non essendo per nulla investigabili le sue vie? Egli è vivo ed efficace, e appena entrato dentro ha svegliato la mia anima che sonnecchiava; l’ha smossa, l’ha intenerita e ha ferito il mio cuore, che era duro e come pietra e malsano. Ha pure cominciato a sradicare e distruggere, a edificare e piantare, a irrigare quello che era arido, a illuminare quello che era tenebroso, ad aprire ciò che era chiuso, a infiammare ciò che era freddo, nonché a raddrizzare ciò che era storto e spianare quello che era scosceso, di modo che l’anima mia benediceva il Signore e tutto il mio intimo dava lode al suo santo nome. Così, dunque, entrando da me alcune volte il Verbo Sposo non fece mai notare con alcuni indizi il suo ingresso; non con la voce, non con l’aspetto, non con il passo. Si è fatto conoscere da me senza nessuno dei suoi movimenti, non lo percepirono i miei sensi mentre entrava nel mio intimo: solo dal movimento del cuore, come ho detto sopra, ho compreso la sua presenza; e dalla fuga dei vizi, dalla compressione degli affetti carnali ho avvertito la potenza della sua virtù, e dalla messa in luce e dal rimprovero dei miei peccati occulti ho ammirato la profondità della sua sapienza, e da una certa emendazione dei miei costumi ho sperimentato la sua bontà e mansuetudine, e dalla riforma e rinnovamento spirituale della mia mente, cioè del mio uomo interiore, ho percepito in qualche maniera la sua bellezza e il suo decoro, e dall’intuito di tutte queste cose insieme mi ha preso lo spavento davanti alla sua immensa grandezza.

 

7. Ma tutte queste cose, una volta che il Verbo se n’è andato, sono come una pentola bollente alla quale viene sottratto il fuoco; quello che prima bolliva, immediatamente si ferma come preso da un certo languore e torpore, e presto ritorna immobile e freddo; questo è il segno che egli se n’è andato. Allora per forza l’anima mia diventa triste fino a che ritorni di nuovo, e di nuovo si riscaldi in me il mio cuore: e questo sarà indizio del suo ritorno. Avendo tale esperienza del Verbo, quale meraviglia se io uso le parole della sposa nel richiamarlo quando si assenta, dal momento che sono trasportato, se non da pari, almeno in parte da simile desiderio? Mi sarà familiare fino a che vivrò, per richiamare il Verbo, la parola del richiamo: Ritorna! E ogni volta che si allontanerà sempre ripeterò questa parola, né cesserò di gridare quasi alle parole di lui che se ne va con ardente desiderio del cuore, che ritorni, e mi restituisca la mia salutare letizia, mi restituisca se stesso.

 

III. Lo dico a voi figli: in questo frattempo nessuna altra cosa piace, mentre non è presente colui che solo piace. E prego anche che non venga vuoto, ma pieno di grazia e verità, com’è suo costume di ieri e di sempre.Anche in questo sembra adattarglisi bene la similitudine della capriola e del cerbiatto, avendo la verità gli occhi della capriola, e la grazia l’ilarità del cerbiatto.

 

8. Entrambe le cose mi sono necessarie, la verità a cui non possa nascondermi, e la grazia alla quale non lo voglia. Senza una delle due la visita non sarebbe completa, poiché la sua severità sarebbe troppo gravosa senza l’ilarità, e questa senza di quella potrebbe sembrare leggera. Amara è la verità senza il condimento della grazia, come senza il freno della. verità la stessa devozione non è ferma, non ha misura, spesso diventa insolente. A quanti non giovò l’aver ricevuto la grazia, perché non ne ricevettero dalla verità un temperamento! Per questa ragione si compiacquero in essa più che non occorresse, mentre non ebbero timore degli sguardi della verità e si diedero piuttosto tutti alla leggerezza e all’ilarità del cerbiatto. Onde avvenne che furono privati della grazia nella quale avevano voluto privatamente esultare, e ad essi si sarebbe potuto dire, anche se troppo tardi: Andate dunque, imparate che cosa voglia dire: servite il Signore con timore e con tremore esultate (Mt 9,13; Sal 2,11). Aveva detto un’anima santa nella sua esultanza: Nulla mi farà vacillare (Sal 29,7), quando improvvisamente sentì che il Verbo aveva distolto da lei il suo volto, e si senti non solo smossa, ma conturbata; e così nella tristezza imparò che le sarebbe occorso, con il dono della devozione, anche il peso della verità. Dunque, non solo nella grazia sta la pienezza della grazia, e neppure nella sola verità. Che cosa ti giova sapere quello che devi fare, se non ti è dato anche il voler fare? Quanti ho visto più tristi per aver conosciuto la verità, e tanto più in quanto non potevano più addurre la scusa dell’ignoranza? sapevano bensì, ma non facevano quanto la Verità li esortava a fare.

 

9. Stando così le cose nessuna delle due è sufficiente senza l’altra; anzi, non conviene neppure. Da che cosa lo sappiamo? Colui che conosce il bene e non lo fa, commette peccato (Gc 4,17), e ancora: Il servo che conosce la volontà del suo padrone e non avrà disposto e agito secondo la sua volontà riceverà molte percosse (Lc 12,47). Questo per parte della verità. E riguardo alla grazia? Sta scritto: E dopo il boccone Satana entrò in lui (Gv 13,27). Parla di Giuda, il quale, ricevuto il dono della grazia, poiché non camminava nella verità con il Maestro della verità, o piuttosto con maestra Verità, fece posto in se stesso al diavolo. Senti ancora: Li cibò con fiore di frumento, e saziò con miele di roccia (Sal 80,17). Chi? I nemici del Signore gli hanno mentito (Sal 80,16). Quelli che egli ha cibato di miele e di fior di frumento, gli hanno mentito, diventati nemici, perché non hanno unito la verità alla grazia. Di essi viene detto altrove: I figli adulteri hanno negato fede a me, i figli adulteri sono nella vecchiaia e zoppicando vanno fuori dalla loro strada (Sal 17,46). Come non avrebbero dovuto zoppicare dal momento che si contentavano di un solo piede, non aggiungendo quello della verità? Verrà, pertanto, il loro tempo, che sarà tempo eterno, come fu del loro principe, il quale non stette neanche lui nella verità, ma fu bugiardo dall’inizio e perciò gli fu detto: La tua saggezza è corrotta a causa del tuo splendore (Ez 28,17). Non voglio la bellezza che mi faccia perdere la sapienza.

 

10. Chiedi quale sia quella bellezza così dannosa e perniciosa? La tua. Forse non capisci ancora? Te lo spiego meglio: la tua privata, propria. Non diamo la colpa al dono, ma al suo uso. Se hai fatto attenzione il demonio ha perso la saggezza a causa della «sua» bellezza, è stato detto. E se non sbaglio questa sapienza è l’unica bellezza dell’anima e dell’Angelo. Che cosa è, infatti, l’anima e l’Angelo senza sapienza se non rude e deforme materia? Per essa, infatti, questi non solo fu formato, ma reso formoso. Ma la perdette quando la fece sua, e così nella sua bellezzanon restò altro che di aver perso la sapienza nella sua sapienza. È in causa la proprietà. Per il fatto che fu sapiente per sé, che non diede gloria a Dio, che non restituì grazia per grazia, che non camminò in essa secondo verità, ma la ritorse alla sua volontà, ecco perché egli la perse. Averla, infatti, in questa maniera equivale a perderla. E se Abramo, è scritto, fu giustificato per le opere ha gloria, ma non presso Dio (Rm 4,2). E io dico: «Dunque non al sicuro». «Se non l’ho presso Dio, ho perso tutto il mio avere». Infatti, che cosa è così perduto quanto quello che è fuori di Dio? Che cosa è la morte se non la privazione della vita? Così nulla è perduto se non quello che è lontano da Dio. Guai a voi che siete sapienti ai vostri occhi e prudenti davanti a voi stessi! (Is 5, 21). Di voi è detto: Perderà la sapienza dei sapienti e riproverò la prudenza dei prudenti (1 Cor 1,19). Persero la sapienza perché la loro sapienza li perse. Che cosa non persero avendo perso se stessi? Non sono forse perduti quelli che Dio dice di non conoscere?

 

11. Ora le vergini stolte, che penso essere state chiamate stolte appunto perché dicendo di essere sapienti sono diventate stolte, si sentono dire dal Signore: Non vi conosco (Mt 25,12). E così anche quelli che avevano usurpato la grazia dei miracoli per la loro personale gloria si sentiranno dire: Non vi conosco (Mt 7,23), perché sia ben chiaro da questo che la grazia non giova dove la verità non è nell’intenzione, anzi è di danno. Nello Sposo vi sono tutte e due le cose: La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo (Gv 1,17), dice Giovanni Battista. Se dunque il Signore Gesù busserà alla mia porta con una sola di queste due senza l’altra egli è infatti il Verbo di Dio, Sposo dell’anima entrerà certamente non come Sposo, ma come giudice. Non sia mai che avvenga questo! Non entri in giudizio con il servo. Entri pacifico, entri giocondo e festoso, entri tuttavia maturo e serio, e con un volto alquanto severo rivolto verso di me, reprima l’insolenza e purifichi la letizia. Entri come cerbiatto che sale, come capriolo circospetto, che scavalchi dissimulando la colpa e guardi con misericordia la pena. Entri quasi discendendo dai monti di Bethel, festoso e splendido, come procedente dal Padre, soave e mite, che non disdegni di essere chiamato e di essere Sposo dell’anima che lo cerca, pur essendo sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

 

SERMONE LXXV

 

 

I. Con quali applicazioni si dice: «Sul mio giaciglio ecc.» e perché il ritrovamento è dissimulato. II. Sono tre le cause per le quali coloro che cercano sono delusi: il tempo, la tiepidezza, il luogo. III. In questo passo si dice che la causa del mancato ritrovamento è stato il luogo. IV. Perché è detto: «Colui che l’anima mia ama» e quali sono le notti nelle quali ha cercato lo Sposo.

 

 

I. 1. Sul mio giaciglio durante le notti ho cercato colui che l’anima mia ama (Cant 3,1). Il diletto non è tornato alla voce e al desiderio della sposa che lo richiamava. Perché? Perché cresca il desiderio, perché sia provato l’affetto, perché sia esercitato l’impegno dell’amore. In realtà si tratta di dissimulazione, non di indignazione, ma resta la possibilità di cercarlo per vedere se, cercato, si lasci trovare colui che chiamato non è venuto, come dice il Signore: Chiunque cerca trova (Mt 7,8). Ora la parola del richiamo è questa: Ritorna, sii simile o mio diletto alla capriola e al cerbiatto (Cant 2,17). Non essendo ritornato a questo richiamo, certamente per quelle ragioni che abbiamo addotte, la sposa che ama ha sentito crescere in sé il desiderio, e si è data con tutta avidità a cercarlo, e prima’ di tutto lo cerca sul suo giaciglio, ma non lo trova. Allora si alza, gira per la città, passa e ripassa per le piazze e per le strade, ma non lo incontra, né lo scorge. Vengono interrogati quelli che possono averlo incontrato, ma non se ne ricava nulla di certo. Questa ricerca senza esito non si compie una sola volta in una sola notte, poiché dice la sposa: L’ho cercato durante le notti. Che cosa significa questo desiderio e questo ardore che la spinge ad alzarsi di notte, e senza vergognarsidel pubblico, a percorrere la città, a informarsi apertamente qua e là del diletto, senza lasciarsi distogliere per nessuna ragione dal perseguirele sue tracce, non badando a difficoltà, non trattenuta dall’amore del normale riposo, non dalla verecondia di sposa o dal timore della notte? E tuttavia in tutte queste ricerche il suo desiderio è rimasto frustrato. Perché mai? A che cosa fa pensare questa pertinace e diuturna frustrazione, nutrice di tedio, fornite di sospetti, istigatrice di impazienza, matrigna dell’amore, madre della disperazione? Se c’è ancora dissimulazione è troppo molesta.

 

2. Passi una pia e utile dissimulazione fino a che si trattava di chiamare e richiamare lo Sposo. Ma ora, quando cercato, e cercato in talemaniera, a che cosa pub servire la dissimulazione? Se si tratta di sposi carnali e di amori vergognosi, come l’esterna apparenza della lettera potrebbe indurre a credere, a me non interessa affatto anche se a loro succedono tali cose: ci pensino loro, ma se devo rispondere e dare soddisfazione, per quel poco che posso, alle menti e agli affetti di anime che cercano Dio, io devo cavare dalla Sacra Scrittura, nella quale confidano di avere la vita, qualche cosa di tanto più vitale quanto più spirituale, perché ne mangino i poveri e ne siano saziati, e i loro cuori abbiano vita. E chi è così vita dei cuori come il Signore mio Gesù, del quale diceva uno che di lui viveva: Quando apparirà Cristo vita vostra, allora sarete glorificati con lui (Col 3,4)? Egli, dunque, venga in mezzo a noi, perché anche a noi si possa dire in verità: Sta in mezzo a voi unoche voi non conoscete (Gv 1,26). Sebbene io non sappia come possa essere sconosciuto lo Sposo Spirito a uomini spirituali, i quali abbiano talmente progredito nello Spirito da poter dire con il Profeta: Spirito davanti alla nostra faccia è Cristo Signore (Lam 4,20 secondo i LXX). E conl’Apostolo: Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne ora non lo conosciamo più così (2 Cor 5,16). Non è forse lui che la sposa cercava? Questi è veramente Sposo, amante e amabile. Questi, dice, è veramente Sposo, come la sua carne è veramente cibo e il suo sangue è veramente bevanda, e tutto quello che è di lui veramente è, essendo egli non altro che la stessa verità.

 

3. Ma come mai questo Sposo ricercato non si trova, anche quando è cercato con zelo e alacrità, ora sul giaciglio, ora nelle città o anche nelle piazze e nelle strade, mentre egli dice: Cercate e troverete, e chi cerca trova? (Mt 7,7-8). E il Profeta dice a lui: Sei buono, o Signore, per l’anima che ti cerca (Lam 3,25), e così il santo Isaia: cercate il Signore mentre si può trovare (Is 55,6). Come si adempiranno le Scritture? Colei, infatti, che ‘qui lo cerca non è una di quelle alle quali egli dice: Mi cercherete e non mi troverete (Gv 7,34).

 

II. Ma badate come vi sono tre motivi per cui quelli che cercano di solito non trovano: quando cioè non cercano nel tempo, o nel modo, o nel luogo debito. Se, infatti, ogni tempo è adatto per cercare perché mai dice il citato Profeta: Cercate il Signore mentre si può trovare? Vuol dire certamente che c’è un tempo in cui non è possibile trovarlo; e perciò aggiunge di invocarlo mentre è vicino (Is 55,6), perché capiterà che non sia più vicino. Da chi, dunque, allora non sarà cercato? Davanti a me, dice, si piegherà ogni ginocchio, ecc. (Is 45,24). Né tuttavia sarà trovato dagli empi che dagli Angeli incaricati della vendetta saranno allontanati e tolti perché non vedano la gloria di Dio. Invano grideranno anche le vergini stolte: non uscirà affatto da loro e la porta resterà chiusa. Ritengano pertanto esse come detto a sé: Mi cercherete e non mi troverete (Gv 7,34).

 

4. Del resto ora è il tempo favorevole, ora sono i giorni della salvezza: tempo veramente adatto per cercare e invocare, quando per lo più anche prima che sia invocato si sente che è presente. Senti quello che promette: Prima che mi invochiate dirò: eccomi (Is 65,24, come è stato citato nel Prologo della Regola di S. Benedetto). Conosceva questa benignità e l’opportunità del tempo, che è questo, colui che diceva nel Salmo: tu accogli Signore il desiderio dei poveri, rafforzi i loro cuori, porgi l’orecchio (Sal 9,38). Che se con le buone opere si cerca il Signore, mentre abbiamo il tempo operiamo il bene verso tutti, specialmente perché il Signore annunzia apertamente che verrà nella notte, quando nessuno può più operare. Allora troverai tu un altro tempo nei futuri secoli per cercare Dio e per operare il bene, oltre questo tempo presente che Dio ti ha stabilito, e nel quale si ricordi di te? E sono perciò giorni della salvezza, perché in questi lo stesso Dio nostro re ha operato la salvezza sulla terra (Sal 73,12).

 

5. Va’, dunque, tu, e in mezzo alla geenna aspetta la salvezza che è già stata operata sulla terra. Come ti sogni di poter meritare tra gli ardori sempiterni, quando sarà ormai passato il tempo della misericordia? Non resta più una vittima per i peccati a chi è morto per i peccati. Non viene nuovamente crocifisso il Figlio di Dio: è morto una volta sola, ormai non muore più. Non discende agli inferi il sangue che è stato versato sulla terra. Ne hanno bevuto tutti i peccatori della terra; non ne resta per i demoni, per spegnere il loro fuoco; e neppure per gli uomini compagni dei demoni. Una volta sola è scesa laggiù non il sangue, ma l’anima; e questa fu la porzione di coloro che erano in carcere. Una sola visita che fu fatta allora, quando il corpo pendeva esanime sulla terra. Il sangue ha irrigato la terra, il sangue ha bagnato la terra e l’ha inebriata; il sangue ha rappacificato le cose che sono sulla terra e quelle che sono nel cielo, ma non quelle che sono presso gli inferi, fatta eccezione di quella sola volta in cui, come ho detto, l’anima di Cristo vi discese e vi operò in parte la redenzione, per non restare neppure in quel momento senza opere di pietà, ma non lo farà più in avvenire. Dunque, adesso è il tempo favorevole e adatto a cercare, nel quale veramente chi cerca trova, a condizione che cerchi dove e come si deve. E questa è una delle cause per cui quelli che cercano lo Sposo non lo trovano, quando cioè non lo cercano nel tempo opportuno. Ma questa non riguarda la sposa, la quale invoca e cerca in tempo giusto. E neanche essa lo cerca con tiepidezza e negligenza o per pura formalità, ma lo cerca veramente con cuore ardente e infaticabilmente, veramente come conviene.

 

III. 6. Resta che vediamo la terza ragione, che cioè non si cerchi dove si deve. Nel mio giaciglio ho cercato colui che l’anima mia ama. Forse non era da cercarsi nel giaciglio, ma nel letto, colui per il quale tutta la terra è angusta? Ma non mi dispiace il giaciglio perché lo conosco piccolo: Ci è nato un bambino (Is 9,6). Esulta tu e loda, casa di Sion, perché grande in mezzo a te è il santo di Israele (Is 12,6). Ma lo stesso Signore che è grande in Sion presso di noi è un bambino, presso di noi si è visto debole, bisognoso di giacere come un bambino, di giacere in un piccolo letto come infermo. Non fu un piccolo letto l’utero della Vergine? Il seno, infatti, del grande Padre non è un piccolo letto, ma un letto e un letto grande, del quale dice al Figlio: Dal seno prima dell’aurora io ti ho generato (Sal 109,3). Sebbene non sia da ritenere degnamente neppure un letto quel seno, che è luogo di reggitore più che di uno che giace. Restando, infatti, nel Padre regge con il Padre tutte le cose. E, infine, la fede certa ci presenta il Figlio non che giace, ma che siede alla destra del Padre; ed egli dice che il cielo è la sua sede, non il suo letto, perché tu sappia che in casa sua, cioè nei cieli, egli non ha dei sollievi per la sua infermità, ma delle insegne di potestà.

 

7. Giustamente, pertanto, la sposa parlando di letto dice «il suo» perché tutto ciò che in Dio c’è di debole, è chiaro che non proviene da lui, ma dalla nostra natura. Da noi ha assunto la natura umana per soffrire per noi: per noi è nato, fu allattato, morì, fu sepolto. È mia la mortalità del nato, mia la fragilità del pargolo, mio lo spirare del crocifisso, mio il sonno del sepolcro, tutte cose che sono passate, ed ecco ora tutto è nuovo.Nel mio giaciglio ho cercato colui che l’anima mia ama. E che? Cercavi nel tuo giaciglio colui che era tornato alla sua sede? Non avevi visto il Figlio dell’uomo salire dove era prima? Ormai ha cambiato la tomba e la stalla con il cielo, e tu ancora lo cerchi sul tuo giaciglio? È risorto, non è qui. Come cerchi nel letto colui che è il forte, nel piccolo letto il grande, il glorificato nella stalla? È entrato nella potenza del Signore, si è rivestito di splendore e di fortezza; ed eccolo che siede sui Cherubini, lui che giacque sotto la pietra della tomba. Da ora però non giace più ma siede; e tu gli prepari l’occorrente per giacere? E per dire tutta la verità, ora o siede per giudicare, o sta in piedi per recare aiuto.

 

8. Così voi, o buone donne, perché vi alzate di buon mattino? Per chi comprate aromi e preparate unguenti? Se sapeste quanto sia grande questo morto, che pure è libero tra i morti, che voi andate ad ungere, forse voi chiedereste piuttosto di essere unte da lui. Non forse lui il suo Dio ha unto con olio di letizia a preferenza dei suoi eguali? Beate sarete voi se, tornando, vi potrete gloriare dicendo: Dalla pienezza di lui anche noi abbiamo ricevuto (Gv 1,16). E in realtà è avvenuto così: tornano realmente unte quelle che erano venute per ungere. Come non unte dalla notizia così lieta della nuova e odorosa resurrezione? Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di pace, un lieto annunzio di bene! (Rm 10,15). Mandate dall’Angelo fanno opera di evangeliste, e divenute apostole degli Apostoli, mentre si affrettano ad annunziare nel mattino la misericordia del Signore dicono: Siamo corse all’odore dei tuoi unguenti (Cant 1,4). Dunque, da allora in poi inutilmente lo Sposo è stato cercato nel giaciglio, perché anche se la Chiesa l’aveva conosciuto secondo la carne, cioè secondo l’infermità della carne, ora però non lo conosce più così. Infine, fu cercato dopo da Pietro e Giovanni ugualmente nel sepolcro, ma non fu trovato. Vedi ora se ciascuno di costoro abbia potuto dire, applicandosi a proposito la parola della sposa: Ho cercato nel mio giaciglio colui che l’anima mia ama; l’ho cercato e non l’ho trovato. Infatti, prima di andare al Padre la carne che non era dal Padre per la gloria della risurrezione depose ogni infermità, si cinse di potenza, si rivestì di luce come di un vestito, cioè si ornò di quella gloria con cui era conveniente che si presentasse agli occhi del Padre.

