DOMENICA DELLE PALME

Temi del sermone

 

– Vangelo delle Palme: “Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù...”; vangelo che si divide in quattro parti.

– Anzitutto sermone sulla passione di Cristo, rivolto all’anima del peccatore: “Sali a Galaad”.

– Parte I: Sermone in lode della beata Vergine: “Avvicinandosi Gesù”; lo struzzo e il suo simbolismo.

– Sermone morale ai peccatori convertiti: “Gesù, sei giorni prima della Pasqua”.

– Sermone sulla triplice luce del monte degli Ulivi e suo significato.

– Parte II: Sermone contro i religiosi e i chierici (clero), raffigurati nell’asino e nel suo puledro: “Allora mandò due discepoli”.

– Parte III: Sermone sull’umiltà, la povertà e la passione di Cristo: “Dite alla figlia di Sion”.

– Sermone contro i prelati superbi: “Disperderò la quadriga di Efraim”.

– Sermone al vescovo: “Il re seduto su di un’asina”.

– Parte IV: Sermone sull’imitazione degli esempi dei santi: “Vi prenderete i frutti dell’albero”.

 

esordio - sermone sulla passione di cristo

 

1. In quel tempo: “Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù, arrivato a Betfage presso il monte degli Ulivi” (Mt 21,1), ecc.

Geremia così parla all’anima peccatrice: “Sali a Galaad e prendi della resina, o vergine figlia dell’Egitto” (Ger 46,11). La figlia dell’Egitto è l’anima accecata dai piaceri di questo mondo: Egitto s’interpreta “tene­bre". Infatti Geremia continua: “Come mai il Signore, nella sua ira, ha coperto”, cioè ha permesso che forse coperta, “di caligine la figlia di Sion?” (Lam 2,1), cioè l’anima, che dev’essere figlia di Sion? Essa è detta vergine perché sterile di buone opere. E di nuovo Geremia: “Il Signore ha pigiato il torchio alla vergine figlia di Sion” (Lam 1,15), cioè l’ha condannata alla pena eterna, perché restò sterile della prole delle buone opere. E le dice: “Sali”, con i piedi dell’amore, con i passi della devozione, “a Galaad”, che s’interpreta “cumulo di testimonianze”; sali cioè sulla croce di Gesù Cristo, sulla quale sono accumulate innumere­voli testimonianze della nostra redenzione, vale a dire i chiodi, la lancia, il fiele, l’aceto e la corona di spine; e da lì “prendi la resina”.

La resina è una lacrima, una goccia, che stilla da un albero. La resina migliore di tutte è quella del terebinto (la trementina). Essa raffigura la goccia del sangue preziosissimo che fluì dall’albero, piantato nel giardino delle delizie (cf. Gn 2,8), “lungo il corso delle acque” (Sal 1,3), per la riconciliazione del genere umano.

Prendi dunque, o anima, questa resina e ungi le tue ferite, perché essa è il medicamento più potente ed efficace per risanarle, per ottenere il perdono e per infondere la grazia. Sali quindi a Galaad, sali cioè con Gesù a Gerusalemme, perché anche lui vi è salito nel giorno di festa (cf. Gv 7,8). Infatti dice il vangelo di oggi: “Avviatosi Gesù a Gerusalemme”, ecc.

 

2. In questo vangelo si devono osservare quattro momenti. Primo: Gesù che si avvicina a Gerusalemme: “Mentre si avvicinava”, ecc. Secondo: l’invio dei due discepoli al villaggio: “Allora mandò due dei suoi discepoli”, ecc. Terzo: l’assidersi del re mansueto, povero e umile, su di un’asina e il suo puledro: “Ecco il tuo re viene, seduto su un’asina”, ecc. Quarto: l’entusiasmo e le acclamazioni della folla: Osanna al Figlio di Davide”, e “Una folla grandissima”, ecc.

 

I. gesù si avvicina a gerusalemme

 

3. “Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù...”, ecc. Osserva che il Signore, quando andò a Gerusalemme, fece questo percorso: dapprima arrivò a Betania, da Betania si recò a Betfage, da Betfage al monte degli Ulivi, e dal monte degli Ulivi arrivò a Gerusalemme. Vedremo che cosa significhi tutto questo: prima il significato allegorico e poi quello morale.

Betania, che s’interpreta “casa dell’obbedienza”, o “casa del dono di Dio”, o anche “casa gradita al Signore”, raffigura la Vergine Maria, che obbedì alla voce dell’ange­lo, e quindi meritò di accogliere il dono celeste, il Figlio di Dio, e così fu gradita al Signore più di ogni altra creatura. Infatti è detto di lei nei Proverbi: “Molte figlie hanno radunato ricchezze, ma tu le hai superate tutte” (Pro 31,29). Nessun santo ha accumulato nella sua anima tanta ricchezza di virtù quanto la Vergine Maria, la quale per la sua straordinaria umiltà, per il fiore incontaminato della verginità, meritò di concepire e di partorire il Figlio di Dio, “che è al di sopra di tutto, Dio benedetto nei secoli” (Rm 9,5).

E da questa Betania Gesù si recò a Betfage, che s’interpreta “casa della bocca”. Essa raffigura la predicazione di Gesù. Per questo arrivò prima a Betania, cioè assunse umana carne dalla Vergine, per poi dedicarsi alla predicazione. Egli stesso dice: “Andiamo nei villag­gi vicini e nelle città, perché io predichi anche là: per questo infatti sono venuto” (Mc 1,38).

E da Betfage si recò al monte degli Ulivi, cioè della misericordia. Èleos (termine greco che assomiglia al latino òlea, olivo) s’interpreta “misericordia”. Il monte degli Ulivi sta a indicare la grandezza dei miracoli che Gesù misericordioso e benigno operò a favore dei ciechi, dei lebbrosi, dei posseduti dal demonio e dei morti. E tutti questi miracolati dicono per bocca di Isaia: “Tu, Signore, sei il nostro padre, il nostro salvatore: questo è il tuo nome dall’eternità” (Is 63,16). Nostro padre per la creazione, nostro salvatore per i miracoli operati; questo è il tuo nome dall’eternità perché sei benedetto nei secoli.

E dal monte degli Ulivi andò a Gerusalemme, per compiere l’opera della nostra salvezza, per la quale era venuto; per riscattare col suo sangue dalle mani del diavolo il genere umano, schiavo nel carcere dell’inferno da oltre cinquemila anni. Quindi Cristo in questo modo ci ha liberati, come quell’uccello, che si chiama struzzo, libera il suo nato.

Si racconta che il sapientissimo re Salomone possedeva una specie di uccello, appunto uno struzzo, il cui nato aveva chiuso in un vaso di vetro: la madre lo guardava piena di dolore, ma non poteva averlo. Finalmente, per lo straordinario amore che nutriva per il figlio, andò nel deserto dove trovò un verme; lo portò via e lo lacerò sopra il vaso di vetro. Il potere del sangue del verme spezzò il vetro e così lo struzzo liberò il suo nato. Vediamo che significato abbiano l’uccello, il nato, il vaso di vetro, il deserto, il verme e il suo sangue.

Questo uccello simboleggia la divinità; il suo nato raffigura Adamo e la sua discendenza, il vaso di vetro il carcere dell’inferno, il deserto il grembo verginale, il verme l’umanità di Cristo, il sangue la sua passione.

Dio, per liberare il genere umano dal carcere dell’inferno e dalla mano del diavolo, venne nel deserto, cioè nel grembo della Vergine, dalla quale assunse il “verme”, cioè l’umanità. Egli stesso ha detto: “Io sono un verme e non un uomo” soltanto (Sal 21,7), perché era Dio e uomo. Lacerò questo verme sul patibolo della croce e dal suo fianco uscì il sangue, il cui potere spezzò le porte dell’inferno e liberò il genere umano dalla mano del diavolo.

 

4. Vedremo anche quale significato morale abbiano Betania, Betfage, il monte degli Ulivi e Gerusalemme.

Dice Giovanni nel suo vangelo: “Gesù, sei giorni prima della Pasqua”, cioè il sabato che precede la domenica delle Palme, “arrivò a Betania, dov’era morto Lazzaro, che poi egli aveva risuscitato. Gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali, insieme con Gesù. Maria allora prese una libbra di puro (pisticus) nardo prezioso e ne cosparse i piedi di Gesù” (Gv 12,1-3). Invece Matteo e Marco dicono che versò il nardo profumato sopra il capo di Gesù, adagiato a mensa (cf. Mt 26,7; Mc 14,3).

Betania s’interpreta “casa dell’afflizione”. E questa è la contrizione del cuore, della quale parla il Profeta: “Sono afflitto e umiliato all’estremo: ruggisco per il fremito del mio cuore” (Sal 37,9). Il questa casa è stato risuscitato Lazzaro, il cui nome s’inter­preta “aiutato”. Infatti nella casa della contrizione il peccatore viene risuscitato, viene aiutato con la grazia divina, e quindi dice con il Profeta: “In lui ha sperato il mio cuore e sono stato aiutato” (Sal 27,7). Quando il cuore spera, la grazia viene in aiuto. E il cuore può sperare nell’indulgenza e nel perdono, quando lo tormenta il dolore della contrizione per il peccato commesso.

“Allora gli fecero una cena e Marta serviva”. Le due sorelle del peccatore risuscitato dalla morte del peccato, Marta, il cui significato è “che provoca” o “che irrita”, e Maria, che s’interpreta “stella del mare”, sono il timore della pena e l’amore della gloria. Il timore della pena provoca il peccatore al pianto, e lo stimola quasi come un segugio a ricercare il peccato e a confessarlo con tutte le sue circostanze. L’amore della gloria illumina, il timore sprona, l’amore conforta.

“Marta”, dice, “serviva”. Il timore che cosa serve? Certamente il pane del dolore e il vino della compunzione. Questa è la cena di Gesù, e di essa dice Matteo: “Mentre cenavano, Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli... E prendendo il calice, rese le grazie e lo diede loro dicendo: Bevetene tutti” (Mt 26,26-27).

“Lazzaro poi era uno dei commensali, insieme con Gesù”. Perché non sembrasse un fantasma, ma fosse evidente la sua risurrezione, egli mangia e beve. Che grande grazia! Il peccatore, che prima era disteso nella tomba, ora è adagia­to a mensa e banchetta con Gesù e i suoi discepoli; egli che prima bramava di riempirsi il ventre, cioè la mente, delle carrube dei porci, cioè delle sozzure dei demoni, e nessuno gliene dava (cf. Lc 15,16).

“Maria allora prese una libbra di vero nardo prezioso”. La libbra consta di dodici once: e qui abbiamo una specie di peso perfetto, perché consta di tante once quanti sono i mesi dell’anno. La libbra poi è così chiamata perché è “libera” e perché comprende in se stessa tutti i pesi. Nardo vero (genuino) è detto in latino pisticus, cioè autentico, senza contraffazioni, e deriva dal greco pistis, che vuol dire fede.

La libbra, composta di dodici once, è la fede dei dodici apostoli, libera e perfetta. Maria dunque, cioè l’amore della gloria celeste, unge il capo della divinità e i piedi dell’umanità con una libbra di nardo genuino, riconoscendo che Cristo è Dio e uomo, che nacque e subì la passione. E così la casa, cioè la coscienza del penitente, viene riempita del profumo dell’unguento (cf. Gv 12,3), dicendo con la sposa del Cantico dei Cantici: O Signore Gesù, con la fune del tuo amore trascinami dietro a te, perché io corra nel profumo dei tuoi unguenti (cf. Ct 1,3), perché io da Betania arrivi a Betfage.

 

5. Betfage s’interpreta “casa della bocca”, e sta ad indicare la confessione, nella quale dobbiamo essere come residenti, non come ospiti di una notte che è passata (cf. Sap 5,15), affinché non ci avvenga ciò che dice Geremia: “Così dice il Signore di questo popolo: gli è piaciuto tenere in movimento i piedi e non si è fermato: per questo non gli è gradito; ora egli ricorda le loro iniquità e visiterà (punirà) i loro peccati” (Ger 14,10).

“E da Betfage andò al monte degli Ulivi”. Ricorda che il monte degli Ulivi era detto il “monte delle tre luci” perché era illuminato dal sole, da se stesso e dal tempio: dal sole perché, rivolto a oriente, ne riceveva i raggi; da se stesso per l’abbondanza dell’olio che produceva; dal tempio, a motivo dele lampade che di notte vi ardevano e illumina­vano anche il monte.

Il monte degli Ulivi raffigura l’importanza della soddisfazione (penitenza) alla quale deve arrivare il penitente dalla casa della confessione. E giustamente la soddisfazio­ne è detta “monte delle tre luci”. Infatti l’uomo, sostando nell’opera di penitenza, viene illuminato dal sole di giustizia Cristo Gesù, che dice di se stesso: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); viene illuminato da se stesso, perché deve essere fornito di olio abbondante, cioè di misericordia, verso se stesso e verso il prossimo; infatti dice Giobbe: “Visitando i tuoi simili non peccherai” (Gb 5,24). Disse un santo: “Mai l’anima potrà meglio vedere al di sopra di sé i suoi simili per mezzo della verità, come quando la carne si piega al di sotto di sé, verso il suo simile, per mezzo della carità”. Sarà illuminato anche dal tempio, cioè dalla comunità dei fedeli, ai quali dice l’Apostolo: “Santo è il tempio di Dio, che siete voi” (1 Cor 3,17).

E dal monte degli Ulivi andò a Gerusalemme. Infatti queste tre cose, la contrizione del cuore, la confessione della bocca e l’opera di penitenza, che soddisfa il debito del peccato, conducono alla luce, alla Gerusalemme celeste, alla beatitudine eterna. Quindi giustamente è detto: “Gesù, essendosi avvicinato a Gerusalemme...”, ecc.

 

II. l’invio dei due discepoli al villaggio

 

6. “Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: “Andate nel villaggio (castellum) che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa il suo puledro: scioglieteli e conduceteli a me” (Mt 21,1-2). Vedremo che cosa rappresentino in senso morale i due discepoli, il villaggio, l’asina e il suo puledro.

Il discepolo è così chiamato perché impara (discit) la disciplina. Il villaggio (castellum) è costituito da una muraglia che circonda tutt’all’intorno una torre, situata al centro. L’asino, o asina, è così chiamato perché, diciamo, “lascia le cose alte” (lat. alta sinens); puledro (pullus) è come pollutus, impuro, macchiato, perché nato da poco. Quindi i due discepoli del giusto, che imparano la disciplina della pace, sono il disprezzo del mondo e l’umiltà del cuore.

Questi due discepoli sono Mosè e Aronne che fanno uscire gli ebrei dall’Egitto, sono le due stanghe che servivano per trasportare l’arca della testimonianza, sono i due cherubini che guardano il “propiziatorio” (il coperchio d’oro dell’arca), rivolti uno verso l’altro (cf. Es 25,17-18).

In Mosè che, come dice l’Apostolo, “stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori dell’Egitto” (Eb 11,26), è raffigurato il disprezzo del mondo. In Aronne che spense il fuoco e placò l’ira di Dio perché non infie­risse su tutto il popolo (cf. Nm 16,46-49), è indicata l’umiltà del cuore che spegne il fuoco della suggestione diabolica e placa l’ira della punizione divina. Questi due discepoli, come due stanghe inflessibili, portano l’arca del testamento, cioè la dottrina di Gesù Cristo, oppure l’obbe­dienza al prelato. Guardano verso il propiziatorio, cioè verso lo stesso Gesù Cristo, che è “propi­ziazione” per i nostri peccati (cf. 1Gv 4,10); guardano, dirò ancora, a Cristo adagiato nella mangiatoia, inchiodato sulla croce, deposto nel sepolcro.

Il giusto manda questi due discepoli, dicendo: “Andate nel villaggio (castello) che sta di fronte a voi”. Il castello (villaggio) è costituito, come abbiamo già detto, di un muro perimetrale e di una torre: nel muro è indicata l’abbondanza delle cose temporali, nella torre la superbia del diavolo. Come nel muro si sovrappone pietra a pietra, e le pietre si saldano tra loro con il cemento, così nell’abbondanza delle cose temporali il denaro si aggiunge al denaro, si unisce casa a casa, si aggiunge campo a campo (cf. Is 5,8), e tutto si attacca tenacemente con il cemento della cupidigia. Di questo muro dice Isaia: “Il mio ventre suonerà a Moab come una cetra, e le mie viscere al muro di mattoni cotti (al fuoco)” (Is 16,11). E Geremia, quasi con le stesse parole: “Il mio cuore suonerà a Moab come i flauti, il mio cuore darà un suono di flauti per gli uomini del muro di mattone cotto” (Ger 48,36). Nel ventre è designata la mente, nella cetra o nel flauto la melodia della predicazione. Con cuore e mente compunti e con la melodia della predicazione, Isaia e Geremia, cioè ogni predicatore, deve suonare a Moab, che s’interpreta “dal padre”, cioè al peccatore, che proviene da quel padre che è il diavolo, che costruisce il muro di cotto e di mattoni di argilla, cioè l’abbondanza dei beni temporali: cotto, perché indurito al fuoco della cupidigia, di argilla perché destinato a crollare. Parimenti nella torre è indicata la superbia del diavo­lo. Questa è la torre di Babele, cioè della confusione, la torre di Siloe che, come si legge nel vangelo di Luca, crollando uccise diciotto uomini (cf. Lc 13,4). Il giusto manda contro questo castello (villaggio) due suoi discepoli, cioè il disprezzo del mondo, perché faccia crollare il muro dell’ab­bon­danza transitoria, e l’umiltà del cuore perché abbatta la torre della superbia.

 

7. E dice giustamente: “che sta di fronte (lat. contra) a voi”. L’abbondanza di questo mondo è sempre contraria alla povertà, e la superbia contraria all’umiltà. In questo castello si trova un’asina legata e con essa il suo puledro (l’asinello). L’asina, che lascia le cose alte e cammina in piano, rappresenta la vita dei chierici e dei religiosi che, abbandonata l’altezza della contemplazione, procede pigra e fatua tra le bassezze del piacere carnale. Ahimè, con quante catene di piaceri, con quante funi di peccati viene tenuta legata quest’asina!

“E insieme ad essa un puledro (asinello). Questo puledro di asina raffigura il chierico o il religioso, che giustamente è detto puledro (pullus), perché è macchiato (pollutus) da molti vizi. È trovato insieme con l’asina, attaccato alle sue mammelle, della gola e della lussuria, succhiando da tergo. Di entrambi si lamenta il Signore, con le parole di Geremia: “Io li ho saziati ed essi hanno fornicato, e nella casa della meretrice si sono dati alla lussuria” (Ger 5,7). E più avanti dice che la cintura di Geremia era marcita nel fiume Eufrate, di modo che non serviva più a nulla (cf. Ger 13,7). “La cintura di castità” di tanti chierici e di tanti religiosi imputridisce nel fiume Eufrate, che s’interpreta “fertile”, e indica l’abbon­danza di beni temporali – dalla pinguedine infatti proviene l’iniquità –, di modo che essi a nient’altro sono buoni, se non ad essere gettati nel letamaio dell’inferno.

“Scioglieteli e portateli da me”. O Signore Gesù, cos’è quello che dici? Chi mai potrà sciogliere le catene dei chierici e dei falsi religiosi, le ricchezze, gli onori e i piaceri con i quali sono tenuti legati, abbattere la loro superbia e condurli a te? “Tutti, dice Geremia, sono come un cavallo che corre impetuosamente” (Ger 8,6); “La loro corsa è verso il male e la loro forza è diversa” (Ger 23,10) dall’immagine, a somiglianza della quale li ho creati (cf. Gn 1,26); o anche è diversa perché non da un vizio solo, ma da diversi vizi sono contaminati.

Perciò continua Geremia: “Sia il profeta che il sacerdote sono immondi, e nella mia casa ho trovato la loro malvagità. Tutti sono diventati per me come gli abitanti di Sodoma e Gomorra. Per questo dice il Signore: Io li ciberò di assenzio”, cioè dell’amarez­za della morte eterna, “e li abbevererò di fiele”, cioè con l’amarezza del rimorso di coscienza. “Perché dai profeti di Gerusalemme”, cioè dai chierici e dai religiosi, “è uscita l’empietà su tutta la terra” (Gn 23,11.14-15).

“Scioglieteli, dice Gesù, e portateli a me!” Il disprezzo del mondo e l’umiltà dell’a­ni­mo sciolgono tutti i legami e portano al Signore l’asina e il suo puledro.

 

III. gesù cristo, re seduto sull’asina e il suo puledro

 

8. “Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta”, cioè da Zaccaria: “Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, assiso su di un’asina e con un puledro, figlio di bestia da soma” (Mt 21,4-5). E queste sono, alla lettera, le parole di Zaccaria: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme: Ecco, a te viene il tuo re; egli è giusto e salvatore. Egli è povero e siede su di un’asina, su un puledro figlio di asina. Disperderò le quadrighe da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, e l’arco di guerra sarà spezzato” (Zc 9,9-10). Sion e Gerusalemme sono la medesima città, perché Sion è la torre di Gerusalemme, e raffigura la Gerusalemme cele­ste, nella quale c’è l’eterna contemplazione e la visione della pace assoluta.

La figlia di Sion è la santa chiesa alla quale, o predicatori, dovete dire: “Esulta grandemente nella fatica, giubila nel tuo animo”. Il giubilo infatti nasce nel cuore con sì grande letizia, quanta non è in grado di esprimerne l’efficacia della parola. “Ecco il tuo re”, del quale dice Geremia: “Non c’è nessuno come te, Signore: tu sei grande e grande è la potenza del tuo nome. Chi non ti temerà, o re delle nazioni?” (Ger 10,6-7). Egli, leggiamo nell’Apocalisse, “nel suo manto e nel suo femore porta scritto: Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19,16).

Il manto rappresenta le sue fasce e il femore è la sua carne. A Nazaret infatti fu incoronato di carne umana, come di un diadema; in Betlemme fu avvolto in fasce, come di porpora. E queste furono le prime insegne del suo regno. Su entrambe le cose infierirono i giudei, come se avessero voluto privarlo del suo regno: Cristo infatti nella passione fu da essi spogliato delle sue vesti e la sua carne fu confitta in croce con i chiodi. Ma lì il suo regno si è perfettamente affermato: infatti, dopo la corona e la porpora, non gli mancava che lo scettro. Ricevette anche questo quando, “portando la sua croce”, come dice Giovanni, “s’incamminò verso il Calvario” (Gv 19,17). E Isaia: “Sulle sue spalle è posto il segno della sua sovranità” (Is 9,6); e l’Apostolo nella lettera agli Ebrei: “Abbiamo visto Gesù coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha sofferto” (Eb 2,9).

 

9. “Ecco il tuo re, che viene a te”, cioè per la tua utilità, “che viene mite”, per essere amato, e non viene con la potenza per essere temuto, “seduto su di un’asina”. Dice Zaccaria: “Giusto e Salvatore, eppure povero, seduto su un’asina”. Le virtù proprie di un re sono due: la giustizia e la pietà. Così il tuo re è giusto perché, in fatto di giusti­zia, rende a ciascuno secondo le sue opere; è mansueto e redentore, in fatto di pietà; ed è anche povero: infatti nell’epistola di oggi è detto: “Annientò se stesso, assu­mendo la condizione di servo” (Fil 2,7). Poiché Adamo nel paradiso terrestre non volle servire il Signore, il Signore assunse la condizione di servo per servire il servo, affinché in futuro il servo non si vergognasse di servire il Padrone.

“Divenuto simile agli uomini, e per condizione ricono­sciuto come uomo” (Fil 2,7). Perciò dice Baruc: “Per questo è apparso sulla terra e ha vissuto tra gli uomini” (Bar 3,38). Quel “come” (lat. ut) esprime la verità, la realtà, e non la somiglianza. “Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8).

Dice in merito Agostino: “Il nostro Redentore appostò al nostro tiranno (predatore) la “trappola” della sua croce e vi collocò come esca il suo sangue. Egli versò il suo sangue, che però non era sangue di debitore, e per questo fu separato dai debitori” (cf. Eb 2,14; 7,26). E il beato Bernardo dice di Cristo: “Ebbe in sì grande stima l’obbedienza che preferì perdere la vita piuttosto che l’obbedienza, fatto obbediente al Padre fino alla morte”, e alla morte di croce. Egli che non ebbe dove posare il capo (cf. Mt 8,20; Lc 9,58), se non sulla croce, dove “reclinato il capo, rese lo spirito” (Gv 19,30).

 

10. “Egli fu povero”. Dice infatti Geremia: “O aspettazione d’Israele, suo salvatore nel tempo della tribolazione, perché sarai in terra come un colono, e come un viandante che rinuncia a fermarsi? Perché sarai come un uomo errante, e come un forte incapace di salvare?” (Ger 14,8-9).

Il nostro Dio, il Figlio di Dio, colui che aspettavamo, è arrivato, e nel tempo della tribolazione, cioè della persecuzione diabolica, ci ha salvati, e come un colono, uno straniero, un pellegrino ha abitato la nostra terra e l’ha irrigata con l’acqua della sua predicazione. Egli fu come un viaggiatore senza bagaglio (levis), cioè immune dal peccato; compì il suo cammino perché “esultò come un gigante che percorre la via” (Sal 18,6); reclinò quindi il capo sulla croce quando disse: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46), e poi restò chiuso nel sepolcro tre giorni e tre notti.

Qui è detto “uomo errante”, in base alla valutazione dei giudei che lo reputavano girovago e incostante. Per questo, quando disse: “Ho il potere di offrire la mia vita e di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18), “molti di loro dicevano: Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascolta­re?” (Gv 10,20). A motivo della condizione di servo, che aveva assunto, sembrava loro privo del potere di salvare. Ma egli fu “l’uomo forte” che, con le mani trafitte dai chiodi, vinse il diavolo. “Ecco, dunque, a te viene il tuo re, mite, seduto su di un’asina e con un puledro, figlio di bestia da soma”, cioè della stessa asina domata con il basto.

Oh, volessero i chierici e i religiosi accogliere un sì grande re, un sì nobile “cavaliere”, e portarlo devotamente come fecero quei miti animali, per essere degni di entrare con lui nella superna Gerusalemme. Ma siccome sono figli di Belial, cioè “senza giogo” e, come dice Geremia, “sono andati dietro a ciò che è vano e sono divenuti essi stessi vanità; e non hanno domandato: Dov’è il Signore?” (Ger 2,5-6), hanno spezzato il giogo e strappate le corde e hanno detto: “Non serviremo!”: per tutto questo il Signore, per bocca di Zaccaria, dice di essi: “Disperderò le quadrighe da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, e sarà spezzato l’arco di guerra”. La quadriga, che gira su quattro ruote, rappresenta l’abbondanza nella quale vivono i chierici; abbondanza che consiste in quattro cose: nell’estensione delle proprietà, nell’accumulo delle prebende e dei redditi, nella sontuosi­tà dei cibi e nel lusso delle vesti. Il Signore disperderà questa quadriga e scaglierà nel mare dell’inferno chi vi è sopra (cf. Es 15,1); sterminerà il cavallo, cioè la superbia schiumosa e sfrenata dei religiosi i quali, sotto l’abito della religione, sotto il pretesto della santità, si ritengono grandi.

Ma il Signore grande e potente, che guarda gli umili e abbatte i grandi (cf. Sal 137,6), scaccerà questo cavallo dalla Gerusalemme celeste, nella quale nessuno entrerà, se non chi si sarà umiliato come un bambino (cf. Mt 18,4), come lui che si è umiliato fino alla morte, e alla morte di croce.

 

11. Senso morale. Il re che siede sull’asina e sul suo puledro raffigura il giusto che mortifica la sua carne e frena i suoi stimoli. Dice Geremia: “Vergine d’Israele, ti ornerai nuovamente dei tuoi timpani e uscirai nel coro dei festanti” (Ger 31,4).

Nel timpano, che è la pelle di un animale morto, tesa su di un cerchio di legno, è indicata la mortificazione della carne; nel coro, in cui le voci sono in accordo, è raffigurata la concordia dell’unità. Quindi l’anima è ornata con i timpani ed esce nel coro dei festanti, quando è come adorna della mortificazione della carne e della concordia dell’u­nità. Dice il profeta: “Con il timpano e con il coro lodate il Signore” (Sal 150,4).

Altro significato. Il re che siede sull’asina è il vescovo, che governa il popolo che gli è affidato, del quale dice Salomone: “Beata la terra”, cioè la chiesa, “il cui re è nobile e i cui prìncipi”, cioè i prelati, “si nutrono al tempo giusto, per rifocillarsi e non per gozzovigliare” (Eccle 10,17). “Mangiano solo per vivere, e non vivono per mangiare” (Glossa); “si nutrono al tempo giusto”, perché non cercano quaggiù la ricompensa, ma guardano a quella futura. Questo re dev’essere – come abbiamo detto sopra – mansueto, giusto, salvatore e povero. Mansueto verso i sudditi; giusto con i superbi, versando vino e olio; salvatore nei riguardi dei poveri; povero, pur tra le ricchezze. O anche: mansueto se riceve un’in­giuria; giusto esercitando la giustizia verso chiunque; salvatore con la predicazione e con l’orazione; povero per l’umiltà del cuore e il disprezzo di sé.

Beata l’asina (sic), beata la chiesa, che ha un simile reggitore (sessore). Al contrario, il vescovo di questo nostro tempo è come Balaam, seduto sopra l’asina: essa vedeva l’angelo, mentre Balaam non poteva vederlo (cf. Nm 22,21-30). Balaam s’inter­preta “che demolisce la fraternità”, oppure “che turba la gente”, o anche “che divora il popolo”. Un vescovo scandaloso è un albero inutile: con il suo cattivo esempio demolisce la fraternità dei fedeli e la precipita prima nel peccato e poi nell’inferno; con la sua stoltezza, giacché è anche inetto, sconcerta i fedeli; con la sua avarizia divora il popolo. Costui, assiso sopra l’asina, non solo non vede l’angelo, ma vi assicuro che vede il diavolo, pronto a precipitarlo all’inferno. Invece il popolo semplice, che ha una fede retta e che vive onestamente, vede l’angelo del Sommo Consiglio, riconosce e ama il Figlio di Dio.

 

IV. l’entusiasmo e le acclamazioni della folla a cristo

 

12. “La folla numerosissima stese le sue vesti per terra: alcuni tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via; le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano dicendo: Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” (Mt 21,8-9). Fa’ attenzione a questi tre fatti: stesero le proprie vesti, tagliavano i rami, e gridavano: Osanna! Le vesti raffigurano le membra del nostro corpo, con le quali si veste l’anima: di esse dice Salomone: “In ogni tempo siano candide le tue vesti” (Eccle 9,8). Dobbiamo stenderle sulla via, vale a dire essere pronti ad esporle alla passione e alla morte per il nome di Gesù, per merita­re di riaverle gloriose e immortali nella risurrezione finale, quando questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale si vestirà di immortalità (cf. 1Cor 15,53).

I rami sono gli esempi dei santi padri, dei quali dice il Signore: “Vi prenderete i frutti dell’albero più bello, spate di palma, rami di alberi dalle dense fronde e salici di torrente e gioirete davanti al vostro Dio” (Lv 23,40). L’albero più bello è la gloriosa Vergine Maria, i cui frutti furono l’umiltà e la povertà. Le palme furono gli apostoli, che riportarono vittoria su questo mondo. Le spate sono i frutti delle palme, prima di aprirsi: in esse vediamo la fede, la speranza e la carità degli apostoli. L’albero dalle dense fronde è la croce di Cristo, che ha allarga­to le dense fronde della fede in tutto il mondo.

I rami di quest’albero furono le quattro estremità della croce, alle quali furono inchiodati i piedi e le mani di Cristo. In queste quattro estremità ci furono quattro pietre preziose: la misericordia, l’obbedienza, la pazienza e la perseveranza. Nell’estremità superiore ci fu la misericordia, in quella destra l’obbedienza, in quella sinistra la pazienza, e in quella inferiore la perseveranza. I salici del torrente, che restano sempre verdi, raffigura­no tutti i santi, che nel torrente di questa vita mortale e passeggera sono rimasti sempre verdi nell’operare il bene.

Prendiamoci dunque i frutti dell’albero più bello, vale a dire la povertà e l’umiltà della Vergine Maria, le spate delle palme, cioè la fede, la speranza e la carità degli apostoli, i rami dell’albero di dense fronde, cioè la misericordia, l’obbedienza, la pazienza e la perseveranza della passione di Gesù Cristo, i salici del torrente, vale a dire le rigogliose opere di tutti i santi, ed esultiamo davanti al Signore, nostro Dio, Gesù Cristo, gridando con le turbe e con i fanciulli degli ebrei: “Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mt 21,9).

Osanna s’interpreta “salvezza”, oppure “salva, ti scon­giuro!”. Osanna dunque, cioè la salvezza appartiene al Fi­glio di Davide, o viene dal Figlio di Davide o per mezzo del Figlio. Benedetto, cioè immune dal peccato: quindi sei benedetto in modo particolare tu, o Cristo, che vieni nel nome del Signore, cioè in onore del Padre, oppure “che vieni”, cioè che verrai. Infatti tu che dapprima sei apparso nella condizione di servo, verrai alla fine quale glorioso Signore. Osanna nell’alto dei cieli, cioè “salva nell’alto dei cieli”; quasi a dire: Tu che hai salvato in terra con la redenzione, salva, te ne scongiuriamo, dandoci un posto nei cieli.

Ti scongiuriamo, dunque, o Gesù benedetto: fa’ che anche noi ci avviciniamo a Gerusalemme con il tuo timore e con il tuo amore. Riportaci a te dal villaggio di questa peregri­nazione terrena; riposati, tu, nostro re, nell’anima nostra, affinché insieme con i fanciulli che hai scelto da questo mondo, cioè con gli apostoli, siamo fatti degni di glorificarti, di lodarti, di benedirti nella città santa, nell’eterna beatitudine. Accordacelo tu, cui è onore e gloria per i secoli eterni. Amen. E ogni anima fedele risponda: Amen!

 

 

LA CENA DEL SIGNORE

(Giovedì santo)

 

1. “Gesù si alzò da tavola, depose le sue vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Quindi versò dell’acqua in un catino e incominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (Gv 13, 4-5).

 

esordio ­ la cena del signore paragonata alla cena di abramo

 

2. Leggiamo un fatto analogo nella Genesi: “Porterò un po’ d’acqua – disse Abramo –, vengano lavati i vostri piedi, e riposate sotto l’albero. Porterò un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore” (Gn 18,4-5). Ciò che Abramo fece ai tre messaggeri, Cristo lo fece ai santi apostoli, messaggeri della verità, che avrebbero predicato in tutto il mondo la fede nella Trinità; si inchinò ai loro piedi come un servo e, così piegato, lavò loro i piedi. O inconcepibile umiltà! O indicibile degnazione! Colui che nei cieli è adorato dagli angeli, si piega ai piedi dei pescatori; quel capo che fa tremare gli angeli si piega sotto i piedi dei poveri.

Per questo Pietro si spaventò e disse: “Non mi laverai i piedi in eterno!” (Gv 13,8), cioè mai. Preso dallo spaven­to, non poté tollerare che un Dio si umiliasse ai suoi piedi. Ma il Signore replicò: “Se non ti laverò”, cioè se ti rifiuterai di essere lavato da me, “non avrai parte con me” (Gv 13,8). Commenta la Glossa: Chi non è lavato per mezzo del battesimo e con la confessione e la penitenza, non ha parte con Gesù.

Dopo aver lavato loro i piedi (cf. Gv 13,12), li fece riposare sotto l’albero che era egli stesso. “Mi sono seduto all’ombra di colui che desideravo, e il suo frutto – cioè il suo corpo e il suo sangue – è dolce alla mia gola (Ct 2,3). Questo è il boccone di pane che pose davanti a loro, con il quale rinfrancò il loro cuore per sopportare le fatiche. “Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane, lo benedisse e lo spezzò” (Mt 26,26). Lo spezzò per indicare che “la frazione” del suo corpo non sarebbe avvenuta senza il suo volere. Prima lo benedisse, perché, insieme con il Padre e lo Spirito Santo, riempì con la grazia della potenza divina la natura che aveva assunto. “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo” (Mt 26,26). Intendi così: “Lo benedisse, sottinteso “dicendo”: Questo è il mio corpo”. Quindi lo spezzò, lo diede loro e disse: “Mangia­te!”, e ripeté: “Questo è il mio corpo”.

 

I. sermone allegorico

 

3. Vedremo il significato allegorico della cena, delle vesti e dell’asciugatoio; nonché dell’acqua, del catino e dei piedi dei discepoli.

La cena è la gloria del Padre; la deposizione delle vesti raffigura l’annientamento della maestà; l’asciugatoio indica la carne innocente; l’acqua rappresenta l’effusione del sangue o anche l’infusione della grazia; il catino il cuore dei discepoli, i piedi i loro sentimenti.

Si alzò quindi dalla mensa, alla quale si trovava con Dio Padre: “Un uomo fece una grande cena, alla quale invitò molti” (Lc 14,16). Una grande cena, perché splendida e traboccante della gloria della divina maestà, delle ricchezze della beatitudine angelica, delle delizie della duplice glorifi­cazione. A questa cena molti sono chiamati, ma pochi vanno, perché “infinito è il numero degli stolti” (Eccle 1,15), i quali disdegnano “la cena della vita” per lo sterco delle cose terrene. Il maiale dorme più volentieri nel fango che in un bel letto. Cristo si alza dalla felicità della sua cena, per far alzare costoro dalla miseria del loro sterco.

“Depose le sue vesti”. Osserva che Cristo depose quattro volte le sue vesti. Nella cena le depose e poi le riprese; alla colonna fu denudato e poi rivestito; durante le irri­sioni dei soldati fu pure denudato e rivestito; però non si legge che sia stato spogliato da Erode; sulla croce fu denudato e non più rivestito.

La prima deposizione si riferisce agli apostoli, che egli abbandonò, ma poi richiamò a sé dopo breve tempo. La seconda si riferisce a quelli che furono accolti nella chiesa nel giorno della Pentecoste e a quelli che vi vengono accolti un po’ alla volta. La terza a coloro che verranno accolti alla fine dei tempi. La quarta si riferisce alla perversa mediocrità del nostro tempo, che mai sarà accolta. La seconda e la quarta spoliazione vengono oggi commemorate in alcune chiese, quando vengono spogliati gli altari, che poi vengono aspersi di acqua e vino e frustati con ramoscelli a modo di flagelli. Deporre le vesti significa annientare se stesso; dopo il lavaggio Gesù le riprese perché, eseguita l’obbedienza, ritornò al Padre dal quale era partito.

Nella Passione del beato Sebastiano si legge che un re aveva un anello d’oro, ornato di una gemma preziosa. L’anello, che gli era molto caro, gli si sfilò dal dito e cadde in una cloaca, per cui ne ebbe un grande dispiacere. Non trovando nessuno che fosse in grado di ricuperare l’anello, deposte le vesti della sua regale dignità, vestito di sacco si calò nella cloaca, cercò a lungo l’anello, e finalmente lo trovò: trovatolo, pieno di gioia lo riportò con sé nella reggia.

Quel re è figura del Figlio di Dio; l’anello rappresenta il genere umano; la gemma preziosa incastonata nell’anello è l’anima dell’uomo. Questi dal gaudio del paradiso terre­stre, quasi sfilandosi dal dito di Dio, cadde nella cloaca dell’infer­no; il Figlio di Dio ebbe grande dispiacere di questa perdita. Egli cercò tra gli angeli e tra gli uomini qualcuno che ricuperasse l’anello, ma non trovò nessuno, perché nessuno era in grado di farlo. Allora depose le sue vesti, annientò se stesso, indossò il sacco della nostra miseria, cercò l’anello per trentatré anni, e alla fine discese agli inferi e lì trovò Adamo con tutta la sua posterità: pieno di letizia prese tutti con sé e li riportò all’eterna felicità.

 

4. “E avendo preso un asciugatoio, se ne cinse”. Infatti dalla carne purissima della Vergine Maria prese l’asciuga­toio della nostra umanità. E su questo concorda ciò che è detto in Ezechiele: “Disse il Signore all’uomo che era rivestito di lino: Entra in mezzo alle ruote che sono sotto i cherubini” (Ez 10,2). La ruota, che ritorna allo stesso punto dal quale è partita, è la natura umana, alla quale fu detto: Sei terra e in terra ritornerai (cf. Gn 3,19). Si dice “in mezzo” rispetto ai due estremi: cioè al principio e alla fine.

Osserva che la natura umana è caratterizzata da tre fatti: l’impurità della concezione, la miseria del pellegrinaggio, l’incenerimento (distruzione) della morte. L’uomo vestito di lino è Gesù Cristo, che dalla beata Vergine ricevette una veste di lino: egli non entrò nel mondo iniziando con un concepimento impuro, perché fu concepito dalla Vergine purissima per opera dello Spirito Santo; non ebbe come fine l’umano incenerimento perché “non permetterai che il tuo Santo veda la corruzione” (Sal 15,10); ma venne “in mezzo” al nostro pellegrinaggio, povero, esule e pellegrino, e in tutto il mondo ebbe a mala pena una dimora.

Dice Neemia: “Non c’era neppure lo spazio per cui potesse passare il giumento sul quale sedevo” (2Esd 2,14). Neemia, che s’interpreta “consolazione del Signore”, è figura di Cristo, nostra consolazione nel tempo della desolazione. Dice infatti Isaia: “Sei stato fortezza al povero, sostegno al misero nella sua angoscia, speranza nel turbine, ombra nell’ardore del sole” (Is 25,4). Fra i triboli delle avversità umane, nel turbine della suggestione diabolica, nell’ardore della lussuria e della vanagloria, egli è la nostra conso­lazione; il suo giumento è l’umanità, sulla quale sedeva la divinità. Questo giumento, sul quale collocò il ferito, cioè il genere umano, in tutto il mondo non ebbe una dimora, perché “non ebbe dove reclinare il capo” (Mt 8,20; Lc 9,58); ebbe solo la croce, sulla quale, “chinato il capo, rese lo spirito” (Gv 19,30).

Entrò quindi in mezzo alle ruote che stanno sotto i cherubini, perché fu reso di poco inferiore agli angeli (cf. Eb 2,7), quando prese l’asciugatoio, di cui si cinse. In quella carne infatti si cinse di umiltà, perché fu necessario che l’umiltà fosse tanto grande nel Redentore, quanto fu grande la superbia nel traditore.

 

5. “Quindi versò dell’acqua nel catino”. Commenta la Glossa: Sparse il sangue in terra, per purificare le impronte dei credenti, lordate dai peccati terreni.

Osserva che il catino è un vaso concavo, risonante, e ha il labbro aperto. Così era anche il cuore degli apostoli, e magari fosse così anche il nostro cuore: concavo per l’umiltà, risonante di devozione, con il labbro aperto ad accusare se stesso. Il catino è chiamato in latino pelvis, perché in esso si lavano i piedi (pedes). Il giorno di Pentecoste il Signore mandò l’acqua della grazia nel cuore degli apostoli; e la manda ogni giorno nel cuore dei fedeli, affinché i loro piedi, cioè i loro affet­ti, vengano purificati da ogni impurità. È ciò che dice Giobbe: “Lavavo i miei piedi nel latte” (Gb 29,6): nel grasso del latte è indicata la devozione dell’anima, con la quale Giobbe, cioè “colui che si duole” dei suoi peccati, purifi­ca gli affetti, i pensieri della sua mente.

“E li deterse con l’asciugatoio del quale era cinto”, perché tutta la sofferenza e la passione del corpo del Signore è la nostra purificazione. Con questo asciugatoio dobbiamo detergere il sudore della nostra fatica, il sangue della nostra passione, prendendo in ogni nostra tribolazio­ne l’esempio della sua pazienza, per poter godere con lui nella sua gloria. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto nei secoli. Amen.

 

II. sermone allegorico

 

6. Così dice Isaia: “Il Signore, Dio degli eserciti, preparerà su questo monte un banchetto di carni grasse per tutti i popoli, un banchetto di vendemmia, di carni grasse piene di midollo, di vini purificati dalla feccia (raffinati)” (Is 25,6). E Matteo dello stesso convito dice: “Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, dopo averlo benedetto, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: Questo è il mio corpo. E preso il calice, rese grazie e lo diede loro dicendo: Bevetene tutti: Questo è il mio sangue (sottinteso: a conferma) della nuova alleanza” (Mt 26,26-28).

Vedi che Cristo ha compiuto oggi quattro azioni: ha lavato i piedi agli apostoli, ha dato loro il suo corpo e il suo sangue, ha fatto un lungo e prezioso discorso, ha pregato il Padre per loro e per tutti quelli che avrebbero creduto in lui. Questo fu il sontuoso banchetto.

Egli è proprio il “Signore degli eserciti”, cioè degli angeli, dei quali in quella notte disse a Pietro: “Credi forse che io non possa pregare il Padre mio, il quale mi manderebbe subito più di dodici legioni di angeli?” (Mt 26,53). Come per dire: Non ho bisogno dell’aiuto di dodici apostoli, io che posso avere dodici legioni di angeli, vale a dire settantaduemila angeli.

“In questo monte”, cioè a Gerusalemme, in quel cenacolo spazioso e bene arredato (cf. Mc 14,15), nel quale gli apostoli ricevettero anche lo Spirito Santo il giorno di Pen­tecoste, “egli fece oggi per tutti i popoli” che credevano in lui “un banchetto di carni grasse”. Il banchetto di questo giorno è veramente un banchetto di carni grasse, perché vi era servito il vitello ingrassato che il Padre sacrificò per la riconciliazione del genere umano. Leggiamo infatti in Luca: “Portate il vitello ingrassato e uccidetelo, e mangiamo e banchettiamo: perché questo mio figlio era morto ed è ritornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato. E incominciarono tutti a banchettare” (Lc 15,23-24). Commenta la Glossa: Predicate la nascita di Cristo, inculcate il ricordo della sua morte, affinché l’uomo creda nel suo cuore, imitando colui che è stato ucciso, e con la bocca riceva il sacramento della passione per la propria purifi­cazione.

È ciò che fa oggi la chiesa universale, alla quale Cristo ha allestito sul monte Sion un banchetto splendido e sontuoso, di una duplice ricchezza, interiore ed esteriore, e abbondante; diede il suo vero corpo, ricco di ogni potenza spirituale, ingrassato con la carità interna ed esterna, e comandò che fosse dato anche a tutti quelli che avrebbero creduto in lui. Perciò si deve credere fermamente e confessare con la bocca che quel corpo che la Vergine partorì, che fu inchio­dato sulla croce, che giacque nel sepolcro, che risuscitò il terzo giorno, che salì alla destra del Padre, egli oggi realmente lo diede agli apostoli, e la chiesa ogni giorno lo “confeziona” e lo distribuisce ai suoi fedeli. Infatti, al suono delle parole “Questo è il mio corpo”, il pane si trasforma, si transostanzia, diventa il corpo di Cristo, che conferisce l’unzione di una duplice ricchezza a colui che lo riceve degnamente, perché attenua le tentazioni e suscita la devozione. Per questo è detto: Terra dove scorrono latte e miele (cf. Dt 31,20), perché addolcisce le amarezze e incrementa la devozione.

Sventurato colui che osa entrare a questo banchetto senza la veste nuziale (cf. Mt 22,11) della carità, o della penitenza, perché chi se ne ciba indegnamente, mangia la sua condanna (cf. 1Cor 11,29). Quale rapporto ci può essere tra la luce e le tenebre? (cf. 2Cor 6,14-15), tra il traditore Giuda e il Salvatore? “La mano di colui che mi tradisce è insieme alla mia sulla mensa” (Lc 22,21). Sta scritto nell’Esodo: “Ogni animale”, quindi anche l’uomo che si è reso simile all’ani­male, “che toccherà il monte”, cioè il corpo di Cristo, “sarà lapidato” (Eb 12,20), cioè sarà dannato (cf. Es 19,12­13).

 

7. “Un banchetto di vini senza feccia”, cioè purificati da ogni impurità e raffinati. Dice anche Mosè nel suo cantico: “E bevano sangue di uva, purissimo” (Dt 32,14). L’uva è l’umanità di Cristo che, spremuta nel torchio della croce, sparse da ogni parte il sangue, che oggi diede da bere agli apostoli: Questo è il mio sangue, che per voi e per molti sarà versato in remissione dei peccati (cf. Mt 26,28). Fu dunque necessa­rio che quel sangue fosse come un vino raffinato e purissi­mo, per essere versato in remissione di tanti peccati!

O carità del Diletto! O amore dello sposo per la sua sposa, la chiesa! Quel sangue che il giorno dopo avrebbe dovuto versare per lei, per mano degli infedeli, glielo offrì oggi egli stesso con le sue mani santissime. E perciò essa esclama nel Cantico dei Cantici: “Il mio diletto è per me come un sacchetto di mirra, collocato tra le mie mammelle. Il mio diletto è come un grappolo di (uva di) Cipro, dei vigneti di Engaddi” (Ct 1,12-13).