 

IV. 9. Molto a proposito la sposa non dice «colui che io amo», ma colui che l’anima mia ama, perché veramente e propriamente appartiene all’anima quella dilezione con cui ama spiritualmente qualche cosa, Dio, per esempio, o un Angelo, un’anima. Ma anche amare la giustizia, la verità, la pietà, la sapienza e le altre virtù è la stessa cosa. Poiché, quando l’anima ama qualche cosa secondo la carne, o piuttosto l’appetisce, come il cibo per esempio, il vestito, il dominio e altre simili cose corporali e terrene, è un amore piuttosto della carne che non dell’anima. E per questo la sposa, con espressione meno usuale ma molto propriamente dice che l’anima sua ama lo Sposo, mostrando in tal modo che lo Sposo è Spirito e che ella ama di un amore spirituale, non carnale. E dice bene di averlo cercato durante le notti. Poiché se, come dice Paolo, coloro che dormono dormono di notte, e quelli che sono ubriachi lo sono di notte (1 Ts 5,7), così si può dire, penso, quelli che ignorano Cristo, di notte lo ignorano, e perciò quelli che lo cercano lo cerchino di notte. Chi infatti cerca uno che ha già presente? Ora, il giorno rivela quello che la notte nasconde, e così di giorno tu trovi quello che cercavi di notte. Notte è, infatti, per tutto il tempo in cui si cerca lo Sposo, perché se fosse giorno uscirebbe fuori e non sarebbe affatto cercato. E di questo basta; sennonché, forse l’aver usato «notti» al plurale indica qualche cosa da cercare ancora.

 

10. E a me sembra, se non si ha un’altra interpretazione migliore, che questa ne sia la ragione. Questo mondo ha le sue notti, e non poche. Che dico che il mondo ha le notti? Esso è quasi tutto una notte, ed è sempre tutto immerso nelle tenebre. È notte la giudaica perfidia, notte l’ignoranza dei pagani, notte la malizia degli eretici, notte anche la condotta carnale e animale di certi cattolici. Non è forse notte dove non si percepiscono le cose dello Spirito di Dio? E anche presso gli eretici e gli scismatici quante sono le sette, altrettante le notti. Invano, durante queste notti, cercate il sole di giustizia e la luce della verità, vale a dire lo Sposo, perché non vi è alcuna società tra la luce e le tenebre. Ma qualcuno dirà che la sposa non è tanto stolta o cieca da cercare la luce nelle tenebre, da cercare il diletto presso gli ignoranti e quelli che non lo amano. Quasi che dica di cercarlo adesso nelle notti e non piuttosto di averlo cercato. Non dice «lo cerco» ma ho cercato nelle notti colui che l’anima mia ama, e questo è il senso: quando era bambina aveva gusti da bambina, pensieri da bambina, e cercava la verità dove non era, errando e non trovando, secondo il detto del Salmo: come pecora smarrita andai errando (Sal 118,176). E infine ricorda che era ancora nel giaciglio, perché ancora fragile per l’età e bambina per i sentimenti.

 

11. Se invece intendi in questa maniera: nel mio giaciglio sottintendi «stando» o «giacendo» ho cercato colui che l’anima mia ama. Non l’ho cercato nel letto, ma stando nel mio letto l’ho cercato; ossia, quando ancora ero inferma e invalida e affatto capace di seguire lo Sposo ovunque va, di seguirlo nelle cose ardue e sublimi, incontrai molti i quali conoscendo il mio, desiderio mi dicevano: Ecco, Cristo è qui, ecco è là (Mc 13,21); e non era né qui, né là. Ho incappato in costoro e non con mio danno. Poiché, quanto più mi avvicinai ed esplorai con maggiore diligenza, tanto più presto e sicuramente conobbi che presso di loro non era affatto la verità. Ho, infatti, cercato e non ho trovato, e compresi che erano notti quelli che si chiamavano giorni.

 

12. E dissi: Mi alzerò e farò il giro della città, per le strade e per le piazze cercherò colui che l’anima mia ama. Vedi adesso che giace colei che dice: Mi alzerò: Bene davvero. Come non alzarsi quando ho saputo della risurrezione del diletto? Del resto, o beata, se sei risorta con Cristo devi pensare alle cose di lassù, non alle cose terrene, ma è necessario cercare in su Cristo, dove siede alla destra del Padre. Ma farò il giro della città, dici. A che pro? In giro camminano gli empi (Sal 11,9). Lascia questo ai Giudei, ai quali il loro Profeta ha vaticinato che patiranno la fame come cani e si aggireranno per la città (Sal 58,7). E se entrerai nella città ecco gli orrori della fame (Ger 14,18), come dice un altro Profeta, il che non sarebbe se vi fosse stato in essa il pane della vita. È risorto dal seno della terra, ma non restò sulla terra. Ascese dove era prima. Poiché colui che discese è lo stesso che è asceso, pane vivo che è disceso dal cielo e che è egli medesimo lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXVI

 

 

I. La sposa per le strade e per le piazze ha cercato lo Sposo e perché invano, quando egli è ritornato in cielo. II. Il Padre glorifica il Figlio e il Figlio il Padre. III. Come la fede trova colui che l’intelletto non comprende; le guardie che custodiscono la città di Dio; l’anima è sposa e pecora. IV. Che cosa è detto della custodia della città, che cosa della bellezza della sposa o del pascolo delle pecore e chi deve essere scelto per queste funzioni.

 

 

I. 1. Per le strade e per le piazze cercherò colui che l’anima mia ama (Cant 3,2). La sposa pensa ancora da bambina. Penso che abbia creduto che il Cristo, uscito dalla tomba si sarebbe subito presentato al pubblico, per insegnare come al solito al popolo, e sanare gli infermi, per manifestare la sua gloria a Israele, perché forse coloro che promettevano di riconoscerlo se fosse disceso dalla croce l’avrebbero ricevuto risorto dai morti. Ma egli aveva terminato l’opera che il Padre gli aveva dato da fare, e questo la sposa avrebbe dovuto capirlo almeno dalle parole di Cristo sulla croce, dette prima di spirare: Tutto è compiuto (Gv 19,30). Non vi era più ragione per lui di ripresentarsi alle folle, le quali forse neppure ora gli avrebbero creduto. E si affrettava a tornare al Padre che doveva dirgli: Siedi alla mia destra fino a che io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi (Sal 109,1). Con più forza e in modo più divino quando sarà esaltato da terra, tutto trarrà a sé. Questa credette di doverlo cercare per le strade e per le piazze, avida di godere della sua presenza, ma ignara del mistero. Nuovamente, dunque, frustrata, ripete: L’ho cercato e non l’ho trovato, perché si adempisse la parola di Gesù: perché vado al Padre e voi più non mi vedrete (Gv 16,16).

 

2. Dirà, forse, la sposa: «Come dunque crederanno in colui che non videro?». Quasi che la fede venga dalla vista e non dall’udito. Che cosa c’è di grande nel credere ciò che hai veduto, e non negare fede ai tuoi occhi quale lode merita? Ma se speriamo quello che non vediamo aspettiamo con pazienza, e la pazienza è meritoria. Beati coloro che non hanno veduto e hanno creduto (Gv 20,29). Perciò, perché non si perda il merito della fede si sottragga alla vista, dando posto alla virtù. Ed è anche tempo che lui ritorni al suo posto. Quale posto? Alla destra del Padre. Non ha, infatti, considerato come una rapina il considerarsi uguale al Padre, essendo di natura divina. Dunque, questo sia il luogo dell’Unigenito, nel quale ogni torto a lui fatto viene meno. Sieda accanto, non al di sotto, perché tutti glorifichino il Figlio come onorano il Padre. In questo apparirà l’uguaglianza della maestà, se non sarà considerato né inferiore al Padre, né a lui posteriore. Ma la sposa per ora nulla avverte di queste cose; ma quasi ebbra per l’amore, correndo di qua e di là, cerca con gli occhi colui che non può più essere raggiunto dall’occhio ma dalla fede. Pensa, infatti, che Cristo non possa entrare nella sua gloria se prima la gloria della risurrezione non sarà manifesta davanti al mondo e allora l’empietà sarà confutata, esulteranno i fedeli, si glorieranno i discepoli, i popoli si convertiranno e infine sarà egli stesso da tutti glorificato, mentre dalla presenza del risorto a tutti sarà resa nota la verità della sua predicazione. T’inganni, sposa, devono avvenire queste cose, ma a suo tempo.

 

3. Per il momento, intanto, vedi se non sia cosa degna e maggiormente conforme alla superna giustizia che non si dia il santo ai cani e le perle ai porci, che piuttosto secondo la Scrittura venga tolto di mezzo l’empio perché non veda la gloria di Dio, che alla fede non venga tolto il merito, mentre ora essa è più provata, credendosi ciò che non si vede, e che in essa sia serbato ai degni quello che è occultato agli indegni, affinché quelli che sono nell’immondezza siano ancor più immondi, e i giusti siano maggiormente giustificati; che i cieli non sonnecchino per la noia, e i cieli dei cieli si struggano di confusione per la loro aspettativa, che lo stesso Padre onnipotente non sia più a lungo frustrato nel desiderio del suo cuore, che infine lo stesso Unigenito non debba ritardare alquanto, il che sarebbe cosa anche solo indegnissima, l’ingresso nella sua gloria. Quanto pensi che debba essere grande la gloria umana per la quale il Cristo debba rinunziare anche per poco a quella che dal Padre gli è preparata da tutta l’eternità?

 

II. Aggiungi che per nessuna ragione conviene che sia protratta più a lungo la domanda dello stesso Figlio. Chiedi quale sia questa domanda: è quella in cui dice: Padre, glorifica il tuo figlio (Gv 17,1). Penso che questa domanda Cristo l’abbia fatta non tanto supplicando, quanto prevedendo. Viene chiesto liberamente quello che il richiedente ha potere di realizzare. Dunque, quella del Figlio è una domanda non necessaria, ma di formalità, in quanto tutto quello che riceve egli stesso lo dona con il Padre.

 

4. Qui si deve dire anche questo, che non solo il Padre glorifica il Figlio, ma anche il Figlio glorifica il Padre: perché qualcuno non dica il Figlio minore del Padre, in quanto glorificato dal Padre, mentre anche egli glorifica il Padre, come dice egli stesso: Padre, glorifica il tuo Figlio, affinché il tuo Figlio glorifichi te (Gv 17,1). Ma forse continui a ritenere inferiore il Figlio, il quale quasi privo di gloria sembra ricevere gloria dal Padre per poi rifonderla al Padre. Senti che non è così: Glorificami, dice, Padre con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse(Gv 17,5). Se dunque la gloria del Figlio non è posteriore, in quanto è dall’eternità, il Padre e il Figlio si danno gloria a vicenda da pari a pari. E se è così, dov’è il primato del Padre? C’è dunque uguaglianza dove è coeternità. E fino a tal punto c’è uguaglianza che una sola è la gloria di entrambi, come essi sono una cosa sola. Onde a me sembra che dicendo di nuovo: Padre glorifica il tuo nome (Gv 12,28), non chieda in realtà altro che di glorificare se stesso, nel quale e per il quale il nome del Padre sarebbe senza dubbio glorificato, e ricevette la risposta dal Padre:L’ho glorificato e ancora lo glorificherò (Gv 12,28), risposta che fu essa stessa una non piccola glorificazione del Figlio. Del resto egli è glorificato in modo più ampio e solenne al fiume Giordano, sia dalla testimonianza di Giovanni e dalla designazione della colomba, sia dalle parole del Padre che dice: Questi è il mio Figlio diletto (Mt 3,17). Ma anche sul monte, davanti ai tre discepoli fu in modo meraviglioso glorificato, sia dalla voce venuta nuovamente su di lui dal cielo, sia dalla mirabile e splendida trasfigurazione del suo corpo, e sia anche dalla testimonianza dei due Profeti che qui apparirono parlando con lui.

 

5. Resta ancora che, secondo la promessa del Padre, sia ancora una volta glorificato, e quella sarà la pienezza della gloria, alla quale non si possa più nulla aggiungere. Ma dove sarà data questa benedizione? Certamente non nelle piazze o nelle strade, come la sposa ha sospettato, se non in quelle di cui è detto: Le tue piazze, Gerusalemme, saranno lastricate di oro puro, e per tutte. le tue strade si canterà alleluia (Tb 13,22). In queste realmente ha già ricevuto dal Padre quella gloria alla quale nessun’altra simile si potrà trovare, neppure in cielo. A quale degli Angeli infatti fu mai detto: Siedi alla mia destra? (Eb 1,5.13). E non solo tra gli Angeli, ma non si è trovato alcuno neppure tra gli ordini superiori dei beati che fosse idoneo a ricevere questa sovraeccellente gloria. A nessuno affatto di essi è stata rivolta quella parola di una gloria singolare, nessuno ha sperimentato in sé l’efficacia di questa parola. Sia i Troni, sia le Dominazioni, sia i Principati, sia le Potestà desiderano sì di fissare in lui lo sguardo, ma non presumono di paragonarsi al Figlio di Dio. Dunque al mio Signore (Sal 109,1), singolarmente è stato detto dal Signore, ed è stato dato di sedere alla destra della gloria di lui, in quanto coeguale nella gloria, consustanziale nell’essenza, consimile per la generazione, non dispari nella maestà, non posteriore per l’eternità. Qui, qui lo troverà chi lo cerca, e vedrà la sua gloria: non la gloria quasi di uno degli altri, ma veramente la gloria come di Unigenito dal Padre.

 

III. 6. Che cosa farai o sposa? Pensi tu di seguirlo lassù? Oppure osi e puoi inoltrarti in questo così grande arcano e così misterioso santuario, per poter vedere il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio? No certamente. Dove egli è tu non puoi andare per ora; vi andrai dopo. Coraggio tuttavia, seguita a cercare; né ti distolga dal cercare quella gloria inaccessibile e quella sublimità, né ti faccia disperare di trovarlo. Se puoi credere, tutto è possibile a chi crede (Mc 9,22). Vicina, dice, a te è la parola sulla tua bocca e nel tuo cuore (Rm 10,8). Credi e l’hai trovato, poiché credere è aver trovato. Sanno i fedeli che Cristo abita per la fede nei loro cuori. Che c’è di più vicino? Cerca dunque sicura, cerca devota.Il Signore è buono per l’anima che lo cerca (Lam 3, 25). Cerca con le suppliche, seguilo con gli atti, trovalo con la fede. Che cosa non trova la fede? Arriva alle cose inaccessibili, scopre le cose ignote, abbraccia le immense, raggiunge le ultime, e comprende in qualche modo nel suo vastissimo seno la stessa eternità. Direi con fiducia: credo nell’eterna e beata Trinità che non comprendo, e tengo con la fede quella che non capisco con la mente.

 

7. Ma dirà qualcuno: «Come crederà senza predicatore, dato che la fede viene tramite l’udito, e l’udito per la parola della predicazione?». Dio provvederà a questo, ed ecco sono già pronti coloro che istruiranno e informeranno la novella sposa che deve unirsi al celeste Sposo, di tutto quello che è necessario, le insegnino la fede e le diano la forma della pietà e della religione. Senti infatti quello che aggiunge: Mi hanno incontrato le sentinelle che custodiscono la città (Cant 3,3). Chi sono queste sentinelle? Certamente coloro che il Signore nel Vangelo chiama beati se, quando verrà, troverà vigilanti. Che buone sentinelle, che mentre noi dormiamo vegliano, quasi debbano rendere conto delle nostre anime! Che buoni custodi, che vegliando e passando le notti in preghiera, esplorano le insidie dei nemici, prevengono le decisioni dei maligni, scoprono i lacci, eludono i trabocchetti, dissipano le reti, rendono vane le macchinazioni! Questi sono quelli che veramente amano i fratelli e il popolo cristiano, che pregano molto per il popolo e per tutta la santa città. Questi sono coloro che molto solleciti per le pecorelle, a loro affidate, dal Signore, di buon mattino vegliano per rivolgere il loro cuore al Signore che li ha creati, e pregano al cospetto dell’Altissimo. E vegliano e pregano conoscendo la loro insufficienza nel custodire la città, e che se il Signore non custodisce la città, invano veglia il suo custode(Sal 126,1).

 

8. Pertanto, comandando il Signore: Vegliate e pregate per non entrare in tentazione (Mt 26,41), chiaro che senza questo duplice esercizio dei fedeli e cura dei custodi, non può essere sicura la città, non la sposa, non il gregge. Chiedi la differenza di queste cose? Sono una cosa sola. È detta città per collezione, sposa per dilezione, pecore per la mansuetudine. Vuoi sapere che la sposa è città? Ho veduto, dice, la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo Sposo (Ap 21,2). Lo stesso ti apparirà delle pecore, se ricorderai come Pietro, primo loro custode, quando gli furono affidate sia stato accuratamente interrogato circa il suo amore. E chi gliele affidava non avrebbe usato tanta cura se non si fosse sentito Sposo nell’intimo della coscienza. Ascoltate, amici dello Sposo, se pure siete amici. Ma ho detto poco «amici»: amicissimi devono essere quelli che hanno il privilegio di una così grande familiarità. Non senza una ragione è stato ripetuto parecchie volte: Pietro, mi ami tu? (Gv 21,17), quando gli furono affidate le pecore. E io penso che questo sia come se gli avesse detto: «Se la coscienza non ti assicura che mi ami, e mi ami fortemente e perfettamente, cioè più delle cose tue, più che i tuoi, più anche di te stesso, perché vi sia corrispondenza con il numero delle domande, non assumerti questa cura né intrometterti nelle mie pecore, per le quali il mio sangue é stato sparso». Discorso terribile, capace di scuotere anche i cuori impavidi dei tiranni.

 

9. Per la qual cosa badate a voi stessi quanti avete avuto l’incarico di quésto ministero, badate dico, al prezioso deposito che vi è stato affidato. È una città. Vegliate alla sua custodia e alla sua concordia. È la sposa: applicatevi a ornarla. È un gregge: provvedete ai pascoli. Queste tre cose si riferiscono forse, lo ripeto, alla triplice domanda del Signore.

 

IV. Pertanto, la custodia della città sarà triplice: dalla violenza dei tiranni, dall’inganno degli eretici, dalle tentazioni dei demoni. L’ornamento della sposa consisterà nelle buone opere, nei costumi, negli ordini. Il cibo delle pecore consisterà nei pascoli delle Scritture, come eredità del Signore. Ma c’è distinzione in esse. Vi sono i comandamenti che vengono imposti agli animi duri e carnali dalla legge della vita e dalla disciplina, e vi sono i legumi delle dispense che vengono serviti agli infermi e ai piccoli di cuore per riguardo di misericordia, e vi sono i consigli solidi e forti che dagli intimi della sapienza vengono proposti ai sani e a quelli che hanno i sensi esercitati a discernere il bene dal male. Ai piccoli, invece, come ad agnellini, viene dato il latte dell’esortazione, piuttosto che il cibo solido. Inoltre i buoni e solleciti pastori non cessano di nutrire con buoni esempi tratti da letture, e più con i loro stessi esempi che con quelli degli altri. Perché se lo fanno solo con gli esempi altrui e non con i propri è vergogna per essi, e il gregge non ne trae profitto. Infatti, se io per esempio, che sembro tra di voi aver cura del gregge, vi portassi come esempio la mansuetudine di Mosè, la pazienza di Giobbe, la misericordia di Samuele, la santità di Davide, e altri simili esempi di persone buone, comportandomi nello stesso tempo io stesso come duro, impaziente, senza misericordia e per nulla santo, il mio discorso, come temo, avrebbe meno unzione, e voi lo ricevereste con minore avidità. Ma questo lo lascio alla suprema pietà, perché essa supplisca quello che a me manca per voi, e corregga ciò che vi è di sbagliato. Ora, il buon pastore avrà cura anche di questo, di avere cioè, secondo il Vangelo, sale in se stesso, sapendo che il discorso condito di sale tanto piacerà per la grazia, altrettanto gioverà per la salute spirituale. Questo abbiamo detto riguardo alla custodia della città, all’ornamento della sposa e al pascolo delle pecore.

 

10. Voglio, tuttavia, parlarne ancora un po’ più dettagliatamente per coloro che, mentre anelano troppo avidamente agli onori, meno avvedutamente si sottopongono a gravi oneri, si espongono a pericoli, perché sappiano a che scopo sono venuti, come sta scritto: Amicoa che fare sei venuto? (Mt 26,50). Se non erro per la sola custodia della città, perché sia procurato quanto è necessario, c’è bisogno di un uomo forte, spirituale e fedele; forte per impedire i torti, spirituale per scoprire le insidie, fedele perché non cerchi il suo interesse. Per quel che riguarda, poi, l’onestà e la correzione dei costumi, cosa che appartiene al decoro della sposa, è facile comprendere che è necessaria la censura della disciplina, con molta diligenza. Per questo è necessario che chiunque cui appartiene questo compito sia acceso da quello zelo di cui ardeva quel grande geloso della sposa del Signore che diceva: Sono geloso di voi della gelosia del Signore, vi ho infatti sposati a un unico Sposo, per presentarvi come vergine casta a Cristo (2 Cor 11,2). E come potrà un pastore inesperto condurre i greggi del Signore nei pascoli della divina parola? Ma, se anche sarà dotto, ma non buono, c’è da temere che non tanto nutra con un’abbondante dottrina quanto nuoccia con una vita sterile. È, pertanto, temerario da questo lato colui che si sobbarca a questo onere senza la dovuta scienza e una lodevole condotta. Ma ecco, cosa che non lodiamo, ci si impone di terminare, mentre l’argomento non era finito. Siamo chiamati ad altra materia, alla quale è indegno che questa debba lasciare il posto. Sono alle strette da ogni parte, e non so quale delle due cose mi costi di più: essere strappato da questa o dovermi occupare di quella, e le due cose insieme aumentano la molestia. Oh, schiavitù! Oh, necessità! Non faccio quello che voglio, ma faccio quello che ho in avversione. Notate, tuttavia, dove abbiamo smesso perché, quando al più presto riprenderemo l’argomento, di lì ricominciamo in nome dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXVII

 

 

I. Biasimo rivolto alle guardie indegne. II. Chi o quali sono le guardie dalle quali dice di essere stata trovata; l’amore della verità che per loro mezzo impara. III. Su coloro che senza guida presumono di trovare la via della vita, e come la sposa dica di averla trovata.

 

 

I. 1. Ecco, grazie a Dio, ci siamo liberati. Abbiamo detto nel sermone di ieri quali capi vorremmo avere nella via per cui camminiamo, non quali abbiamo in realtà. Purtroppo, quelli che sperimentiamo sono molto diversi. Non sono tutti amici dello Sposo coloro che oggi vedi assistere la sposa da una parte e dall’altra, e che come si usa dire comunemente sembrano quasi addestrarla. Sono molto pochi quelli che non cercano il loro interesse, tra tutti i suoi intimi. Amano i regali e non possono in pari tempo amare Cristo, perché hanno dato le mani a mammona. Osserva come camminano nitidi ed eleganti, coperti di vesti lussuose, come una sposa che esce dalla stanza nuziale. Se vedrai d’improvviso uno di questi tali camminare pettoruto ti sembrerà di incontrare la sposa, più che un suo custode. Da dove pensi che venga a questi tali tanta abbondanza di beni, splendore d’abiti, lusso nelle mense, quantità e varietà di vasi d’argento e d’oro se non dai beni della sposa? Per questo essa è lasciata povera e bisognosa e nuda, con faccia macilenta, incolta, ispida, pallida. Per questo non si usa in questo tempo ornare la sposa, ma spogliarla, non custodirla, ma perderla, non difenderla, ma esporla ai pericoli, non istruirla, ma prostituirla, non si usa pascere il gregge, ma uccidere e divorare le pecore, secondo quanto dice il Signore: Divorano il mio popolo come divorano il pane (Sal 13, 4); e ancora: Hanno divorato Giacobbe e devastata la sua dimora (Sal 78,7), e un altro Profeta: Si nutrono della sua iniquità (Os 4,8), quasi dica: «Esigono denaro per i peccati e non sono solleciti per i peccatori». Chi mi troverai tra i preposti che non sia più sollecito a vuotare le borse dei sudditi che non a emendarne i vizi? Dov’è quello che pregando pieghi l’ira di Dio, che predichi l’anno favorevole alla misericordia del Signore? Parliamo delle cose più leggere. Sulle più gravi incombe un giudizio più severo.