Entra la sposa, la chiesa, ossia l’anima, nel folto delle sofferenze e dei dolori del suo sposo, e raccoglie piamente e unisce insieme e lega con i legami dell’amore ora gli insulti, ora gli schiaffi e gli sputi, qui le derisioni e i flagelli, qua e là la croce, i chiodi e la lancia; di tutto fa per sé un mazzetto di mirra, un mazzetto di dolori e di amarezze, e lo colloca tra le sue mammelle, dov’è il cuore, dov’è l’amore. Il Diletto che domani sarà per la sua sposa il mazzetto di mirra, è oggi per lei il grappolo di Cipro. “Il mio calice che inebria”, ecco il grappolo di Cipro, “quanto è eccellente!” (Sal 22,5): ecco l’uva sceltissima e il suo purissimo sangue.

E dove si trova? E da dove si ricava? “Dalle vigne di Engaddi”, che s’interpreta “fonte del capretto”, animale che dà un cattivo odore. Le vigne di Engaddi raffigurano le ferite del nostro Diletto, nelle quali è la viva sorgente, l’acqua che lava ogni sozzura ed elimina ogni cattivo odore. A questa sorgente il ladrone lavò i suoi delitti, quando confessò e implorò: “Ricòrdati di me, quando sarai nel tuo regno” (Lc 23,42). Di questa sorgente dice Zaccaria: “In quel giorno” – cioè domani – “vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante, per lavare il peccatore e la donna nel suo ciclo” (Zc 13,1). Ecco, la sorgente zampilla ed è offerta a tutti. Venite dunque e attingete, e lavate le macchie nascoste e quelle manifeste, indicate appunto nel ciclo mensile.

 

8. Ecco che ora il nostro Diletto, il grappolo di Cipro, il mazzetto di mirra, celebrato quel ricco e raffinato banchetto, dopo aver cantato l’inno, esce con i suoi discepoli verso il monte degli Ulivi (cf. Mt 26,38-39); passa senza dormire tutta questa notte, preoccupato di compiere l’opera della nostra salvezza; si allontana dagli apostoli, incomincia ad essere triste fino alla morte, piega le ginocchia davanti al Padre, domanda che, se è possibile, passi da lui quest’ora, ma sottomette la sua volontà a quella del Padre; ridotto in agonia, emana sudore di sangue.

Dopo tutto questo, viene tradito da un discepolo con un bacio, viene legato e portato via come un malfattore; la sua faccia viene velata, poi coperta di sputi, la sua barba strappata; è percosso al capo con la canna e schiaffeggiato; viene flagellato alla colonna, coronato di spine, condannato a morte; gli viene caricato sulle spalle il legno della croce, si avvia al Calvario, è spogliato delle vesti, viene crocifisso nudo tra i ladroni, viene abbeverato di fiele e aceto, viene insultato e bestemmiato dai passanti. In una parola: La vita muore per i morti.

O occhi del nostro Diletto chiusi nella morte! O volto, nel quale gli angeli bramano fissare lo sguardo (cf. 1Pt 1,12), chino ed esangue! O labbra, favo di miele stillante parole di vita eterna, divenute livide! O capo, tremendo agli angeli, che pende reclinato! Quelle mani, al cui tocco scomparve la lebbra, fu restituita la vista perduta, fuggì il demonio, si moltiplicò il pane: quelle mani, ahimè, sono trafitte dai chiodi, sono bagnate di sangue! (cf. racconto della passione dei quattro evangelisti).

Carissimi fratelli, raccogliamo tutte queste sofferenze e facciamone un mazzo di mirra e poniamolo tra le nostre mammelle, portiamolo cioè nel cuore, soprattutto in questa notte e domani, per poter risorgere con lui il terzo giorno.

Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen.

 

III. sermone anagogico (mistico)

 

9. “Il Signore degli eserciti”, ecc. Vedremo il signifi­cato mistico di queste cinque cose: il monte, il banchetto, la grassezza, il midollo e l’uva scelta.

Il monte è la patria celeste, della quale dice Isaia: “Voi innalzerete un cantico come quello delle celebrazioni solenni, e avrete la letizia nel cuore come chi parte al suono del flauto per recarsi al monte del Signore, al Forte di Israele” (Is 30,29). Fa’ attenzione a tre cose: il cantico, la letizia e il flauto. Il cantico è la lode fatta con la voce; lode che, come dice Cassiodoro, sarà proclamata nella patria: “Nei secoli dei secoli ti loderanno” (Sal 83,5). Nella letizia è indicato il giubilo del cuore, nel flauto la melodia concorde della carne e dello spirito, che avremo in grado perfetto nella risurrezione finale: con essa saliremo giubilando e cantando al monte della patria celeste, al Forte, che è Gesù Cristo, che dalla mano del potente ha liberato Israele, cioè i suoi fedeli, ai quali in questo monte celeste ha preparato un banchetto.

E dice nel vangelo di Luca: “Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel regno dei cieli” (Lc 22,29-30). La mensa preparata per tutti i santi perché ne godano, è la gloria della vita celeste, nella quale ci saranno tre banchetti: della sontuosità (pinguedo), della squisitezza (medullae) e della raffinatezza (uvae defecatae). In questi tre banchetti è indicato il triplice gaudio dei beati.

Nella sontuosità del banchetto è indicato quel gaudio di cui i santi fruiranno nella visione di tutta la Trinità; nella sua squisitezza quello che avranno dalla propria felicità e dallo splendore interiore della coscienza. Per queste due pregava Davide dicendo: “Sia ricolma la mia anima di adipe e di pinguedine”, cioè di quel duplice gaudio, “ e allora la mia bocca ti loderà con labbra esultanti” (Sal 62,6). Nel vino purificato dalla feccia è raffigurato il gaudio di tutta la chiesa trionfante, che allora sarà veramente purificata, perché questo corpo mortale sarà rivestito di immortalità e questo corpo corruttibile sarà rivestito di incorruttibilità (cf. 1Cor 15,53).

Si degni di concedercela colui che è benedetto nei secoli. Amen.

 

 

LA PASQUA DEL SIGNORE (1)

Temi del sermone

 

– Vangelo di Pasqua: “Maria Maddalena”; questo vangelo si divide in quattro parti.

– Anzitutto sermone al predicatore: come da tutte le specie di virtù debba confezionare un estratto (un tonico) per l’anima: “Lo speziale farà le miscele”.

– Parte I: Sermone sull’umiltà: “Maria Maddalena”.

– Sermone sul disprezzo del mondo e come si deve ricevere il corpo di Cristo: “Gettate via il lievito vecchio”.

– Sermone sulla pace: “Di tre cose si è compiaciuto il mio spirito”; natura delle api.

– Sermone ai religiosi: “Prendi gli aromi”.

– Sermone morale sulla tranquillità del cuore: “Di buon mattino”.

– Parte II: Sermone per coloro che vogliono entrare in un ordine religioso: “Chi ci rotolerà via il masso?”

– Parte III: Sermone ai contemplativi: “Ed entrando nel sepolcro”.

– Parte IV: Sermone sulle dieci apparizioni del Signore e sul loro significato: “Voi cercate Gesù”.

– Sermone sulla risurrezione finale e sulle quattro prerogative del corpo glorificato, che sono indicate nei quattro fiumi del paradiso terrestre: “La luce della luna sarà come la luce del sole”.

– Sermone al predicatore, o al prelato della chiesa: “Prendi la verga”.

– Sermone ai penitenti: “Undici teli di lana di capra”; e “Dio onnipotente mi apparve a Luz”.

– Sermone sulla misericordia verso i poveri: “Il Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco”.

 

esordio - sermone al predicatore

 

1. In quel tempo: “Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comprarono gli aromi per andare ad imbalsamare Gesù”, ecc. (Mc 16,1).

Dice l’Ecclesiastico: “Lo speziale fa pigmenti soavi e prepara unguenti salutari” (Eccli 38,7). Sono detti pigmenti – si potrebbero chiamare piligmenti – perché vengono lavorati nella pila (mortaio) con il pilum (pestello). I pigmenti sono quelle spezie delle quali l’anima penitente dice: “Come mirra scelta ho emanato profumo soave: come storace, gàlbano, onice (unghia) e gutta (essenza gommosa)” (Eccli 24,20-21). Queste essenze, come dice la Glossa, sono per i medici pigmenti preziosi, e raffigurano le varie virtù che i veri medici, cioè i medici dello spirito, usano per curare gli uomini. Nella mirra è indicata la penitenza; ma non c’è vera penitenza se ad essa non sono mescolate queste quattro essenze: lo storace, il gàlbano, l’onice e la gutta.

Lo storace è un’essenza di profumo gradevolissimo; stilla da una pianta che lo emana come un liquido mielato; il gàlbano è una spezie (resina) che con il suo odore mette in fuga i serpenti; l’onice, nominato anche nell’Esodo (Es 35,27), è una pietra preziosa così chiamata con la parola greca onyx, in lat. ungula, unghia, perché assomiglia all’unghia dell’uomo; la gutta è un’essenza che cura ogni indurimento e attenua i gonfiori.

Ecco dunque che nello storace è indicata la compunzione delle lacrime, le quali mandano profumo al cospetto di Dio, e all’anima penitente sono più dolci del miele e del favo di miele (cf. Sal 18,11); nel gàlbano è indicata la confessione che mette in fuga i serpenti, cioè i demoni; nella gutta è indicata l’umiltà nel compiere l’opera di penitenza, che cura la durezza della mente e reprime l’impudenza del corpo. Ma poiché non è detto beato chi incomincia, ma chi persevera sino alla fine (cf. Mt 10,22; 24,13), a queste tre essenze si deve aggiungere l’onice, l’unghia, che è la parte estrema del corpo, e quindi raffigura la perseveranza finale. Lo speziale dunque, cioè il predicatore, deve pestare queste spezie nel mortaio, cioè nel cuore del peccatore, deve agire con il pestello della predicazione e mescolare il balsamo grezzo alla misericordia divina, perché abbia un gusto più gradito all’anima del penitente.

“E prepara unguenti salutari”. L’unzione (l’unguento) in grado di istruire l’uomo su tutte quelle cose che gli sono necessarie, è composta di due elementi: il vino e l’olio; il vino che fluì dalla vera vite, pressata nel torchio della croce; l’olio con il quale fu unta la chiesa primitiva nel giorno della Pentecoste: cioè il sangue di Cristo e la grazia dello Spirito Santo. Lo speziale deve fare gli unguenti con queste due sostanze per poter ungere, insieme alle tre donne, le membra di Cristo, cioè i fedeli della chiesa. Leggiamo infatti nel vangelo di oggi: “Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi per ungere il corpo di Gesù”.

 

2. Osserva che in questo vangelo sono posti in evidenza quattro fatti. Primo, la devozione delle pie donne e la compera degli aromi, quando è detto: Maria Maddalena, ecc. comperarono gli aromi; secondo: la rimozione della pietra, quando aggiunge: E dicevano tra loro: Chi ci rotolerà la pietra?; terzo: la visione degli angeli, dove dice: Entrate nel sepolcro, videro, ecc.; quarto: la risurrezione di Cristo: “Egli disse loro: Non spaventatevi!...”

 

I. la devozione delle pie donne e la compera degli aromi

 

3. “Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi”. In queste tre donne sono indicate tre virtù della nostra anima, e cioè l’umiltà della mente, il disprezzo del mondo, la giocondità della pace.

Nella Maddalena, così chiamata dal villaggio di Magdala, che s’interpreta “torre”, è indicata l’umiltà della mente; in Maria di Giacomo, che s’interpreta “soppiantatrice”, madre di Giacomo il minore (cf. Mc 15,40), è indicato il disprezzo del mondo; in Salome, che vuol dire “pacifica”, madre di Giacomo e di Giovanni l’evangelista, è raffigurata la giocondità della pace. Queste tre donne vengono chiamate con un solo nome: Maria, che s’interpreta “illuminazione”, perché le tre virtù che rappresentano illuminano la mente nella quale dimorano. Diciamo qualcosa di ciascuna di esse.

Maria Maddalena è l’umiltà della mente, che mentre reputa se stessa un nulla, si protende verso l’alto come una torre. Perciò dice Giacomo: “Il fratello umile si rallegri nella sua esaltazione” (Gc 1,9), perché da dove viene l’umiliazione di lì viene anche l’esal­tazione. Di questa torre è detto nella Genesi che Giacobbe “piantò una tenda al di là della torre del gregge” (Gn 35,21). Nella torre è indicata l’umiltà, nel gregge la vera semplicità. Giacobbe, cioè il giusto, fissa la tenda della sua vita, tenda nella quale milita – giacché la vita del giusto sopra la terra è una milizia (cf. Gb 7,1) –, al di là della torre del gregge, perché si mantiene costantemente nell’umiltà, che è la madre della vera semplicità. E osserva che è detto “al di là della torre” e non nella torre, perché il giusto, finché vive quaggiù, ha di se stesso un concetto molto più modesto di quanto non sia in realtà.

Della Maddalena dice Giovanni: “Maria stava fuori del sepolcro piangendo. Mentre piangeva si chinò e guardò dentro al sepolcro. E vide due angeli biancovestiti che sedevano uno al capo e uno ai piedi del luogo dove il corpo di Gesù era stato posto” (Gv 20,11-12). Fa’ attenzio­ne alle singole parole. Il sepolcro, detto in latino monumentum, monumento, perché ammonisce la mente a ricordarsi del defunto, sta a significare il pensiero della nostra morte, il pensiero della nostra sepoltura: e questi pensieri ci esortano a dolerci nella nostra mente e a persistere nelle opere di penitenza.

“Maria stava al di fuori del sepolcro”, perché l’umile è assiduo nel pensiero della sua morte, affinché, quando essa verrà, lo trovi vigilante. E come stava al sepolcro? Fuori, piangendo. Fuori, non dentro. Fuori non c’è altro che “pianto e grande lamento”. Rachele” – nome che significa “pecora” –, cioè l’anima semplice del penitente, “piange i suoi figli”, cioè le sue opere che, a causa del peccato erano morte, “e non vuole essere consolata perché non sono più” (Mt 2,18) così vive come lo erano prima di essere uccise dal peccato. Ahimè, quanto facile è la discesa, e quanto difficile invece è la salita! Si distrugge in breve, ciò che si è costruito in lungo tempo! (Catone).

“Mentre continuava a piangere, si chinò e guardò nel sepolcro”. Ecco la vera umiltà del penitente. Fa’ attenzio­ne a queste tre parole: piangeva, si chinò, guardò. Piange­va, ecco la contrizione; si chinò, ecco la confessione; guardò, ecco la soddisfazione (l’opera penitenziale), alla quale si impegna seriamente, quando volge l’occhio al monumento, quando cioè pensa alla sua morte.

“E vide due angeli”. Questi due angeli – angelo significa “nunzio” – raffigurano in senso morale il nostro miserevole ingresso alla vita e la nostra amara dipartita. Noi, che siamo il corpo di Cristo, procuriamo di avere questi due angeli, uno alla testa e uno ai piedi della nostra vita, mentre meditiamo sulla nostra miserevole entrata e uscita da essa. Giustamente sono detti angeli, perché ci annunziano la caducità del nostro corpo e la vanità di questo mondo. Questi sono i due angeli che, come è detto nella Genesi, “fecero uscire Lot da Sodoma, e gli dissero: Salva la tua vita; non voltarti indietro e non fermarti in nessun posto all’intorno. Sàlvati sul monte, per non perire con tutti gli altri” (Gn 19,17). Chiunque meditasse attentamente sulla sua entrata e sulla sua uscita da questa vita, uscirebbe subito da Sodoma, cioè dal fetore del mondo e del peccato, e salverebbe la sua anima; non si volterebbe indietro, cioè non ritornerebbe ai peccati passati; e non si fermerebbe in nessun luogo all’intorno: si ferma all’intorno colui che dopo aver abbandonato il peccato, non si cura di fuggire anche le occasioni e le fantasie di peccato; ma si salverebbe sul monte, cioè in una vita perfetta. Ecco quindi che giustamente nella Maddalena è indicata l’umiltà.

 

4. Alla Maddalena è felicemente accompagnata Maria di Giacomo, il cui nome s’in­ter­preta “soppiantatrice”. Essa rappresenta il disprezzo del mondo, per cui uno calpesta sotto i piedi, come fango, tutte le cose transitorie e getta via il lievito della precedente [cattiva] condotta. L’Apostolo infatti nell’epistola di oggi dice: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, perché siete azzimi (puri). Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1Cor 5,7).

Lievito, in latino fermentum, deriva da fervore, o bollore. Dopo la prima ora non è più possibile frenarlo, perché crescendo trabocca e oltrepassa ogni misura; in greco si chiama zyma (da cui àzimo, senza lievito, e quindi puro). Nella “sequenza” composta da Adamo di San Vittore, è detto: “Sia espurgato il vecchio fermento, affinché sia annunziata con cuore sincero la nuova risurrezione”. Il lievito, o fermento, raffigura la cupidigia delle cose terrene e la concupiscenza dei desideri carnali che, quando incominciano a ribollire, eccedono ogni misura: infatti l’avaro non è mai sazio di denaro, né il lussurioso è mai pago del piacere dei sensi.

Dice infatti Isaia: “Gli empi, cioè gli avari e i lussuriosi, sono come un mare agitato che non può placarsi e i cui flutti portano in superficie sudiciume e fango. Non c’è pace per gli empi, dice il Signore” (Is 57,20-21). I flutti del mare ribollente e tempestoso raffigurano i desideri dell’uomo perverso, che avviliscono la sua anima e la riducono miseramente a sudiciume e fango, in cui i porci, cioè i demoni, volentieri si insediano. Gettate via dunque il vecchio lievito! Per questo il Signore comanda: “Per sette giorni non si tro­verà lievito nelle vostre case; e chiunque mangerà qualcosa di lievitato, perirà la sua anima dalla terra d’Israele” (Es 12,19). Per sette giorni, cioè per tutto il tempo della nostra vita, che si evolve quasi nel giro di sette giorni, non si trovi nelle vostre case, cioè nei vostri cuori, nulla di fermentato, cioè ardente di mondana e carnale concupiscenza. Diversamente, l’anima di colui che ne avrà mangiato perirà dalla terra d’Israele, cioè dalla vita eterna, nella quale vedremo Dio faccia a faccia (cf. 1Cor 13,12). “Gettate via dunque il lievito vecchio, per essere pasta nuova, perché siete puri”.

Leggiamo nell’Esodo: “Il popolo prese la farina impasta­ta, prima che fosse lievitata: avvoltala nei mantelli, la gente se la pose sulle spalle” (Es 12,34). E poco dopo: “Cossero la farina che avevano portata dall’Egitto già impastata e ne fecero dei pani azzimi, cotti sotto la cenere” (Es 12,39). In questa citazione ci sono tre cose da notare: la contrizione, la confessione e la soddisfazione. La farina, detta così da farro (grano) che è il cibo degli infermi, raffigura la penitenza che è il cibo dei peccatori: dobbiamo impastarla con l’acqua della contrizione e chiuderla nei mantelli, cioè nella nostra coscienza, con il vincolo della confessione e portarla sulle nostre spalle con le opere penitenziali della soddisfazione. Questa farina, perché non fermenti, dobbiamo cuocerla con il fuoco, cioè con l’amore dello Spirito Santo, e farne come dei pani cotti sotto la cenere, viatico della nostra condizione mortale, pani azzimi della sincerità e della verità (cf. 1Cor 5,8), vivendo nella sincerità nei nostri riguardi, e nella verità nei riguardi di Dio e del prossimo.

 

5. “Cristo nostra Pasqua è stato immolato”. Secondo Agostino, pasqua deriva il suo nome non da “passione”, ma da “passaggio”, perché in quel giorno passò attraverso l’Egitto l’angelo sterminatore, figura del Signore che venne a liberare il suo popolo. Con lo stesso nome (pasqua) indicavano l’Agnello, che in questo giorno sarebbe passato da questo mondo al Padre. E osserva che è detto pasqua l’agnello e anche l’ora della sera nella quale l’agnello veniva ucciso, cioè la decimaquarta luna del mese; e si dice anche “giorni degli azzimi”, che andavano dalla decimaquinta luna al giorno ventunesimo dello stesso mese. Ma gli evangelisti scrivono indifferentemente giorni degli azzimi per pasqua, e pasqua per giorni degli azzimi. Infatti Luca scrive: “Si avvicinava il giorno di festa degli azzimi, che è chiamato pasqua” (Lc 22,1). “Cristo, nostra Pasqua, dunque, è immolato”. Mangiamo perciò, in questa solennità pasquale, questo Agnello “bruciato” per noi sulla croce, immolato al Padre per la riconciliazione del genere umano; mangiamolo con le erbe selvatiche, come fu ordinato ai figli d’Israele, vale a dire con il dolore e la contrizione del cuore.

Disse il Signore: “Vi cingerete i fianchi, calzerete i sandali ai piedi, terrete in mano il bastone e mangerete l’agnello in fretta: è infatti la pasqua, cioè il passaggio del Signore” (Es 12,11). Fa’ attenzione a queste tre parole: i fianchi, i sandali, il bastone.

I fianchi, in lat. renes; i reni sono così chiamati perché da essi nascono quasi dei ruscelli (lat. rivi) di liquido ripugnante. Infatti le vene e le viscere secernono nei reni un umore leggero che, liberato poi dai reni stessi, scende eccitando i sensi. La secrezione dei reni è calda, e i reni sono circondati da molto grasso: quindi giustamente dice il Signore: Cingerete i vostri reni ( le reni, i fianchi), reprimerete cioè con la mortificazione della carne l’ardore della lussuria.

I sandali raffigurano gli esempi dei santi, con i quali dobbiamo proteggere i piedi, cioè gli affetti della mente, per essere in grado di camminare in tutta sicurezza sui serpenti, cioè le suggestioni del diavolo, e sugli scorpio­ni, vale a dire sulle false promesse del mondo.

Il bastone nelle mani rappresenta le parole della predicazione, tradotte nella pratica delle opere.

Quindi, chi vuole ricevere degnamente il corpo del Signore, si cinga i fianchi con la cintura della castità, fortifichi gli affetti della mente con gli esempi dei santi, e traduca le parole in opere: così con i veri Israeliti celebri la vera pasqua, per passare da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1). Di questo passaggio disse un filosofo: Il mondo è come un ponte: pàssaci sopra senza fermarti. E un altro: Il mondo è un ponte malsicuro, il suo ingresso è il grembo della madre, e la sua uscita sarà la morte. Ottima cosa è dunque edificare la torre dell’umiltà con Maria Maddalena, e soppiantare, cioè disprezzare il mondo, insieme con Maria di Giacomo.

 

6. A queste due Marie si aggiunge la terza, cioè Salome, che è “l’abbondanza della pace”. Di essa dice Salomone: “Di tre cose mi sono compiaciuto nel mio spirito, tre cose gradite a Dio e agli uomini: la concordia dei fratelli, l’amore tra i vicini, e marito e moglie che vanno d’accordo tra loro” (Eccli 25,1-2). Da questa triplice pace nasce il gaudio di Dio e dei suoi angeli, e la gioia per gli uomini. “Ecco – dice il profeta – quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 132,1).

“Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi per andare ad imbalsamare il corpo di Gesù”. Scrive Luca: “Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea, guardarono attentamente il sepolcro e come era stato deposto il suo corpo. Ritornarono indietro e prepararono gli aromi e gli unguenti; e il giorno di sabato osservarono il riposo, secondo il precetto” (Lc 23,55-56).

La Glossa, commentando Matteo (Mt 28,1), dice: Era comandato che il silenzio del sabato fosse osservato da vespro a vespro; quindi le pie donne, sepolto il Signore, mentre era ancora permesso il lavoro – e cioè il giorno della parasceve (venerdì) fino al tramonto del sole – si occuparono nella preparazione dei vari unguenti. E poiché, per il poco tempo a disposizione, non riuscirono a completare i preparativi, passato il sabato, cioè al tramonto del sole, quando di nuovo era permesso il lavoro, subito si affretta­rono a comperare gli aromi, per essere pronte al mattino seguente per andare a imbalsamare il corpo di Gesù. Queste pie donne si affrettavano: si affaticavano a preparare unguenti come si affaticano le api nel produrre il miele e la cera.

Dice la Storia Naturale che le varie attività delle api sono ben distinte tra loro, giacché alcune producono la cera e altre il miele; alcune portano acqua, altre radunano il miele e altre ancora lo pressano; alcune escono per il lavoro allo spuntar del giorno e altre riposano finché una le sveglia. Quindi tutte insieme volano fuori a lavorare. In quest’ape che sveglia le altre che stanno dormendo, io vedo raffigurata la beata Maddalena, la quale, poiché ardeva di grande amore, sollecitava vivamente le altre a preparare gli unguenti. Invece la Vergine Maria, dopo che il figlio suo Gesù fu deposto nel sepolcro, mai se ne allontanò, come affermano alcuni, ma restò sempre lì a vegliare in lacrime, finché per prima lo vide risorgere: per questo i fedeli festeggiano in suo onore il giorno di sabato.

 

7. Sul loro esempio, le anime fedeli, illuminate dallo splendore dell’umiltà, della povertà e della pace, comprino, con il denaro della buona volontà, segnato con l’immagine dell’imperatore (cf. Mt 22,19-21), quegli aromi dei quali dice Mosè: “Procùrati aromi: mirra scelta e vergine, cinnamomo, canna odorosa, cassia e olio d’oliva: ne farai l’un­guento per l’unzione sacra, confezionato con l’arte del profumiere. Ungerai con esso la tenda della testimonianza e l’arca dell’alleanza, la mensa con i suoi vasi, il candelabro con i suoi accessori, l’altare dell’incenso e l’altare dell’olocausto” (Es 30,23-28). Nella mirra vergine e scelta è indicata la devozione della mente, alla quale dobbiamo tendere più che a tutto il resto; nel cinnamomo, che è color cenere, è indicato il pensiero della morte; nella canna odorosa la melodia della confessione; nella cassia, che ha il suo habitat in luoghi umidi e cresce molto alta, è indicata la fede, che si nutre nelle acque del battesimo e si spinge verso l’alto per mezzo dell’amore; nell’olio d’oliva è indicata la misericordia del cuore. Con questi cinque elementi dobbiamo preparare l’unguento sacro che ci santifica, confezionato con l’arte del profumiere, cioè dello Spirito Santo.

Con questo unguento devono essere unte queste cinque cose: la tenda della testimonianza, cioè i poveri di Cristo, i quali, segnati con il carattere della sua povertà, finché sono in questo mondo, sono come in esilio, lontani dal Signore; l’arca dell’alleanza, cioè coloro che portano l’arca dell’obbedienza sul carro nuovo, vale a dire in un cuore e in un corpo rinnovati con la penitenza; la mensa con i suoi vasi, cioè coloro che porgono a tutti i dodici pani, che è la dottrina dei dodici apostoli, con un pugno d’incenso, che è l’umiltà e la devozione della mente, e la patena d’oro, vale a dire la luce dell’amore fraterno; il candelabro e i suoi accessori, cioè tutti i santi prelati della chiesa, che non nascondono il candelabro della loro dignità sotto il moggio, cioè sotto il guadagno materiale, ma lo mettono sopra il monte di una vita veramente santa, affinché illumini e mostri la strada a tutti coloro che sono nella casa (cf. Mt 5,15), cioè nella chiesa; e questo valga non solo per il candelabro ma anche per i suoi accessori, vale a dire per tutti gli altri che hanno dignità minori; e finalmente i due altari dell’olocausto e dell’incenso. Nell’altare dell’olocausto sono indicati gli attivi, coloro che si dedicano totalmente alle necessità del prossimo; mentre nell’altare dell’incenso sono indicati i contemplativi, che sperimentano la soavità delle dolcezze celesti.

Quindi con questo unguento, confezionato per opera dello Spirito Santo, devono essere unti tutti coloro che abbiamo nominato, che sono le membra di Gesù Cristo, crocifisse sulla croce della penitenza, morte al mondo, lontane dall’agitazione degli uomini perché rinchiuse nel sepolcro della frequentazione delle cose celesti.

 

8. “Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi, per andare ad imbalsamare il corpo di Gesù. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, andarono al sepolcro, appena sorto il sole” (Mc 16,1-2).

Matteo scrive così: “La sera del sabato, in cui ha inizio il primo giorno dopo il sabato, Maria Maddalena e l’altra Maria andarono a vedere il sepolcro” (Mt 28,1). E Luca: “Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono al sepolcro, portando gli aromi che avevano preparato” (Lc 24,1). E Giovanni: “Il primo giorno dopo il sabato, Maria Maddalena si recò al sepolcro al mattino, quando ancora era buio” (Gv 20,1).

Dunque Marco dice: “di buon mattino”, e in questo non si discosta da Luca e da Giovanni. Matteo invece, parlando della prima parte della notte, cioè della sera, vuole indicare la notte, alla fine della quale [vale a dire al mattino] si recarono al sepolcro. Devi quindi intendere le sue parole in questo modo: Andarono al sepolcro alla sera, cioè nella notte che incomincia quando finisce la luce, poiché il crepuscolo non è la prima ma l’ultima parte della notte. Quindi la sera del sabato, cioè all’inizio della notte dopo il sabato; certamente incominciarono ad avviarsi alla sera, a preparare gli aromi, ma arrivarono ai primi albori del giorno: ciò che Matteo, per motivi di brevità, dice in modo poco chiaro, gli altri invece lo dicono esplicitamente.

Ed ecco il senso morale. “Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato”. Al mattino, cioè agli inizi della grazia, senza la quale nell’anima c’è la notte. Dice il profeta: “Al mattino starò davanti a te” (Sal 5,5), ritto ed eretto, come ritto ed eretto tu mi hai fatto. Il primo giorno dopo il sabato le anime sante vanno al sepolcro, perché se l’animo non desiste dal preoccuparsi delle cose temporali, non si avvicina a Dio. Dice il Signore per bocca di Geremia: “Custodite le vostre anime, e non vogliate portare pesi il giorno di sabato, e non introduceteli per le porte di Gerusalemme” (Ger 17,21). Sabato s’interpreta “riposo”; Gerusalemme è l’anima e le porte sono i cinque sensi del corpo. Quindi portano pesi nel giorno di sabato e li introducono per le porte di Gerusalemme coloro che, implicati negli affanni delle cose temporali, attraverso le porte dei cinque sensi introducono nell’anima il peso dei peccati, il bagaglio delle preoccupazioni di questo mondo, e quindi non custodi­scono l’anima dal peccato. Invece le anime fedeli, evitato ogni ronzio delle mosche dell’Egitto (cf. Is 7,18), “il primo giorno dopo il sabato si recano al sepolcro”.

 

II. rimozione della pietra dalla porta del sepolcro

 

9. “E dicevano tra loro: Chi ci rotolerà via la pietra dalla porta del sepolcro? E guardando, videro la pietra già rimossa: era una pietra molto grande!” (Mc 16,3-4).

Senso allegorico. La rimozione della pietra ci ricorda la rivelazione dei sacri misteri di Cristo, che erano coperti dal velo della lettera della legge. La legge infatti era scritta nella pietra e, rimossa la sua copertura, fu manifestata la gloria della risurrezione, e incominciò ad essere proclamata in tutto il mondo l’abolizione della morte antica e la vita senza fine, nella quale ci era dato di sperare.

Senso morale. La pietra viene rimossa quando per mezzo della grazia viene tolto il peso del peccato. Quando questo avvenga, e come debba comportarsi l’uomo perché questo si realizzi in lui, è detto nella Genesi: Era uso che, quando tutte le pecore erano radunate, fosse rimossa la pietra dalla bocca del pozzo (cf. Gn 29,3). Quindi se vuoi che venga rimossa la pietra del peccato, che ti impedisce di rialzarti, raduna attorno a Cristo le pecore, vale a dire i buoni pensieri. E continua la Genesi: “Ed ecco arrivò Rachele con le pecore di suo padre, giacché essa pascolava il gregge” (Gn 29,9). Rachele, che s’inter­preta “pecora”, pasce le pecore, perché l’uomo semplice si ferma su pensieri onesti.

Così pure, in senso morale, va al sepolcro colui che si propone di fare penitenza in qualche monastero o in un ordine religioso. Ma, considerando la grandezza e il peso della pietra, vale a dire le difficoltà della vita religiosa, dice tra sé: Chi mi rimuoverà la pietra dalla porta del sepolcro? Grande e pesante è la pietra, difficile è l’ingresso, difficili le lunghe veglie, i frequenti digiuni, la scarsità del cibo, la ruvidezza della veste, la severa disciplina, la povertà volontaria, l’obbedienza pronta: e chi mi rimuoverà questa pietra dalla porta del sepolcro?

O menti femminee, avvicinatevi e guardate, non siate diffidenti e vedrete che la pietra è già rimossa. “Un angelo – dice Matteo – discese dal cielo e rimosse la pietra: e ora stava seduto su di essa” (Mt 28,2). L’angelo è la grazia dello Spirito Santo che rimuove la pietra dalla porta del sepolcro, sostiene la nostra fragilità, mitiga ogni asprezza e addolcisce con il balsamo del suo amore ogni amarezza. Il cavallo – cioè la buona volontà –, viene preparato per la battaglia, ma è il Signore che dà la salvezza (cf. Pro 21,31). “Nulla è difficile per chi ama” (Bernardo).

 

III. la visione dell’angelo

 

10. “Entrate nel sepolcro, videro un giovane seduto a destra, vestito di una stola candida, e furono molto stupi­te” (Mc 16,5).

Senso morale. Il sepolcro raffigura la vita contemplativa nella quale l’uomo, morto al mondo, si seppellisce nel nascondimento. Dice Giobbe: “Entrerai nel sepolcro nel­l’ab­­bon­­danza, come si raccoglie il mucchio di grano a suo tempo” (Gb 5,26). Il giusto, soffiata via la pula delle cose temporali, uscendo dal mondo, nell’abbondanza della grazia divina entra nel sepolcro della vita contemplativa, nella quale viene messo in serbo come un cumulo di grano, giacché la sua anima si raccoglie con celeste dolcezza nella contem­plazione. Egli, entrando nel sepolcro, vede un giovane seduto dalla parte destra, coperto di una veste candida. Il “giovane”, così chiamato perché pronto a “giovare” (aiutare), è il Figlio di Dio, che come un giovane ci aiuta ed è sempre pronto ad aiutare. Giustamente è detto: “Sedeva dalla parte destra”. Si dice destra, come per dire “dando fuori” (lat. dextera, dans extra). Egli ci aiutò in modo meraviglioso quando diede a noi la divinità e assunse la nostra umanità, affinché noi, che eravamo fuori, fossimo dentro; perché noi entrassimo, egli uscì e si coprì della veste candida, cioè della carne umana, ma senza alcuna macchia. Dice il beato Bernardo: “Dopo tutti i benefici, volle essere trafitto alla parte destra, per mostrarci che solo dalla destra volle prepararci un posto a destra”.

Il giusto che esce dal mondo ed entra nel sepolcro, deve vedere, deve contemplare questo “giovane”, nel modo indicato dal beato Bernardo: “Come l’animale che viene iniziato al lavoro, così il giovane apprendista di Cristo deve essere istruito sul modo di avvicinarsi a Dio, affinché Dio si avvicini a lui. Dev’essere esortato a rivolgersi, con la massima purezza di cuore possibile, a colui al quale presenta l’offerta della sua preghiera. Quanto più vede e comprende colui al quale fa la sua offerta, tanto più arderà di amore per lui, e la comprensione stessa si trasformerà in amore; e quanto più sarà di lui innamorato, tanto più capirà se ciò che gli offre è veramente degno di Dio e se in lui ne avrà giovamento. Tuttavia a colui che prega o medita in questo modo, sarà meglio e più sicuro proporre l’immagine dell’umanità del Signore, della sua natività, della sua passione e risurre­zione, affinché lo spirito debole, che non sa pensare se non alla materia e a cose materiali, trovi qualcosa su cui fissarsi con sguardo di pietà e a cui attaccarsi, secondo le sue disposizioni. Ciò che si legge in Giobbe, che l’uomo, se si ferma a considerare la sua natura, non peccherà (cf. Gb 5,24), è detto certamente in riferimento al Mediatore Cristo, e significa: quando l’uomo rivolge a lui lo sguardo della sua intelligenza, considerando in Dio la natura umana, non si allontani mai dalla verità, e mentre per mezzo della fede non separa Dio dall’uomo, impara alla fine a riconoscere nell’uomo il suo Dio. Con tutto ciò, nell’animo dei poveri nello spirito e dei figli di Dio più semplici, il sentimento è, di solito, tanto più soave, quanto più si avvicina alla natura umana. In un secondo momento però, quando la fede si trasforma in affetto, accogliendo nel centro del loro cuore, con il dolce abbraccio dell’amore, Cristo Gesù, uomo perfetto assunto per l’uomo, e vero Dio in quanto Dio che assume, incominciano a conoscerlo non più secondo la carne, per quanto non possano ancora pensarlo pienamente Dio secondo Dio, e benedicendolo nel loro cuore, amano offrirgli i loro voti” (Guigo Certosino, Epistole) e i loro aromi, insieme con le sante donne, delle quali appunto è detto: “Entrando nel sepolcro, videro un giovane seduto a destra”, ecc.

 

IV. la risurrezione di gesù cristo

 

11. “Il giovane disse loro: Non abbiate timore! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’hanno deposto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che vi precederà in Galilea; ivi lo vedrete, come egli vi ha detto” (Mc 16,6-7). “È scomparsa l’amara radice della croce, è sbocciato il fiore della vita con i suoi frutti”. “Chi giaceva nella morte, è risorto nella gloria”. “Al mattino è risorto, chi alla sera era stato sepolto”, affinché si adempisse la parola del salmo: “Alla sera perdura il pianto, ma al mattino ecco la gioia!” (Sal 29,6).

Gesù quindi fu sepolto il sesto giorno della settimana, che si chiama parasceve; verso il tramonto, prima che incominciasse il sabato; la notte seguente, il giorno di sabato con la notte seguente restò deposto nel sepolcro; il terzo giorno, cioè il mattino del primo giorno dopo il sabato, risuscitò. Restò nel sepolcro esattamente un giorno e due notti, perché unì la luce della sua unica morte alle tenebre della nostra duplice morte. Noi infatti eravamo schiavi della morte dell’anima [vita naturale] e dello spirito [vita spirituale]. Egli subì per noi un’unica morte, quella della carne, e così ci liberò dalla nostra duplice morte. Unì la sua unica morte alla nostra duplice morte, e morendo le distrusse entrambe.

Leggiamo nel vangelo che il Signore, dopo la risurrezio­ne, apparve ai suoi discepoli ben dieci volte, di cui le prime cinque il giorno stesso della risurrezione. La prima volta apparve a Maria Maddalena, la seconda alle donne che tornavano dal sepolcro, la terza a Pietro, secondo quanto afferma Luca: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24,34); la quarta volta è apparso ai due discepoli diretti a Emmaus; la quinta ai dieci apostoli nel cenacolo a porte chiuse, in assenza di Tommaso. La sesta volta riapparve ai discepoli, otto giorni dopo, presente anche Tommaso; la settima volta apparve a sette discepoli che stavano pescando; l’ottava fu sul monte Tabor, dove il Signore aveva stabilito che tutti si riunissero ad attenderlo: e così prima della sua ascensione apparve otto volte; e nel giorno dell’ascensione apparve altre due volte, e cioè mentre gli undici stavano mangiando nel cenacolo, per cui dice Luca: “Mentre mangiava insieme ad essi, comandò loro di non allontanarsi da Gerusalemme” (At 1,4). Poi si mostrò di nuovo dopo la refezione: gli undici apostoli e altri discepoli, la Vergine Maria con altre donne si recarono al monte degli Ulivi, dove apparve loro il Signore e “mentre essi stavano guardando, egli si sollevò verso l’alto, e una nube lo nascose ai loro occhi” (At 1,9). Vediamo quale sia il significato morale di queste dieci apparizioni.

 

12. 1. Apparve a Maria Maddalena. Infatti all’anima peni­tente appare la grazia di Dio, prima che agli altri. È detto nell’Esodo: “Apparve nel deserto la manna, una cosa minuta, come pestata nel mortaio, simile alla brina che si posa sulla terra” (Es 16,14). Nel deserto, cioè in colui che fa penitenza, appare la manna della grazia divina, frantumata nella contrizione, pestata nel mortaio della confessione, simile alla brina nell’opera penitenziale della soddisfazione.

2. Apparve alle donne che tornavano dalla visita al sepolcro. Il Signore infatti appare a coloro che ritornano dal sepolcro, cioè escono dalla loro miseranda morte spirituale e considerano il lacrimevole ingresso della loro nascita. Leggiamo nella Genesi: “Il Signore apparve ad Abramo nella valle di Mamre, mentre era seduto all’ingresso della sua tenda nell’ora più calda del giorno” (Gn 18,1). Abramo è il giusto, la valle è la duplice umiltà; Mamre s’interpreta “splendore”; la tenda raffigura il corpo, l’ingresso della tenda l’ingresso e l’uscita dalla vita; l’ora più calda del giorno raffigura il pentimento dell’anima. Il Signore appare quindi al giusto che si mantiene nella duplice umiltà del cuore e del corpo, la quale conduce allo splendore della gloria celeste; al giusto che sta seduto all’ingresso della sua tenda, che medita cioè sulla nascita del suo corpo e sulla sua morte: e deve meditare tutto questo nel fervore del pentimento.

3. Apparve a Pietro. Scrive Geremia: “Il Signore mi apparve [e mi disse]: Io ti ho amato di amore eterno; perciò ti ho attirato a me con misericordia; di nuovo ti edificherò” (Ger 31,3-4). Dice Pietro: Il Signore risorto da morte è apparso a me, a me penitente, a me amaramente piangente! E risponde il Signore: “Ti ho amato di amore eterno”. Infatti “il Signore, voltatosi, guardò Pietro” (Lc 22,61). Lo guardò perché lo amava; quindi con la fune dell’amore “ti ho attirato a me con misericordia”. Dice Agostino: Non vuole vendicarsi dei peccatori, colui che brama concedere il perdono a coloro che si pentono. “E di nuovo ti edificherò”, ti riporterò alla dignità dell’aposto­lato: “Andate, e dite ai suoi discepoli e a Pietro”. Commenta Gregorio: “Pietro viene chiamato per nome, perché non si disperi per la sua triplice negazione. Se l’angelo infatti non lo avesse indicato per nome, lui che era giunto a rinnegare il Maestro, non avrebbe più osato ritornare tra i discepoli”.

4. Apparve ai due discepoli diretti a Emmaus. Emmaus s’interpreta “desiderio di consiglio”, del consiglio dato dal Signore che disse: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri” (Mt 19,21). I due discepoli rappresentano i due comandamenti della carità: l’amore di Dio e del prossimo. A colui che ha la carità e che desidera essere povero come Cristo, appare il Signore. Si legge nella Genesi che Isacco salì a Bersabea, dove gli apparve il Signore (cf. Gn 26,23-24). Bersabea s’interpreta “pozzo che sazia” e sono in esso raffigurate la carità e la povertà che saziano l’anima: chi ha queste due virtù “non avrà sete in eterno” (Gv 4,13).

5. Apparve ai dieci discepoli, radunati insieme [nel cenacolo] a porte chiuse. Quando i discepoli, cioè i senti­menti della ragione, sono radunati insieme per uno scopo, e le porte dei cinque sensi sono chiuse alle vanità, allora di certo appare alla mente la grazia dello Spirito Santo. Si legge in Luca: A Zaccaria “entrato nel tempio del Signore, apparve l’angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso” (Lc 1,9.11). Quando Zaccaria, che si in­ter­preta “memoria del Signore” – vale a dire uomo giusto, perché ha riposto il Signore nel tesoro della sua memoria –, quando Zaccaria entra nel tempio del Signore, cioè nella sua coscienza nella quale il Signore dimora, allora l’angelo del Signore, cioè la grazia dello Spirito Santo, gli appare, lo illumina, stando alla destra dell’altare dell’in­censo. L’altare dell’incenso rappresenta la compunzione della mente; la destra è la retta intenzione. Quindi la grazia del Signore sta alla destra dell’altare dell’incenso, perché approva quella compunzione, loda e gradisce quell’incenso che il giusto fa salire dalla retta intenzione della mente.

 

13. 6. Otto giorni dopo la risurrezione, apparve ai disce­poli mentre c’era con loro anche Tommaso, dal cui cuore estirpò ogni dubbio. Quando infatti saremo nel giorno ottavo della risurrezione finale, il Signore eliminerà da noi ogni ruga di dubbio e ogni macchia di mortalità e di infermità. Dice Isaia: “La luce della luna sarà come la luce del sole, e la luce del sole sarà sette volte più intensa, come la luce di sette giorni, nel giorno in cui il Signore curerà la ferita del suo popolo e risanerà il livido della sua piaga” (Is 30,26). Fa’ attenzione a queste due parole: ferita e piaga. La ferita si riferisce all’anima, la piaga al corpo. Nella ferita è raffigurato il pensiero impuro dell’anima, nella piaga la morte del corpo. Ma nel giorno della risurrezione finale, quando il sole e la luna – come dice Isidoro nel Libro delle creature – riceveranno la ricompensa della loro fatica, perché il sole sfolgorerà e arderà immobile ad oriente sette volte più di adesso, in modo da straziare coloro che sono nell’inferno, e la luna, ferma ad occiden­te, avrà lo splendore che ha oggi il sole, allora, veramen­te, il Signore curerà la ferita della nostra anima, perché, come dice il Profeta, nessuna bestia, cioè nessun cattivo pensiero, passerà per Gerusalemme (cf. Is 35,9). Anzi, come dice Giovanni nell’Apocalisse, “la città” – vale a dire la nostra anima –, “sarà come oro purissimo simile a terso cristallo” (Ap 21,18). Che cosa c’è di più brillante dell’oro, di più luminoso del cristallo? E io vi domando: nella risurrezione finale che cosa ci sarà di più brillante e di più luminoso dell’anima dell’uo­mo glorificato? Allora il Signore risanerà il livido della nostra piaga – dalla quale siamo stati colpiti per la disobbedienza dei nostri proge­nitori –, e questo corpo mortale indosserà l’immortalità e questo corpo corruttibile sarà rivestito di incorruttibi­lità (cf. 1Cor 15,53-54).

Nella risurrezione finale il “giardino del Signore”, cioè il nostro corpo glorificato, sarà irrigato da quattro fiumi, il Pison, il Ghicon, il Tigri e l’Eufrate; sarà cioè dotato di quattro prerogative: la luminosità, la sottigliezza, l’agilità e l’immortalità. Pison s’in­terpreta “cambiamento di aspetto”, Ghicon “petto”, Tigri “freccia”, Eufrate “fertile (cf. Gn 2,10-14). Nel Pison è indicato lo splendore della risurrezione: dalla nostra grande bruttura e oscurità saremo trasformati come in un sole. È detto infatti: “I giusti risplenderanno come il sole...” (Mt 13,43). Nel Ghicon è indicata la sottigliezza; infatti, come il petto dell’uomo non si squarcia, non viene leso, non si apre né ha alcuna sofferenza quando escono dal cuore i pensieri (cf. Mt 15,19), così il corpo glorificato sarà dotato di sì grande sottigliezza che nessuna cosa sarà per esso impenetrabile; e tuttavia sarà inviolabile, inscindibile, compatto e solido, come lo fu il corpo glorificato di Cristo, che entrò dagli apostoli [nel cenacolo] a porte chiuse (cf. Gv 20,26). Nel Tigri è indicata l’agilità, che è efficacemente raffigurata dalla velocità della freccia. Nell’Eufrate è indicata l’im­mor­talità, nella quale saremo inebriati dall’abbon­danza della casa di Dio (cf. Sal 35,9): piantati in essa come l’albero della vita nel centro del paradiso terrestre, daremo frutto. Saranno i frutti dell’eterna sazietà, per cui non sentiremo più fame in eterno.

 

14. 7. Apparve quindi ai sette discepoli che stavano pescando. La pésca raffigura la predicazione, e a coloro che vi si dedicano certamente appare il Signore. Sta scritto infatti nel libro dei Numeri che “apparve la gloria del Signore su Mosè ed Aronne. E il Signore parlò a Mosè dicendo: Prendi il bastone e raduna il popolo, tu e Aronne tuo fratello, e parlate alla roccia davanti a loro, e la roccia lascerà scaturire le acque. E quando avrai fatto uscire l’acqua dalla roccia, berrà tutta la moltitudine e il suo bestiame” (Nm 20,6-8). In questo passo Mosè raffigura il predicatore. Aronne s’interpreta “forte monte”, nel quale sono indicate due cose: la santità della vita e la costanza della fortezza. Senza questo fratello Mosè non deve mai muoversi. Il Signore gli disse: Prendi il bastone della predicazione e raduna il popolo, tu e Aronne tuo fratello, senza del quale il popolo non viene mai radunato con profitto, perché quando si disprezza la condotta di una persona, si disprezza anche la sua predicazione; e parlate alla roccia, cioè al cuore indurito del peccatore, e quella roccia farà scaturire le acque della compunzione. E giustamente è detto “parlate”, e non “parla”. Infatti se parla soltanto la bocca, e la vita è muta, non potrà mai far uscire acqua dalla roccia. Il Signore maledisse il fico nel quale non trovò frutti ma solo foglie (cf. Mt 21,19; Mc 11,13-14): di foglie furono rivestiti i progenitori scacciati dal paradiso terrestre (cf. Gn 3,7). Parlino dunque Mosè ed Aronne, e scaturirà l’acqua, e berranno la moltitudine del popolo e tutto il bestiame: sia i chierici che i laici, sia gli spirituali che i viziosi si sazieranno dell’ac­qua della compunzione. Questa è la molti­tudine della quale Giovanni dice: “Gettarono la rete e non riuscivano più a tirarla a riva per la grande quantità [moltitudine] di pesce catturato” (Gv 21,6).