 

2. Inutilmente, tuttavia, ci fermeremo su queste e su quelle, perché non ci ascoltano. E anche se mandassimo loro per iscritto queste cose che diciamo, non si degnerebbero di leggerle; o se le leggessero si indignerebbero contro di me, sebbene dovrebbero farlo più giustamente contro se stessi. Perciò lasciamo costoro, che non hanno trovato la sposa, ma che l’hanno venduta, e cerchiamo piuttosto quelli dai quali la sposa dice di essere stata trovata. Anche questi hanno avuto lo zelo. Tutti desiderano essere successori degli Apostoli, imitatori pochi. Oh, se fossero così vigilanti nella cura quanto alacri nel correre alla cattedra! Certo, veglierebbero conservando con sollecitudine la sposa trovata da essi, ad essi affidata. Anzi, veglierebbero per se stessi, né lascerebbero che si dica di loro: Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza (Sal 37,12). Giusto lamento in verità, e giusto soprattutto al nostro tempo. È poca cosa per le nostre sentinelle che non ci custodiscano; ci perdono anche, in quanto presi dal profondo sonno della trascuranza, non si svegliano a nessun tuono delle divine minacce, perché abbiano almeno paura del pericolo che corrono essi stessi. Di qui avviene che non risparmiano le loro pecore, essi che non risparmiano se stessi, uccidendo e nello stesso tempo perendo.

 

II. 3. Ma quali sono le sentinelle dalle quali la sposa dice di essere stata trovata? Sono gli Apostoli e gli uomini apostolici. Veramente questi si custodiscono la città, cioè quella stessa Chiesa che hanno trovato, e lo fanno con tanta maggior vigilanza quanto più la vedono in questo tempo posta in pericolo, insediata cioè da un male domestico e interno, come sta scritto: E i nemici dell’uomo sono i suoi familiari (Mi 7,6). Non lasciano, infatti, priva del loro patrocinio quella per cui resistettero fino al sangue, ma la proteggono e la custodiscono giorno e notte, cioè nella vita e nella morte loro. E se è preziosa al cospetto del Signore la morte dei suoi santi (Sal 115,15) non dubito che saranno tanto più potenti nella morte quanto più si è dimostrato valido in essa il loro principato.

 

4. «Tu asserisci queste cose dirà taluno come se le avessi viste con i tuoi occhi, ma sono cose che non si possono vedere da occhio umano». E io rispondo: «Se tu credi fedele la testimonianza dei tuoi occhi, la testimonianza di Dio è maggiormente degna di fede. Ed egli dice: Sulle tue mura, o Gerusalemme, ho stabilito dei custodi, tutto il giorno e tutta la notte non taceranno (Is 62,6). «Ma questo dici è detto degli Angeli». «Non dico di no: sono tutti spiriti incaricati di un ministero (Eb 1,14). Ma chi mi proibisce di applicare le stesse cose agli Apostoli, i quali non sono ormai inferiori in potenza agli Angeli stessi, e per l’affetto e la misericordia ci sono tanto più fratelli, in quanto partecipi della nostra natura? E poi essi hanno sofferto le medesime pene e miserie che noi sopportiamo ancora nel tempo. Nulla li rende più misericordiosi e solleciti per noi che il pensiero di essere passati per le medesime prove. Non è la loro voce quella del salmo: Siamo passati per il fuoco e per l’acqua e ci ha condotto al refrigerio? (Sal 65,12). E che? Essi sono passati, e lasceranno noi in mezzo al fuoco e ai flutti, né si degneranno di porgere almeno la mano ai figli in pericolo? Non può essere così». Sei bene trattata, o madre Chiesa, sei bene trattata nel luogo del tuo pellegrinaggio. Dal cielo e dalla terra ti viene l’aiuto. Quelli che ti custodiscono non sonnecchiano e non dormono. Gli Angeli sono tuoi custodi, tue sentinelle gli spiriti e le anime dei giusti. Non sbaglia colui che ti avrà sentita trovata dagli uni e dagli altri spiriti, e custodita da essi. E ognuno di essi ha una sua ragione speciale in questa sollecitudine: i giusti, i quali senza di te non arriveranno al numero e alla santità consumata, gli Angeli, i quali non saranno se non da te restaurati nella loro pienezza. Poiché tutti sanno che cadendo dal cielo Satana con i suoi complici, il numero della celeste moltitudine risultò di molto diminuito. Da te tutti attendono la consumazione, alcuni del numero, altri del loro desiderio. Riconosci, dunque, nel salmo la tua voce: Mi aspettano i giusti perché mi doni la retribuzione (Sal 141,8).

 

5. È da notare che non è riferito che la Chiesa abbia trovato i custodi, ma piuttosto che essi hanno trovato la sposa in quanto, penso io, erano a questo destinati. Perché come predicheranno se non sono mandati? (Rm 10, 15). Poi Gesù dice nel Vangelo: Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura (Mc 16,15); andate, ecco io vi mando (Lc 10,3). È così: essa cercava lo Sposo e lo Sposo non era nascosto, è lui stesso, infatti, che l’aveva incitata a cercarlo, e le aveva messo in cuore l’amore dei precetti e della legge della vita e della disciplina, purché vi fosse chi la istruisse e le insegnasse la via della prudenza. E le mandò incontro coloro che piantano e innaffiano perché la nutrissero e confermassero in ogni certezza della verità, cioè le indicassero e la informassero sul diletto, perché è la verità che la sua anima cerca a veramente ama. E in realtà quale amore è veramente fidato e vero se non quello nel quale è amata la verità? Sono fornito di ragione, sono capace di verità; ma non lo vorrei essere se mi mancasse l’amore della verità. Questo è il frutto dei rami e io sono la radice. Non sono al sicuro dalla scure se sarò trovato senza di quello. In quel dono, infatti, della natura, certamente splende una bella immagine di Dio, per cui io mi distinguo dagli altri animali.

Per questo la mia anima ardisce assurgere ai dolci e casti amplessi della verità, e cosa riposare con tutta sicurezza e soavità nel suo amore, se tuttavia ho trovato grazia agli occhi di cosa grande Sposo, che la stimi degna di raggiungere questa gloria, anzi, che egli stesso se la presenti senza macchia, né ruga o altro di simile. Quanto pensi sia pericoloso e di quale pena degno tenere questo dono ozioso? Ma di questo parleremo altrove.

 

III. 6. Intanto però la sposa non ha trovato colui che cercava. Ascoltino questo coloro che senza guida e precettore non temono di incamminarsi per le vie della vita, facendosi nell’arte spirituale nello stesso tempo discepoli e maestri di se stessi. E quasi non bastasse moltiplicano i loro discepoli, fattisi guide cieche di ciechi. Quanti per questo si sa che si sono scostati dalla retta via e sono andati errando con loro grande pericolo! Ignorando, infatti, le astuzie di Satana e i suoi pensieri, vanno a finire che avendo cominciato con lo spirito, terminano con la carne, trascinati turpemente e in modo condannabile caduti. Vedano, dunque, coloro che cosa si comportano di camminare con cautela, e prendano esempio dalla sposa la quale non volle in alcun modo pervenire a colui che desiderava prima di incontrare quelli che l’ammaestrassero sul diletto, e le insegnassero il timore del Signore. Dà una mano al seduttore colui che ricusa di darla al precettore. E chi lascia le pecore al pascolo senza un custode, non è pastore delle pecore, ma dei lupi.

 

7. Ora vediamo la sposa come racconti di essere stata trovata. A me sembra che abbia usato la parola «trovare» fuori del consueto. Dice, infatti, queste cose come se la Chiesa venisse da un certo luogo. Essa viene dall’Oriente e dall’Occidente secondo la parola del Signore, e da tutti i confini della terra. Ma né fu mai radunata in un solo luogo, dove sia stata trovata dagli Apostoli e dagli Angeli per essere fatta uscire e diretta a colui che l’anima sua ama. Fu forse trovata prima che radunata? No, perché prima non esisteva. Per la qual cosa se avesse detto di essere stata radunata, congregata, oppure con una parola che si confà maggiormente alla Chiesa, convocata dai predicatori, sarei passato semplicemente, senza alcuna esitazione. Sono, infatti, coadiutori di Dio, i quali lo hanno sentito dire: Chi non raccoglie con me disperde (Lc 11, 23). Ma non mi sembrerà neppure fuori luogo se qualcuno dirà che la Chiesa è stata da essi fondata ed edificata. Lo fecero insieme con colui che dice nel Vangelo: E su questa pietra edificherò la mia Chiesa (Mt 16,18) e che è fondata sopra ferma roccia (Mt 7,25). Ma essa, nulla dicendo di tutto ciò, ma sostenendo che è stata da essi trovata, ci lascia alquanto perplessi e ci fa sospettare che in questo passo ci sia qualche cosa di nascosto che debba con maggior diligenza essere ricercato.

 

8. Volevo, lo confesso, passare oltre, e dispensarmi da questa ricerca per la quale mi sento incapace. Ma ricordandomi che in tanti altri passi ugualmente dubbi e oscuri mi sono sentito aiutato più di quanto speravo per l’aiuto delle vostre preghiere, mi vergogno della mia diffidenza, e rimproverandomi il mio timore affronto senza temerità l’argomento che per timidezza avrei voluto scartare. Vi sarà, ne ho fiducia, il solito aiuto; che se non riuscirò bene nel mio intento, non sarà inutile quanto dirò per uditori benevoli. Si tratterà però di questo all’inizio di un altro sermone, perché il presente lo chiudiamo qui. Vi conceda, pertanto, non solo di tenere a mente quanto diciamo, ma di amarlo ardentemente e compierlo efficacemente lo stesso Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra ogni cosa benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXVIII

 

 

I. Cooperano alla salvezza della sposa di Dio, l’angelo, l’uomo. II. Le tre cose nelle quali Dio previene: la predestinazione, la creazione, l’ispirazione; per quale motivo la sposa non poté essere trovata se non dopo l’ispirazione. III. Giustamente è detto che la sposa fu preparata da Dio, non trovata; trovata dalle guardie a causa della preparazione.

 

 

I. 1. Alla parola «trovata», se ben ricordo, ci siamo fermati sospesi, sembrandoci alquanto strano che la sposa si dicesse trovata dai suoi predicatori. Ora, le cause del nostro indugiare e del nostro dubbio sono state da noi espresse e ci è sembrato di dover cercare qualche cosa; non però al termine di un sermone si poteva dare la spiegazione del quesito; dobbiamo, dunque, farlo ora. Nella spiegazione del grande sacramento parlo di quello che il Dottore delle genti ha interpretato in Cristo e la Chiesa, il santo e casto connubio che è l’opera della nostra salvezza in esso, dico, concorrono insieme tre cose: Dio, l’Angelo, l’uomo. In quanto a Dio, come non opererà e prenderà cura delle nozze del diletto Figlio suo? Lo farà con tutta la volontà. E di per sé basterebbe lui solo e senza l’aiuto degli altri, i quali senza di lui non possono far nulla. Dunque, quello che da essi riceve come ministri in quest’opera non rappresenta un sollievo per sé, ma un vantaggio per essi. Per gli uomini, infatti, ha legato il merito alle opere, secondo il detto: L’operaio è degno della sua mercede (Lc 10,7), e perché ognuno riceverà secondo il proprio lavoro, sia chi pianta nella fede, sia chi innaffia ciò che è piantato. Quando, poi, si serve del ministero degli Angeli per la salvezza del genere umano, non lo fa forse perché gli Angeli siano amati dagli uomini? Poiché, che gli Angeli amino gli uomini, si può particolarmente dedurre dal fatto che gli Angeli non ignorano che le antiche rovine della loro città saranno restaurate dagli uomini. E non conveniva che il regno della carità fosse retto da altre leggi che da quelle del mutuo amore e dalla pura affezione vicendevole e verso Dio di coloro che dovranno condividere il regno celeste.

 

2. Ma vi è molta differenza nel modo di operare, secondo la dignità di ciascun operaio. Dio fa quello che vuole per la stessa sola facilità di volere, senza sudare, senza muoversi, senza pregiudizio di luogo o di tempo, o di causa o di persona. È, infatti, il Signore degli eserciti che con tranquillità giudica tutte le cose. È la Sapienza che dispone tutte le cose con soavità. L’Angelo, invece, non opera senza movimento, sia locale che temporale, ma senza affanno. L’uomo, invece, non è libero, né dall’agitazione dell’animo, né dal movimento del corpo e dello spirito nell’operare. Gli si comanda, infatti, di lavorare alla propria salvezza con timore e tremore, e con il sudore del suo volto mangiare il suo pane.

 

II. 3. Spiegate così queste cose, osserva ora con me come in questa magnifica opera della nostra salvezza vi sono tre cose che Dio si attribuisce come loro autore, e in esse previene tutti i suoi ausiliari e cooperatori; queste cose sono la predestinazione, la creazione, l’ispirazione. Di queste la predestinazione non ha avuto principio, non dico dall’origine della Chiesa, ma neanche dall’inizio del mondo, cioè da questo o quel tempo: è prima del tempo. La creazione è con il tempo; l’ispirazione avviene nel tempo, dove e quando vuole. In realtà, secondo la predestinazione, la Chiesa degli eletti è sempre esistita nella mente di Dio. Se l’infedele si meraviglia di ciò, ascolti ciò che lo farà meravigliare di più: non fu mai che non fosse amata. Perché non parlerò arditamente dell’arcano che quel coraggioso delatore dei superni consigli ha carpito dal cuore di Dio e mi ha svelato? Parlo di Paolo il quale come molte altre cose così non ha avuto timore di divulgare anche questo segreto delle ricchezze della sua bontà, dicendo: Dio ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo, come ci ha scelti in lui prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità e aggiunge: predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia che ci ha dato nel suo figlio diletto (Ef 1,3-6). Non c’è dubbio che con queste parole si esprimano tutti gli eletti: ed essi sono la Chiesa. Pertanto, in quel così profondò seno dell’eternità, prima che venissero alla luce e prendessero forma in questa creazione, chi, sia pure dei beati spiriti, avrebbe potuto trovarla in qualche modo, se non colui al quale la stessa eternità, Dio, l’abbia voluta rivelare?

 

4. Ma anche quando ormai al cenno del Creatore si vide emergere nelle apparenze e forme visibili, non subito è stata trovata da alcuno degli uomini o degli Angeli, perché non era conosciuta, adombrata com’era dall’immagine dell’uomo terrestre e coperta dalla caligine della morte, velo di generale confusione senza del quale nessuno dei figli dell’uomo entrò in questa vita, eccettuato uno solo che entra senza macchia. Costui è l’Emmanuele, il quale tuttavia è anche lui dei nostri, per noi si è rivestito della nostra maledizione e della similitudine del peccato, non della verità di esso. Così, infatti, sta scritto che apparve: in una carne simile a quella del peccato, e in vista del peccato egli ha condannato il peccato nella carne (Rm 8,3). Del resto il medesimo è in tutto entrato per tutti, eletti e reprobi; non vi è, infatti, distinzione; tutti hanno peccato, e tutti portano il velo della loro vergogna. Per questo, dunque, anche se la Chiesa esisteva già creata nelle cose create, non poteva, tuttavia, essere trovata e conosciuta da alcuna creatura, essendo nel frattempo in modo meraviglioso nascosta, e nel grembo della beata predestinazione, e nella massa della misera dannazione.

 

5. Del resto quella che la sapienza predestinatrice aveva nascosto dall’eternità, e neppure la potenza creatrice aveva messo sufficientemente in luce, la rivelò poi a suo tempo la grazia, secondo un’operazione che sopra ho chiamato ispirazione, appunto perché qualcosa dello spirito dello Sposo venne infuso negli spiriti umani, in preparazione del Vangelo della pace, cioè per preparare la via al Signore e al Van gelo della sua gloria al cuore di tutti, quanti erano predestinati alla vita. Invano le sentinelle avrebbero faticato nel predicare se non le avesse precedute questa grazia. Ma ora, vedendo come la parola correva velocemente, e i popoli delle nazioni con tutta facilità si convertivano al Signore, le tribù e le lingue accorrevano nell’unità della fede, e i confini della terra si radunavano in un’unica madre cattolica, conobbero le ricchezze della grazia che da tempo erano tenute nascoste nel segreto dell’eterna predestinazione, e gioirono di avere trovato colei che prima dei secoli il Signore si era scelta per sé come sposa.

 

6. Da questo, penso io, risulta chiaro come non senza motivo la sposa rende testimonianza di essere stata trovata da costoro, ma per il fatto che si riconosce da essi radunata, non eletta; riconosciuta, non convertita.

 

III. La conversione, infatti, di chicchessia, si deve attribuire a colui al quale tutti devono rivolgere quella preghiera: convertici, o Dio, nostra salvezza (Sal 84,5). Ma non troverei forse ugualmente adatta per lui la parola «trovata» come la parola «convertita». Anzi è così: non spetta al Signore trovare, ma prevenire, e l’aver prevenuto esclude il trovare. E poi, che cosa può trovare colui che non ha mai ignorato nulla? Conosce il Signore quelli che sono suoi (2 Tm 2,19), dice l’Apostolo. E lui che cosa dice? Io conosco quelli che ho scelto da principio (Gv 13,18). È chiaro che non era giusto dire trovata, colei che preconobbe dall’eternità, che elesse, che amò, che creò. Direi tuttavia con fiducia che Dio l’ha preparata perché fosse trovata. Poiché chi ha visto ne dà testimonianza e sappiamo che la sua testimonianza è vera (Gv 19,35). Vidi, dice, la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo Sposo (Ap 21,2). Chi parla così è una delle sentinelle che custodiscono la città. Ma ascolta lo stesso suo preparatore che la addita alle sentinelle, ma sotto un’altra immagine: Levate i vostri occhi, e guardate i campi che già biondeggiano (Gv 4,35), pronti cioè per la mietitura. Con questo il Padre di famiglia invita gli operai al lavoro, quando già sente che tutto è già così pronto che, senza eccessivo lavoro, possono gloriarsi e dire: Siamo coadiutori di Dio (1 Cor 3,9). Infatti, che cosa faranno? Cercheranno la sposa, e trovatala, le daranno indicazioni sul diletto. Non cercheranno infatti il loro interesse, ma la grazia dello Sposo, perché sono i suoi amici. E per questo non avranno molto da fare presso di essa: è là presente, e già lo cerca con tutta devozione, in quanto già la sua volontà è preparata dal Signore.

 

7. E prima ancora che esse le dicano qualche cosa, le interroga a riguardo del diletto e previene i suoi predicatori, essendo essa stessa prevenuta informandosi col dire: Avete visto l’amato del mio cuore? (Cant 3,3). Bene, pertanto, si dice trovata da coloro che custodiscono la città, essa che si riconosce già preconosciuta e prevenuta dal Signore della città, sicché le sentinelle tale la trovarono, non la resero tale. Così Cornelio da Pietro e Paolo da Anania sono stati trovati: entrambi, infatti, erano stati prevenuti dal Signore e da lui preparati. Chi più preparato di Saulo il quale aveva già con la mente e con la voce supplicato: Signore, che cosa vuoi che io faccia? (At 9,6). Cornelio similmente con le sue elemosine e preghiere che il Signore gli aveva ispirato, meritò di pervenire alla fede. Anche Filippo trovò Natanaele: ma prima il Signore lo aveva già visto quando era sotto il fico. Non fu, forse, una preparazione quello sguardo del Signore? Anche di Andrea è riferito che trovò suo fratello Simone, previsto e preconosciuto anche lui dal Signore che lo chiamò Cefa, quasi forte nella fede.

 

8. Leggiamo di Maria che fu trovata incinta per opera dello Spirito Santo. Penso che la sposa del Signore abbia in questo qualche cosa di simile alla Madre di lui. Se, infatti, anch’essa non fosse stata trovata da quelli che la trovarono piena di Spirito Santo, non avrebbe con tanta familiarità richiesto di lui, del quale è quello Spirito. Non aspettò che essi le dicessero perché erano venuti; lei parlò, e dall’abbondanza del cuore: Avete visto l’amato dell’anima mia? Sapeva che sono beati gli occhi che lo hanno veduto; e ammirando quelli che l’avevano veduto diceva: Siete voi ai quali fu dato di vedere colui che tanti re e profeti vollero vedere e non videro? Siete voi che avete meritato di vedere la Sapienza nella carne, la verità nel corpo, Dio nell’uomo? Molti dicono: Ecco qui, eccolo là (Lc 17,21), ma io penso di prestar fede con maggiore sicurezza a voi che avete mangiato e bevuto con lui dopo che è risorto dai morti. E questo sia detto per il fatto che la sposa sia stata trovata dalle sentinelle. Se manca qualche cosa si supplirà in un altro sermone. Ma ora da questo massimamente appare come essa sia stata prevenuta dallo Spirito Santo; da coloro che custodiscono la città trovata e conosciuta, come quella che Dio ha preconosciuto e predestinato prima del tempo, e preparata da lui per il suo Figlio diletto, perché formi le sue delizie sempiterne per l’eternità, essendo santa e immacolata al suo cospetto, germinante come giglio e fiorente in eterno davanti al Signore, Padre del Signore mio Gesù Cristo, Sposo della Chiesa che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXIX

 

 

I. Per quale motivo la sposa dice: «Avete visto che l’anima mia ama?» e che cosa significa che oltrepassa le guardie. II. Il vincolo dell’amore con cui la sposa tiene avvinto lo Sposo e non lo lascia, e per quale motivo si prepara a introdurlo nella stanza della sua genitrice.