 

15. 8. Apparve poi agli undici su un monte della Galilea (cf. Mt 28,16-17). Galilea s’interpreta “trasmigrazione”, e indica la penitenza, con la quale si effettua una trasmi­grazione, quando l’uomo dalla riva del peccato mortale, attraverso il ponte della confessione, passa alla riva dell’opera penitenziale della soddisfazione. Quindi il Signore appare su un monte della Galilea, cioè nella perfetta penitenza; appare agli undici discepoli, cioè ai penitenti che giustamente sono in numero di undici, perché undici furono i teli di lana di capra con i quali fu coperto il tetto della tenda della testimonianza, come è scritto nell’Esodo (cf. Es 26,7). Nei teli di lana di capra sono indicate due cose: il rigore della penitenza e il fetore del peccato, del quale i penitenti confessano di essere stati schiavi. Con questi teli è coperto il tetto della tenda, cioè della chiesa militante: essi trattengono l’ardore del sole, portano il peso della giornata e del caldo (cf. Mt 20,12); proteggono le cortine intessute di lino, di seta, di porpora e di scarlatto tinto due volte; queste cortine raffigurano i fedeli della chiesa, ornati del lino della castità, della seta della contemplazione, della porpora della passione del Signore, dello scarlatto tinto due volte, vale a dire decorato con il duplice comandamento della carità. E gli undici teli li proteggono dall’inondazione delle piogge, cioè dalla protervia degli eretici; dal turbine, che è la suggestione diabolica; dalla sporcizia della polvere, vale a dire dalla vanità del mondo. Ecco dunque come il Signore apparve agli undici discepoli.

Giacobbe parla così nella Genesi: “Dio onnipotente mi apparve in Luz, che si trova nella terra di Canaan” (Gn 48,3). Luz s’interpreta “mandorlo”, e indica la penitenza, nella quale, come nella mandorla, ci sono tre elementi: la corteccia amara, il guscio solido, il seme dolce. Nella corteccia amara è indicata l’amarezza della peniten­za, nel guscio solido la costanza della perseveranza e nel seme dolce la speranza del perdono.

Apparve dunque il Signore a Luz, che si trova nella terra di Canaan e s’interpreta “mutamento”. La vera penitenza infatti è quella per la quale l’uomo passa da sinistra a destra, e con gli undici discepoli trasmigra nel monte della Galilea, dove appare il Signore.

9. Apparve ancora il Signore agli undici mentre stavano a tavola – come racconta Marco (cf. Mc 16,14) –, il giorno stesso della sua ascensione al cielo, quando, mentre mangiava con loro, precisa Luca, ordinò che non si allontanassero da Gerusalemme (cf. At 1,4). Il Signore dunque appare a quelli che, nel cenacolo della loro mente, si liberano delle preoccupazioni di questo mondo, si nutrono del pane delle lacrime nel ricordo dei loro peccati e dell’esperien­za della dolcezza celeste. Dice la Genesi: “Il Signore apparve ad Isacco e gli disse: Non discendere in Egitto, ma fermati nella terra che io ti indicherò e sii pellegrino in essa: io sarò con te e ti benedirò” (Gn 26,2-3). Tre cose il Signore comanda al giusto: di non scendere in Egitto, cioè di non immergersi nell’affanno delle cose del mondo, dove si fabbricano i mattoni con il fango della lussuria, con l’acqua dell’ avarizia e con la paglia della superbia; di fermarsi a riposare nella terra della sua coscienza; e in tutti i giorni della sua vita, che sono come un continuo combattimento (cf. Gb 14,14), si reputi solo un pellegrino. E così il Signore sarà con lui e lo benedirà con la benedizione della sua destra.

 

16. 10. E finalmente apparve di nuovo agli undici, come racconta Luca, quando “li condusse fuori città verso Betania, cioè al monte degli Ulivi, e alzate le mani li benedisse (Lc 24,50); “sotto i loro occhi fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro sguardi” (At 1,9). Il Signore appare a coloro che stanno sul monte degli Ulivi, cioè della misericordia. Infatti è detto nell’Esodo: “Il Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto; e vedeva che il roveto bruciava ma non si consumava” (Es 3,2). A Mosè, cioè all’uomo misericordioso, appare il Signore nella fiamma del fuoco, vale a dire mentre partecipa alle sofferenze degli altri. Ma da dove scaturisce questa fiamma? Dal centro del roveto, cioè del povero, spinoso, tribolato, affamato, nudo, sofferente; e il giusto trafitto dalle spine di quella povertà, arde di compassione per poi usargli misericordia. E così potrà constatare che il roveto, cioè il povero, arderà di maggiore devozione e non si consumerà nella sua povertà.

Orsù dunque, carissimi fratelli, che siete qui riuniti per festeggiare la Pasqua di Risurrezione, io vi supplico di comperare con il denaro della buona volontà, insieme alle pie donne, gli aromi delle virtù, con i quali possiate ungere le membra di Cristo con l’amabilità della parola e con il profumo del buon esempio; vi supplico, pensando alla vostra morte, di venire e di entrare nel sepolcro della celeste contemplazione, nella quale vedrete l’angelo dell’Eterno Consiglio, il Figlio di Dio, assiso alla destra del Padre. Egli nella risurrezione finale, quando verrà a giudicare il mondo nel fuoco, si svelerà a voi, non dico dieci volte, ma per sempre: in eterno e nei secoli dei secoli lo vedrete come egli è, con lui godrete, con lui regnerete.

Si degni di concederci tutto questo colui che è risorto da morte: a lui sia onore e gloria, dominio e potestà nei cieli e sulla terra per i secoli eterni.

E ogni fedele, in questo giorno di letizia pasquale, esclami: Amen, alleluia!

 

 

LA RISURREZIONE DEL SIGNORE (2)

 

1. “Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero” (Eccle 12,5).

 

esordio - nella risurrezione

l’umanità di cristo fiorì come la verga di aronne.

 

2. Leggiamo nel libro dei Numeri che la verga di Aronne germogliò e fiorì e, sviluppatesi le foglie, produsse delle mandorle (cf. Nm 17,8).

Aronne, sommo pontefice, è figura di Cristo, il quale, entrò nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue (cf. Eb 9,12); questo è il pontefice che “fece di sé un ponte”, affinché attraverso di lui potessimo passare dalla riva della mortalità a quella dell’immortalità: oggi la sua verga è fiorita.

La verga è la sua umanità, della quale è detto: “La verga del tuo potere stende il Signore da Sion” (Sal 109,2): infatti l’umanità di Cristo, per mezzo della quale la divinità esercitava la sua potenza, ebbe origine da Sion, cioè dal popolo giudaico, “perché – come è detto nel vangelo – la salvezza, cioè il Salvatore, viene dai giudei” (Gv 4,22).

Questa verga giacque quasi arida nel sepolcro per tre giorni e tre notti; ma poi fiorì e produsse frutto, perché risuscitò e portò a noi il frutto dell’immortalità.

 

I. sermone allegorico

 

3. “Fiorirà il mandorlo”.

Dice Gregorio che il mandorlo è il primo tra tutte le piante a mettere i fiori; e dice l’Apostolo che Cristo è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti (cf. Col 1,18), perché è risorto per primo.

Osserva che la pena inflitta all’uomo era duplice: la morte dell’anima e quella del corpo: “In qualunque giorno mangerai – disse il Signore –, morirai di morte” (Gn 2, 17), della morte dell’anima: e non potrai sottrarti alla legge della morte. Infatti un’altra traduzione dice con maggior precisione: “diventerai mortale”. Venne il nostro Samaritano, Gesù Cristo, e sopra questa duplice ferita versò vino e olio (cf. Lc 10,34), perché con l’effusione del suo sangue distrusse la morte dell’anima nostra. Dice infatti Osea: “Io li libererò dalla mano della morte, li riscatterò dalla morte. O morte, io sarò la tua morte! Io sarò il tuo morso, o inferno!” (Os 13,14). Dall’inferno prese una parte e una parte la lasciò, alla maniera di colui che morde, e con la sua risurrezione abolì la legge della morte, poiché diede la speranza di risorgere: “E non ci sarà più la morte” (Ap 21,4). La risurrezione di Cristo è raffigurata nell’olio, che galleggia sopra tutti i liquidi. Il gaudio provato dagli apostoli alla risurrezione di Cristo superò ogni altro gaudio da loro sperimentato, quando egli era ancora con loro nel suo corpo mortale. E anche la glorificazione dei corpi supererà ogni altro gaudio: “I discepoli gioirono nel vedere il Signore” (Gv 20,20).

 

4. “E la locusta s’ingrasserà”. Nella locusta è raffigurata la chiesa primitiva, che con il fiore della risurrezione del Signore si ingrandì e fu riempita di meravigliosa letizia. Infatti Luca scrive: “Poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: Avete qui qualche cosa da mangiare? Allora essi gli offrirono una porzione di pesce arrostito e un favo di miele” (Lc 24,41-42). Il pesce arrostito è figura del nostro Mediatore che subì la passio­ne, fu preso con il laccio della morte nelle acque del genere umano, e arrostito, per così dire, nel tempo della passione; egli è per noi anche il favo di miele, a motivo della risurrezione, che oggi celebriamo. Il favo presenta il miele nella cera, e ciò raffigura la divinità rivestita dell’umanità. E in questa mescolanza di cera e di miele si indica che Cristo accoglie nell’eterna quiete, nel suo corpo, coloro che quando soffrono tribolazioni per Iddio, non vengono meno nell’amore dell’eterna dolcezza. Quelli che quaggiù vengono, per così dire, arrostiti dalla tribolazione, saranno saziati lassù della vera dolcezza.

Osserva che “oggi il Signore è apparso cinque volte”: prima a Maria Maddalena, quindi di nuovo a lei mentre era insieme con altri, quando correva a dare l’annuncio ai discepoli; poi a Pietro; poi a Cleofa e al suo compagno [mentre andavano a Emmaus] (cf. Lc 24,14-31; Gv 20,19-23), e infine ai discepoli, a porte chiuse, dopo il ritorno dei due discepoli da Emmaus. Ecco dunque in che modo la locusta fu ingrassata con il fiore del mandorlo, vale a dire in che modo la chiesa primitiva fu allietata dalla risurrezione del Signore.

La locusta, quando il sole brucia, fa salti e voli; così la chiesa primitiva, quando nel giorno della Pentecoste lo Spirito Santo la infiammò, fece in tutto il mondo i salti e i voli della predicazione. “In tutta la terra si è diffuso il suono della loro voce” (Sal 18,5). Ingranditasi in questo modo la chiesa, “fu dissipato il cappero”, che è una pianticella che s’attacca alla pietra, e raffigura la sinagoga, alla quale è stata data la legge scritta sulla pietra, per mostrare la sua durezza, alla quale sempre restò attaccata. “Questo è un popolo dalla dura cervice” (Es 34,9).

Quanto più la chiesa s’ingrandiva, tanto più la sinagoga si disgregava. Concorda con questo ciò che si legge nel secondo libro dei Re: “Vi fu una lunga lotta tra la casa di Saul e la casa di Davide. La casa di Davide cresceva e diveniva sempre più forte, mentre la casa di Saul s’indeboliva di giorno in giorno” (2Re, 3,1). La casa di Davide è la chiesa; la casa di Saul, che s’interpreta “colui che abusa”, raffigura la sinagoga, la quale, avendo abusato dei doni speciali di Dio, ricevette il libello del ripudio e abban­donò il talamo dello sposo legittimo. Quanto sia stato lungo il dissidio tra la chiesa e la sinagoga, lo dimostrano gli Atti degli Apostoli. La chiesa si ingrandiva perché “ogni giorno il Signore aggiungeva ad essa quelli che erano salvati” (At 2,47). Invece la sinagoga ogni giorno diminuiva: “Chiama il suo nome “non mio popolo”, perché voi non siete il mio popolo e io non sarò il vostro Dio”; e ancora: “Io mi dimenticherò totalmente di loro; invece avrò misericordia della casa di Giuda” (Os 1,9.6-7), cioè della chiesa.

A Gesù Cristo onore e gloria nei secoli. Amen.

 

II. sermone morale

 

5. Ora vedremo che cosa significhino in senso morale: il mandorlo, la locusta e il cappero. In queste tre entità sono raffigurate: l’elargizione dell’elemosina, la consolazione del povero, la distruzione dell’avarizia.

Elargizione dell’elemosina. “Fiorirà il mandorlo”, cioè l’elemosiniere. A lui dice Isaia: “Al mattino fiorirà la tua semente” (Is 17,11). La semente è l’elemosina, la quale al mattino, cioè tempestivamente, deve fiorire nella mano del cristiano prima di ogni altra attività materiale, come il mandorlo fiorisce prima delle altre piante.

Osserva che nel fiore ci trono tre elementi: il colore, il profumo e la promessa del frutto. Con il colore si allieta la vista, con il profumo si delizia l’olfatto, con il frutto si soddisfa il gusto. Così è dell’elemosina: nel suo colore si ristora, per così dire, la vista del povero, che ha l’occhio rivolto alla mano di chi porge. Infatti Pietro, insieme a Giovanni, disse allo storpio: “Guarda verso di noi! Allora egli li guardò, nella speranza di ricevere da essi qualche cosa” (At 3,4-5).

E qui, non senza rincrescimento, dobbiamo denunciare ciò che fanno i prelati della chiesa e i grandi di questo mondo: essi fanno aspettare a lungo alla loro porta i poveri di Cristo, che implorano e chiedono l’elemosina con voce lacrimosa, e finalmente, solo dopo che es­si si sono ben rimpinzati e non di rado ubriacati, ordinano che venga loro dato qualche avanzo della loro mensa e le sciacquature della cucina. Certo non si comportava così Giobbe, mandorlo che fioriva per tempo, il quale dice: “Mai ho negato ai poveri ciò che mi domanda­vano, né ho lasciato languire gli occhi della vedova. Mai ho mangiato un boccone da solo, senza che ne mangiasse anche l’orfano. Poiché dalla mia infanzia sono cresciute con me la pietà e la misericordia” (Gb 31,16-18). E questo lo diceva parlando del cibo. Senti che cosa dice del vestito: “Mai ho disprezzato un pellegrino perché non aveva indumenti, e un povero che non aveva di che coprirsi: mi hanno benedetto i suoi fianchi e con la lana delle mie pecore si è riscaldato” (Gb 31,19-20).

Parimenti il profumo dell’elemosina edifica il prossimo, perché ne riceve buon esempio e glorifica Dio, mentre l’animo di colui che dà si consola nella speranza di riceverne il frutto nella vita eterna.

 

6. Consolazione del povero. “Si ingrasserà la locusta”. Dice Naum che “le locuste nel tempo del freddo si rifu­giano nelle siepi” (Na 3,17). Così i poveri nel rigore della povertà che li angustia, si rifugiano letteralmente presso le siepi, chiedendo l’elemosina ai passanti, come dei lebbrosi, respinti dagli uomini. O anche: le siepi, nelle quali ci sono rami appuntiti e spine, raffigurano le trafitture, i dolori e le malattie dei poveri. Ecco quanta sofferenza! E perciò quanto è necessaria la consolazione! La locusta si ingrassa con il fiore, il povero viene consolato con l’elemosina. Per questo Giobbe dice: “Veniva su di me la benedizione di colui che stava per perire; io portai conforto al cuore della vedova” (Gb 29,13). E il Signore per bocca di Isaia: “Questo è il mio riposo: Fate riposare chi è stanco; e questo è il mio sollievo. Ma non hanno voluto ascoltarmi” (Is 28,12). E quindi anch’essi, quando grideranno: “Signore, Signore, àprici!” (Mt 25,11), non saranno ascoltati. Adesso il Signore, nella persona dei suoi poveri, sta alla porta e bussa (cf. Ap 3,20): gli si apre quando il povero viene ristorato. Ristoro del povero, riposo di Cristo. Ciò che avrete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me (cf. Mt 25,40).

E osserva che dice “s’ingrasserà” (impinguabitur, si impinguerà). La pinguedine ha qualcosa in comune con l’aria e il fuoco: per questo galleggia sopra l’acqua, perché l’aria che c’è in essa la sorregge. Parimenti la consola­zione del povero partecipa del­l’aria della devozione nei riguardi di se stesso, che riceve; e del fuoco della carità nei riguardi di te, che dài. La devozione lo innalza affinché preghi per te. È detto infatti: Riponi l’elemosi­na nel seno del povero ed essa pregherà per te (cf. Eccli 29,15), affinché ti siano rimessi i peccati, perché la tua mente sia illuminata dalla grazia e ti venga data la vita eterna.

 

7. Distruzione dell’avarizia. “Il cappero sarà disperso”. La radice del cappero si attacca alla pietra, nella quale è raffigurata la durezza dell’avaro, che non si intenerisce di fronte alle miserie dei poveri. L’avaro è come Nabal, del quale è detto nel primo libro dei Re che era “un uomo duro e molto cattivo”. I messaggeri di Davide gli dissero: “Siamo giunti da te in un giorno lieto: qualunque cosa troverà la tua mano, dalla ai tuoi servi e al tuo figlio Davide. Egli rispose loro: Chi è Davide, e chi è il figlio di Iesse? Oggi sono aumentati i servi che fuggono dai loro padroni. Dovrò forse prendere i miei pani e le carni delle pecore che ho ucciso per i miei tosatori, e darle a uomini che non so di dove vengano?” (1Re 25,3-11). Questa è anche la risposta dell’avaro ai poveri di Cristo, che chiedono l’elemosina: egli non dà loro niente, anzi bestemmia e li svergogna. Perciò gli succede quello che segue: “Il cuore gli si tramortì nel petto ed egli restò come un pietra” (1Re 25, 37). È ciò che capita all’avaro quando gli viene sottratta la grazia ed è privo di viscere di misericordia.

Fortunato invece colui che toglie da sé il cuore di pietra e prende un cuore di carne (cf. Ez 11,19), che, colpito dalle miserie dei poveri, soffre con loro affinché la sua compassione diventi il loro sollievo e il loro sollievo segni la distruzione della sua avarizia. Se uno avesse nel suo frutteto una pianta sterile, forse che non la sradicherebbe e al suo posto non ne pianterebbe un’altra in grado di dare frutto? L’avarizia è la pianta sterile! Perché occupa la terra? Tàgliala! (cf. Lc 13,7), sràdicala, e al suo posto pianta l’elemo­si­na, che ti possa dare frutto per la vita eterna.

Te lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen

 

III. sermone morale

 

8. “Il mandorlo fiorirà”. Qui sono indicate tre cose: l’onestà della vita, la dolcezza della contemplazio­ne e l’estinzione della libidine.

L’onestà della vita. Leggiamo nel libro di Daniele: “Io, Nabucodonosor, ero tranquillo nella mia casa e prospero nel mio palazzo” (Dn 4,1). Che cosa dobbiamo intendere per “casa” se non la coscienza? E che cosa per “palazzo” se non la sicurezza della coscienza e la fiducia che proviene dalla sicurezza? Infatti anche il palazzo è una casa, ma non tutte le case possono dirsi palazzo. Il palazzo è una specie di casa solida, alta, regale. Se nella casa dobbiamo veder raffigurata la coscienza, giustamente per palazzo dobbiamo intendere la sicurezza della coscienza. Siede dunque tranquillo nella sua casa, colui al quale la coscienza non rimorde. Una congrua riparazione e penitenza dei peccati passati e una vigile attenzione per evitarli in futuro, rendono la coscienza tranquilla. Se ne sta dunque tranquillo nella sua casa, colui al quale la co­scienza non rimorde né per le colpe passate né per quelle presenti. Se ne stava veramente tranquillo nella sua casa colui che diceva con sincerità: “Il mio cuore nulla mi rimprovera in tutta la mia vita” (Gb 27,6). Tranquillo se ne stava nella sua casa, colui che poté dire con sincerità: “Non sono consapevole di colpa alcuna” (1Cor 4,4). In quel tempo era veramente tranquillo in casa, e prosperava nel suo palazzo, quando diceva: “Questa è la nostra gloria (vanto), la testimonianza della nostra coscienza” (2Cor 1,12).

E poiché nel fiore c’è la speranza del frutto, giustamente nel fiore è raffigurata l’at­tesa sicura dei beni futuri. E poiché il fiore è in qualche modo l’inizio dei frutti futuri, per fiore s’intende quanto meno un cambiamento e un rinnovamento nell’impegno di progredire. Quindi nel fiore è raffigurata la sicura attesa dei beni futuri, o anche un rinnovato impegno nell’acquistare meriti. Perciò prospera veramente nel suo palazzo colui che, nella testimonianza della sua buona coscienza, attende con certezza la corona di gloria, e nel frattempo con il salto e con il volo della contemplazione, ne pregusta la dolcezza.

 

9. La dolcezza della contemplazione: “Si ingrasserà la locusta”, la quale, quando il sole scotta, è solita spicca­re dei salti e volare nell’aria, direi quasi con una certa allegria. Così, senza dubbio, anche l’anima santa, quando viene eccitata in se stessa da un certo plauso interiore della sua gioia, quando viene spinta a superare se stessa con l’eleva­zione della mente, quando è totalmente assorbita dalle cose celesti, quando è totalmente immersa nelle visioni angeliche, sembra proprio che abbia superato i confini delle sue possibilità naturali. Per questo dice il Profeta: “I monti saltellarono come arieti e le colline come agnelli di un gregge” (Sal 113,4). Chi non vede che è oltre la natura, anzi contro natura, che i monti o i colli, a somiglianza di arieti o di agnelli che giocano, spicchino dei salti verso l’alto, e che la terra si stacchi dalla terra e si libri nel vuoto? Ma non si tiene forse sospesa terra su terra, quando un uomo vuole mettersi al di sopra di un altro uomo, mentre invece la voce del Signore lo ammonisce dicendogli: “Sei terra e in terra ritornerai”? (Gn 3,19). Quando dunque l’anima s’innalza con l’elevazione della mente, viene saziata dalla dolcezza della contemplazione.

Leggiamo nel Cantico dei Cantici: “Chi è costei che sale dal deserto, ricolma di delizie, appoggiata al suo diletto?” (Ct 8,5). Dal deserto l’anima sale alla contemplazione, quando abbandona tutte le cose inferiori e, penetrando fino al cielo, con la devozione si im­­mer­ge totalmente in quelle divine; e viene veramente ricolmata di delizie, quando si allieta nella pienezza del gaudio spirituale e si rinvigo­risce nell’abbondanza delle delizie interiori datele dal cielo e in lei copiosamente infuse. L’anima si appoggia al suo diletto quando nulla presume dalle sue forze, nulla attribuisce ai suoi meriti, ma tutto alla grazia del suo diletto: “In realtà è lui che ci ha fatti, e non noi” (Sal 99,3). E Isaia: “Tutte le nostre opere tu hai operato in noi” (Is 26,12). E quale sia l’utilità di questo “ingrassamento” della locusta, lo dice espressamente ciò che segue.

 

10. Estinzione della libidine: “Il cappero sarà disperso”. Questo si riferisce ai reni; e poiché nella zona dei reni ha sede la libidine, nel cappero è indicata la libidi­ne, la quale viene distrutta quando l’anima viene riempita della dolcezza [della contemplazione] sopra descritta. Daniele infatti dice: “Io, rimasto solo, vidi questa grande visione; e non rimase in me alcuna forza; e anche il mio aspetto cambiò, e venni meno, e vennero meno tutte le mie forze” (Dn 10,8). E Giobbe: “La mia anima scelse il cappio e le mie ossa la morte. Sono senza speranza, io non vivrò più” (Gb 7,15-16). Ecco in che modo viene distrutto il cappero. “Daniele, l’uomo dei desideri” (Dn 10,11) raffigura il contemplativo, che rimane solo quando disprezza tutte le cose esteriori e con la fune dell’amore si lega alla dolcezza della contemplazione, e allora, con la mente illuminata, vede la grande visione, che però non può ancora comprendere, giacché quaggiù viene contemplata attraverso uno specchio, come in enigma, non ancora faccia a faccia (cf. 1Cor 13,12).

Quando l’anima viene illuminata ed elevata in questo modo, viene meno la forza del corpo, il volto diventa pallido, la carne è prostrata e non fa più conto dei piaceri del corpo e del tempo presente, nei quali non vuole assolutamente più vivere, come faceva prima, perché ormai non è più lei che vive, ma vive in lei la vita di Cristo (cf. Gal 2,20), che è benedetto nei secoli. Amen.

 

IV. sermone anagogico (mistico)

 

11. “Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero”. In queste tre similitudini sono misticamente indicate la risurrezione del corpo, la glori­ficazione dell’anima e la distruzione della morte. Trattiamone singolarmente con brevi parole.

La risurrezione del corpo: “Fiorirà il mandorlo”. Troviamo in Giobbe: “Nell’albero c’è la speranza: se viene tagliato, di nuovo ributta e i suoi rami crescono. Se la sua radice invecchia sotto terra e il suo tronco muore nella polvere, al sentore dell’acqua germoglia [di nuovo] e farà la chioma quasi come quando fu piantato la prima volta” (Gb 14,7-9). Benché l’albero, cioè il corpo dell’uomo, venga tagliato dalla scure della morte, sia invecchiato, decomposto nella terra e ridotto in polvere, tuttavia l’uomo deve avere la speranza ch’esso rifiorirà, cioè risorgerà, e che le sue membra ricresceranno e che, al sentore dell’acqua, cioè per la munificenza della sapienza divina, germoglierà di nuovo, ritornerà al suo splendore, ricostituirà la sua chioma per quanto riguarda l’immortalità, quasi come quando fu piantato la prima volta nel paradiso terrestre.

Infatti la primitiva condizione dell’uomo nel paradiso terrestre fu la possibilità di non morire: ma a causa del peccato gli fu comminata la pena di non poter non morire; ora nell’eterna felicità gli rimane il terzo modo di essere: non poter più morire. Il mandorlo dunque fiorirà. Dice il salmo: “Rifiorì la mia carne, e con tutte le mie forze canterò le sue lodi” (Sal 27,7). Ricorda che la carne dell’uomo fiorì nel paradiso terre­stre prima del peccato, sfiorì dopo il peccato, rifiorì però nella risurrezione di Cristo, “superfiorirà”, cioè fiorirà perfettamente, nella risurrezione finale.

 

12. E allora “s’ingrasserà la locusta”, vale a dire l’anima sarà glorificata. “Sarò saziato quando apparirà la tua gloria” (Sal 16,15). E ancora: “Li nutrì con fiore di frumento e li saziò con miele di roccia” (Sal 80,17). Il frumento e la roccia sono figura di Cristo, Dio e uomo: nella miseria del pellegrinaggio terreno è per noi frumento, perché ristora; è roccia perché accoglie coloro che si rifugiano in lui e li difende: “La roccia è un rifugio per gli iraci” (Sal 103,18), cioè per i peccatori convertiti; nella gloria della patria sarà per noi fior di frumento e miele di roccia, perché ci nutrirà con lo splen­dore della sua umanità e ci sazierà con la dolcezza della sua divinità. Infatti dice Isaia: “Vedrete e gioirà il vostro cuore”, ecco l’ingrassamento della locusta; e “le vostre ossa germoglieranno come erba fresca” (Is 66,14), ecco il fiore del mandorlo: “Vedrete” lo splendore del­l’umanità, “e il vostro cuore gioirà” della dolcezza della divinità.

 

13. E allora “sarà disperso il cappero”. Dice l’Apostolo: “Quando questo corpo corruttibile si sarà vestito di incor­ruttibilità e questo corpo mortale di immortalità, allora si compirà la parola della Scrittura – nei succitati passi di Isaia e di Osea –: La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il punngi­glione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano dunque rese grazie a Dio che ci ha dato la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 15,54-57). Egli è benedetto nei secoli. Amen.

 

 

 

DOMENICA DELL’ OTTAVA DI PASQUA

Temi del sermone

 

– Vangelo dell’Ottava di Pasqua: “La sera di quello stesso giorno”; vangelo che si divide in cinque parti.

– Anzitutto sermone sul predicatore e a chi deve predicare: “Mi trovavo nella città di Joppe (Giaffa)”.

– Parte I: Sermone contro la prosperità del mondo: “Non bramai il giorno dell’uo­mo”.

– Sermone ai peccatori convertiti: “La sera di quello stesso giorno”, e “Tutto il monte Sinai fumava”.

– Sermone sulle porte, che sono i cinque sensi dell’uomo: “E le porte erano chiuse”.

– Parte II: Sermone sulla triplice pace, sulla carità e sulla natura degli elefanti: “Venne Gesù...”

– Parte III: Sermone sull’assoluzione di Dio e del sacer­dote, con quale procedimento uno venga risuscitato dalla morte dell’anima alla penitenza: “Ricevete lo Spirito Santo”, e “Non possiedo né oro né argento”.

– Parte IV: Sermone per la risurrezione del Signore: “In quel giorno rialzerò la tenda di Davide”.

– Parte V: Sermone sul latte della misericordia divina: “Come bambini appena nati”, e sulla castità degli elefanti.

 

esordio - il predicatore, e a chi deve predicare

 

1. In quel tempo: “Venuta la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato, ed essendo chiuse le porte [della casa] dove i discepoli si erano radunati per paura dei giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a Voi!” (Gv 20,19).

Negli Atti degli Apostoli, Pietro racconta: “Io mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa, ed ebbi in estasi una visione: una specie di involto, simile a una grande tova­glia, scendeva come calato dal cielo, sorretto per i quattro capi, e giunse fino a me. Guardandolo lo esaminavo attentamente, e vidi in esso quadrupedi, fiere e rettili della terra e uccelli del cielo. Quindi sentii una voce che mi diceva: Àlzati, Pietro, uccidi e mangia!” (At 11,5-7).

In Pietro è raffigurato il predicatore, che deve sostare in preghiera nella città di Joppe, che s’interpreta “bel­lezza", cioè in unione con la chiesa, nella quale c’è la bellezza delle virtù e fuori della quale c’è solo la lebbra dell’infedeltà [mancanza della fede]. Il predicatore deve fare prima di tutto questa cosa: attendere alla preghiera. Alla preghiera segue l’estasi, cioè l’elevazione sopra le cose della terra; e nell’estasi vede “un involto, come una grande tovaglia...”, ecc. Nel grande involto di lino è indicata la grazia della predicazione, che giustamente è detta “vaso”, perché inebria le menti dei fedeli con il vino della compunzione; è detta anche “grande tovaglia di lino” perché deterge i sudori delle fatiche e ridona vigore per affron­tare gli attacchi delle passioni. I “quattro capi” sono gli insegnamenti dei quattro evangelisti; “scendeva calata dal cielo”, perché “ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto” (Gc 1,17). “E giunse fino a me”. In questo fatto è indicato in modo particolare il privilegio del predicatore, al quale proprio dal cielo viene affidato il compito della predicazione. E in questo vaso, in questo involto misterioso, ci sono “i quadrupedi della terra”, cioè i golosi e i lussuriosi, e “le bestie”, nome che suona come vastiae (devastatrici), cioè i traditori e gli omicidi; e “i rettili”, cioè gli avari e gli usurai; e “i volatili del cielo”, cioè i superbi e tutti coloro che s’innalzano con le penne della vanagloria.

Questo vaso è come la rete calata nel mare, che cattura ogni genere di pesci (cf. Mt 13,47); e al predicatore viene detto: “Àlzati, uccidi e mangia”. Àlzati ad evangelizzare; uccidi al mondo; mortifica e immola, per offrire sacrifici a Dio, affinché spogliati della vecchiezza arrivino alla novità; e mangia, vale a dire accogli nell’unità e nella comunità del corpo della chiesa. Di questa unità e comunità è detto appunto nel vangelo di oggi: “Giunta la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato, ... i discepoli erano radunati”, ecc.

 

2. In questo vangelo sono posti in evidenza cinque momenti: Primo: la riunione dei discepoli, quando incomincia con le parole “Venuta la sera”, ecc. Secondo: il triplice saluto di pace, quando aggiunge: “Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi”. Terzo: il potere concesso agli apostoli di legare e di sciogliere: “E dicendo questo, alitò su di loro”, ecc. Quarto: l’incredulità di Tommaso: “Tommaso, uno dei dodici, non era con loro”, ecc. Quinto: la professione di fede di Tommaso e la conferma della nostra fede: “Otto giorni dopo”, ecc.

Osserva ancora che in questa domenica si legge l’epistola del beato Giovanni: “Tutto ciò che è nato da Dio, vince il mondo” (1Gv 5,4). Nella notte, secondo l’uso della chiesa romana, si leggono gli Atti degli Apostoli. Vogliamo accennare brevemente a cinque episodi narrati dagli Atti e metterli a confronto con le cinque parti del vangelo sopra riportate. I cinque episodi sono: Primo, la riunione degli apostoli a Gerusalemme: “Quindi dal monte degli Ulivi fecero ritorno a Gerusalemme”. Secondo, dove dice: “In quei giorni Pietro, alzatosi in mezzo ai fratelli”, ecc. Terzo, lo storpio dal seno della madre, al quale Pietro disse: “Non possiedo né oro né argento”, ecc. Quarto, la conversione di Saulo. Quinto, l’eunuco e il centurione Cornelio.

 

I. la riunione dei discepoli

 

3. “Giunta la sera di quel giorno”. In questa prima parte si deve fare attenzione a cinque momenti: la sera, quel giorno, primo dopo il sabato, le porte chiuse, i discepoli riuniti per paura dei giudei.

Il giorno (lat. dies, dal sanscrito dian, luminosità) sta a indicare lo splendore (la gloria) delle vanità del mondo. Di essa dice il Signore: “Io non ricevo gloria dagli uomini” (Gv 5,41); e Geremia: “Non ho desiderato il giorno degli uomini, tu lo sai” (Ger 17,16); e Luca: “E ora in questo tuo giorno” e non mio, se tu conoscessi “ciò che è utile per la tua pace” (Lc 19,42), e non per la mia; e negli Atti degli Apostoli: “Il giorno seguente, Agrippa e Berenice arrivarono con molto sfarzo” (At 25,23) (lat. ambitione), cioè con una grande folla che li attorniava. Per ambitione c’è in greco – lo dice la Glossa – il termine phantasia (ostentazione).

Agrippa s’interpreta “urgente accumulo”, e Berenice “figlia eccitata dall’ele­ganza”. Agrippa raffigura il ricco di questo mondo, che si affretta ad accumulare ricchezze con l’usura e i giuramenti falsi: “ma le ricchezze che ha divorato – dice Giobbe – le vomiterà e il Signore gliele strapperà dalle viscere” (Gb 20,15). Berenice raffigura la lussuria della carne, figlia del diavolo, che si eccita con l’eleganza esteriore e fa eccitare gli altri. Quindi Agrippa e Berenice, cioè i ricchi e i lussuriosi, nel giorno del fasto mondano procedono con grande ambizione, che è solo deludente fantasia, giacché produce l’im­pres­sione di essere qualcosa, quando poi in realtà è un nulla, e quando si crede di afferrare qualcosa, tutto si dilegua e svanisce.

“Giunta la sera di quel giorno”. La sera di tale giorno è la penitenza, nella quale il sole dello splendore mondano si cambia in tenebre e la luna della concupiscenza carnale si tramuta in sangue. Negli Atti degli Apostoli Pietro, servendosi delle parole del Signore, riportate da Gioele, dice: “Farò prodigi in alto nel cielo e segni in basso sulla terra, sangue, fuoco e vapore di fumo. Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue” (At 2,19­-20; Gl 2,30-31).

Senso allegorico. Il Signore fece prodigi in cielo e sulla terra, quando discese in terra per mezzo del sangue sparso sulla croce; nel fuoco, quando mandò lo Spirito Santo sugli apostoli; e così salì in alto il fumo della compunzione. È detto infatti negli Atti: “Si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: Che cosa dobbiamo fare, fratelli? E Pietro: Pentitevi, – disse – e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo” (At 2,37-38).

Senso morale. Nel sangue è indicata la macerazione della carne, nel fuoco l’ardore della carità e nel vapore del fumo la compunzione del cuore. Questi prodigi fa il Signore nel cielo, cioè nel giusto, e sulla terra, vale a dire nel peccatore.

 

4. E con questi tre elementi concorda anche ciò che leggiamo nell’epistola di oggi: “Tre sono quelli che danno testimo­nianza sulla terra: lo spirito, l’acqua e il sangue” (1Gv 5,8).

Senso allegorico. Lo Spirito è l’anima umana, che Cristo esalò nella passione; l’acqua e il sangue sgorgarono dal suo fianco, ciò che non sarebbe potuto avvenire se non avesse avuto la vera natura della carne (dell’uomo).

Senso morale. Lo spirito è la carità, l’acqua la compunzione e il sangue la macerazione della carne. Su questo concordano anche le parole dell’Esodo: “Tutto il monte Sinai fumava, perché su di esso era disceso il Signore nel fuoco, e da esso saliva il fumo come da una fornace: e il monte incuteva a tutti spavento. E il suono della tromba a poco a poco diventava più forte e si faceva più penetrante” (Es 19,18-19). Il monte Sinai raffigura la mente del penitente nella quale, quando discende il Signore nel fuoco della carità – del quale egli stesso ha detto: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra” (Lc 12,49) –, tutto il monte fuma, e da esso sale il fumo della compunzione come da una fornace, cioè dall’ardore della mente. E così tutto il monte incute spavento a motivo della macerazione della carne, oppure incute spavento agli spiriti immondi. Infatti leggiamo in Giobbe: “Nessuno gli diceva una parola: vedevano infatti che la sua sofferenza era terribile!” (Gb 2,13).

“E il suono della tromba”, cioè della confessione, “a poco a poco diventava più forte e si faceva più penetrante”, perché il penitente quando si confessa deve incominciare dai pensieri illeciti, quindi passare alle parole e poi alle opere cattive.

“Il sole si cambierà in tenebra e la luna in sangue”. Il sole si cambia in tenebra quando il lusso mondano viene oscurato dal sacco della penitenza; e la luna si cambia in sangue quando la concupiscenza della carne viene repressa con le macerazioni, con le veglie e le astinenze. Giusta­mente quindi è detto: “Quando venne la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato”. E il Signore dice nell’Esodo: “Ricordati di santificare il sabato” (Es 28,8).

 

5. Santifica il giorno del sabato colui che dimora nella quiete dello spirito e si astiene dalle opere proibite. “E le porte erano chiuse”. Le porte sono i cinque sensi del corpo, che dobbiamo chiudere con le serrature dell’amo­re e del timore di Dio, perché non ci accada ciò che dice Paolo negli Atti degli Apostoli: “So che dopo la mia dipartita sorgeranno tra voi dei lupi rapaci che non risparmieranno il gregge” (At 20,29). Paolo s’inter­preta “umile”. Quando l’umiltà scompare dal cuore, i lupi rapaci, cioè i desideri carnali, entrano per le porte dei cinque sensi e divorano il gregge dei buoni pensieri.

“Dov’erano riuniti i discepoli per timore dei giudei”. I discepoli sono i giudizi della ragione, che devono riunirsi insieme per timore dei giudei, cioè dei demoni, per fare in modo che questi non possano nuocere. È detto infatti nel Cantico dei Cantici: Sei bella e leggiadra, figlia di Gerusalemme, terribile come un esercito schierato in battaglia (cf. Ct 6,3). L’anima è la figlia della Gerusalemme celeste, bella per la fede e leggiadra per la carità; essa sarà anche terribile per gli spiriti immondi se schiererà i giudizi della ragione e i pensieri della mente, come un esercito di soldati viene schierato per combattere contro i nemici.

E su questa riunione [dei discepoli] concorda anche quanto è detto in altra parte degli Atti: “Allora ritorna­rono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso nel sabato. E entrati nel cenacolo, salirono [al piano superiore] dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo, Simone Zelota e Giuda di Giacomo. Tutti costoro erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con le donne, con Maria Madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,12-14). Il monte degli Ulivi dista da Gerusalemme un miglio, il cammino permesso di sabato, cioè mille passi: di sabato non era lecito ai giudei camminare di più. Il cenacolo è chiamato dalla Glossa “terzo tetto”, ed è figura della carità, della fede rinsaldata e della speran­za. Dobbiamo salire a questo cenacolo, restarvi con i discepoli e perseverare unanimi nell’orazione, nella contemplazione e nella effusione delle lacrime, per essere degni di ricevere la grazia dello Spirito Santo. Per questo il Signore dice: “Restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49).

Se dunque il giorno della gloria mondana sarà al declino e tramonterà nella sera della penitenza nella quale, come di sabato, l’uomo deve desistere dalle opere cattive, e le porte dei cinque sensi saranno chiuse, e tutti i discepoli di Cristo, ossia i sentimenti del giusto saranno riuniti insieme, allora il Signore farà ciò che dice il vangelo proseguendo nel racconto.

 

II. il triplice saluto di pace

 

6. “Venne Gesù, si fermò in mezzo ai discepoli e disse: Pace a voi. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. I discepoli gioirono nel vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20,19-21). Da notare anzitutto che in questo vangelo per ben tre volte è detto “Pace a voi”, a motivo della triplice pace che il Signore ha ristabilito: tra Dio e l’uomo, riconciliando quest’ultimo al Padre per mezzo del suo sangue; tra l’angelo e l’uomo, assumendo la natura umana ed elevandola al di sopra dei cori degli angeli; tra uomo e uomo, riunendo in se stesso, pietra angolare, il popolo dei giudei e quello dei gentili (pagani).

Osserva poi che nella parola pace, pax, ci sono tre lettere che formano una sola sillaba: in questo viene raffigurata l’Unità e la Trinità di Dio. Nella P è indicato il Padre; nella A, che è la prima delle vocali, è indicato il Figlio, che è la voce del Padre; nella X, che è una consonante doppia, è indicato lo Spirito Santo, che procede da entrambi [dal Padre e dal Figlio]. Quando dunque disse: Pace a voi, ci raccomandò la fede nell’Unità e nella Trini­tà.

“Venne Gesù e si fermò nel mezzo”. Il centro è il posto che compete a Gesù: in cielo, nel grembo della Vergine, nella mangiatoia del gregge e sul patibolo della croce.

In cielo: “L’Agnello che sta in mezzo al trono”, cioè nel seno del Padre, “li guiderà e li condurrà alle fonti delle acque della vita” (Ap 7,17), cioè alla sazietà del gaudio celeste.

Nel grembo della Vergine: “Esultate e cantate lodi, abitanti di Sion, perché grande è in mezzo a voi il Santo d’Israele” (Is 12,6). O beata Maria, che sei figura degli abitanti di Sion, cioè della chiesa, che nell’incarnazione del Figlio tuo ha posto il fondamento dell’edificio della sua fede, esulta con tutto il cuore, canta con la bocca la sua lode: “L’anima mia magnifica il Signore!” (Lc 1,46), perché il grande, il piccolo e l’umile, il santo e il santificatore di Israele sta in mezzo a te, cioè nel tuo grembo.

Nella mangiatoia del gregge: “Sarai conosciuto in mezzo a due animali” (Ab 3,2 - Trad. dei LXX). “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone (Is 1,3).

Sul patibolo della croce: “Crocifissero insieme con lui altri due, da una parte e dall’altra, e Gesù nel mezzo” (Gv 19,18).

Venne dunque Gesù e si fermò nel mezzo. “Io sto in mezzo a voi – ci dice in Luca – come colui che serve” (Lc 22,27). Sta al centro di ogni cuore; sta al centro perché da lui, come dal centro, tutti i raggi della grazia si irradino verso di noi che camminiamo all’intorno e ci agitiamo alla periferia.

 

7. Con tutto ciò concordano le parole degli Atti degli Apostoli: “In quei giorni Pietro, alzatosi in mezzo ai fratelli (c’era riunito un gruppo di quasi centoventi uomini), disse: Fratelli...” (At 1,15-16), ecc., e tutto ciò che avvenne per l’elezione di Mattia.

Cristo, risorto dai morti, si fermò in mezzo ai discepo­li; e Pietro, che per primo era caduto rinnegandolo, si alzò in mezzo ai fratelli, indicando con questo a noi che, rialzandoci dal peccato, ci fermiamo in mezzo ai fratelli, perché al centro c’è la carità che si estende sia all’amico che al nemico. “Venne dunque Gesù e si fermò in mezzo ai discepoli, e disse: “Pace a voi”.

Ricorda che esiste una triplice pace. Primo: la pace del tempo, della quale è scritto nel terzo libro dei Re che “Salomone ebbe pace tutt’all’intorno (con i confinanti) (3Re 4,24). Secondo: la pace del cuore, della quale è detto: “In pace mi corico e subito mi addormento” (Sal 4,9); e ancora: “La chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, ricolma del conforto dello Spirito Santo” (At 9,31). Giudea s’interpreta “confessione”, Galilea “passaggio”, e Samaria “custodia”. Quindi la chiesa, cioè l’anima fedele, trova la pace in questi tre atti: nella confessione, nel passaggio dai vizi alle virtù, nella custodia del precetto divino e della grazia ricevuta. E in questo modo cresce e cammina di virtù in virtù nel timore del Signore: non un timore servile ma un affettuoso timore filiale; e in ogni tribolazione è ricolma della consolazione dello Spirito Santo. Terzo: la pace dell’eternità, della quale dice il salmo: “Egli ha messo pace nei tuoi confini” (Sal 147,14).

La prima pace devi averla con il prossimo, la seconda con te stesso, e così, nell’ot­tava della risurrezione, avrai anche la terza pace, con Dio nel cielo. Férmati dunque nel mezzo e avrai la pace con il prossimo. Se non starai nel mezzo non potrai avere la pace. Infatti nelle “circonferenze” non c’è né pace né tranquillità, ma piuttosto movimento e volubilità.

Si dice degli elefanti che quando devono affrontare un combattimento, hanno una cura particolare dei feriti: infatti li chiudono al centro del gruppo insieme con i più deboli. Così anche tu accogli nel centro della carità il prossimo debole e ferito. Come fece quel custode del carcere, del quale si parla negli Atti degli Apostoli, che presi in disparte Paolo e Sila in quella stessa ora della notte, lavò loro le ferite, li condusse nella sua casa, preparò loro la mensa e fu ricolmo di gioia insieme con tutta la sua famiglia per aver creduto in Dio (cf. At 16,33-34).

 

8. “Gesù si fermò in mezzo ai discepoli e disse loro: Pace a voi. Detto questo mostrò loro le mani e il costato”. Luca scrive che Gesù disse: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!” (Lc 24,39).

A mio parere, il Signore mostrò agli apostoli le mani, il costato e i piedi per quattro motivi. Primo, per dimostrare che era veramente risorto e toglierci così ogni dubbio. Secondo, perché la colomba, cioè la chiesa, o anche l’anima fedele, facesse il nido nelle sue piaghe, quasi come in profonde aperture, e così potesse nascondersi dalla vista dello sparviero che trama insidie per rapirla. Terzo, per imprimere nei nostri cuori i segni distintivi della sua passione. Quarto, li mostrò perché anche noi, parteci­pando alla sua passione, non lo inchiodiamo più alla croce con i chiodi dei peccati. Ci mostrò quindi le mani e il costato dicendo: Ecco le mani che vi hanno plasmato, come sono state trafitte dai chiodi; ecco il costato, dal quale voi fedeli, mia chiesa, siete stati generati, come Eva fu procreata dal fianco di Adamo; ecco come è stato aperto dalla lancia per aprirvi la porta del paradiso, sbarrata dalla spada fiammeggiante del cherubino. La virtù del sangue sgorgato dal costato di Cristo, ha allontanato l’angelo e ha reso innocua la sua spada, e l’acqua ha spento il fuoco. Non vogliate dunque crocifiggermi di nuovo e profanare il sangue dell’alleanza, nel quale siete stati santificati, e fare oltraggio allo Spirito della grazia. Se farai bene attenzione a queste cose e le ascolterai, avrai pace con te stesso, o uomo. Quindi il Signore, dopo aver mostrato loro le mani e il costato, disse di nuovo: “Pace a voi. Come il Padre ha mandato me” alla passione, nonostante l’amore che ha per me, così anch’io con lo stesso amore “mando voi” incontro a quelle sofferenze, alle quali il Padre ha mandato me.