 

I. 1. Avete visto l’amato dell’anima mia (Cant 3,3). O amore precipitoso, veemente, ardente, impetuoso, che non lasci pensare ad altro che a te, che hai in fastidio tutto il resto, tutto disprezzi fuori di te, soddisfatto solo di te! Tu confondi gli ordini, dissimuli le usanze, non conosci misure; tutti quelli che sembrano essere dettami della convenienza, della ragione, del pudore, della prudenza e dell’equità devono cedere a te e tu li riduci in schiavitù. Ecco tutto quello che questa sposa pensa e quello che dice sa di amore, profuma di amore e null’altro. Perciò esso si è fatto padrone del cuore e della lingua. Dice: Avete visto l’amato dell’anima mia? Quasi che quelli sappiano ciò che pensa questa. Chiedi informazioni di colui che la tua anima ama? Ma non ha un nome? E chi sei tu, e chi è lui? Così avrei detto io per la stranezza del discorso e la notevole trascuratezza dei termini, per la quale questo libro della Sacra Scrittura si mostra abbastanza dissimile dagli altri. Perciò in questo epitalamio non devono considerarsi tanto le parole quanto gli affetti. Perché questo, se non perché il santo amore che, si sa, è l’unica materia di tutto questo volume, non ha valutato secondo le parole e le espressioni, ma secondo le opere e la verità? Dovunque parla l’amore, e se qualcuno vuole acquistare conoscenza di queste cose che vi leggiamo, ami. Diversamente, si accinge invano a udire o a leggere il carme dell’amore colui che non ama: non può, infatti, un cuore freddo comprendere un discorso infuocato. Come chi non conosce il greco non può capire uno che parla in greco, o chi non è latino non capisce chi parla latino, e così degli altri idiomi, così la lingua dell’amore, a colui che non ama sarà una lingua barbara, e come un bronzo che risuona e un cembalo tintinnante. Costoro, invece parlo dei custodi poiché anch’essi hanno ricevuto dallo Spirito per amore, sanno che cosa dice lo Spirito, e conoscendo bene le parole dell’amore sono pronti a rispondere nella medesima lingua, cioè con sentimenti di amore e doveri di pietà.

 

2. Così in breve tempo la rimandano informata su quanto richiedeva, ed essa dice: Da poco li avevo oltrepassati quando trovai l’amato dell’anima mia (Cant 3,4). Dice bene: «da poco», perché le dissero una parola abbreviata, consegnandole il simbolo della fede. E ciò che segue è tale. Occorreva che la sposa passasse per essi, per conoscere da essi la verità, ma doveva però passare; se non avesse oltrepassato anche essi, non avrebbe trovato colui che cercava. E non dubitare che essi l’abbiano anche persuasa a questo. Non predicavano, infatti, se stessi, ma il loro Signore Gesù che è certamente sopra e oltre loro. Per questo egli dice: Passate a me voi tutti che mi desiderate (Eccli 24,19). Non bastava passare, le vien detto di oltrepassare. Perché era trapassato colui che andava cercando. Non era, infatti, passato solo dalla morte alla vita, ma era passato oltre entrando nella gloria. Era, dunque, necessario che anch’essa oltrepassasse. Se no non lo avrebbe potuto raggiungere non seguendone le vestigia ovunque egli era andato.

 

3. E perché sia maggiormente chiaro quello che sto dicendo, se il mio Signore Gesù fosse bensì risorto da morte, ma non fosse asceso al cielo, non si potrebbe dire di lui che sia oltrepassato, ma passato solamente: e per questo la sposa che lo cerca dovrebbe passare solamente, non oltrepassare. Ma siccome già risorgendo era passato, ed era ancora passato oltre ascendendo in cielo, giustamente anche questa dice non solamente di essere passata, ma di aver oltrepassato, avendolo seguito al cielo con la fede e la devozione. Dunque, credere nella risurrezione è passare, credere anche l’ascensione è oltrepassare. E forse come ho già detto un giorno su questo argomento la sposa conosceva la risurrezione e non l’ascensione. Fu, dunque, istruita dalle sentinelle su quanto le mancava, che cioè colui che era risuscitato era anche asceso; ascese parimenti anch’essa, cioè oltrepassò e trovò. Come non lo avrebbe trovato raggiungendolo con la fede dove egli è con il corpo? Da poco li avevo oltrepassati. Dice bene: li avevo, perché il nostro corpo di due punti ha preceduto e trasceso sia essi, sia le altre sue membra che sono sopra la terra, con la risurrezione, cioè come abbiamo detto, e con l’ascensione. Infatti Cristo è la primizia (1 Cor 15,23). Che se egli ci ha preceduti lo ha seguito anche la nostra fede. Dove, infatti, essa non lo seguirebbe? Se egli ascende in cielo essa vi è. Se discenderà nell’inferno essa è pure là. E se avrà preso le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare anche là, dice, mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra (Sal 138,8-10). Infine, non è forse vero che secondo questa fede l’onnipotente e sommamente buono Padre dello Sposo ci ha conrisuscitati con lui e fatti sedere alla sua destra? Questo per spiegare quello che ha detto la Chiesa, cioè che ha oltrepassato le sentinelle poiché oltrepassò una volta sola, arrivando con la fede dove in realtà essa non è ancora pervenuta. Penso che sia chiaro anche perché ha detto di aver oltrepassato, più che semplicemente passato. E anche noi passiamo alle cose che seguono.

 

II. 4. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò, finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice (Cant 3,4). È così: d’allora in poi non venne meno il popolo cristiano, né la fede dalla terra, né la carità dalla Chiesa. Strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono contro di essa, e non cadde perché era fondata su salda roccia (Mt 7,25) e la pietra era Cristo (1 Cor 10,4). Pertanto, né per le chiacchiere dei filosofi, né per i cavilli degli eretici, né per la spada dei persecutori la Chiesa poté o potrà mai essere separata dalla carità di Dio che è in Cristo Gesù: tanto fortemente tiene colui che l’anima sua ama, tanto è cosa buona per lei. La saldatura è buona, dice Isaia (41,7). Che cosa vi è di più tenace di questo glutine che né si scioglie con l’acqua, né si dissolve con i venti, né si divide con le spade? Infine: Le grandi acque non possono spegnere l’amore (Cant 8,7). Lo strinsi, non lo lascerò. E il santo Patriarca: Non ti lascerò, dice, se prima non mi avrai benedetto (Gen 32,26). Così questa non vuole lasciarlo; e forse non lo vuole più che il Patriarca, perché non lo vorrebbe neppure in cambio di una benedizione; Giacobbe, infatti, ricevuta la benedizione lasciò andare l’Angelo, ma questa no. «Non voglio dice la tua benedizione, ma te: infatti chi altri avrò per me in cielo, e fuori di teche cosa bramo sulla terra (Sal 72,25)? Non ti lascerò anche se mi avrai benedetto».

 

5. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò. Forse neanche lui è meno contento di lei di essere tenuto stretto, dicendo di sé: Le mie delizie sono nello stare con i figli degli uomini (Pr 8,31), e questo lo promette dicendo: Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo (Mt 28,20). Che cosa di più forte di questa unione per cui di due si è formata una sola volontà? Lo strinsi fortemente, dice. Ma anch’essa da parte sua è tenuta da colui che essa tiene, e al quale dice: Hai tenuto la mia mano destra (Sal 72,24). Colei che é tenuta e tiene come potrà ormai cadere? Tiene con la fermezza della fede, tiene con l’affetto della devozione. Ma non terrebbe per molto tempo se non fosse essa stessa tenuta. È tenuta dalla potenza e dalla misericordia del Signore. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice. Grande la carità della Chiesa che non invidia neppure alla sua emula, la Sinagoga, le sue delizie. Quale maggiore benignità che essere disposta a comunicare anche alla rivale colui che è l’amato dell’anima sua? Non fa meraviglia, del resto, perchéla salvezza viene dai Giudei (Gv 4,22). Al luogo da cui era uscito ritorni il Salvatore, perché si salvi il resto di Israele. Non siano i rami ingrati alla radice, non i figli alla madre: non invidino i rami la radice, perché da essa sono germinati, non invidino la madre i figli perché hanno succhiato al suo seno. Tenga, pertanto, la Chiesa ben stretta la salvezza che la Giudea ha perduto: essa l’ha presa fino a che entri la pienezza dei Gentili e allora tutto Israele sia salvo. Voglia in comune che venga la comune salvezza, la quale, anche se partecipata da tutti non diminuisce per i singoli. Questo fa la Chiesa e più ancora. Che cosa di più? Essa augura alla Sinagoga il nome e la grazia di sposa. Questo è veramente più che la salvezza.

 

6. Incredibile carità, se non ne facessero fede le parole che essa ha detto. Ha detto, infatti, se ben ricordate, di voler introdurre colui che teneva stretto non solo nella casa della madre, ma anche nella camera nuziale, il che è prerogativa della sposa. Per la salvezza bastava che entrasse nella casa; ma il segreto della camera nuziale indica la grazia. Oggi, dice, la salvezza ê entrata in questa casa (Lc 19,9). Come non sarebbe venuta la salvezza per gli abitanti dal momento che il Salvatore era entrato in casa? Ma colei che merita di riceverlo nella stanza da letto ha a parte un suo segreto particolare. La casa abbia per sé la salvezza, per il talamo sono riservate delizie particolari. Lo introdurrò in casa di mia madre, dice. In quale casa se non in quella di cui preannunziava un giorno ai Giudei: Ecco la vostra casa sta per esservi lasciata deserta (Lc 13,35). Fece come aveva detto, come ne testimonia anche il Profeta: Io ho abbandonato la mia casa, ho ripudiato la mia eredità(Ger 12,7). E ora questa promette di ricondurlo e di restituire alla casa di sua madre la salvezza perduta. E se questo sembra poco, senti che cosa di buono aggiunge: e nella stanza della mia genitrice. Chi entra nel talamo è sposo. Grande potenza dell’amore! Il Salvatore indignato era uscito dalla sua casa e dalla sua eredità, ed ora per grazia di costei mitigato si piega tanto da ritornare non solo come Salvatore, ma come Sposo. Benedetta tu dal Signore, o figlia, che e freni l’indignazione e restituisci l’eredità. Benedetta tu per la tua madre, perché per la tua benedizione si allontana l’ira, ritorna la salvezza, ritorna colui che dice: Io sono la tua salvezza (Sal 34,3). Né basta questo, continui e dica: Ti sposerò a me nella fede, ti farò mia sposa nel diritto e nella giustizia, nella benevolenza e nell’amore (Os 2,18-19). Ma ricordati che colei che concilia questa amicizia è la sposa. Come, dunque, potrà cedere a un’altra lo Sposo, e un tale Sposo, o desiderarlo a un’altra? Certo di no. Lo desidera si, come buona figlia, alla madre, ma non’per cederlo, bensì comunicarlo. Basta uno per due, anzi non saranno più due, ma una sola in lui. Egli è la nostra pace, che fa dell’una e dell’altra una sola, perché sia un’unica sposa e un unico Sposo, Gesù Cristo nostro Signore che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXX

 

 

I. Ritorno al senso morale; rapporto di parentela fra anima e Verbo. II. Il Verbo ha molto più dell’anima e la rettitudine e la grandezza non sono affatto possesso proprio dell’anima, come del Verbo. III. Dimostrazione che l’anima differisce dalla sua grandezza. IV. Contro la perversità di coloro che dicono che la divinità non è Dio, e riprovazione del commento che fa Gilberto Porata sul De Trinitate di Boezio.

 

 

I. 1. Ho saputo che alcuni di voi pur provando piacere nello stupore e nell’ammirazione dei misteri trattati si lamentano che il nostro discorso sia stato o per nulla, condito, o con pochissimo sale di applicazioni morali. E questo contro l’abitudine. Ma non si può rivedere quello che è stato detto. Non vado avanti se non riparo tutto. Su, dite se vi ricordate da quale passo della Sacra Scrittura ha avuto inizio questa deficienza, perché io ricominci di là. Tocca a me risarcire i danni, anzi al Signore, dal quale dipendiamo in tutto. Di dove, dunque, devo ricominciare? Forse dal passo: Nel mio letto per notti ho cercato l’amato dell’anima mia? Se non erro, è di qui. Solo di li in poi ho avuto a cuore di porre in luce le segrete delizie di Cristo e della Chiesa, districando la caligine spessa di queste allegorie. Dunque, torniamo indietro per indagare il senso morale:. non deve, infatti, esservi gravoso ciò che è nel vostro interesse. Questo avverrà veramente se le cose che abbiamo detto riguardo a Cristo e alla Chiesa le applichiamo al Verbo e all’anima.

 

2. Ma mi dirà qualcuno: «Perché tu unisci queste due cose? Che relazione c’è tra l’anima e il Verbo?». Molte sotto ogni aspetto. Dapprima perché vi è tanta parentela tra le nature, sicché come il Verbo è immagine di Dio essa è creata a immagine di lui. E poi perché la parentela è attestata dalla somiglianza. L’anima, infatti, è stata fatta non solo a immagine ma anche a somiglianza di Dio. Simile in che cosa? domandi. Senti prima riguardo all’immagine. Il Verbo è verità, è sapienza, è giustizia: e questa è immagine. Di chi? Della giustizia, della sapienza, della verità. È, infatti, questa Immagine giustizia della giustizia, sapienza della sapienza, verità della verità, quasi luce da luce, Dio da Dio. L’anima non è nessuna di queste cose perché non è immagine. È, tuttavia, capace di esse e le desidera; e di qui forse essa è fatta a immagine. Eccelsa creatura che presenta nella capacità un’impronta della maestà, e nel desiderio una tendenza alla rettitudine. Leggiamo che Dio ha fatto l’uomo retto, che equivale a grande: lo prova la capacità, come si è detto. È necessario, infatti, che ciò che fu fatto a immagine, convenga con l’immagine, e non partecipi invano il nome di immagine, come neanche la stessa immagine è cosi chiamata solo per un vano e vuoto nome. Sappiamo di colui che è immagine che pur essendo Figlio di Dio non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio (Fil 2, 6). Qui è accennata la sua rettitudine anche nella forma di Dio, e la maestà nell’uguaglianza affinché mentre si paragona la grandezza alla grandezza e la rettitudine alla rettitudine, appaia che corrispondono tra di loro sia ciò che è secondo l’immagine, sia l’immagine, come anche l’immagine corrisponde nell’uno e nell’altro a colui di cui è immagine. Egli è colui del quale il santo re Davide canta nei Salmi: Grande è il Signore onnipotente (Sal 146,5), e altrove: Retto è il Signore nostro Dio, in lui non c’è ingiustizia (Sal 91,16). Da questo Dio retto e grande deriva che la sua immagine è anch’essa retta e grande; deriva anche che l’anima è anch’essa retta e grande perché fatta a sua immagine.

 

II. 3. Ma dico: Dunque l’immagine non ha nulla più dell’anima, che è fatta a immagine, poiché anche a questa assegniamo la grandezza e la rettitudine? L’immagine ha molto di più. Questa ha ricevuto a uguaglianza, mentre l’anima in certa misura. Nulla più di questo? Nota ancora: l’anima ha ricevuto la rettitudine e la grandezza per la creazione o per degnazione; l’Immagine l’ha per generazione. E questo è cosa molto più grande certamente. Ma non si neghi che è anche più eminente il fatto che avendo questo l’anima da Dio, il Verbo abbia l’una e l’altra cosa per partecipazione di Dio, cioè dalla sua sostanza. È, infatti, l’immagine di Dio a lui consustanziale, e tutto ciò che sembra impartire a questa sua immagine è a Dio e alla sua immagine sostanziale, non accidentale. Bada ancora a una cosa in cui l’immagine si differenzia non poco per la sua eminenza. La grandezza e la rettitudine sono due cose per natura differenti: ora nell’immagine sono una cosa sola, né questo solo, ma sono una cosa sola con l’Immagine. Per l’immagine, infatti, non solo è lo stesso l’essere retto e l’essere grande, ma anche essere semplicemente è lo stesso che essere retto e grande.Per l’anima non è così, la sua grandezza e la sua rettitudine sono diverse da essa e diverse tra di loro. Se, infatti, come ho detto sopra, l’anima è grande in quanto capace di cose eterne, e se è retta in quanto aspira a cose superne, quella che non cerca né gusta le cose di lassù ma quelle della terra non è davvero retta, ma curva, senza cessare però per questo di essere grande perché continua ad essere capace dell’eternità. Né sarà, infatti, non capace di essa, anche se non la conterrà mai, perché sia come è scritto: L’uomo passa come immagine (Sal 38,7); in parte, tuttavia, perché appaia l’eminenza del Verbo per la stessa integrità. Come, infatti, può il Verbo cessare di essere grande e retto se queste due cose si confondono con la sua essenza? L’anima, invece, può cessare di essere tale almeno in parte, perché se non lo fosse più del tutto, non vi sarebbe più speranza di salvezza; se, infatti, cessa di essere grande, cessa anche la capacità: dalla capacità, infatti, si stima la grandezza dell’anima. Ma che cosa potrebbe sperare di cui non fosse capace?

 

4. Pertanto, per la grandezza che ritiene anche dopo aver perso la rettitudine l’uomo passa come immagine, quasi zoppicando da un piede, e divenuto figlio adulterino. Penso, infatti, che di tali sia stato detto: I figli adulteri negarono fede a me, i figli adulteri sono alla vecchiaia e zoppicando van fuori dalla loro strada (Sal 17,46). Bene sono stati chiamati figli adulteri; figli, infatti, perché hanno conservato la grandezza; adulteri perché hanno perso la rettitudine. Né avrebbe detto zoppicando ma cadendo, o qualcosa di simile, se avessero perso completamente l’immagine. Ora, invece, secondo la grandezza l’uomo passa come immagine; in quanto poi alla rettitudine quasi zoppicando si conturba e deturpa l’immagine, come dice la Scrittura: L’uomo passa come immagine, e in più si conturba invano (Sal 38,7). Invano, davvero, perché segue: Tesoreggia e non sa per chi egli metta da parte (Sal 38,7). Perché non sa se non perché chinandosi a queste cose infime e terrene si tesoreggia della terra? Ignora del tutto circa quelle cose che affida alla terra, per chi egli mette da parte, per la tignola che distrugge o per il ladro che scassina o per il fuoco che divora. Di qui quel lamento del salmo messo in bocca all’uomo che si curva quasi a covare le cose che sono nella terra: Sono divenuto miserabile e incurvato fuori misura, e me ne andavo tutto il giorno carico di tristezza (Sal 37,7). Così in se stesso sperimenta la verità di quella sentenza del Saggio: Dio ha fatto l’uomo retto ma egli si implica in molti dolori (Eccli 7,30). E subito la voce del ludibrio: Curvati che noi ti passiamo sopra (Is 51,23).

 

III. 5. Ma di dove siamo venuti qua? Di là dove volevamo dimostrare che la rettitudine e la grandezza con questi due beni avevamo definito l’immagine nell’anima non sono una cosa sola, né formano una cosa sola nell’anima, mentre abbiamo insegnato the nel Verbo e con il Verbo esse sono un’unica cosa. Così da quanto abbiamo detto risulta che la rettitudine è diversa cosa dall’anima e differisce pure dalla grandezza dell’anima, in quanto anche se non c’è l’anima resta con la sua grandezza. Ma come mostreremo la diversità tra l’anima e la grandezza? Non si può dimostrare allo stesso modo della rettitudine, perché l’anima non può essere priva come della rettitudine così della grandezza. L’anima, tuttavia, non è la sua grandezza. Poiché, se l’anima non si trova senza la sua grandezza, questa tuttavia si trova separata dall’anima. Chiedi dove si trova? Negli Angeli. Sia, infatti, la grandezza dell’Angelo, sia quella dell’anima si prova dal fatto che sia capace dell’eternità. Che se si prova la differenza dell’anima dalla sua rettitudine dal fatto che possa esistere senza di essa, perché non sarà diversa l’anima dalla sua grandezza se non può ritenere questa come esclusivamente sua? Poiché, dunque, la rettitudine non è in ogni anima, né la grandezza in essa sola, è chiaro che tutte e due differiscono da essa. Così pure: nessuna forma è ciò di cui è forma. Ora, la grandezza è la forma dell’anima. Né è a questo un ostacolo il fatto che è inseparabile da essa. Sono, difatti, così tutte le differenze sostanziali, così non solo le propriamente proprie, ma anche certe proprie, così altre innumerevoli forme. L’anima non è, dunque, la sua grandezza, non più che il colore nero sia il corvo, che il candore sia la neve, che la risibilità o la razionalità sia l’uomo, pur non esistendo corvo che non sia nero, né neve senza candore, né uomo che non sia risibile e razionale. Così l’anima e la grandezza dell’anima anche se inseparabili, sono diverse tra loro. Come non diverse mentre la grandezza è nel soggetto, e l’anima è il soggetto e la sostanza? Solo la somma e increata natura che è Dio-Trinità si attribuisce questa pura e singolare semplicità della sua essenza per cui in essa non si trova una cosa e un’altra cosa, non un posto e un altro posto, non un tempo e un altro tempo; rimanendo, infatti, in se stessa essa è ciò che ha, e ciò che è lo è sempre e nella stessa maniera. In essa molte cose si riducono a una sola, e cose diverse nella medesima cosa, sicché non acquista pluralità dal numero delle cose, né sente alterazione dalla loro varietà. Contiene tutti i luoghi e dispone ogni cosa al posto suo, senza essere mai contenuta da luogo alcuno. I tempi passano sotto di essa, non per essa. Non aspetta futuro, non ripensa al passato, non sperimenta le cose presenti.

 

IV. 6. Lungi da voi, o carissimi, lungi i nuovi non dialettici ma eretici, i quali empiamente sostengono che la grandezza per cui Dio è grande, e così la bontà per cui è buono, e la sapienza per cui è sapiente, la giustizia per cui è giusto, in ultimo la divinità per cui è Dio non sono Dio. «Per la divinità, dicono, Dio è Dio, ma la divinità non è Dio». Forse non si degna di essere Dio, essa che è tanto grande da fare Dio? Ma se la divinità non è Dio, che cosa è? O infatti è Dio, o qualche cosa che non è Dio, o non è nulla. Ora tu dici che non è Dio, ma ammetti che non può essere nulla, perché senza di essa Dio non può essere Dio, e per essa lo è. E se è qualche cosa che non è Dio, o sarà minore di Dio, o maggiore o pari a lui. Come, pertanto, potrà essere minore di Dio, se per essa egli è Dio? Resta che sia maggiore o uguale. Ma se è maggiore di Dio è essa il sommo bene, non Dio; se è pari a Dio vi sono allora due sommi beni, non uno solo; e il sentimento cattolico non accetta né l’una né l’altra cosa. Quello che si è detto della divinità si dica pure della grandezza, della bontà, della giustizia e della sapienza. Esse sono una cosa sola in Dio e con Dio. Né egli è buono per altra ragione da quella per cui è grande, né è giusto o sapiente per motivo diverso da quello per cui è grande e buono; né è insieme tutte queste cose per la stessa ragione per cui è Dio; e non c’è altra ragione per cui è Dio che lui stesso.

 

7. Ma dice l’eretico: «Che? Neghi che per la divinità Dio è Dio». «No; ma sostengo che la divinità per cui è Dio è parimenti Dio, per non dire che c’è qualcosa di più eccellente di Dio. Così per la grandezza lo dico grande, ma quella grandezza è lui stesso, per non porre qualcosa di più grande di Dio; e per la bontà lo confesso buono, ma non altra bontà diversa da quella che egli è,’ per non sembrare di aver trovato qualcosa migliore di lui, e così nella stessa maniera degli altri divini attributi. Sicuramente e volentieri cammino a piede sicuro, come si dice, in quella sentenza: «Dio non è grande se non per quella grandezza che è quello che è lui. Diversamente quella sarebbe una grandezza più grande di Dio». Agostino è qui il validissimo martello degli eretici. Per parlare più propriamente di Dio si dovrebbe dire più giustamente e più convenientemente: «Dio è la grandezza, la bontà, la giustizia, la sapienza» piuttosto che dire: «Dio è grande, buono, giusto e sapiente».

 

8. Perciò non senza ragione nel Concilio che Papa Eugenio ha celebrato a Reims, sia a lui come agli altri vescovi è apparsa perversa e del tutto sospetta l’opinione espressa nel libro di Gilberto, vescovo di Poitiers, con cui, commentando le parole di Boezio sulla SS. Trinità, parole sante e conformi alla dottrina cattolica, si esprimeva in questo modo: «Il Padre è verità, cioè vero; il Figlio è verità, cioè vero; lo Spirito Santo è verità, cioè vero. E questi tre insieme non tre verità ma una sola verità, cioè un solo vero». Spiegazione oscura e perversa! Come avrebbe detto più veramente e più correttamente per il contrario: «Il Padre è vero, cioè verità; il Figlio è vero, cioè verità; lo Spirito Santo è vero, cioè verità. E questi tre un solo vero, cioè una sola verità». Avrebbe fatto questo se si fosse degnato di imitare san Fulgenzio il quale dice: «Una sola verità, infatti, in un solo Dio, anzi una sola verità, un solo Dio non permette che si congiunga il servizio e il culto del Creatore e della creatura». Buon correttore che parlava veracissimamente della verità, che sentiva veramente e cattolicamente della vera e pura semplicità della divina sostanza, nella quale non vi può essere nulla che non sia essa stessa, come essa stessa è Dio. In altri passi quel libro del vescovo predetto sembra discostarsi ancora più chiaramente dalla retta fede. Infatti, alle parole dell’autore: «Quando si dice Dio, Dio, Dio, questo appartiene alla sostanza», il nostro commentatore spiega: «Non quella che è ma quella per cui è». Questo non può accettare la Chiesa cattolica, che cioè vi sia una sostanza o qualsiasi altra cosa per cui Dio è che non sia Dio.

 

9. Ma ormai non parliamo più contro il vescovo Gilberto in quanto egli nello stesso Concilio, accettando umilmente il parere dei vescovi, condannò con la propria bocca sia queste sia le altre affermazioni degne di riprensione; ma diciamo queste cose per coloro che ancora si dice leggano o trascrivano quel libro, promulgato contro la proibizione della Santa Sede, persistendo nel seguire con ostinazione il vescovo nell’opinione ormai da lui rigettata, e preferendo averlo maestro nell’errore più che nella correzione. Non solo ma anche per voi, prendendo occasione dalla differenza tra l’immagine e l’anima che è stata fatta a immagine, ho creduto che valesse la pena fare questa digressione, perché se alcuni avessero bevuto dalle acque furtive che sembrano più dolci, presa la medicina siano provocati al vomito, purgato lo stomaco della mente possano disporsi ad attingere, con gioia ormai, cose più pure in quello che, secondo la nostra promessa, ci resta da dire sulla somiglianza, e questo non dalle nostre ma dalle sorgenti del Salvatore, Sposo della Chiesa, Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXXI

 

 

I. Soprattutto in questo c’è la somiglianza dell’anima col Verbo: per lui essere è vivere come per il Verbo essere è vivere nella beatitudine. II. I diversi generi di viventi, fra i quali solo per l’anima essere è vivere, e che cosa essa riceve nella sua condizione. III. L’anima è immortale ma non come il Verbo; la sua triplice vicinanza al Verbo, cioè la semplicità, la perpetuità e la libertà e in che consista la sua libertà. IV. La libertà dell’anima è ridotta in schiavitù per il peccato. V. Legge di Dio e legge del peccato, che sono nella stessa anima e nella volontà.

 

 

I. 1. È stato chiesto quale affinità ci sia tra l’anima e il Verbo. Era una domanda necessaria. Quale relazione c’è, infatti, tra una così grande maestà e una povertà così estrema, così che vengono presentate vicendevolmente avvinte a guisa e con amore di sposi quella sublimità e questa umiltà quasi si trattasse di eguali? Se, infatti, è vero quello che diciamo c’è in questo motivo di molta letizia e fiducia: se non fosse vero la nostra sarebbe un’audacia degna di grande punizione. Perciò c’era bisogno di investigare su questa affinità: già se n’è detto molto, ma non tutto. Chi vi è mai che sia così sciocco da non vedere come stiano vicine l’immagine e ciò che è secondo l’immagine? Il discorso di ieri, se ricordate, ha assegnato una cosa a una di esse, e l’altra all’altra, cioè il Verbo essere l’immagine e l’anima essere fatta a immagine di Dio. Ma non solo si è dimostrata la vicinanza quanto all’immagine, ma anche quanto alla somiglianza, sennonché non è ancora stato detto chiaramente in che cosa o in quali cose consista la stessa somiglianza. Dunque, cerchiamo di dare questa spiegazione affinché quanto più pienamente l’anima conoscerà la sua origine, tanto più si vergogni di condurre una vita degenere, anzi si sforzi di riformare con la sua industria quello che scorgerà viziato dal peccato nella natura, perché comportandosi come conviene alla sua parentela, con la grazia di Dio si accosti con fiducia agli amplessi con il Verbo.

 

2. Rifletta, pertanto, che dalla sua somiglianza con la semplicissima natura divina deriva in essa quella naturale semplicità della sua sostanza per cui per lei essere equivale a vivere, anche se non equivale a vivere bene o beatamente, perché rimanga somiglianza, non uguaglianza. È un gradino vicino, ma un gradino. Non c’è, infatti, pari eccellenza o pari grandezza nel fatto che per l’anima essere corrisponde a vivere, mentre per Dio essere è uguale a essere beato. Quest’ultima cosa compete al Verbo per la sua sublimità, l’altra all’anima per la somiglianza. Salva dunque l’eminenza del Verbo risulta chiaramente l’affinità delle nature e la prerogativa dell’anima. E perché questo sia più chiaro: solo per Dio essere equivale a essere beato: e questo è il primo e purissimo semplice. Il secondo è simile a questo, cioè avere l’essere equivale a vivere: e questo è dell’anima. Da questo, anche se di grado inferiore, si può salire non solo al vivere bene, ma anche beatamente: non che allora essere sia uguale a essere beato, per colui che sia pervenuto a quel punto da potersi gloriare per la somiglianza, in modo tale però che tutte le sue ossa sempre debbano dire, a causa della disparità: Signore, chi è simile a te? (Sal 34,10). Un buon gradino per l’anima, tuttavia, per il quale e solo per il quale si sale alla vita beata.

 

II. 3. Vi sono degli esseri viventi di due generi: quelli che sentono e quelli che non sentono. Quelli che sentono sono un poco più in su di quelli insensibili e agli uni e agli altri si antepone la vita per cui si vive e si sente. Non staranno parimenti sullo stesso gradino la vita e il vivente, e molto meno la vita e le cose che sono senza vita. Vita è l’anima vivente ma non da altrove che da se stessa; e per questo non tanto vivente quanto vita, per parlare propriamente di essa. Di qui è che infusa nel corpo lo vivifica perché sia corpo dalla presenza della vita, non vita ma vivente. Onde è chiaro che neanche per il corpo vivo vivere equivale ad essere potendo essere e non vivere affatto. Molto meno le cose prive di vita possono assurgere a questo grado. Ma neppure tutto quello che si dice o è vita potrà arrivare a questo punto. Vivono gli animali e vivono gli alberi, gli uni con i sensi, gli altri senza. Né agli uni né agli altri l’essere è lo stesso che vivere perché, come è opinione di molti, essi sono esistiti nei loro elementi prima che nelle loro membra o nei loro rami. Secondo questo quando cessano di vivificare cessano di vivere, ma non di essere. Si sciolgono e si dissolvono come un insieme di sostanze non soltanto legate, ma collegate. Ognuno di esse (animali o piante), infatti, non è un’unica cosa semplice, ma il risultato di più e perciò non viene ridotto al nulla, ma si scioglie in parti, di modo che ognuno torna al suo principio, per esempio l’aria nell’aria, il fuoco al fuoco, e così le altre cose. A una tale vita dunque non è la stessa cosa vivere ed essere, poiché continua ad essere quando più non vive.

 

4. Pertanto, nessuna di queste cose per le quali l’essere non equivalga al vivere potrà progredire e giungere un giorno alla vita buona e beata, non essendo arrivata neppure a quel primo grado. Solo l’anima dell’uomo che sta in esso è stata creata in tanta dignità, vita dalla vita, semplice dal semplice, immortale dall’immortale, da non essere lontana dal più alto gradino, che cioè essere equivale ad essere beato, nel quale sta il solo beato e il solo potente Re dei Re, e Signore dei dominatori. Ha ricevuto, pertanto, l’anima nella sua condizione, anche se non l’essere beata, il poter esserlo tuttavia; al sommo scalino si avvicina, perciò, quanto è lecito, senza però raggiungerlo. Poiché, neanche per essa l’essere equivarrà un giorno all’essere beata, anche quando sarà beata. Confessiamo che è simile, ma neghiamo l’uguaglianza. Per esempio, vita è Dio, vita è anche l’anima: simile sì, ma dispari. Simile in quanto vita, in quanto essa stessa vivente, in quanto non solo vivente, ma vivificante, come egli è tutte queste cose; dissimile, invece, in quanto creata dal creatore, dissimile perché come non sarebbe se non creata da lui, così non vivrebbe se non fosse da lui vivificata. Non vivrebbe dico, ma della vita spirituale, non naturale. Poiché della vita naturale necessariamente vive immortale anche quell’anima che spiritualmente non vive. Ma quale vita è mai quella nella quale sarebbe meglio non nascere che non da essa morire? È piuttosto una morte, e tanto più grave perché del peccato, non della natura. La morte dei peccatori è pessima (Sal 33,22). Così, dunque, l’anima che vive secondo la carne è morta, pur essendo viva, come quella a cui sarebbe stato bene non vivere piuttosto che vivere così. E da questa per così dire morte vitale non risorgerà mai, se non per il Verbo della vita, anzi per il Verbo-vita vivente e vivificante.

 

III. 5. Peraltro l’anima è immortale e in questo simile al Verbo, ma non uguale. L’immortalità di Dio, infatti, è talmente superiore che l’Apostolo dice di Dio: che solo ha l’immortalità (1 Tm 6,16). E questo io penso che sia detto perché è solo per natura incommutabile Dio colui che dice: Io sono il Signore, non cambio (Mal 3,6). Infatti, la vera e piena immortalità né subisce mutazione né ha fine perché ogni mutazione è una certa imitazione della morte. Ogni cosa, infatti, che cambia, mentre passa da uno a un altro essere, è in qualche modo necessario che muoia ciò che è, per cominciare ad essere ciò che non è. E se vi sono tante morti quante mutazioni, dov’è l’immortalità? E a questa caducità la stessa creatura è stata sottomessa non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa nella speranza (Rm 8,20). Tuttavia l’anima è immortale perché essendo essa vita a se stessa, come non può cessare di essere così non può cessare di vivere. Tuttavia, essendo provato che essa muta nei suoi affetti, riconosce che essa è simile a Dio nell’immortalità, ma che le manca una non piccola parte di questa immortalità, lasciando l’assoluta e perfetta immortalità a Dio solo, presso il quale non vi è alcuna mutazione né ombra di cambiamento. Tuttavia, da questa discussione è emersa la grande dignità dell’anima, che vediamo avvicinarsi per una certa doppia affinità di natura alla natura del Verbo, cioè per la semplicità dell’essenza e la perpetuità della vita.

 

6. Ma mi viene in mente una cosa che non voglio tralasciare: una cosa che non nobilita di meno l’anima e la rende non meno simile al Verbo, e forse anche di più. Questa è il libero arbitrio che è qualche cosa di divino che rifulge nell’anima, come una gemma nell’oro. Da questo deriva all’anima la conoscenza del giudizio, e la facoltà di scegliere tra il bene e il male, tra la vita e la morte e altre simili cose che similmente riguardo all’atteggiamento dell’animo sembrano opporsi tra loro. Tuttavia, in mezzo a loro quale arbitro censore questo occhio dell’anima giudica e discerne, libero nella scelta come libero nel discernere. Perciò è chiamato anche libero arbitrio perché si occupa di queste cose secondo l’arbitrio della volontà. Di qui l’uomo diventa capace di meritare: tutto ciò, infatti, che avrai fatto di bene o di male che sei stato libero di non fare ti viene giustamente ascritto a merito. E come giustamente viene lodato non soltanto colui che poteva fare il male e non lo fece, così non è privo di cattivo merito sia chi fece il male che poteva non fare, sia chi poteva fare il bene e non lo fece. Dove non c’è libertà non vi è neppure merito. Perciò gli animali privi di ragione non hanno nessun merito, perché mancano sia di deliberazione, sia di libertà: agiscono per istinto, sono portati dall’inclinazione, guidati dall’appetito. Né, infatti, hanno giudizio secondo il quale giudicarsi e regolarsi, ma neppure possiedono lo strumento del giudizio, cioè la ragione. Perciò non sono sottoposti a giudizio, perché non giudicano. Per quale ragione si esigerebbe da essi una ragione che non hanno ricevuto?

 

IV. 7. Solo l’uomo non subisce dalla natura questa costrizione, e perciò egli solo tra gli animali è libero. E tuttavia, dopo il peccato subisce anch’egli una violenza, ma dalla volontà non dalla natura, di modo che neanche così viene privato dell’innata libertà. Ciò, infatti, che è volontario è libero. Col peccato avviene che il corpo corruttibile appesantisca l’anima, con l’amore, non con il peso-materiale. Poiché, per il fatto che l’anima di per sé non può rialzarsi, mentre da sé è stata capace di cadere, entra in causa la volontà la quale, resa languida per il corpo viziato e il vizioso amore resta prostrata e non ha disposizione per amore della giustizia. Così non so in quale pessima e strana maniera la volontà stessa, deteriorata dal peccato, si crea una necessità, necessità che essendo volontaria non può scusare la volontà, né la volontà essendo adescata può escludere una certa necessità. È, infatti, questa necessità in certo modo volontaria. È una certa violenza favorevole che adesca premendo e preme lusingando; per cui la volontà colpevole, una volta consentito al peccato, non può di per sé scuoterla da sé né scusarla con ragione. Da qui quelle parole di lamento e come uno che geme sotto il peso di queste necessità: Signore, dice, io soffro violenza, proteggimi (Is 38,14). Ma di nuovo, sapendo che non si lamentava giustamente con il Signore, essendo piuttosto in causa la sua propria volontà, guarda che cosa dice in seguito: Che cosa dirò e chi mi risponderà perché sono io che ho fatto questo (Is 38,15) (Volg.: poiché è lui che ha fatto questo). Sentiva il peso di un giogo che altro non era se non quello di una volontaria servitù, ed era si miserabile a causa di questa servitù, ma inescusabile perché si trattava di servitù volontaria. È, infatti, la volontà Che essendo libera si è fatta schiava del peccato acconsentendo al peccato; è la volontà che servendo volontariamente si tiene sotto il peccato.

 

8. «Bada a quello che dici», mi dirà qualcuno. «Tu dici volontario quello che consta già essere necessario?». «È vero che la volontà si è resa schiava, ma non è essa che si trattiene: è piuttosto trattenuta suo malgrado. Bene concedi almeno questo, che è trattenuta. Ma fa’ attenzione ché è la volontà quella che tu ammetti essere trattenuta. Tu dici che la volontà non vuole? Non può essere trattenuta la volontà se non vuole. La volontà, infatti, è di chi vuole, non di chi non vuole. Che se è trattenuta volendolo è essa che si trattiene. Che cosa potrà, dunque, dire e che cosa risponderà a Dio, dal momento che è essa che agisce? Che cosa ha fatto? Si è fatta schiava; perciò è detto: Chi fa il peccato è schiavo del peccato (Gv 8,34). Perciò, quando ha peccato, e ha peccato quando ha deciso di obbedire al peccato si è resa schiava. Ma è libera di non farlo più ancora. Ma lo fa ancora se resta nella stessa schiavitù. Se non vuole, infatti, la volontà non è costretta; è, infatti, volontà. Dunque, non solo si è resa schiava perché ha voluto, ma ancora si fa tale. Giustamente perciò, e bisogna spesso ricordarlo, chi risponderà per lei, dal momento che essa lo ha fatto e lo fa tuttora?».

 

9. «Ma non mi persuaderai, tu dici, che non esista questa necessità che io subisco, che sperimento in me stesso, e contro la quale continuamente io lotto». «Dove, di grazia, senti questa necessità? Non forse nella volontà? Dunque, non vuoi con poca fermezza ciò che vuoi anche necessariamente. Vuoi molto perché non puoi non volere, né lotti molto contro. Ora, dove è la volontà, ivi è la libertà. Questo dico della libertà naturale, non di quella spirituale, quella libertà per cui Cristo ci ha liberati (Gal 4,31). Di questa libertà l’Apostolo dice: Dove è lo Spirito ivi è la libertà (2 Cor 3,17). Così l’anima in malo e strano modo sotto questa in qualche modo volontaria e malamente libera necessità, è tenuta schiava e nello stesso tempo è libera: schiava per la necessità, libera per la volontà, e ciò che è più strano e misero è che essa è tanto più colpevole quanto più libera, tanto più schiava quanto più colpevole, e per questo tanto più schiava quanto più libera. Uomo infelice che io sono! Chi mi libererà dalla calunnia di questa vergognosa schiavitù? Infelice, ma libero, libero perché uomo, infelice perché schiavo, libero perché simile a Dio, infelice perché contrario a Dio. O custode degli uomini, perché hai posto me contro di te? (Gb 7,20). Mi hai posto, infatti, quando non l’hai impedito. Però sono io che mi sono posto contro di te, e sono divenuto grave a me stesso (Gb 7,20). Molto giustamente del resto, sicché il tuo sia anche il mio nemico, e colui che ripugna a te sia ripugnante anche a me. Io sono tale per te e per me; io che sono divenuto contrario a me stesso, e nelle mie membra trovo ciò che contraddice alla mia mente e alla tua legge.

 

V. Chi mi libererà dalle mie mani? Non faccio infatti quello che voglio (Rm 7,24), senza che io, non un altro, lo impedisca; e quello che non voglio, quello faccio (Rm 7,15-16), spinto da me stesso, non da un altro. E magari questo impedimento e questa spinta fosse così violenta da non essere volontaria. Forse così potrei trovare una scusa. Oppure fosse così volontaria da non essere violenta. In tal maniera potrei correggermi. Ora, invece, da nessuna parte c’è un’uscita per il misero che, come ho detto, la volontà fa inescusabile e la necessità incorreggibile. Chi mi libererà dalla mano del peccatore, dalla mano dell’iniquo che agisce contro la legge?

 

10. Qualcuno domanderà di chi mi lamento. Di me. Io sono quel peccatore, quel fuorilegge, quell’iniquo: peccatore perché ho peccato, fuorilegge perché con la volontà persisto nell’agire contro la legge. Poiché la mia stessa volontà è legge nelle mie membra che recalcitra contro la legge divina. E poiché la legge del Signore è legge della mia mente, come sta scritto: La legge di Dio è nel suo cuore (Sal 36, 31), per questo anche a me stesso la mia volontà è trovata contraria, il che è grandissima iniquità. Per chi, infatti, non sono iniquo, se lo sono per me? Chi è iniquo per sé per chi sarà buono? (Eccli 14,5). Lo confesso, non sono buono perché in me non c’è il bene. Mi consolerò, tuttavia, perché anche i santi dicono così: So che in me non c’è il bene (Rm 7,18). Distingue, tuttavia, quell’«in sé» intendendo nella sua carne, per la legge contraria che esiste in essa. Poiché ha una legge anche nella mente, e questa è migliore dell’altra. Non è, forse, buona la legge di Dio? Che se è cattivo per la legge cattiva, come non sarà buono per la legge buona? O è sua la legge cattiva che è nella sua carne, e perciò cattivo per la legge cattiva, e non buono per la buona? Non è così: la legge di Dio è nella sua mente, e talmente nella mente che è anche della mente. Ne è testimone lo stesso che dice: Trovo un’altra legge nelle mie membra, contraria alla legge della mia mente (Rm 7,23). Forse è suo quello che è della sua carne, e non suo quello che è della sua mente? Io dico: a più forte ragione. Come non potrò dire quello che lo stesso maestro dice? Poiché servendo con la mente alla legge di Dio e con la carne alla legge del peccato, mostra quale ritiene maggiormente suo quando reputa così alieno da sé il male che è nella carne da dire: Pertanto non sono io a farlo, ma il peccato che abita in me (Rm 7,20). E forse appositamente chiama «un’altra legge» quella che sente nelle sue membra, quasi la ritenesse una legge avventizia ed estranea. Di qui io oso ancora dire qualche cosa di più, senza essere temerario: Paolo non è cattivo per il male che ha nella carne, ma è piuttosto buono per il bene che ha nella mente. Dato, infatti, che con la mente serve alla legge di Dio, e con la carne alla legge del peccato, quale di queste due cose pensi sia principalmente da imputare a Paolo, lo giudicherai tu. Quanto a me confesso di essere facilmente persuaso valere molto di più quello che è della mente che non quello della carne, e questo lo penso non solo io ma lo stesso Paolo, il quale dice: Se poi faccio il male che non voglio non sono più io che lo faccio, ma il peccato che abita in me (Rm 7,20).

 

11. Ma riguardo alla libertà basti quanto abbiamo detto. Nell’opuscolo che ho scritto sulla grazia e il libero arbitrio si leggono forse spiegazioni diverse circa l’immagine e la somiglianza, ma penso non siano contrarie a quelle qui esposte. Quelle le avete lette, queste udite, lascio al vostro giudizio quali siano da preferire; o se conoscete al riguardo qualche cosa di meglio delle une e delle altre ne godo e ne gioirò. Ma comunque stiano le cose per il momento tenete presenti queste tre cose come importanti: la semplicità, l’immortalità, la libertà. Da questo penso vi risulti già chiaro come l’anima, per la sua innata e schietta somiglianza che così risplende in queste cose, abbia una non piccola affinità con il Verbo Sposo della Chiesa Gesù Cristo Signore nostro che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXXII

 

 

I. Quale dubbio ancora rimane nelle cose già dette, che bisogna rivelare e delle parole dette a un tale: «Fino a che ti terrai questo, ecc.». II. La somiglianza di Dio nell’uomo, che secondo alcuni passi della Scrittura appare distrutta per il peccato, deve intendersi oscurata e confusa, tanto nella semplicità quanto nell’immortalità e libertà, e in che senso. III. Le cose avventizie dell’anima deturpano i beni naturali; quanto alla nascita e alla morte l’uomo è simile al giumento; per la restante parte della somiglianza può tuttavia avvicinarsi al Verbo.