 

III. il potere dato agli apostoli di legare e di sciogliere

 

9. “Detto questo alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo. Coloro ai quali rimetterete i peccati, saranno rimessi; coloro ai quali non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,22-23). L’alitare di Cristo indicò che lo Spirito Santo non era solo Spirito del Padre ma anche suo. Dice Gregorio: “Lo Spirito viene mandato sulla terra perché sia amato il prossimo; viene mandato dal cielo perché sia amato Dio”. Disse: “Ricevete lo Spirito Santo: coloro ai quali rimetterete i peccati...”, cioè coloro che giudicherete degni di remissione, con le due chiavi del potere e del giudizio, vale a dire con l’applicazione del potere e del giudizio; s’intende: osservando le modalità e l’ordine nel potere di legare e di sciogliere.

Vediamo dunque in che modo il sacerdote rimetta i peccati e assolva il peccatore. Uno pecca mortalmente: subito si rende degno della geenna, legato con la catena della morte eterna. Ma poi si pente e, veramente contrito, promette di confessarsi. Subito il Signore lo libera dalla colpa e dalla morte eterna, che in forza della contrizione si tramuta nella pena del purgatorio. E la contrizione potrebbe essere così grande, come nella Maddalena e nel buon ladrone, che se quel peccatore morisse, volerebbe subito in cielo. Va dal sacerdote e si confessa; il sacerdote gli impone una penitenza temporanea, in virtù della quale anche la pena del purgatorio può essere espiata in questa vita: e se l’avrà compiuta a dovere, se ne volerà nella gloria. In questo modo Dio e il sacerdote perdonano e assolvono.

E con questo concorda ciò che leggiamo negli Atti degli Apostoli, dove Pietro dice [allo storpio]: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina. E presolo per la mano destra, lo sollevò: subito i suoi piedi e le sue caviglie si rinvigori­rono. E balzato in piedi, camminava. Ed entrò con loro nel tempio di Gerusalemme ” (At 3,6-8).

Il beato Bernardo, scrivendo al papa Eugenio, dice: “Medita sull’eredità che ti hanno lasciato i tuoi padri: gli scritti del testato­re non stabiliscono nulla di tutti questi beni. Ascolta la voce del tuo predecessore che dice: Non possiedo né argento né oro. È vero – dice la Glossa – che la prima tenda [dell’alleanza] aveva le prescrizioni dei terreni (l’ordina­mento delle colture), e che il santuario secolare (il tempio di Salomone) era rinomato per l’oro e l’argento. Ma il sangue del vangelo splende più prezioso dei metalli della legge, perché il popolo, che giaceva infermo davanti alle porte dorate, solo nel nome di Cristo crocifisso entra nel tempio celeste”. E Girolamo: “Se vuoi richiamare oro e argento nella chiesa, richiama anche il sangue versato, che agli antichi era lecito avere, perché venivano promesse loro queste cose. Ora invece il Cristo povero santificò la povertà nel suo corpo, e ai suoi promise non beni temporali, ma i beni celesti”.

“Nel nome di Gesù Cristo...”. Ecco il cammino verso la perfezione: primo, colui che giaceva si alza; secondo, intraprende la via della virtù, e così con gli apostoli entra per la porta del regno. Fa’ attenzione alle parole: “àlzati” per mezzo della contrizione; “cammina” per mezzo della confessione; e così “presolo per la mano destra lo sollevò”, cioè lo assolse e lo rimandò in pace.

Anche qui concordano le parole degli Atti degli Aposto­li, dove si legge che Pietro “trovò a Lidda un uomo di nome Enea, che giaceva nel letto da otto anni, ed era paraliti­co. E Pietro gli disse: Enea, Gesù Cristo ti guarisce! Àlzati e rifatti il letto. E subito si alzò” (At 9,33-34). Enea s’interpreta “povero” o “misero”, e raffigura il peccatore che si trova in peccato mortale, povero di virtù e in miseria perché schiavo del diavolo. Costui, come un paralitico, giace nel letto della concupiscenza carnale, devastato in tutte le sue membra: a lui il rappresentante di Pietro deve dire: “Enea”, povero e misero, “ti guarisca Gesù Cristo! Àlzati”, con la contrizione, e “rifatti il letto” con la confessione. “Tu, non un altro, rifatti il letto”. “E subito si alzò”, liberato da ogni legame di peccato.

Altra concordanza: “Pietro disse: Tabità, àlzati! Ed essa aprì gli occhi. Egli le diede la mano e la sollevò” (At 9,40-41). Tabità s’interpreta “gazzella” (cf. At 9,36), e l’ani­male è chiamato così perché fugge di mano (in lat. dammula, de manu), è pavido e pauroso, una specie di capra selvatica. Raffigura l’anima del peccatore, paurosa e pigra, che fugge dalla mano del Padre celeste. A lei viene detto: Àlzati con la contrizione; e allora apre gli occhi con la confessione, e si ferma, umiliandosi con la penitenza, e quindi si alza in piedi in virtù dell’assoluzione di tutti i suoi peccati.

Ci elargisca questa assoluzione il vero sacerdote e sommo pontefice Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

IV. l’incredulità di tommaso

 

10. “Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo (gemello), non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri disce­poli: Abbiamo visto il Signore. Ma egli disse loro: Se non vedo nelle sue mani la trafittura dei chiodi, e non metto le mie dita nel posto dei chiodi, e non metto le mie mani nel suo costato, non crederò” (Gv 20,24-25). Tommaso s’interpreta “abisso”, perché dubitando conseguì una conoscenza più profonda e così si sentì più sicuro. Dìdimo è termine greco che significa “doppio”, quindi dubbio, dubbioso (scettico). Non per un caso, ma per un disegno divino, Tommaso era assente e non volle credere a quello che sentiva racconta­re. O disegno divino! O santo dubbio del discepolo! “Se non vedrò nelle sue mani...” Desiderava vedere riedificata la tenda di Davide, che era crollata, e della quale il Signore, per bocca di Amos, dice: “In quel giorno io rialzerò la tenda di Davide che è crollata, e riedificherò le aperture delle sue mura” (Am 9,11).

In Davide, che s’interpreta “di mano forte”, dobbiamo vedere la divinità; nella tenda il corpo dello stesso Cristo nel quale, quasi in una tenda, abitò la divinità: tenda che crollò con la passione e con la morte. Per aperture delle mura s’intendono le ferite delle mani, dei piedi e del costato: il Signore le riedificò nella sua risurrezione. Di queste dice Tommaso: “Se non vedrò nelle sue mani le trafitture...” Il Signore misericordioso non volle abbandonare nel suo onesto dubbio quel discepolo, che sarebbe diventato un vaso di elezione: gli tolse misericordiosamente ogni caligine, ogni ombra di dubbio, come in seguito avrebbe tolto a Saulo la cecità dell’infedeltà.

Ed ecco appunto la concordanza negli Atti degli Apostoli. Dice Anania: “Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia ricolmo di Spirito Santo. E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista. Si rialzò e fu battezzato. Preso del cibo si sentì rinfrancato” (At 9,17-19). Si avverò così la profezia di Isaia (Is 65,25): “Il lupo pascolerà insieme con l’agnello”, cioè Saulo con Anania, nome, que­st’ul­timo, che s’inter­preta appunto “agnello”. Il corpo del serpente si copre di squame. I Giudei sono serpenti e razza di vipere (Mt 23,33). Saulo, imitando la perfidia dei Giudei, aveva come ricoperto di pelle di serpente gli occhi del cuore, ma poi, cadute le squame sotto la mano di Anania, manifesta nel volto la luce che ha ricevuto nella mente. Così sotto la mano di Anania, cioè di Gesù Cristo, che fu condotto al sacrificio come un agnello (cf. Is 53,7), caddero le squame del dubbio dagli occhi di Tommaso e egli ricuperò la vista della fede.

 

V. professione di fede di tommaso e conferma della nostra fede

 

11. “Otto giorno dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi!” (Gv 20,26). Non voglio qui spiegare di nuovo ciò che è già stato spiegato.

“Disse poi a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato: e non essere più incredulo, ma credente. Rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, hai creduto. Beati quelli che, pur non avendo visto, hanno creduto” (Gv 20,27-29).

Dice il Signore per bocca di Isaia: “Io ti ho disegnato nelle mie mani” (Is 49,16). Osserva che per scrivere sono necessarie tre cose: carta, inchiostro e penna. Le mani di Cristo furono la carta, il suo sangue l’inchiostro e i chiodi la penna. Cristo dunque ci disegnò nelle sue mani per tre ragioni. Primo, per mostrare al Padre le cicatrici delle piaghe che aveva subìto per noi, e indurlo così alla misericordia. Secondo, per non dimenticarsi mai di noi, e perciò egli stesso dice per bocca di Isaia: “Può forse una donna dimen­ticare il suo bambino, e non aver più pietà del figlio del suo grembo? Ma anche se essa si dimenticherà, io non mi dimenticherò di te. Ecco, io ti ho disegnato nelle mie mani” (Is 49,15-16). Terzo, scrisse nelle sue mani come noi dobbiamo essere e che cosa dobbiamo credere. Non essere dunque incredulo, o Tommaso, o cristiano, ma credente!

“Esclamò Tommaso: Mio Signore e mio Dio!”, ecc.” Rispondendogli, il Signore non disse: Perché hai toccato, ma “perché hai veduto”, perché la vista è in qualche modo un senso generale, che di solito è di aiuto agli altri quattro. Dice la Glossa: Forse non osò toccare, ma guardò solamente, o forse anche guardò toccando. Vedeva e toccava un uomo, e al di là di questo, eliminato ogni dubbio, credette che era Dio, professando così ciò che non vedeva. “Tommaso, hai veduto me” uomo, “e hai creduto” me Dio.

 

12. “Beati coloro che pur senza aver visto, hanno credu­to”. Con queste parole loda la fede dei gentili (pagani); ma usa il tempo passato perché nella sua prescienza vedeva come già avvenuto ciò che sarebbe accaduto in futuro. Ne troviamo conferma negli Atti degli Apostoli, quando Filippo interrogò l’eunuco di Candàce, regina di Etiopia: “Credi con tutto il tuo cuore? Rispose: Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio. E lo battezzò” (At 8,37.38); così pure dove si parla del centurione Cornelio, che Pietro battezzò insieme con tutta la sua famiglia, nel nome di Gesù Cristo. Questi due, che credettero in Cristo, prefiguravano la chiesa dei gentili, che sarebbe stata rigenera­ta nel sacramento del battesimo e avrebbe creduto nel nome di Gesù Cristo. A costoro Pietro parla oggi con le parole dell’introito della messa, e dice: “Come bambini appena nati bramate il latte, ragionevoli, senza inganno” (1Pt 2,2).

Il bambino (in lat. infans) è così chiamato perché non sa parlare (lat. in fans, non parlante). I fedeli della chiesa, generati dall’acqua e dallo Spirito Santo, devono essere infanti, non parlanti (non fantes), che non parlano cioè la lingua dell’Egitto, della quale dice Isaia: “Il Signore rifiuterà la lingua del mare dell’Egitto” (Is 11,15). Nella lingua è indicata l’elo­quenza, nel mare la sapienza filosofica e nell’Egitto il mondo. Il Signore dunque rifiuta la lingua del mare dell’Egitto, quando per mezzo dei semplici e dei non eruditi dimostra che la sapienza del mondo è arida e insipida.

“Ragionevoli, senza inganno”. Ragionevole è ciò che si fa con la ragione. La ragione è lo sguardo dell’anima, con il quale il vero viene contemplato per se stesso e non attraverso il corpo; oppure è anche la stessa contemplazione del vero, non per mezzo del corpo; oppure è anche lo stesso vero che viene contemplato. Ragionevoli quindi nei riguardi di Dio e di noi stessi; senza inganno nei riguardi del prossimo.

“Bramate il latte”. Quel latte del quale parla Agostino: “Il pane degli angeli è diventato latte dei piccoli”. Il latte (lat. lac) è così chiamato dal suo colore: è infatti un liquido bianco. Bianco in greco si dice leukòs, in latino albus. La sua sostanza è prodotta dal sangue. Infatti dopo il parto, se una parte del sangue non è stata ancora consumata per il nutrimento avvenuto nell’utero, per vie naturali sale alle mammelle e, diventando bianco per opera di queste, assume la natura e la sostanza del latte. E da quel momento diventa cibo di ogni neonato, poiché la sostanza per la quale avviene la generazione è la stessa con la quale avviene la nutrizione: il latte infatti è come sangue bollito, digerito, non corrotto (Aristotele). Nel sangue, che al vederlo fa ribrezzo, è raffigurata l’ira di Dio; nel latte invece, che è di sapore gradevole e di piacevolissimo colore, è raffigurata la misericordia di Dio. Il sangue dell’ira fu tramutato nel latte della misericordia nella mammella, cioè nell’uma­nità di Gesù Cristo. Infatti dice il Profeta: “Cambiò i fulmini in pioggia” (Sal 134,7). I fulmini dell’ira divina furono tramutati in pioggia di misericordia, quando il Verbo si fece carne (cf. Gv 1,14).

 

13. Senso morale. L’eunuco etiope e il centurione Cornelio sono figura dei peccatori convertiti. Cornelio s’interpreta “che capisce la circoncisione”. Giustamente Cornelio e l’eunuco vengono accomunati: i penitenti infatti si rendono eunuchi per il regno dei cieli (cf. Mt 19,12), vale a dire circoncidono, eliminano da se stessi i desideri carnali e, credendo nel nome di Gesù Cristo, si lavano alla fonte viva della compunzione e si rinnovano con il battesimo della penitenza.

Fanno quindi come gli elefanti, dei quali dice Solino: Le femmine prima dei dieci anni ignorano il sesso, e i maschi prima dei quindici. Per un biennio hanno rapporti non di più di cinque giorni all’anno, e non ritornano tra i compagni del branco senza prima essersi lavati in acque sorgive. Così i penitenti e i giusti, se sono caduti in qualche peccato, si vergognano di rientrare nel numero dei fedeli se prima non si sono purificati nelle acque sorgive delle lacrime e della penitenza.

Preghiamo dunque, fratelli carissimi, e supplichiamo la misericordia di Gesù Cristo perché venga e si fermi in mezzo a noi, ci conceda la pace, ci liberi dai peccati, estirpi dal nostro cuore ogni dubbio e imprima nella nostra anima la fede nella sua passione e risurrezione, affinché con gli apostoli e con i fedeli della chiesa possiamo conseguire la vita eterna. Ce lo conceda colui che è benedetto, degno di lode e glorioso per i secoli eterni. E ogni anima fedele risponda: Amen. Alleluia

 

 

DOMENICA II DOPO PASQUA

Temi del sermone

 

– Vangelo della seconda domenica dopo Pasqua: “Io sono il buon pastore”; vangelo che si divide in quattro parti.

– Anzitutto sermone al predicatore: “Mi fu data una canna”; le tre qualità della verga e il loro significato.

– Parte I: Sermone sulla cura che Cristo ha di noi, che siamo il suo popolo e le pecore del suo pascolo: “Io sono il buon pastore”.

– Sermone allegorico e morale su Cristo e sul prelato della chiesa: “Sentii dietro di me una grande voce”.

– Sermone sulle sette qualità che sono necessarie a un prelato: “Vidi sette candelabri d’oro”.

– Sermone contro coloro che trascurano la teologia e si dedicano a scienze lucrative: “Cantate al Signore un canto nuovo”.

– Sermone sul beato Paolo: “Legherai forse il rinoceronte?”.

– Parte II: Sermone sui quattro cavalli [dell’Apocalisse] e il loro simbolismo; natura del mirto, della saliunca e dell’ortica e il loro significato: “Guardai, ed ecco un cavallo bianco”.

– Sermone contro il prelato iniquo: “O pastore e idolo”, e “Eli era adagiato nel suo luogo”, e “Canaan ha nelle sue mani una statera”.

– Natura del lupo e chi raffigura: “Il mercenario, al quale non appartengono le pecore”.

– Parte III: Sermone sui dodici patriarchi e loro significato: “Sentii il numero degli eletti”.

– Sermone sulla passione di Cristo, che dev’essere impres­sa sulla fronte dell’anima nostra: “Passa in mezzo alla città”, e “Saremo sciolti dal giuramento”, e “Il mazzetto di issopo”.

– Parte IV: Sermone allegorico e morale sulla santa chiesa e sull’anima fedele: “Una donna vestita di sole”.

– Sermone all’assemblea dei religiosi: “Distendi il tuo mantello col quale ti copri”.

– Sermone per esortare alla mortificazione della carne: “E la luna sotto i suoi piedi”.

– Sermone sulle dodici stelle e il loro significato: “E sul suo capo una corona di dodici stelle”.

 

esordio - sermone al predicatore

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Io sono il buon pastore...” (Gv 10,11).

Dice Giovanni nell’Apocalisse: “Mi fu data una canna simile a una verga” (Ap 11,1). La canna è la predicazione del vangelo. Come infatti la canna scrive le parole nella pelle (pergamena), così la predicazione deve scrivere la fede e i buoni costumi nel cuore dell’ascoltatore. La canna e la penna sono gli strumenti dello scrivano. La canna è così chiamata (lat. càlamus) perché depone un liquido: perciò i naviganti dicono calare per deporre. Ma poiché da càlamo viene calamità, e al vuoto segue l’infelicità, la predicazione viene paragonata alla verga, nella quale si possono vedere simboleggiate tre qualità: la solidità, la rettitudine e la correzione. La predicazione dev’essere solida, vale a dire comprovata dalla consistenza delle opere buone; e deve presentare parole vere, non false, non ridicole, non frivole o lusinghiere, ma parole che muovano alla commozione e al pianto. Per questo dice Salomone: “Le pa­role dei saggi sono come pungoli e come chiodi piantati profondamente” (Eccle 12,11). Infatti come il pungolo, quando punge, fa uscire il sangue, e il chiodo, se si impianta nella mano, produce un grande dolore, così le parole dei saggi devono pungolare il cuore del peccatore e farne uscire il sangue delle lacrime – le quali, come dice Agostino, sono il sangue dell’anima –, e suscitare il dolore dei peccati passati e il timore delle pene della geenna.

La predicazione dev’essere retta (coerente), in modo che il predicatore non contraddica con le sue opere ciò che dice con le parole. L’autorità della parola viene annullata, quando la parola non è sorretta dalle opere. La predicazione dev’essere anche correttoria, affinché gli ascoltatori, dopo aver assistito alla predicazione, correggano, emendino la loro vita. Con simile verga il buon pastore, il degno prelato della chiesa, e anche il predicatore, corregga e pascoli il gregge delle sue pecore, come le correggeva e le pascolava quel buon pastore che nel vangelo della messa di oggi dice: “Io sono il Buon Pastore”.

 

2. Osserva che in questo vangelo sono posti in evidenza quattro punti. Primo, la cura premurosa del buon pastore verso le pecore, e la disponibilità a dare la vita per esse, se necessario, dove dice: “Io sono il buon pastore”. Secondo, la fuga del mercenario e la rapina del lupo, quando aggiunge: “Il mercenario invece, che non è pastore, al quale non appartengono le pecore...” Terzo, la reciproca conoscenza tra il pastore e le pecore: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Quarto, la chiesa cattolica che sarà formata dall’unione dei due popoli (cf. Ef 2,14), il giudaico e il gentile (pagano), dove dice: “Ho anche altre pecore che non sono di questo ovile”.

In questa domenica e nella prossima si canta e si legge un brano dell’Apocalisse, che vogliamo dividere in sette parti. La prima parte parla delle sette Chiese, la seconda dei quattro cavalli, la terza degli eletti delle dodici tribù, la quarta della donna vestita di sole. Queste prime quattro parti le confronteremo con le quattro parti di questo vangelo.

La quinta parte del brano dell’Apocalisse parla dei sette angeli che portano le fiale ripiene dell’ira di Dio; la sesta parte parla della dannazione della grande meretrice, cioè della vanità mondana; infine la settima parte parla del fiume di acqua viva, cioè della perennità della vita eterna. E queste tre parti – Dio volendo – le confronteremo con le tre parti del vangelo della domenica prossima.

Inoltre, sempre in questa domenica, all’introito della messa si canta: “La terra è piena della misericordia di Dio” (Sal 32,5), e si legge la lettera del beato Pietro aposto­lo: “Cristo patì per noi” (1Pt 2,21).

 

I. cura premurosa del buon pastore verso le pecore

 

3. “Io sono il buon pastore”. A buon diritto Cristo può dire: “Io sono”, perché per lui nulla è passato, nulla è futuro, ma tutto è presente. Infatti dice nell’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine, dice il Signore Dio, che è, che era e che verrà, l’Onni­potente” (Ap 1,8); e nell’Esodo: “Io sono. Così dirai ai figli d’Israele: “Io sono” mi manda a voi” (Es 3,14). Giustamente quindi dice: “Io sono il buon pastore”.

Pastore deriva da pasco (pascolare, pascere, nutrire), e Cristo ci nutre ogni giorno con la sua carne e il suo sangue nel sacramento dell’altare. Dice Isai (Iesse, padre di Davide) nel primo libro dei Re: “C’è ancora il più piccolo, che sta pascolando le pecore” (1Re 16,11). Il nostro Davide, piccolo e umile, pascola come un buon pastore. Egli è il nostro Abele che, come si legge nella Genesi, fu pastore di pecore (cf. Gn 4,2): il fratricida Caino, cioè il popolo giudaico, lo uccise per odio.

Di questo pastore il Padre dice: “Susciterò un pastore che pascerà il mio gregge, Davide mio servo”, cioè il figlio mio Gesù; “egli le pascerà, egli sarà il loro pastore” (Ez 34,23). E ancora: “Come un pastore pascerà il suo greg­ge: con il suo braccio radunerà gli agnelli e li solleverà al suo petto; egli stesso porterà le pecore gravide” (Is 40,11). Parla da buon pastore colui che, quando conduce il suo gregge al pascolo e lo fa rientrare, raduna con il suo braccio gli agnelli piccoli che non possono camminare, e solleva al suo petto le pecore gravide (lat. fetas) e quelle stanche, e le porta lui stesso. Il termine latino fetus (fecondato) talvolta significa “pieno”, talvolta “liberato”.

Così Gesù Cristo ci pasce ogni giorno con gli insegnamenti evangelici e con i sacramenti della chiesa; ci ha radunati con il suo braccio, disteso sulla croce. Dice Giovanni: “Per riunire insieme i figli di Dio, che erano dispersi” (Gv 11,52). “E li solleverà al suo petto”; ci solleverà al seno della sua misericordia, come fa la madre con il figlio. Dice infatti: “Io feci da balia (nutritius) a Efraim, lo portai sulle mie braccia” (Os 11,3). Egli ci nutre con il suo sangue, come con latte. Nella mammella, o sotto la mammella, fu ferito per noi dalla lancia sul monte Calva­rio, per offrirci il suo sangue, come la madre offre al figlio il latte; e ci ha portati sulle sue braccia, distese sulla croce.

 

4. Perciò nell’epistola di oggi Pietro dice: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, morti ai peccati, viviamo per la giustizia: con le sue piaghe siamo stati guariti” (1Pt 2,24).

“Ed egli porta quelle gravide”, cioè le anime gravide dei penitenti, eredi della vita eterna. Dice infatti nell’Esodo: “Voi stessi avete visto ciò che ho fatto agli Egiziani, e come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatti arrivare fino a me” (Es 19,4). Egli affonda gli Egiziani, cioè i demoni e i peccati mortali, nel Mare Rosso, vale a dire nell’ama­rezza della penitenza, delle lacrime e della sofferenza bagnata e arrossata dal sangue; porta poi i penitenti su ali di aquila, quando, disprezzate le cose terrene, li solleva a quelle celesti perché con occhi limpidi contemplino il sole di giustizia. Giustamente quindi dice: “Io sono il buon pastore”. E Davide: “Buono tu sei, e nella tua bontà istruisci me” (Sal 118,68), pecora errabonda. “Sono andata errando, come pecora avviata alla rovina” (Sal 118,176). E nel libro della Sapienza: “O quanto è benigno e soave, Signore, il tuo spirito, in tutte le cose!” (Sap 12,1).

“Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore” (Gv 10,11). Mette in evidenza ciò che è proprio ed esclusivo del buon pastore, dare la vita per le sue pecore: ciò che fece Cristo. Dice Pietro nell’epistola di oggi: “Cristo patì per noi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme” (1Pt 2,21). Commenta la Glossa: Gioisci, perché Cristo è morto per te. Fa’ però attenzione a ciò che segue: “Lasciandovi un esempio” di oltraggi, di tribolazioni, di croce e di morte.