 

 

I. 1. Che cosa vi sembra? Possiamo ormai tornare indietro per esporre l’ordine da dove siamo partiti, poiché è chiara l’affinità del Verbo e dell’anima, per dimostrare la quale abbiamo fatto questa digressione? Mi pare che potremmo, se non sentissi che resta qualche dubbio sulle cose che sono state dette. Non voglio defraudarvi di nulla. Non tralascio volentieri quello che credo a voi utile. Come oserei farlo, specialmente in quelle cose che io ricevo per voi? So di un uomo che, talvolta, parlando, si tratteneva qualche cosa di quello che gli suggeriva lo Spirito, riservandolo per avere qualche cosa da dire quando doveva nuovamente parlare, pur non facendolo con animo infedele, ma certo poco fiducioso. Ed ecco gli parve di udire una voce: «Fino a che ti terrai questo, non riceverai altro». Che cosa sarebbe successo se si fosse trattenuto qualche cosa non per provvedere alla sua povertà, ma perché geloso del profitto dei fratelli? Non gli sarebbe forse stato giustamente tolto anche quello che sembrava avere? Tenga lontano sempre il Signore questo dal vostro servo, come ha sempre fatto. Faccia egli che sia sempre così abbondante per me quella perenne fonte di sapienza salutare che vi ho sempre senza invidia comunicato, rifondendo a voi tutto quello che egli fino a ora si è degnato di infondere in me. Se io vi defraudo, da chi non temerò di essere defraudato? Neppure da Dio.

 

2. C’è, pertanto, in quello che è stato detto qualche cosa che, come io temo, può costituire un inciampo se non viene spiegato. E se non sbaglio, tra i qui presenti vi sono di quelli ai quali già mette scrupolo quello che voglio dire. Quella triplice somiglianza che abbiamo detto esservi tra il Verbo e l’anima, anzi di cui abbiamo detta insignita l’anima, vi ricordate come ci è sembrata anche inseparabile da essa? Questo sembra andare contro alcune testimonianze della Scrittura, come per esempio quella del Salmo: L’uomo nella prosperità non comprende, viene paragonato agli animali irragionevoli e diviene simile ad essi (Sal 48,21). E un altro passo: Scambiarono la loro gloria con l’immagine di un toro che mangia fieno (Sal 105,20); e anche ciò che è detto apertamente in persona di Dio: Hai stimato, o iniquo, che io fossi simile a te (Sal 49,21), e parecchi altri passi che sembrano concordemente asserire che la somiglianza con Dio dopo il peccato è stata distrutta. Che cosa dovremo dire a questo riguardo? Che quelle tre cose non ci siano in Dio, e così dobbiamo cercarne delle altre nelle quali porre questa somiglianza? Oppure che esse esistano in Dio, ma non nell’anima, e così neanche in esse si trovi la somiglianza? Oppure che esse siano nell’anima, ma possano anche non esserci, e per questo non siano inseparabili da essa? No affatto. Esse esistono in Dio e nell’anima, e vi sono sempre; né ci pentiamo di aver detto qualcosa del genere: così tutto è sostenuto da indubitata e assoluta verità.

 

II. Ma quello che la Scrittura dice della dissomiglianza avvenuta, non lo dice perché la somiglianza sia stata distrutta, ma perché è sopravvenuta la dissomiglianza. L’anima non si sveste della sua forma nativa, ma ne riveste una estranea, la quale viene aggiunta senza che la prima sia perduta? e quella che sopravviene ha potuto oscurare quella innata, ma non distruggerla. Si è oscurato il loro cuore insipiente, dice l’Apostolo (Rm 1,21), e il Profeta: Ah, come si è annerito l’oro, cambiato l’ottimo colore! (Lam 4,1). Piange l’oro divenuto scuro, oro tuttavia; mutato il suo ottimo colore ma non distrutto il fondamento del colore. Resta nel fondament9 la costante semplicità, ma non apparisce, coperta come è dalla doppiezza dell’umano inganno, dalla simulazione, dalla ipocrisia.

 

3. Come si mescola malamente la doppiezza con la semplicità! Come indegnamente si sovrappone tale struttura su tale fondamento! Di questa doppiezza si era rivestito il serpente quando, allo scopo di ingannare, si era presentato come consigliere, simulandosi amico. Similmente gli abitanti del paradiso, da lui sedotti, si erano di essa rivestiti quando cercavano di coprire la loro vergognosa nudità e con l’ombra di un albero frondoso, e con cinture di foglie, e con parole di scusa. Con quale ampiezza da allora in poi il veleno dell’ipocrisia, divenuto ereditario, infettò tutta la loro posterità! Chi troverai tra i figli di Adamo che non dico voglia, ma sopporti di apparire quello che è? Ma continua ciò nonostante ad esistere in ogni anima, con l’originale doppiezza, una generale semplicità, per cui al confronto cresce la confusione; rimane ugualmente l’immortalità, ma fosca e tetra, con l’irrompere della tenebrosa caligine della morte, ormai non riesce più ad assicurare il beneficio della vita al suo corpo. Ciò non stupisce, dal momento che non conserva per sé neppure la sua vita spirituale. L’anima, infatti, che avrà peccato morirà (Ez 18,4). Col sopraggiungere di questa duplice morte, quell’immortalità che l’anima conserva non viene forse resa abbastanza tenebrosa e miserella? Aggiungi che gli appetiti terreni che spingono tutti alla morte, rendono fitte le tenebre, sicché in un’anima così vivente nulla si vede apparire da qualche parte se non la pallida faccia e una certa immagine della morte. Perché, infatti, essa che è immortale non appetisce cose immortali ed eterne, perché apparisca quello che è e viva secondo il suo essere? Invece, ha gusti contrari e cerca cose opposte, e conformandosi alle cose mortali con una condotta degenere, tinge il candore dell’immortalità con una specie di colore di pece di una mortifera consuetudine. Perché l’appetito delle cose mortali non renderebbe essa che è immortale simile a un mortale, rendendola dissimile dall’immortale? Chi tocca la pece, dice il Saggio, ne rimarrà sporcato (Eccli 31,1). Godendo delle cose mortali si riveste di mortalità, e scolora, senza deporla, la veste dell’immortalità, per il sopravvenire della somiglianza della morte.

 

4. Pensa ad Eva come la sua anima immortale copri la gloria della sua immortalità con le vernice della mortalità, amando le cose mortali. Perché mai essendo immortale, non disprezzò le cose mortali e transitorie, contenta di quelle simili a lei immortali ed eterne? Vide, dice, che l’albero era bello a vedersi e buono da mangiare (Gen 3,6). Non è tua, o donna, questa soavità, questo diletto, questa bellezza, e se è tua per parte del tuo corpo di fango, non è soltanto tua ma l’hai in comune con tutti gli animali della terra. Quella che è veramente tua è un’altra ed ha un’altra origine: è, infatti, eterna, ed è dall’eternità. Perché tu imprimi nell’anima tua un’altra forma, anzi una deformazione che non è tua? Infatti, ciò che piace avere si teme di perderlo, e il timore è un colore. Questo, mentre tinge la libertà la ricopre e la rende per questo dissimile a se stessa. Quanto sarebbe più degno della sua origine che nulla bramasse e quindi nulla temesse, e così difendesse la sua innata libertà da ogni servile timore, conservandole il suo vigore e la sua bellezza! Ahimè, non è così: Mutato è l’ottimo colore. Tu fuggi e ti nascondi, senti la voce del Signore Dio e ti nascondi. Perché questo se non perché temi colui che amavi, e la forma di schiava ha ricoperto la bellezza della libertà?

 

5. Ma anche quella volontaria necessità e la legge contraria inflitta alle membra, della quale ho parlato nel sermone precedente, incide sulla libertà e, mentre seduce, rende schiava per propria volontà la creatura libera per natura, coprendo la sua faccia di ignominia, sicché serva almeno con la carne alla legge del peccato, anche non volendo. Poiché, dunque, ha trascurato di difendere con la probità dei costumi la libertà della natura, per giusto giudizio del Creatore avvenne non che fosse spogliata dalla propria libertà, ma che fosse sovravestita di vergogna come di un mantello (Sal 108,29). E ha detto bene: come di un mantello, doppia veste, il che prova che rimane la libertà per la volontà, e insieme vi è la necessità dimostrata dalla condotta servile. Questo è da notare riguardo alla semplicità e immortalità dell’anima; e se consideri bene nulla ti apparirà in essa che non sia coperto da questa duplice veste della somiglianza e della dissomiglianza. Non è forse una veste doppia dove non innata, ma appiccicata e quasi cucita con l’ago del peccato viene sovrapposta la frode alla semplicità, la morte all’immortalità, la necessità alla libertà? Né la duplicità del cuore porta pregiudizio alla semplicità dell’essenza, né all’immortalità della natura la morte o i volontari peccati, o le necessità del corpo; e neanche la necessità di una volontaria schiavitù pregiudica la libertà dell’arbitrio.

 

III. Pertanto, quando queste cose avventizie non succedono, ma accadono ai beni della natura, li deturpano, ma non li distruggono. Quindi, l’anima non è più simile a Dio, non è più simile a se stessa. Quindi, viene paragonata alle bestie irragionevoli e diventa simile ad esse; di qui ancora quello che si legge, di avere essa scambiato la sua gloria con l’immagine di un toro che mangia fieno. Quindi gli uomini, come le volpi, hanno la fossa della duplicità e della frode; e siccome si sono fatti simili a volpi avranno parte con loro; quindi, secondo Salomone, è uguale la fine dell’uomo e delle bestie (Eccli 3,19). Perché non avere la medesima fine quando è stata medesima la vita? Come le bestie l’uomo si è buttato sulle cose terrene, come le bestie lascia la terra. Senti un’altra cosa: che c’è di strano se abbiamo una medesima fine avendo un simile principio? Da dove hanno gli uomini se non dalla somiglianza cori le bestie, e l’intemperante ardore sessuale e il dolore così vivo nel parto? Così l’uomo, nel concepimento e nella nascita, nella vita e nella morte, è paragonato agli animali irragionevoli ed è divenuto simile ad essi.

 

6. Perché mai una libera creatura non tiene soggetto a sé l’appetito e lo regge da padrone, ma lo segue e obbedisce come una schiava? Non si accomuna essa anche in questo agli altri animali che la natura non ha chiamati a libertà, ma ha creato schiavi per servire al loro ventre e obbedire all’istinto? Non si vergogna Dio di mostrarsi o farsi stimare simile a una tale anima? Per questo dice: Hai stimato iniquamente che io sia simile a te (Sal 49,21), e continua: Ti rimprovero e ti pongo innanzi i tuoi peccati (ivi). Non può un’anima che vede se stessa stimare Dio simile a sé, un’anima almeno come la mia, peccatrice e iniqua. A una tale anima Dio, infatti, rivolge il rimprovero: Hai pensato iniquamente,non semplicemente; hai pensato che io sia simile a te. Ma se si pone l’iniquo davanti alla sua faccia, e si fermi davanti al volto malato e fetido del suo uomo interiore, di modo che gli sia impossibile distogliere lo sguardo o dissimulare l’impurità della sua coscienza, ma veda anche suo malgrado l’immondezza dei suoi peccati, e scorga la deformità dei suoi vizi, certamente non potrà pensare che Dio sia simile a sé; ma quasi scoraggiato per tanta dissomiglianza penso che esclamerà: Signore, chi mai è simile a te? (Sal 34,10). Il che va detto per quella volontaria e recente dissomiglianza. Resta, infatti, la primitiva somiglianza; e perciò il fatto che questa resta fa sì che l’altra dispiaccia maggiormente. Oh, che gran bene è questa e che gran male è quella! Mettendole a confronto ciascuna delle due risalta di più nel suo genere.

 

7. Quando, dunque, l’anima scorge in sé sola tanta distanza di cose non può fare a meno di gridare tra la speranza e la disperazione: Signore, chi è simile a te? È trascinata alla disperazione per un così gran male,ma è richiamata alla speranza da tanto bene. Ne viene che più prova dispiacere per il male che vede in sé, tanto più ardentemente è-attratta verso il bene che parimenti scorge in sé e brama di diventare quello per cui è stata fatta, semplice e retta, timorata di Dio e aliena dal male. Certamente essa può distaccarsi da ciò a cui ha potuto aderire. Certamente può ritornare là da dove si era allontanata. Questo, però, dico che può farlo con l’aiuto della grazia, non con la sola natura e neppure con la sua industria. Infatti la sapienza vince la malizia (Sap 7,30), non l’industria o la natura. Né manca l’occasione di sperarlo: essa si rivolge al Verbo. La generosa affinità dell’anima con il Verbo non rimane senza effetto. Di essa abbiamo già trattato, e ne rende testimonianza la perseverante somiglianza. Egli si degna di ammettere alla comunione dello Spirito quella che gli è simile per natura. E certamente, per ragione di natura il simile cerca il simile. Voce di uno che cerca: Ritorna, Shulammita, ritorna, perché ti vediamo (Cant 7,1). Sarà veduta simile colei che non vedeva più colui che non le era simile; ma si farà vedere anche lui. Sappiamo che quando apparirà saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è (1 Gv 3,2). Pensa, dunque, che quella domanda: Signore chi è simile a te? più che da impossibilità, è motivata dalla difficoltà.

 

8. O se meglio ti piace, è una espressione di ammirazione. Ammirabile veramente e stupenda è quella somiglianza che accompagna la visione di Dio, anzi che è la visione di Dio, io lo dico nella carità. La carità è quella visione, è quella somiglianza. Chi non sarà stupito vedendo Dio disprezzato che richiama? Giustamente è tacciato come iniquo colui di cui sopra si è parlato, il quale pretende di essere simile a Dio, mentre, amando; l’iniquità non può amare né se stesso, né Dio. Così, infatti, sta scritto: Chi ama l’iniquità odia la sua anima (Sal 10,6). Tolta, pertanto, di mezzo l’iniquità, che costituisce la parziale dissomiglianza, vi sarà l’unione dello spirito, vi sarà la mutua visione e la mutua dilezione. Venendo cioè quello che è perfetto, scomparirà quello che è imperfetto; e vi sarà una vicendevole casta e consumata dilezione, piena cognizione, visione manifesta, ferma unione, società inseparabile, somiglianza perfetta.

Allora l’anima conoscerà come è conosciuta; allora amerà com’è amata, e godrà lo Sposo per la sposa, conoscitore e conosciuto, amante e amato, Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXXIII

 

 

I. Come qualunque anima che voglia trasformarsi e uniformarsi a Lui, possa, in base a queste parole, ritornare ad aver fiducia nel Verbo. II. Come il sentimento dell’amore sia più potente degli altri. III. Lo Sposo ama prima e di più, per la sposa basta tuttavia se ama con tutta se stessa.

 

 

I 1. Per tre giorni, quanto l’ora regolare ha permesso, abbiamo impiegato il tempo assegnato per parlare a voi per dimostrare l’affinità tra il Verbo e l’anima. Quale utilità in tutto questo lavoro? Questa: abbiamo insegnato che ogni anima, anche se carica di peccati, irretita nei vizi, presa dalle lusinghe, prigioniera in esilio, nel carcere del corpo, aderente al fango, immersa nel pantano, legata alle membra, attanagliata dalle preoccupazioni, dissipata dagli affari, contratta dai timori, afflitta dai dolori, sbandata tra gli errori, ansiosa nelle sollecitudini, inquieta per i sospetti, in una parola pellegrina in terra di nemici, secondo la parola del Profeta, infetta in mezzo ai morti, destinata alla compagnia con quelli.che sono nell’inferno; per quanto così dannata e disperata, abbiamo detto che essa può notare in sé un motivo non solo di respirare nella speranza del perdono, nella speranza della misericordia, ma anche una ragione per osare aspirare alle nozze con il Verbo, per non trepidare di concludere con Dio un patto di alleanza, e non temere di sottoporsi al soave giogo di amore con il Re degli Angeli. Che cosa non oserà, infatti, senza timore presso colui della cui immagine si vede decorata, e della cui somiglianza illustrata? Che cosa avrà da. temere dalla maestà essa a cui è data fiducia a motivo della sua origine? Basta che abbia cura di conservare con l’onestà della vita la libertà della natura; anzi, cerchi di abbellire e ornare con i degni colori dei costumi e degli affetti il celeste decoro che possiede dall’origine.

 

2. Perché mai dovrebbe sonnecchiare l’industria? Essa è un grande dono fatto a noi dalla natura, che se non mette in opera le sue parti, il rimanente che la natura ha in noi sarà deturpato, e tutto verrà ricoperto da una specie di ruggine come roba vecchia. Questo reca ingiuria all’autore. Ed è per questo che l’autore, Dio stesso, ha voluto che nell’anima si conservasse in perpetuo il segno della divina generosità, perché questa abbia sempre in sé dal Verbo materia di ammonimento, per stare sempre con lui, o per tornarvi qualora se ne fosse allontanata. Non allontanata quasi passando a un altro luogo o camminando con i piedi, ma come si addice a una sostanza spirituale, la quale con gli affetti, anzi con i difetti peggiora da sé e si rende dissimile a se stessa con la cattiveria della condotta, rendendosi degenere, la quale dissomiglianza non è distruzione della natura ma vizio, che fa risaltare al paragone il bene stesso della natura, e nello stesso tempo lo contamina unendosi ad esso. Ora, poi, il ritorno dell’anima, la sua conversione al Verbo la porta a riformare se stessa per mezzo di lui e a conformarsi a lui. In che cosa? Nella carità. Dice, infatti: Siate imitatori di Dio come figli carissimi e camminate nell’amore come Cristo ha amato voi (Ef 5,1).

 

3. Tale conformità rende l’anima sposa del Verbo. Mentre si mostra simile per la volontà a lui al quale è simile per natura, amandolo come ne é amata. Dunque, se ama perfettamente è diventata sposa. Che cosa più dolce di tale conformità? Che cosa più desiderabile che la carità per la quale, o anima, non contenta del magistero umano, da te stessa accedi con fiducia al Verbo, aderisci costantemente a lui, lo interroghi con familiarità e lo consulti su ogni cosa, quanto capace di intelligenza altrettanto audace nel desiderio? Questo è veramente un contratto di spirituale e santo connubio. Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso veramente dove il volere e non volere le medesime cose ha fatto uno solo di due spiriti. Né vi è da temere che la diversità delle persone faccia zoppicare in qualche cosa la connivenza delle volontà, perché l’amore non conosce la riverenza. L’amore prende nome dall’amare, non dall’onorare. Onori pure colui che ha orrore, che si stupisce, che teme, che si meraviglia; tutte queste cose sono assenti in chi ama. L’amore é già di troppo di per sé. L’amore dove arriva, trasforma in sé e occupa tutti gli altri affetti. Perciò colui che ama ama e non conosce nient’altro. Egli stesso, il Verbo, che a buon diritto merita onore, che giustamente è oggetto di stupore e di meraviglia preferisce di più essere amato. Sono Sposo e sposa. Quale altro legame o relazione cerchi tra gli sposi fuori dell’essere amati e di amare?

 

II. Questo nesso vince anche quello cha la natura ha più strettamente unito, il vincolo tra i genitori e i figli. Per questo, dice la Scrittura, l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua sposa (Mt 19,5). Vedi come questo affetto negli sposi sia più potente degli altri affetti non solo, ma anche di se stesso.

 

4. Aggiungi che questo Sposo non solo ama, ma è amore. È, forse, onore? Dica pure qualcuno che lo è; io non l’ho letto. Ho, invece, letto cheDio è amore (1 Gv 4,16), e non ho letto che Dio è onore. Non che Dio non voglia l’onore, lui che dice: Se io sono Padre, dov’è il mio onore? (Ml 1,6). Questo è il Padre. Se, invece, si presentasse come Sposo, penso che cambierebbe parola e direbbe: «Se io sono Sposo, dov’è il mio amore?». Poiché anche prima aveva detto: Se io sono il Signore, dov’è il mio timore? (Ml 1,6). Esige, dunque, il Signore di essere temuto come Signore, di essere onorato come Padre, di essere amato come Sposo. Quale tra queste cose è la più grande, quella che sorpassa le altre? L’amore certamente. Senza di questo il timore ha la pena e l’onore manca della grazia. Il timore è servile quando non è accompagnato dall’amore. E l’onore che non viene dall’amore non è onore, ma adulazione. Eppure a Dio solo onore e gloria (1 Tm 1,17), ma Dio non accetterà nessuna delle due cose se non saranno condite con il miele dell’amore. Questo invece basta a se stesso, da sé piace e per sé. Esso è merito e premio a se stesso. Amo perché amo, amo per amare. Grande cosa è l’amore, se tuttavia ritorna al suo principio, se rinvenuto alla sua origine, se rifuso nella sua fonte, sempre da esso attingerà per sempre scorrere. L’amore è il solo dei movimenti dell’anima, sentimenti e affetti in cui la creatura può rispondere, anche se non alla pari, all’autore, di dargli un simile vicendevole contraccambio. Per esempio, se Dio sarà adirato con me, forse che io potrò essere adirato nello stesso modo con Lui? Certamente no, ma avrò paura, ma tremerò e chiederò perdono. E se mi rimprovera, non sarà sgridato da me, ma piuttosto sarà da me giustificato. Né se mi giudicherà, io giudicherò lui, ma lo adorerò: così, salvando me, non mi chiede di essere a sua volta salvato né viceversa ha bisogno di essere liberato da alcuno lui che libera tutti. Se domina, a me tocca servirlo; se comanda, io gli devo obbedire e non viceversa posso esigere dal Signore o servizio o ossequio. Ora vedi come la cosa è diversa per l’amore. Poiché quando Dio ama, altro non vuole se non essere amato, perché non ama per altro scopo se non per essere riamato, sapendo che per questo stesso amore saranno beati coloro che lo amano.

 

5. Grande cosa è l’amore; ma in esso vi sono dei gradi. La sposa sta sul più alto. Amano, infatti, anche i figli, ma pensano alla eredità, e quando temono in qualsiasi modo perderla, l’amore per colui dal quale l’aspettano diminuisce e si mescola al timore. Mi è sospetto quell’amore che sembra essere sostenuto dalla speranza di ottenere qualche cosa. È un amore debole, che se per caso quella speranza viene meno, o si spegne o per lo meno diminuisce. È impuro perché brama anche altre cose. L’amore puro non è mercenario. L’amore puro non prende forza dalla speranza, né d’altra parte sente i danni della diffidenza; è l’amore della sposa, perché questa è sposa, chiunque essa sia. Le cose della sposa e la sua speranza sono unicamente il suo amore. Di questo abbonda la sposa, di questo si accontenta lo Sposo. Né questi cerca altro, né essa altro ha. Per questo egli è Sposo ed essa è sposa. Questo è proprio agli sposi, non appartiene a nessun altro, neppure al figlio.

 

III. E poi ai figli grida: Dov’è il mio onore (Ml 1,6) e non: «Dov’è il mio amore», riservandone la prerogativa alla sposa. Ma anche si comanda all’uomo di onorare il proprio padre e la propria madre, e dell’amore non si fa parola: non perché i figli non debbano amare i genitori, ma perché molti figli sono più disposti a onorare i genitori che non ad amarli. Sia pure che l’onore del re è di amare la giustizia (Sal 98,4); ma l’amore dello Sposo, anzi lo Sposo-amore richiede in cambio solo amore e fedeltà. È dunque consentito alla diletta di ricambiare l’amore. Come non amerà la sposa, e sposa dell’Amore? Come non sarebbe amato l’Amore?

 

6. Giustamente rinunciando a tutti gli altri sentimenti si applica tutta e al solo amore côlei che deve rispondere allo stesso amore ricambiando l’amore. Poiché, quando si sarà tutta effusa nell’amore, che cosa è questo di fronte al perenne profluvio di quella fonte? Non scorrono certamente con uguale abbondanza l’amante e l’Amore, l’anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, il Creatore e la creatura, non diversamente che l’assetato e la fonte. Che dunque? Sarà per questo sprecato e del tutto vano il voto della futura sposa, il desiderio di lei che sospira, l’ardore dell’amante, la fiducia ardimentosa per il fatto che non può correre a pari con un gigante, contendere per dolcezza con il miele, per mansuetudine con l’agnello, per candore con il giglio, per splendore con il sole, per carità con colui che è carità? No. Poiché, anche se la creatura ama meno perché è inferiore, tuttavia, se ama con tutta se stessa nulla manca dove è tutto. Perciò, come ho detto, amare così equivale ad aver celebrato le nozze, perché non può amare così ed essere poco amata, e nel mutuo consenso dei due sta l’integro e perfetto connubio. A meno che qualcuno dubiti che l’anima sia dal Verbo amata prima e di più. Essa è del tutto prevenuta nell’amore e vinta. Felice colei che ha meritato di essere prevenuta con la benedizione di tanta dolcezza. Felice lei, a cui fu dato di sperimentare l’insieme di tanta soavità! Questo altro non è che l’amore santo e casto, l’amore soave e dolce, amore tanto sereno e sincero, amore vicendevole, intimo e forte, che unisce due non in una sola carne ma in un solo spirito e fa sì che due non siano più due ma una cosa sola, come dice Paolo: Chi aderisce a Dio forma con Lui un solo spirito (1 Cor 6,17). E ora piuttosto ascoltiamo lei su questo argomento, lei resa facilmente maestra su ogni cosa, sia dall’unzione maestra, sia dalla sua frequente esperienza. Ma forse è meglio che riserviamo questo al principio di un altro sermone, per non restringere una cosa buona negli stretti limiti di questo che sta per finire. E se siete contenti finisco appunto prima del tempo affinché domani ci ritroviamo affamati a gustare le delizie dell’anima santa di cui merita, beata, di godere con il Verbo e a proposito del Verbo suo Sposo Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXXIV

 

 

I. Un gran bene sia cercare Dio, e a questo l’anima è prevenuta dallo Sposo quando la volontà viene ispirata. II. A quale anima spetta cercare il Verbo e che cosa significhi essere ricercata dal Verbo; all’anima incombe questa necessità non al Verbo.

 

 

I. 1. Nel mio lettuccio per notti cercai l’amato dell’anima mia (Cant 3,1). È un gran bene cercare Dio, io non lo considero secondo a nessuno dei beni dell’anima. È il primo tra i doni, ultimo nei profitti. Non si aggiunge a nessuna virtù, non lascia il posto a nessuna di esse. A quale virtù si pub aggiungere se nessuna lo precede? A quale è inferiore, essendo piuttosto la perfezione di tutte? Quale virtù, infatti, vi può mai essere in colui che non cerca Dio, o quale è la misura della ricerca di Dio? Cercate, dice, sempre il suo volto (Sal 104,4). Penso che neanche quando sarà stato trovato si cesserà di cercarlo. Non con passi materiali, ma Dio si cerca con il desiderio. E certamente non diminuisce l’acutezza del santo desiderio il fatto di averlo felicemente trovato, ma anzi io dilata. La consumazione della gioia è forse la distruzione del desiderio? È piuttosto un olio per esso: esso è, infatti, una fiamma. È così. Sarà colmata la letizia, ma non ci sarà fine per il desiderio, e per questo non si cesserà di cercare. Ma tu pensa, se puoi, a questa ricerca appassionata che non viene meno, e a questo desiderio che non rende ansioso: uno viene dalla presenza, l’altro è escluso dall’abbondanza.

 

2. Ora vedete perché ho promesso queste cose. Affinché ogni anima tra di voi che cerca Dio non cambi in un grande male un grande bene, e conosca di essere stata prevenuta in lui, e cercata prima che essa lo cercasse. Così, infatti, da grandi beni sono soliti nascere mali non meno grandi quando, resi illustri dai beni del Signore, usiamo di questi doni come se non li avessimo ricevuti e non diamo gloria a Dio. E così quelli che sembravano grandi per la grazia ricevuta, per non avere reso grazie a Dio vengono da lui reputati minimi. Ma io vi risparmio. Ho usato le parole più modeste con il massimo e con il minimo; ma quello che sento non l’ho espresso. Non ho chiarito bene la differenza, ma metterò a nudo le cose: avrei dovuto dire ottimo e pessimo, perché certamente uno diventa tanto più pessimo quanto più era ottimo, se ciò per cui è ottimo lo attribuisce a sé. Questa è pessima cosa. E se uno dice: Per carità! Io lo riconosco: Sono quello che sono per grazia di Dio (1 Cor 10,15), ma poi cerca di acquistarsi un po’ di gloria per la grazia che ha ricevuto, non è costui un ladro e un brigante? Uno che è cosa si sentirà dire: Dalla tua bocca ti giudico, servo malvagio (Lc 19,22). Che c’è di più malvagio del servo che si usurpa la gloria del suo Signore?

 

3. Nel mio lettuccio per notti ho cercato l’amato dell’anima mia. L’anima cerca il Verbo, ma se prima è stata cercata dal Verbo. Diversamente una volta uscita o cacciata dalla faccia del Verbo, il suo occhio non tornerà a vedere cose buone se non è cercata dal Verbo. Quasi che la nostra anima sia un soffio che va e non ritorna se è lasciata a se stessa. Senti come si lamenti e che cosa chieda un’anima profuga e andata fuori strada: Come pecora smarrita vado errando, cerca il tuo servo (Sal 118,176). O uomo, vuoi ritornare? Ma se è questione di volontà, perché chiedi aiuto? Perché vai mendicando altrove ciò di cui hai abbondanza. È chiaro che vuole e non può; ed è un soffio che va e non ritorna, anche se è più lontano chi non vuole neppure. Tuttavia non direi neanche che sia del tutto traviata o abbandonata quell’anima che desidera tornare e chiede di essere cercata. Da dove infatti le viene questa volontà? Se non sbaglio dal fatto che è già visitata e cercata dal Verbo, né questa è stata una vana ricerca in quanto ha influenzato la volontà, senza la quale il ritorno non era possibile. Ma non basta essere cercata una volta sola; è tanto grande la debolezza dell’anima e tanta la difficoltà del ritorno. Anche se vuole la volontà è a terra quando mancano le forze. Poiché ho sì la volontà ma nella pratica non riesco a fare il bene (Rm 7,18). Che cosa chiede, dunque, colui che abbiamo citato dal salmo? Certamente non altro che di essere cercato, e non lo chiederebbe se non fosse stato cercato, e non lo chiederebbe di nuovo se fosse stato cercato a sufficienza. Perciò chiede: Cerca il tuo servo, affinché colui che ha dato il volere dia anche di portare a compimento, secondo la buona volontà.

 

4. A me, tuttavia, sembra che non si adatti a un’anima del genere questo passo, a un’anima cioè che non ha ancora ricevuto la seconda grazia, che vuole si, ma non è in grado di raggiungere l’amato dell’anima sua. Come può, in fatti, adattarsi a una tale anima quello che segue: alzarsi, percorrere la città e cercare il diletto per le strade e le piazze, se ha bisogno essa stessa di essere cercata? Faccia questo quella che può farlo; solamente si ricordi che prima di cercare è stata cercata, come è stata prima amata, e che da questo dipende il fatto che cerca e che ama. Preghiamo anche noi, carissimi, perché presto ci vengano incontro queste misericordie, perché siamo troppo poveri; non lo dico di tutti noi. So, infatti, che molti di voi camminano nell’amore con cui Cristo ci ha amati, e lo cercano nella semplicità del cuore. Ma vi sono alcuni, lo dico con tristezza, che non ci hanno ancora mostrato in sé alcun indizio di questa così salutare anticipazione, e per questo neanche della loro salvezza; uomini che amano se stessi, non il Signore, e che cercano il proprio tornaconto, non l’interesse del Signore.

 

5. Ho cercato, dice la sposa, l’amato dell’anima mia. A questo ti spinge la benignità di lui che ti previene, che ti ha cercato per primo, e per primo ti ha amato. Tu non cercheresti affatto se prima non fossi stata cercata, né ameresti se non fossi stata amata prima. Sei stata prevenuta, non in una sola ma in due benedizioni, l’amore e la ricerca. L’amore è causa della ricerca, la ricerca è frutto dell’amore e ne dà anche la certezza. dei amata, perché non ti venga il sospetto di essere cercata per il supplizio; sei stata cercata perché non pensi di essere stata amata invano. L’una e l’altra cosa che ti è dolce constatare ti hanno dato l’ardire e hanno cacciato il timore, convincendoti del suo ritorno e accendendo in te l’affetto. Di qui lo zelo, di qui questo ardore nel cercare colui che l’anima tua ama, perché né avresti potuto cercarlo non essendo cercata, né ora, cercata, puoi non cercare.

 

6. Ma non dimenticare da dove sei arrivata qui. E per riferire piuttosto a me quanto sto per dire è, infatti, casa più sicura sei tu, anima mia, che un bel giorno abbandonato il tuo primo Sposo con il quale ti eri trovata bene, sei venuta meno alla tua prima fede andandotene dietro ai tuoi amanti. E ora, dopo aver trescato con loro a tuo piacimento, forse perché da loro sei stata disprezzata, osi impudentemente e sfrontatamente voler far ritorno a lui che superbamente hai disprezzato? E che? Degna delle tenebre cerchi la luce e corri allo Sposo, degna di essere fustigata piuttosto che dei suoi baci? C’è da stupirsi che tu non trovi un giudice invece di uno Sposo. Felice colui che a questi rimproveri sentirà l’anima sua rispondere: «Non temo, perché amo, e non lo farei se non fossi amata. Pertanto sono anche amata». Nulla da temere per la diletta. Temano quelle che non amano. Queste non possono fare a meno di sospettare inimicizie dappertutto. Ma io, amando, non posso dubitare di essere amata, più che non di amare. Né posso temere il volto di colui del quale ho sentito l’affetto. In che cosa? Nel fatto che egli ha cercato una come me, e mi ha amata, assicurandomi con questo di avermi cercata. Come non gli risponderò nel cercarlo anche da parte mia, mentre gli corrispondo nell’affetto? Si adirerà forse per essere cercato mentre anche disprezzato ha taciuto? Anzi non disprezzerà colei che lo ricerca, lui che la cerca quando lo disprezza. È benigno lo spirito del Verbo e preannuncia cose benigne per me, facendo presente e rendendomi persuasa circa lo zelo e il desiderio del Verbo che non può essere nascosto. Scruta le profondità di Dio, consapevole di quei pensieri di pace e non di afflizione che pensa. Come non sarei animata a cercarlo avendone sperimentata la clemenza, persuasa dei suoi pensieri di pace?

 

7. Fratelli, sentirsi suggerire questo equivale ad essere cercati dal Verbo, esserne persuasi equivale a trovarlo. Ma non tutti capiscono questo. Che cosa faremo per i nostri piccoli, parlo di quelli che sono principianti tra di noi, non insipienti però, poiché possiedono l’inizio della sapienza, vicendevolmente soggetti nel timore di Cristo? Da dove dimostreremo loro, dico, che le cose stanno veramente così nella sposa, non avendo essi ancora sperimentato in se stessi tali cose? Ma io li rimando a un tale a cui non potranno fare a meno di credere. Leggano nel Libro quello che non credono succedere in un altro cuore, per il fatto che non lo vedono. Sta scritto nei Profeti: Se un uomo ripudia la sua donna, che si allontana da lui e si unisce a un altro uomo, ritornerà egli mai da lei? Forse che una simile donna non é tutta contaminata? Ora tu hai fornicato con molti amanti; e tuttavia»ritorna a me, dice il Signore, e io ti accoglierò (Ger 3,1). Sono parole del Signore, non è lecito non credervi. Credano quelli che non ne hanno esperienza, perché per merito della fede conseguano un giorno il frutto dell’esperienza. Penso di aver chiarito a sufficienza in che cosa consiste l’essere cercato dal Verbo, e quale sia questa necessità, non per il Verbo, ma per l’anima, solo quella che ha sperimentato queste cose le conosce più a fondo e con maggiore felicità. Rimane da insegnare, nel seguente sermone, alle anime assetate, come cercare colui dal quale sono state cercate, o piuttosto impariamo da colei che in questo passo è descritta mentre cerca l’amato dell’anima sua, Sposo dell’anima Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXXV

 

 

I. Per quali motivi l’anima cerca il Verbo; ne elenca sette e per prima la correzione e la cognizione. II. Colui che spinge l’anima è trino; l’uomo deve guardarsi soprattutto da se stesso, e che cosa sia la virtù e come sia onnipotente colui che spera nel Cristo, al quale soltanto bisogna appoggiarsi per conseguire la virtù. III. Attraverso il Verbo siamo ricreati per la Sapienza, e la differenza fra sapienza e virtù. IV. Che cosa significhi conformarsi al Verbo per la bellezza, sposarlo per la fecondità, o goderne per la gioia, per quanto si può in questa vita.

 

 

I. 1. Nel mio lettuccio ho cercato l’amato dell’anima mia (Cant 3,1). A quale scopo? L’abbiamo detto, ed è superfluo ripeterlo, tuttavia per alcuni che erano assenti quando si parlava -di questo dico qualche cosa brevemente, che forse non riuscirà sgradito neanche a quelli che erano presenti. Del resto allora non si è potuto dire tutto. L’anima cerca il Verbo per accettarne la correzione, per essere illuminata nella sua conoscenza, per trovare un appoggio per la sua virtù, per riformarsi nella sapienza, per conformarsi a lui ed essere più bella, unirsi a lui ed essere feconda, godere di lui ed essere nella gioia. Per tutte queste ragioni l’anima cerca il Verbo. Non dubito che ve ne siano anche molte altre, ma queste mi sono venute qui «alla mente. Se a qualcuno interessa ne potrà notare in se stesso facilmente diverse altre. Sono, infatti, molte le nostre deficienze, molte e infinite le necessità dell’anima e le ansietà non si contano. Ma il Verbo più doviziosamente e pienamente sovrabbonda nei beni, in quanto Sapienza che vince la malizia, vince i mali con i beni. E adesso sentite la ragione di quelle che ho accennate. E per primo vedete come acconsenta alla correzione. Sentiamo come il Verbo nel Vangelo dice: Mettiti d’accordo con il tuo avversario mentre sei con lui in via, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia (Mt 5,25). Nulla di più prudente. È un consiglio del Verbo, se non erro, che si protesta Avversario, perché è contrario ai nostri desideri carnali mentre dice: Sono un popolo dal cuore traviato (Sal 94,10). Ma tu che ascolti queste cose, se, spaventato, comincerai a voler sfuggire all’ira che sta per venire, credo che sarai sollecito a metterti d’accordo con questo avversario che minaccia di intentarti una così terribile causa. Ma questo non è possibile se tu non ti metti in disaccordo con te stesso, se non ti fai avversario di te stesso, se non conduci un’aspra , continua e infaticabile lotta contro te stesso, e se non abbandoni le inveterate abitudini e le innate inclinazioni. E questo è duro. Se affronterai questo con le tue forze, sarà come se volessi fermare con un dito un torrente impetuoso, o volessi nuovamente far scorrere il Giordano all’indietro. Che cosa farai? Cerca il Verbo con cui metterti d’accordo, con la grazia sua. Fuggi a lui che é tuo avversario, perché tu per mezzo suo divenga uno cui egli non sia più contrario, perché lui che prima ti minacciava ti incoraggi, e sia per la tua conversione più efficace con l’infusione della sua grazia che non con un’intensa ira.

 

2. Questa è la prima necessità per cui, penso io, l’anima comincia a cercare il Verbo. Ma se ignori quello che vuole colui al quale già acconsenti con la volontà non si dirà di te che hai lo zelo di Dio, ma non secondo scienza? E perché tu non sottovaluti questo ricorda quanto dice la Scrittura, che cioè se qualcuno non lo riconosce neppure lui è riconosciuto (1 Cor 14,38). Vuoi sapere quello che ti consiglio in questa necessità? La stessa cosa che nella prima. Se ascolti il mio consiglio, anche adesso andrai dal Verbo, ed egli ti insegnerà le sue vie, perché non ti capiti che volendo, ma ignorando il bene, mentre corri tu non vada fuori strada e cominci a errare nel deserto, fuori dalla via giusta. Il Verbo infatti è luce: La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici (Sal 118,130). Sarai beato se dirai anche tu: Lampada ai miei passi la tua parola, luce sul mio cammino (Sal 118,105). Non è piccolo il profitto della tua anima la cui volontà si è cambiata, illuminata la ragione, perché possa volere e conoscere il bene. Nella prima cosa ha ricevuto la vita, nell’altra la vista: poiché volendo il male era morta, e ignorando il bene era cieca.

 

3. Ormai vive, ormai vede, ormai è fissata nel bene, con l’aiuto e l’opera del Verbo. Sta, innalzata dalla mano del Verbo, come su due piedi, la devozione e la cognizione. Sta in piedi, dico, ma consideri come detto a sé: Chi pensa di stare in piedi, badi di non cadere (1 Cor 10,12). Pensi tu che possa da sé stare in piedi lei che non ha potuto da sola alzarsi? Non penso. Perché? Dalla parola del Signore furono fatti i cieli (Sal 32,6) e la terra potrà stare senza il Verbo? Perché, dunque, se poteva stare, pregava un uomo della terra dicendo: Confermami con le tue parole (Sal 118,28), e lo dimostrava. È di lui quella frase. Mi avevano spinto per farmi cadere ma il Signore è stato il mio aiuto (Sal 117,13).

 

II. Chiedi chi sia colui che aveva dato questa spinta? Non è uno solo. Spinge il diavolo, spinge il mondo, spinge l’uomo. Chiedi chi sia questo uomo? È quello che è in ognuno di noi. Non stupirtene: l’uomo sospinge a tal punto e precipita se stesso, che tu non hai da temere che un altro ti spinga se ti guardi dalle tue stesse mani. Chi infatti, dice, vi potrà fare del male se sarete ferventi nel bene? (1 Pt 3,13). La tua mano è il tuo consenso. Se secondo i suggerimenti del diavolo o le insinuazioni del mondo non acconsentirai a cose non lecite e non userai le tue membra come arma di iniquità, né permetterai che il peccato regni nel tuo corpo mortale ti dimostrerai buon operatore del bene, al quale la malizia non ha recato danno, e forse ti ha piuttosto giovato. Sta scritto, infatti: Fa’ il bene, e avrai lode da essa (Rm 13,3). Sono rimasti confusi quelli che cercavano la tua anima; ma tu canterai: Se non prevarranno contro di me, allora sarò puro (Sal 18,14). Hai dato prova di grande virtù se, secondo il consiglio del Saggio, hai pietà della tua anima, se con ogni diligenza custodisci il tuo cuore, se, come raccomanda l’Apostolo, conservi casto te stesso. Diversamente, anche se guadagnassi tutto il mondo, ma ne riportassi danno alla tua anima, non ti riterremmo più un buon operaio, e neppure il Salvatore.

 

4. Sono dunque tre che insidiano l’uomo che sta in piedi: il diavolo, con il livore della sua malizia; il mondo, con il soffio della vanità; l’uomo, che spinge se stesso con il peso della sua corruzione. Spinge il diavolo, ma non fa cadere se tu gli neghi la collaborazione e l’assenso. Dice la Scrittura: Resistete al diavolo e fuggirà da voi (Gc 4,7). È questi colui che, invidioso, spinse e fece cadere quelli che stavano nel paradiso, ma perché non resistettero e gli acconsentirono. Questi è colui che, superbo, senza che alcuno lo tentasse, precipitò se stesso dal cielo, e anche perciò sappi che l’uomo è molto più incline a cadere in quanto gravato dal peso della propria sostanza. E c’è anche il mondo che spinge, il mondo tutto posto sotto il potere del maligno. Spinge tutti, ma fa cadere solo i suoi amici, cioè quelli che sono consenzienti a lui. Non voglio essere amico del mondo per non cadere: Poiché chi vuol essere amico di questo mondo si fa nemico di Dio (Gc 4,4), e nessuna caduta è più grave di questa. Da questo appare chiaro che colui che dà all’uomo la maggior spinta per farlo cadere è lui stesso, in quanto egli stesso può cadere, senza la spinta di alcun altro, e non può cadere per la spinta di altri se non c’è anche la sua. A quale di questi è da opporre maggior resistenza? A quest’uomo che è lui stesso, tanto più pericoloso quanto più interno, e basta vincere questo, dato che senza di esso gli altri non possono far nulla. Non senza ragione il Saggio loda chi domina il suo animo più di colui che espugna le città. Questo va molto bene per te: hai bisogno di forza, e non una forza qualunque, ma di una forza che ti venga dall’alto. Questa, infatti, se è perfetta, rende facilmente l’animo vincitore di sé, e così lo rende invincibile in tutto. È, infatti, un vigore dell’animo che non sa cedere per difendere la ragione o, se meglio ti garba, il vigore di un animo che sta immobile con la ragione o per la ragione; oppure così: vigore dell’animo che costringe o dirige tutto alla ragione.

 

5. Chi salirà al monte del Signore? (Sal 23,3). Chiunque si accingerà a raggiungere il vertice di questo monte, vale a dire la perfezione della virtù, saprà certamente come la salita sia ardua e lo sforzo inutile senza l’aiuto del Verbo. Felice quell’anima che, davanti agli sguardi degli Angeli ha dato di sé questo spettacolo e piena di gaudio li ha uditi esclamare a suo riguardo: Chi è costei che sale dal deserto, ricolma di delizie, appoggiata al suo diletto? (Cant 8,5). Diversamente sono vani i suoi sforzi se non si appoggia. In verità, anche appoggiandosi contro di sé, prende forza, e fatta più forte di se stessa sottometterà tutto alla ragione: l’ira, la paura, la bramosia, e la gioia, tutte queste cose guiderà come un buon cocchiere guida il suo cocchio, e sottometterà ogni affetto carnale e i sensi della carne ai consigli della ragione, in ossequio alla virtù. Come mai non sarebbe tutto possibile a chi si appoggia su di Lui che tutto può? Quanta fiducia in questa parola: Tutto posso in colui che mi conforta! (Fil 4,13). Nulla rende più splendente l’onnipotenza del Verbo che il fatto di rendere onnipotenti tutti quelli che sperano in Lui. E poi: Tutto è possibile a chi crede (Mc 9,22). Non è dunque onnipotente colui al quale tutto è possibile? Così l’animo, non se presuma di sé, ma se è confortato dal Verbo, può dominare se stesso, e non sarà dominato da alcuna ingiustizia. Così nessuna forza, nessun inganno, nessuna lusinga potrà abbattere chi sta in piedi o assoggettare chi domina, se è appoggiato al Verbo o rivestito di forza dall’alto.

 

6. Vuoi non aver paura di chi ti spinge per farti cadere? Non ti raggiunga il piede della superbia, e la mano di chi spinge non ti smuoverà. Là sono caduti i malfattori (Sal 35,13). Là il diavolo e i suoi angeli sono precipitati, i quali, sebbene non spinti dall’esterno, sono stati espulsi népoterono stare. Non stette nella verità lui che non era appoggiato al Verbo, che aveva confidato nella sua forza. E forse volle sedersi lui che non poté stare in piedi. Diceva, infatti: Siederò nel monte del testamento (Is 14,13). Ma Dio pensava diversamente, e così né stette né sedette; ma cadde, come dice il Signore: Vedevo satana cadere dal cielo come folgore (Lc 10,18). Dunque, chi sta se non vuol cadere non si fidi di se stesso, ma si appoggi al Verbo. Dice il Verbo: Senza di me non potete fare nulla (Gv 15,5). È così: né sorgere per fare il bene, né stare nel bene possiamo senza il Verbo. Tu, dunque, che stai in piedi, da’ gloria al Verbo e di’: Stabilì i miei piedi sulla pietra e diresse i miei passi (Sal 39,3). È la sua mano che ti rialza, della sua forza hai bisogno per tenerti in piedi. Questo riguardo al bisogno che noi abbiamo del Verbo, al quale dobbiamo appoggiarci per praticare la virtù.

 

III. 7. Ora dobbiamo vedere, come ho prima accennato, come per mezzo del Verbo noi siamo riformati rispetto alla sapienza. Il Verbo è forza, il Verbo è sapienza. Riceva, dunque, l’anima forza dalla forza, e sapienza dalla sapienza, e attribuisca al Verbo l’uno e l’altro dono. Diversamente, se pretende di averli da altri, oppure se attribuisce a sé entrambe o una delle due cose, è come se negasse che il ruscello nasce dalla sorgente, che il vino viene dalla vite, o che la luce dalla luce. Questa parola è sicura: Se uno ha bisogno di sapienza, la chieda a Dio che dà a tutti in abbondanza e senza rinfacciare, e gli sarà concessa (Gc 1,5). Questo dice san Giacomo. Io poi penso la medesima cosa riguardo alla forza. La forza è parente della sapienza. È dono di Dio la forza, da considerare tra quegli ottimi doni che discendono dall’alto, dal Padre del Verbo. E se qualcuno sostiene che essa è tutt’uno con la sapienza, non ho nulla da obiettare, ma nel Verbo non nell’anima. Quelle cose, infatti, che nel Verbo a causa della singolare semplicità della sua natura divina sono una cosa sola, non hanno un unico effetto nell’anima, ma si adattano alle sue varie e diverse necessità, venendo diversamente partecipate da essa. Così, pertanto, altro è per l’anima essere mossa dalla forza, altro essere governata dalla sapienza, altro è dominare con la virtù, altro deliziarsi nella soavità. Sebbene infatti anche la sapienza sia forte e la virtù soave, per dare tuttavia a ciascun vocabolo il suo proprio significato, il vigore denota la virtù, la’ tranquillità dell’animo con una certa soavità spirituale indica la sapienza. Penso che questa l’abbia designata l’Apostolo, dove, dopo molte esortazioni che riguardano la virtù, aggiunge quello che riguarda la sapienza nella soavità, nello Spirito Santo. Pertanto, stare in piedi, resistere,. respingere la forza con la forza, che fanno parte della virtù, costituiscono un onore, ma sono cose faticose. Non è lo stesso, infatti, difendere laboriosamente il tuo onore e possederlo in pace. Non è lo stesso essere mosso dalla virtù e godere della virtù. Tutto quello che la virtù faticosamente guadagna la sapienza lo gode; e quello che la sapienza ordina, delibera, propone, la virtù lo esegue.

 

8. La sapienza dello scriba si deve alle sue ore di quiete, dice il Saggio (Eccli 38,25). Dunque, gli ozi della sapienza sono occupazioni, e più è in riposo la sapienza più è in esercizio nel suo genere. Di riscontro, la virtù esercitata è più splendida, e tanto più provata quanto più premurosa. E se uno definisse la sapienza amore della virtù non mi sembrerebbe scostarsi dalla verità. Ma dove vi è l’amore non vi è fatica ma gusto. E forse la sapienza si chiama così dal sapore che unendosi alla virtù come se fosse un condimento, rende saporita quella che di per sé era in un certo modo insipida e aspra. Né avrei da ridire se qualcuno definisse la sapienza sapore del bene. Abbiamo perduto questo gusto dal primo inizio del genere umano. Da quando il palato del cuore prevalendo il senso della carne fu infetto dal veleno dell’antico serpente, l’anima cominciò a non avere più il gusto del bene e a subentrare il sapore cattivo. Purtroppo l’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla sua adolescenza (Gen 8,21), cioè dall’insipienza della prima donna. Così l’insipienza della donna rinunciò al gusto del bene, perché la malizia del serpente ingannò l’insipiente donna. Ma dove sembrò che la malizia avesse vinto per un certo tempo, proprio là si duole di essere stata vinta per l’eternità. Poiché, ecco, di nuovo la Sapienza riempì il cuore e il corpo della donna, per cui noi che eravamo stati rovinati e resi insipienti dalla donna siamo stati restaurati nella sapienza da un’altra donna. E ora continuamente la sapienza vince la malizia nelle menti in cui entra soppiantando il gusto del male che la malizia aveva portato, con un gusto migliore. Entrando la sapienza, mentre fa svanire il senso della carne, purifica l’intelletto, risana e ripara il palato del cuore. Al palato sano diventa gustoso il bene, gustosa la sapienza che è il migliore dei beni.

 

9. Quante cose buone si fanno senza che vengano gustate da coloro che le fanno! Sono, infatti, indotti a compierle non per il gusto del bene, ma o dalla ragione e da qualche altra occasione o necessità; e viceversa molti non gustano il male che fanno, ma sono condotti a farlo o per timore o per desiderio di qualche cosa piuttosto che dal gusto del male; coloro invece che agiscono per affetto del cuore, o sono sapienti, e per questo stesso fatto si dilettano nel gusto del bene; o sono maligni e si compiacciono nella malizia stessa, anche senza la lusinga di qualche altro interesse. E la malizia che altro è se non il gusto del male? Beata la mente che è tutta presa dal gusto del bene e dall’odio del male. Questo significa essere restaurati secondo la sapienza, questo è sperimentare felicemente la vittoria della sapienza. Quando, infatti, è provato con più evidenza che la sapienza vince la malizia che quando, cacciato il gusto del male, che non è altro che la stessa malizia, si sente un intimo gusto del bene invadere con grande dolcezza l’intimo della mente? Pertanto spetta alla virtù sopportare con fortezza le tribolazioni, alla sapienza godere nelle tribolazioni. Confortare il tuo cuore e attendere il Signore è compito della virtù; gustare e vedere come è buono il Signore spetta alla sapienza. E perché sia maggiormente chiaro dal bene della propria natura il bene di entrambe, la modestia dell’animo dimostra il sapiente, e la costanza l’uomo virtuoso. E bene la sapienza viene dopo la virtù perché questa è come uno stabile fondamento, sul quale la sapienza si edifica la casa. È stato necessario che precedesse la nozione del bene, perché non possono andare d’accordo la luce della sapienza e le tenebre dell’ignoranza. È stata necessaria anche la buona volontà perché: la sapienza non entra in un’anima che vuole il male (Sap 1,4).

 

IV. 10. Ormai nel cambiamento della volontà è apparso il ritorno della vita dell’anima, nell’erudizione si è dimostrata la sua santità, nella virtù la stabilità, nella sapienza, infine, la sua maturità; resta da trovarle la bellezza, senza la quale l’anima non può piacere a colui che è bello tra figli dell’uomo. Senti, infine, come al Re piacerà la tua bellezza (Sal 44,12). Quanti beni dell’anima, doni del Verbo, abbiamo enumerato: la buona volontà, la scienza, la virtù, la sapienza! E di nessuno di questi si legge che piaccia al Verbo ma solo si dice: Al Re piacerà la sua bellezza. Il Profeta dice: Il Signore regna, si riveste di bellezza (Sal 92,1). Perché non desidererà anche per la sua sposa un simile indumento? Gli sarà, dunque, tanto più cara quanto più gli sarà simile. E in che cosa consiste la bellezza dell’anima? Forse in quello che si dice onesto? Intanto sentiamo se non troviamo qualcosa di meglio. Circa l’onestà si esamini la condotta esteriore. Non che da essa provenga l’onestà, ma si manifesta attraverso di essa. L’origine e la sede di essa è nella coscienza. Il suo splendore, infatti, è la testimonianza della coscienza. Nulla è più chiaro di questa luce, nulla più glorioso di questa testimonianza, quando la verità splende nella mente e la mente si vede nella verità. Ma quale? Si vede pudica, vereconda, pavida, circospetta, che non ammette affatto nulla che renda vana la gloria della coscienza che attesta di non essere cosciente di nulla per cui si vergogni della presenza della verità, per cui sia costretta a voltare la faccia, quasi confusa e abbagliata dalla luce di Dio. Questo davvero, questo è quella bellezza che sopra ogni altra cosa buona dell’anima piace agli occhi di Dio e noi chiamiamo onesto.

 

11. Quando poi lo splendore di questa bellezza avrà riempito con maggiore abbondanza l’intimo del cuore, è necessario che si manifesti al di fuori come una lampada che era nascosta sotto il moggio, anzi come luce che splende nelle tenebre, incapace di restare nascosta. Rifulgendo perciò, e quasi erompendo Con certi suoi raggi dal simulacro della mente viene ricevuta dal corpo e si diffonde nelle sue membra e nei suoi sensi, in modo che ne riluce ogni atto, discorso, sguardo, movimento, il riso, se pure è riso, misto a gravità e decoro. Se il movimento, il gesto e l’uso di queste e altre membra e sensi, appare serio, puro, modesto, tutto privo di insolenza e di mollezza, alieno da leggerezza come da ignavia, ma informato da equità, sollecito alla pietà, allora la bellezza dell’anima sarà manifesta, a meno che non vi sia inganno nel suo spirito: può darsi, infatti, che vengano simulate tutte queste cose, e non provengano dall’abbondanza del cuore. E perché maggiormente risplenda questa bellezza dell’anima, la stessa onestà nella quale abbiamo detto che essa consiste, venga così definita: nobiltà della mente, sollecita di conservare con buona coscienza l’integrità della fama, o, secondo l’Apostolo, si preoccupa di comportarsi bene non soltanto davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini. Beata la mente che si riveste di questo splendore di purità e di quel certo manto candido di innocenza che le conferisce la gloriosa conformità non con il mondo, ma con il Verbo del quale si legge che è candore della vita eterna, splendore e figura della sostanza di Dio.

 

12. Da questo gradino ormai una tale anima ardisce pensare alle nozze. Come non oserebbe farlo, scorgendosi nubile in quanto simile? Non l’atterrisce l’altezza che la somiglianza associa, che l’amore concilia, che la professione unisce. La formula della professione è questa: Ho giurato e lo confermo di custodire i tuoi precetti di giustizia (Sal 118,106). Seguendo questa gli Apostoli dicevano: Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito (Mt 19,27). Sono parole simili a quelle dette nel carnale connubio che ha prefigurato l’unione spirituale di Cristo con la Chiesa: Per questo l’uomo abbandonerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e saranno due in una sola carne (Ef 3,35) e presso il Profeta: Il mio bene è aderire a Dio e porre la mia speranza nel Signore Dio (Sal 72,28). Pertanto, l’anima che vedrai abbandonare tutto e aderire con tutto l’ardore al Verbo, vivere per il Verbo, secondo il Verbo comportarsi, concepire dal Verbo per poi partorire al Verbo, che possa dire: Per me vivere è Cristo e morire un guadagno (Fil 1,21) considerala coniuge e sposata al Verbo. Confida in essa il cuore del suo Sposo, sapendola fedele, sapendo che ha disprezzato tutto ciò che è fuori di lui, tutto ha considerato come immondizia pur di guadagnare lui. Riconosceva essere tale colui del quale Cristo diceva: Questi è per me un vaso di elezione (At 9,15). Davvero pia madre, l’anima di Paolo, e fedele al suo Sposo, quando diceva: Figlioli miei che io nuovamente partorisco finché sia formato Cristo in voi (Gal 4,19).

 

13. Ma bada come nel matrimonio spirituale vi sono due maniere di partorire e di conseguenza c’è diversità nella prole, ma non contrarietà, poiché le sante madri partoriscono o anime predicando, o intelligenze spirituali meditando. In questo ultimo genere talvolta si viene anche rapiti e si esce anche dai sensi del corpo, di modo che non sente più se stessa l’anima che sente il Verbo, in qualche modo si ruba a se stessa, anzi viene rapita e sottratta a se stessa, per godere del Verbo. Diversa è la situazione della mente che porta frutto per il Verbo e di quella che gode del Verbo. Nel primo caso è sollecitata dalla salvezza del prossimo, nell’altro è attirata dalla soavità del Verbo. E, pertanto, è si lieta la madre per la prole, ma più felice nei suoi amplessi la sposa. Cari i pegni dei figli, ma i baci sono più dolci. È buona cosa salvare molti; andare in estasi ed essere con il Verbo è cosa molto più gioiosa. Ma quando questo e fino a quando? Dolce scambio, ma breve momento e rara esperienza! È questo quello che dopo altre cose ricordo di aver detto, che cioè l’anima cerca il Verbo per trovare in Lui la gioia e la dolcezza.

 

14. Qualcuno vorrà ancora chiedermi che cosa sia godere del Verbo. Rispondo: cerchi piuttosto uno che abbia sperimentato questo per domandarlo a lui. O se anche a me fosse dato di fare questa esperienza, pensi che potrei dire ciò che è indicibile? Senti uno che lo aveva sperimentato: Se siamo stati fuori dei sensi era per Dio; se siamo assennati è per voi (2 Cor 5,13). Vale adire: altro è quello che io provo con Dio, lui solo essendo testimonio, altra è la mia relazione con voi: quello si può sperimentare ma per nulla descrivere, in quest’altro io sono con voi tanto condiscendente che io posso parlarvi e voi siete in grado di comprendere. O tu che sei curioso di sapere che cosa sia godere del Verbo, prepara a lui non l’orecchio ma la mente! Non insegna questo con la lingua, lo insegna con la grazia. Questo viene nascosto ai sapienti e ai prudenti, e viene rivelato ai piccoli. Grande, fratelli, grande e sublime virtù l’umiltà, che merita quello che non insegna, che è degna di conseguire quello che non può imparare, degna di concepire dal Verbo e del Verbo quello che lei stessa con le sue parole non riesce a spiegare. Perché questo? Non perché’cosî ha meritato, ma perché cosî piace al Padre del Verbo, Sposo dell’anima, Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra ogni cosa Dio benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

SERMONE LXXXVI

 

 

I. L’ornamento della verecondia che appare nella sposa, e che si addice soprattutto agli adolescenti. II. Il luogo e il tempo propri dell’orazione, e che cosa si intenda secondo il senso morale per letto e notte.

 

 

I. 1. Non è più il caso ormai di chiedermi perché l’anima cerchi il Verbo: ciò è già stato esposto a sufficienza sopra. Dunque, andiamo avanti in questo capitolo, parlando però solo delle lezioni pratiche che ne conseguono. Come prima cosa notiamo la verecondia della sposa: non so se si possa vedere nei costumi degli uomini qualcosa di più piacevole. È bene avere questa in mano prima di ogni altra cosa, e cogliere questo bel fiore da questo passo e ornare i nostri adolescenti: non che essa non si debba ritenere con ogni cura anche nell’età più adulta, essendo certamente essa l’ornamento di ogni età, ma perché la grazia della delicata verecondia splende maggiormente ed è più bella nella tenera età. Che cosa c’è di più amabile di un verecondo adolescente? Quanto è bella e splendida questa gemma di costumi nella vita e sul volto di un adolescente! Come è verace e sicuro indizio di speranza e indizio di indole buona! È una verga di disciplina per lui che alzata contro gli affetti disordinati, tiene all’ordine e comprime gli insolenti atti e movimenti di leggerezza di una lubrica età. Che cosa tiene così lontano il turpiloquio ed ogni conseguente turpitudine? È sorella della continenza. Nessuna altra cosa è indi zio così manifesto della semplicità della colomba, e anche prova di innocenza. È lampada sempre splendente di una mente pudica, perché nulla di turpe o meno decoroso si stabilisca in essa, senza che essa subito lo scopra. In tal modo, nemica dei mali e propugnatrice di innata purezza è speciale gloria della coscienza, custode della buona reputazione, decoro della vita, sede delle virtù e loro primizia, vanto della natura e sigillo di ogni onestà. Lo stesso rossore delle guance che il pudore può far comparire, quanta grazia e decoro conferisce al volto che ne è soffuso!

 

2. La verecondia è un genuino bene dell’animo fino a tal punto che anche quelli che non temono di fare il male, hanno tuttavia il pudore di non farlo palesemente, come dice il Signore: Chi opera il male odia la luce (Gv 3,20). Ma anche: Quelli che dormono dormono di notte e quelli che sono ubriachi lo sono di notte (1 Ts 5,7); cercano, cioè, di nascondere con le tenebre le opere delle tenebre e degne dell’oscurità. È interessante, tuttavia, che le bruttezze nascoste che la verecondia di questi tali arrossisce non di avere, ma di far vedere, la verecondia della sposa non solamente le ricopre, ma le rigetta, le allontana. E perciò dice il Saggio: C’è una vergogna che porta al peccato, e c’è una vergogna che è onore e grazia (Eccli 4,21). La sposa cerca il Verbo con verecondia, sì, perché nel letto, perché nelle notti; ma questa verecondia ha gloria, non peccato. Cerca il Verbo per purificare la coscienza, lo cerca per la testimonianza, per poter dire: Questa è la mia gloria, la testimonianza della mia coscienza (2 Cor 1,12). Nel mio lettuccio per notti ho cercato l’amato dell’anima mia. La verecondia, se fai attenzione, ti è indicata e dal luogo e dal tempo. Che cosa è così amico dell’animo verecondo quanto il segreto? Ora la notte e il letto possiedono il segreto. E a chi vuole pregare è comandato di entrare nella camera, certamente per tenere il segreto. Questa è una misura di cautela, perché a quelli che pregano pubblicamente l’umana lode non porti via il frutto dell’orazione e ne renda vano l’effetto. Ma ti viene insegnata la verecondia con questa sentenza. Che cosa è così proprio della verecondia quanto evitare le proprie lodi, evitare l’ostentazione? È chiaro che il figlio e il maestro del pudore ha prescritto il segreto a quelli che pregano, particolarmente a cauta della verecondia. Nulla è più brutto, specialmente in un adolescente quanto ostentare la santità, sebbene sia molto conveniente che la pratica della devozione cominci già da questa età, come dice il Profeta Geremia: È bene per l’uomo portare il giogo fin dalla giovinezza (Lam 3,27). È una buona raccomandazione per l’orazione che si sta per fare se si, premette la verecondia dicendo: Io sono piccolo e disprezzato ma non trascuro i tuoi precetti (Sal 118,141).

 

3. E non solo occorre tener conto del luogo, ma anche del tempo quando si vuole pregare. Il tempo del riposo è più comodo e più adatto, specialmente quando il sonno della notte produce un profondo silenzio. Allora l’orazione è più libera e più pura: Alzati nella notte, quando cominciano i turni delle sentinelle, effondi come acqua il tuo cuore davanti al Signore tuo Dio (Lam 2,19). Come sale segreta nella notte l’orazione, alla presenza di Dio solo e del santo angelo che la riceve per presentarla all’altare del cielo! Come gradita e splendida, coronata di verecondo rossore! Come serena e placida, non disturbata da alcun grido o strepito! In ultimo come pura e sincera, non cosparsa da alcuna polvere di preoccupazioni terrene, non tentata da alcuna lode o adulazione di spettatori estranei! Per questo dunque la sposa, non con minor verecondia che cautela cercava il segreto del letto e della notte volendo pregare, cioè cercare il Verbo; è, infatti, la stessa cosa. Diversamente non preghi bene se, pregando, cerchi qualcosa di diverso dal Verbo o che non cerchi per il Verbo, perché in lui sono tutte le cose. In lui c’è il rimedio delle ferite, gli aiuti nelle necessità, in lui il risarcimento dei difetti, in lui l’abbondanza dei profitti, in lui insomma tutto quello che interessa agli uomini ricevere o avere, tutto quello che conviene o necessita loro. Senza ragione si chiede altro dal Verbo, essendo egli tutte le cose. Infatti, anche se sembriamo chiedere, quando è necessario, queste cose temporali, se il Verbo è in causa, come è degno che sia, è lui che cerchiamo più che quelle, che cerchiamo per lui. Sanno questo quelli che sono soliti indirizzare l’uso di tutte le cose temporali per meritare il Verbo.

 

4. Non ci rincresca, tuttavia, scrutare ancora i segreti di questo letto e di questo tempo, per vedere se possiamo cavarne fuori qualche cosa di spirituale che vi si nasconde. E ci piace vedere raffigurata nel letto l’umana infermità, e nelle tenebre notturne l’ignoranza ugualmente umana, ne consegue ed è davvero conveniente che si cerchi con insistenza il Verbo che è virtù di Dio e sapienza di Dio contro questi due mali originali. Che cosa, infatti, vi è di più conveniente che all’infermità si opponga la forza, e all’ignoranza la sapienza? E perché non resti alcun dubbio ai cuori semplici circa questa interpretazione, sentano quello che dice a questo riguardo il santo Profeta: Il Signore lo sosterrà sul letto del suo dolore, gli darai sollievo nella sua malattia (Sal 40,4). Questo riguardo al letto. Riguardo poi alla notte dell’ignoranza nulla di più chiaro di quanto si dice in un altro Salmo: Non capiscono, non vogliono intendere, avanzano nelle tenebre (Sal 81,5), dove si esprime certamente la stessa ignoranza in cui il beato Apostolo confessa di essere nato e dalla quale si gloria di essere stato strappato dicendo: È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre (Col 1,13). E perciò diceva: Non siamo figli della notte, né delle tenebre (1 Ts 5,5); e ancora, rivolgendosi a tutti gli eletti: Comportatevi come figli della luce (Ef 5,8).

 

 È – questo – uno dei cosiddetti «giudizi di Dio», usati nel Medio Evo: se l’accusato legato e buttato nell’acqua galleggiava, era ritenuto colpevole.

 In questo momento deve essere stato fatto segno a San Bernardo che era tempo di finire, perché probabilmente l’urgenza dei lavori richiamava i monaci ad altre meno spirituali occupazioni. San Bernardo non può trattenersi dal manifestare il suo disappunto.

 Agostino di Ippona, De Trinitate, V, X, 11: PL 42,918.

 Secondo la dottrina degli Scolastici l’anima dà al corpo non solo il vivere, ma l’essere corpo. Uscita l’anima non resta che una «forma corporeitatis» per qualche tempo; ma non è più propriamente corpo bensì cadavere che in breve si dissolve. San Bernardo non poteva conoscere questa precisazione.

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