“Il Buon Pastore, dunque, dà la vita per le sue pecore”. E di queste dice sempre Pietro alla fine dell’epi­stola: “Eravate come pecore erranti, ma ora siete tornati al pastore e guardiano (lat. episcopus) delle vostre anime” (1Pt 2,25). Quale immensa misericordia! Lo proclama l’introito della messa di oggi: “Della misericordia del Signore è piena la terra!”. “Dalla parola del Signore ebbero stabilità i cieli” (Sal 32,5­6), cioè dal Figlio di Dio ebbero stabilità gli apostoli e gli uomini apostolici, per non essere come pecore erranti, ma si tenessero sempre sotto la verga del pastore e del guardiano delle anime.

 

5. Le pecore, per le quali il buon pastore Gesù Cristo diede la sua vita, raffigurano quelle sette chiese, delle quali parla il brano dell’Apocalisse: “Udii dietro di me – dice Giovanni – una voce poten­te, come di tromba, che diceva: Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea. Mi voltai per riconoscere la voce che mi parlava: e vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai sette candelabri d’oro vidi uno simile a figlio d’uomo, vestito d’abito talare, e cinto al petto (alle mammelle) con una fascia d’oro. Il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come neve, e i suoi occhi erano come fiamma di fuoco. I suoi piedi erano simili a lucido splendente, quando è nella fornace ardente; la sua voce come la voce di molte acque. E aveva nella sua destra sette stelle, dalla sua bocca usciva una spada affilata sui due lati: il suo volto splendeva come il sole in tutto il suo fulgore” (Ap 1,10-16).

Spiegheremo questo brano dapprima in senso allegorico, applicandolo a Cristo, e poi in senso morale applicandolo al prelato della chiesa.

Senso allegorico. Efeso s’interpreta “mia volontà” o “mio consiglio”; Smirne “il loro canto”; Pergamo “che divide le corna” o “che dissecca la valle”; Tiatira “illu­minata”; Sardi “principio della bellezza”; Filadelfia “che preserva” o “che salva chi si attacca al Signore”; e infine, Laodicea, che vuol dire “tribù amabile”. “I sette candelabri d’oro” raffigurano tutte le chiese, ardenti e illuminate dalla sapienza del divin Verbo. Come l’oro raffinato col fuoco e battuto viene trasformato in un candelabro, così la chiesa, purificata dalle tribolazioni e percossa dai colpi delle persecuzioni, si perfeziona e si diffonde fino ai paesi più lontani.

“E in mezzo ai sette candelabri d’oro”, cioè nella comunità di tutte le chiese – poiché in tutte le chiese Dio è presente ed è sempre pronto a venire in soccorso –, “vidi uno simile a figlio d’uomo”, cioè un angelo nella persona di Cristo, che non è più figlio dell’uomo, ma solo simile, perché ormai più non muore; oppure simile a figlio di uomo, perché non fu soggetto al peccato, ma prese solo la somiglianza della carne di peccato. “Vestito di tunica talare”, sacerdotale, cioè della veste della carne, nella quale si offrì e ogni giorno si offre, presentando se stesso al Padre. “E cinto al petto di una fascia d’oro”, cioè la fascia della carità, in virtù della quale si consegnò per noi alla morte.

“Il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come neve”. Il capo è la divinità. Dice l’Apostolo: “Capo di Cristo è Dio” (1Cor 11,3). Il capo raffigura anche lo stesso Cristo, che è capo della chiesa (cf. Ef 5,23): in lui c’è tutto quello che è necessarieoal governo della chiesa stessa. I capelli raffigurano i fedeli, che allo stesso capo sono sal­damente uniti. Quindi il capo e i capelli, cioè Cristo e i suoi cristiani, sono candidi come lana, bianca per la semplicità e la purezza, e come la neve, per il candore dell’im­mortalità, poiché come egli vive, anche noi vivremo con lui (cf. Gv 14,19).

“E i suoi occhi erano come fiamma di fuoco”. Gli occhi indicano lo sguardo della grazia di Gesù Cristo, che scioglie il cuore agghiacciato del peccatore, come la fiamma del fuoco dissolve il ghiaccio. Così il Signore guardò Pietro con gli occhi della misericordia, e Pietro pianse amaramente (cf. Lc 22,61-62) perché il gelo del suo cuore si sciolse in lacrime di compunzione.

“E i suoi piedi”, cioè i predicatori che lo portano in tutto il mondo, erano “simili al bronzo splendente (oricalco)”, non un oricalco qualsiasi, ma quello purificato “nella fornace ardente”. L’oricalco è così chiamato perché ha somiglianza sia con l’oro che con il bronzo: il bronzo infatti si chiama in greco chalkòs. Nell’oro è indicato lo splendore della sapienza, nel bronzo la sonorità dell’elo­quenza. I piedi di Gesù Cristo sono simili all’oricalco perché i predicatori devono risplendere del fulgore della sapienza e della sonorità dell’eloquenza.

“E la sua voce era come la voce di molte acque”. La predicazione di Cristo possiede la virtù dell’acqua, perché lava. Infatti agli apostoli egli disse: “Voi siete mondi in virtù della parola che vi ho annunciato” (Gv 15,3). Sono ormai molti i popoli che accolgono la voce di Gesù Cristo, e sono paragonati alle acque a motivo del fluire della vita e della morte. Oppure anche, “la sua voce, come la voce di molte acque”, che fa sgorgare cioè molte acque, che dà tante grazie. Perciò continua: “E aveva nella sua destra sette stelle”, cioè le sette grazie, i sette doni dello Spirito Santo, che tiene nella sua destra, così chiamata perché dà fuori (dat extra): infatti dal tesoro della sua munificenza dà le grazie a chi vuole, quando vuole e come vuole. Oppure, le stelle raffigurano i vescovi, che debbono risplendere di fronte a tutti con la parola e con l’esempio: e il Signore li tiene nella sua destra, cioè li considera i suoi doni più grandi, raffigurati appunto dalla mano destra.

“E dalla sua bocca usciva una spada affilata da tutte e due le parti”. Dalla sua bocca, cioè dal suo comendo, è uscita la predicazione, che taglia da entrambe le parti: nell’Antico Testamento le opere carnali, nel Nuovo le varie concupiscenze.

“E il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza”. Il volto di Cristo sono i degni prelati della chiesa e tutti i santi, per mezzo dei quali, come per mezzo del volto, conosciamo Cristo. Costoro splendono come il sole in tutta la sua forza, cioè nel mezzogiorno, senza nubi; oppure, quando il sole sarà fermo nell’eternità essi risplenderanno così, vale a dire diverranno simili al vero sole, Gesù Cristo.

 

6. Senso morale. “Io sono il buon pastore”. Beato quel prelato della chiesa che può dire in tutta sincerità: Io sono il buon pastore. Egli, per essere buono, è necessario che sia simile al Figlio dell’uomo, e sia in mezzo a sette candela­bri d’oro. Di essi dice Giovanni: “Vidi sette candelabri d’oro”: in essi sono indicate le sette qualità necessarie al prelato della chiesa: innocenza di vita, scienza della sacra Scrittura, eloquenza di parola, assiduità nella preghiera, misericordia verso i poveri, disciplina nei riguardi dei sudditi, cura premurosa per il popolo che gli è affidato. Questi sette candelabri trovano rispondenza nel significato delle sette chiese.

Efeso s’interpreta “mia volontà”, o “mio consiglio”. Qui è indicata l’innocenza di vita, della quale dice l’Aposto­lo: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo nel decoro e nella santità” (1Ts 4,3-4). E Isaia: “Indìci un consiglio, prendi una decisione” (Is 16,3). Indìci un consiglio per vivere nell’innocenza nei riguardi dell’anima; prendi una decisione, cioè frena i cinque sensi per vivere nella castità, per quanto riguarda il corpo.

Smirne s’interpreta “il loro canto”. E qui è indicata la scienza, la conoscenza delle sacre Scritture. Dice il Profeta: “Cantate al Signore un canto nuovo” (Sal 95,1). Tutte le scienze mondane e lucrative sono il canto vecchio, il canto di Babilonia. Solo la teologia è il canto nuovo, che risuona soavemente agli orecchi di Dio e rinnova lo spirito. Essa dev’essere il canto dei prelati. Se non c’è in Israele un fabbro ferraio – dice il primo libro dei Re –, non deve far meraviglia se i figli d’Israele vanno dai filistei a farsi affilare l’aratro, la zappa, la scure e il sarchiello (cf. 1Re 13,19-20). Ma, grazie a Dio, in Israele, cioè nella chiesa, c’è non dico un fabbro solo, ma ci sono molti fabbri, cioè molti teologi che sanno affilare molto bene il vomere, la zappa, la scure e il sarchiello e ripararli perfettamente. Il vomere è chiamato così perché scava la terra, o anche perché vomita terra; la zappa (lat. ligo) perché solleva la terra; la scure (lat. securis) perché taglia (lat. succidit) gli alberi; il sarchiello è un arnese di ferro munito di manico, strumento necessario alla coltivazione dei campi. Con questi arnesi da lavoro viene indicata la pratica della predicazione, che scava l’humus della cupidigia e la terra dell’iniquità, convince la mente a disprezzare le attrattive di questi vizi, taglia i rami secchi dell’albero infruttuoso e coltiva il campo della chiesa militante.

Perché dunque i figli d’Israele, cioè i prelati della chiesa, vanno dai filistei, nome che s’interpreta “caduti ubriachi fradici”, si danno cioè alle scienze lucrative? E ricorrono ad esse per inebriarsi con la bevanda di una dignità effimera, della gola e della lussuria, con l’ambizione della vanagloria e del denaro, e così ubriachi, cadono nel profondo dell’inferno. A costoro dice Bernardo: “O ambizione veramente malaugurata, che non sa aspirare alle grandi cose: amano infatti i primi posti, ma c’è da temere per loro che cadranno come i fichi che non maturano. Si guardino bene coloro che bramano i primi posti, di non perdere anche i secondi, e finiscano poi per precipitare vergognosamente all’ultimo posto dell’inferno”.

Pergamo s’interpreta “che spezza i corni” (l’arroganza), oppure “che dissecca la valle”. Qui è raffigurata l’elo­quenza della lingua erudita, che spezza i corni dei superbi e dissecca la valle dei carnali. Dice il Signore per bocca del profeta: “Io spezzerò tutti i corni ‘l’arroganza) dei peccatori” (Sal 74,11). E Giobbe: “Potrai forse legare con la briglia il rinoceronte per farlo arare, o perché rompa le zolle delle valli dietro a te?” (Gb 39,10). Il rinoceronte è un animale tozzo, somigliante a un caprone (sic), che sopra le narici ha un corno oltremodo appuntito: raffigura il beato Paolo, che fremente minacce e strage, mentre andava a Damasco, fu legato con la briglia della potenza divina per arare, cioè per predicare. Infatti il Signore disse ad Anania: “Questi è per me un vaso di elezione [strumento eletto] per portare il mio nome davanti ai gentili (pagani), ai re e ai figli d’Israele” (At 9,15). Egli spezzò le zolle delle valli, vale a dire le menti dei carnali e degli infedeli, con l’aratro della predicazione.

Tiatira s’interpreta “illuminata”. Simboleggia l’assiduità nella preghiera, che illumina la mente. Leggiamo nell’Apo­calisse: “Lo splendore di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello” (Ap 21,23). Nell’agnello sono raffigurate l’innocen­za e la semplicità, due virtù necessarie in modo particola­re a chi prega: esse come splendore e lampada illuminano la mente di chi è assiduo nell’orazione.

Sardi vuol dire “principio della bellezza”. E questa è la misericordia verso i poveri, che scaccia la lebbra dell’a­varizia e rende bella l’anima. Infatti è detto: “Date in elemosina..., ed ecco, tutto per voi sarà mondo” (Lc 11,41).

Filadelfia s’interpreta “che preserva o salva chi aderi­sce al Signore". Qui è raffigurata la correzione nei riguardi dei sudditi, la quale preserva chi aderisce al Signore nel suo servizio, e salva dal pericolo della morte. A questo proposito dice l’Apostolo: “Ogni correzione sul momento non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a coloro che con essa sono stati guidati” (Eb 12,11).

Laodicea s’interpreta “tribù amabile” per il Signore. E qui è raffigurata la chiesa cattolica del popolo cristiano, sulla quale il prelato deve vigilare con cura assidua. Del­l’amore verso di essa, dice Giovanni: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1), vale a dire li amò così tanto, che l’amore lo condusse fino alla morte.

Questi sono i sette candelabri che illuminano tutte le chiese, riunite dallo Spirito della settiforme grazia, in mezzo alle quali il prelato, simile a Figlio d’uomo, cioè a Gesù Cristo, deve camminare nella povertà, nell’umiltà, nell’obbedienza, vestito del camice bianco. Il camice è la tunica talare, quella tunica di lino che indossava Aronne, e sta a significare la castità del corpo, alla quale dev’essere unita la purezza del cuore.

 

7. “Era cinto al petto di una fascia d’oro”. Daniele vide il personaggio cinto alle reni, ai fianchi, perché nell’Antico Testamento vengono condannate le opere carnali; Giovanni lo vide cinto al petto (alle mammelle), perché nel Nuovo Testa­mento vengono giudicati anche i pensieri. Quindi con una fascia d’oro, cioè con l’amore verso Dio, viene stretto il petto (vengono strette le mammelle), vale a dire viene represso il flusso dei cattivi pensieri.

Quindi continua: “Il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come la neve”. Il capo è così chiamato in quanto comprende tutti i sensi, e sta ad indicare la mente che è come il capo dell’anima; e i capelli raffigurano i pensie­ri. Nella mente di solito risiede l’im­pu­rità e il fomite del peccato. Quindi la mente e i pensieri devono essere candidi come la lana bianca contro l’immondezza del peccato, e come la neve contro il suo fomite.

“E i suoi occhi erano come fiamma di fuoco”. Gli occhi del prelato raffigurano la contemplazione di Dio e la compassione verso il prossimo, che devono essere come una fiamma di fuoco: devono cioè irradiare fiducia nei riguardi di Dio e innocenza nei riguardi del prossimo.

“E i suoi piedi erano simili all’oricalco”. I piedi raffigurano gli affetti della mente e gli effetti delle opere. Di questi due piedi restò storpio Mifiboset – nome che s’interpreta “uomo di confusione” –, cadendo dalle braccia della nutrice, come si racconta nel secondo libro dei Re (cf. 2Re 4,4). In lui vediamo raffigurato il peccatore, uomo della confusione eterna, che a motivo del peccato mortale cade dalle braccia della nutrice, cioè esce dalla grazia dello Spirito Santo, e diventa storpio di entrambi i piedi. Invece i piedi del buon prelato devono essere simili all’oricalco. L’oricalco, come si è detto, ha il colore del­l’oro e del bronzo: nell’oro è simboleggiato l’affetto della mente, nel bronzo la risonanza (l’esempio) delle buone opere. L’oricalco viene spesso arroventato e così migliora il suo colore; così il buon prelato: quanto più viene bruciato dal fuoco della tribolazione, tanto più diviene luminoso.

“E la sua voce era come la voce di molte acque”. Come molte acque che scorrono impetuosamente travolgono ogni ostacolo, così la voce della predicazione del prelato deve travolgere ogni ostacolo di vizi e ogni impedimento che si frappone alla salvezza delle anime.

“E aveva nella sua destra sette stelle”. Le sette stelle sono le sette glorificazioni del corpo e dell’anima. Quelle dell’anima sono: la sapienza, l’amicizia e la concor­dia; quel­le del corpo sono: la luminosità, l’agilità, la sotti­gliezza (la compenetrazione) e l’im­mor­talità. Il prelato deve avere queste qualità nella destra, affinché tutto quello che pensa, tutto quello che fa, tutto sia destro, cioè retto, e affinché possa avere nella destra della vita eterna le sette stelle, sia cioè posto alla destra con le sue pecore.

“E dalla sua bocca usciva una spada affilata da tutti e due i lati”. La spada è la confessione, che dev’essere affilata da entrambe le parti per poter tagliare i vizi spirituali che sono la superbia e la vanagloria, e i vizi carnali che sono l’avarizia, la gola e la lussuria.

“E il suo volto era come il sole quando splende in tutto il suo fulgore”. Il volto del prelato sono le sue opere, per mezzo delle quali, come dal volto, egli viene riconosciuto. “Li riconoscerete dai loro frutti” (Mt 7,16). Se i frutti sono buoni, splenderanno come il sole in tutto il suo fulgore. Dice infatti il Signore: “Splenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e glorifi­chino il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). Se così sarà il prelato, in coscienza potrà dire: “Io sono il buon pastore”.

Fratelli carissimi, preghiamo il Signore nostro Gesù Cristo che al pastore della sua chiesa conceda la grazia di pascolare come si conviene il gregge dei fedeli e meriti alla fine di giungere a lui, che è l’eterno pascolo dei santi. Lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. la fuga del mercenario e la rapina del lupo

 

8. “Il mercenario invece, che non è pastore e al quale non appartengono le pecore, quando vede venire il lupo abbando­na le pecore e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore. Il mercenario fugge perché è mercenario e non gliene importa delle pecore” (Gv 10,12-13). Poco sopra il Signore aveva detto: “In verità, in verità vi dico: chi non entra nell’ovile delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante” (Gv 10,1).

Qui sono poste in evidenza quattro persone: il buon pastore, il ladro e brigante, il mercenario e il lupo. E raffigurano i quattro cavalli che troviamo nella citazione del­l’Apo­ca­lisse. Scrive Giovanni: “Vidi, ed ecco un cavallo bianco, e colui che lo cavalcava aveva un arco: e gli fu data una corona e uscì vincitore per vincere ancora. Uscì poi un altro cavallo, rosso fuoco, e a colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla terra perché [gli uomini] si uccidessero a vicenda: e gli fu data una grande spada. Ed ecco ancora un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii una voce gridare in mezzo ai quattro esseri viventi: Due libbre di grano per un denaro, e sei libbre di orzo per un denaro, e non sprecate olio e vino. Ed ecco infine un cavallo verdastro: colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. E gli fu dato potere sulle quattro parti della terra per sterminare con la spada, con la fame (privazione) e la peste e le fiere della terra” (Ap 6, 2-8).

Senso allegorico. “Vidi, ed ecco un cavallo bianco”. Il cavallo bianco simboleggia l’uma­nità del buon pastore Gesù Cristo, che giustamente è raffigurato nel cavallo bianco perché fu immune da ogni macchia di peccato. Di questo cavallo dice il profeta Zaccaria: “Io ebbi una visione nella notte, ed ecco un uomo in groppa ad una cavallo rosso, che stava in un mirteto, in una valle profonda” (Zc 1,8). La notte nella quale avviene la visione simboleggia il mistero che avvolge i fenomeni mistici. L’uomo assiso sul cavallo rosso è il Salvatore le cui vesti, vale a dire la sua carne e le sue membra, sono rosse per il sangue versato nella passione: perciò si mostra su di un cavallo rosso al popolo che è ancora tenuto in schiavitù. Nell’Apocalisse di Giovanni invece si mostra su di un cavallo bianco al popolo già liberato. Egli sta tra i mirti, cioè tra le schiere angeliche, che lo servono anche mentre si trova in una valle profonda, cioè nell’umana carne. Dice infatti Matteo: “Gli si avvicinarono gli angeli, e lo servivano” (Mt 4,11).

Oppure: “In un mirteto”. Il mirteto è un luogo dove crescono i mirti. Il mirto è una specie di pianta dal profumo gradevole, che ha il potere di alleviare il dolore; deriva il suo nome dal mare, per il fatto che è una pianta che preferisce i litorali. Il mirto simboleggia la purezza del giusto, che è di gradevole profumo nei riguardi del prossimo e favorisce la temperanza nei riguardi di sé; e si trova di preferenza nel litorale, cioè nella compunzione del cuore. Dice in proposito Isaia: “Invece della saliunca, crescerà l’abete, e invece dell’ortica il mirto” (Is 55,13). La saliunca è un’erba salsa, una specie di arbu­sto o di salice. L’abete è così chiamato perché si innalza al di sopra degli altri alberi (lat. abies, da abeo, vado lontano). La saliunca raffigura l’avarizia, amara e sterile, al cui posto, quando Dio infonde nella mente la grazia, s’innalza l’abete della celeste contemplazione. L’ortica, così chiamata perché il suo tocco fa come bruciare (lat. uro) il corpo – è infatti di natura ignea –, simboleggia la lussuria della carne, al posto della quale il Signore fa crescere il mirto della continenza. Quindi il Signore dimora nel mirteto, cioè in coloro che, per la virtù della purezza e il profumo della buona fama, servono Dio nella valle profonda dell’umiltà.

“Vidi, ed ecco un cavallo bianco, e colui che lo caval­cava aveva un arco”. Chi cavalca il cavallo è la divinità, che come un cavaliere cavalca l’umanità. L’arco, composto di corda e di legno, simboleggia la misericordia e la giusti­zia di Dio. Infatti come la corda piega il legno, così la misericordia piega la giustizia. Dice Giacomo: “La miseri­cordia trionfa sul giudizio” (Gc 2,13). Nella sua prima venuta Cristo portò con sé la corda flessibile della misericordia per conquistare i peccatori; ma nella seconda venuta colpirà con il legno della giustizia, e renderà a ciascuno secondo le sue opere (cf. Mt 16,27). “E gli fu data una corona”. A Cristo, Dio e uomo, fu data una corona riguardo all’uma­nità, con la quale lo incoronò la Madre sua nel giorno del suo sposalizio (cf. Ct 3,11). Oppure: gli fu data una corona di spine dalla sua matrigna, la sinagoga. “E uscì vittorioso per vincere ancora”. “Uscì verso quello che era chiamato il luogo del Calvario – come dice Giovanni –, portando la sua croce” (Gv 19,17), vittorioso sul mondo, per vincere anche il diavolo.

 

9. Senso morale. Vidi, ed ecco un “cavallo bianco”. Il cavallo bianco raffigura il corpo del buon pastore e quello del prelato della chiesa. Questo cavallo dev’essere bianco, della bianchezza della castità. Il cavaliere di questo cavallo è lo spirito, che deve dominarlo con il freno dell’astinenza e incitare con gli sproni dell’amore e del timore di Dio per conseguire il premio della vita eterna. “Non nuoce usare lo sprone con il cavallo in corsa” (Ovidio). L’arco raffigura la sacra Scrittura: nel legno e indica­to l’Antico Testamento, nella corda, che piega la durezza, il Nuovo, e nella freccia la comprensione, che ferisce e penetra i cuori. Quest’arco il buon pastore deve averlo nella mano, cioè nel suo agire. Dice Giobbe: “Il mio arco si rinforzerà nella mia mano” (Gb 29,20): l’arco si rinforza nella mano, quando la predicazione è avvalorata dalle opere.

“E gli fu data una corona”. La corona sul capo è la retta intenzione nella mente, della quale dice Geremia: “È caduta la corona dal nostro capo: guai a noi che abbiamo peccato!” (Lam 5,16). La corona cade dal capo quando l’uomo non ha più la retta intenzione e perciò: Guai a lui! “E uscì vincitore, per vincere ancora”. Uscì dalla cupidigia del mondo, vincendo la lussuria della carne, e per vincere la superbia del diavolo. Se il prelato sarà come questo cavallo bianco, a buon diritto potrà dire: Io sono il buon pastore.

“E uscì un altro cavallo, rosso fuoco”. Il cavallo rossofuoco è il ladro e brigante “che non entra per la porta nell’ovile delle pecore” (Gv 10,1). La porta è Cristo (cf. Gv 10,9): non entra per Cristo colui che cerca quello che è suo e non quello che è di Cristo (cf. Fil 2,21). Il termine brigante (lat. latro) deriva da “nascondere” (lat. latère); e ladro (lat. fur) da furvus, nero. Il brigante è colui che si nasconde per spogliare e uccidere gli incauti, gli imprudenti. Il ladro è colui che nella notte oscura porta via le cose degli altri. Brigante e ladro è colui che per ambizione e con intrighi si arroga l’onore, senza essere chiamato da Dio come Aronne (cf. Eb 5,4). Colui che ottiene una prelatura con la simonia è ladro, perché usurpa per mezzo del denaro l’ufficio di pastore, e quasi nella notte oscura fa suo ciò che appar­tiene ad altri: fa sue le pecore di Dio, che ha rubato al Signore. Brigante è colui che si nasconde sotto l’apparenza della santità: si presenta come pecora, mentre è un lupo, e come sparviero mentre è uno struzzo; e in questo modo spoglia delle loro virtù gli incauti, e li uccide nell’anima. A ragione quindi è chiamato cavallo rosso fuoco.

Chi cavalca questo cavallo è lo spirito dell’ambizione e della gloria mondana, che toglie la pace dalla terra, cioè dalla mente dello stesso ladro e brigante. Infatti lo spirito di ambizione non permette allo sciagurato di avere la quiete della mente, perché è come un cacciatore che insegue le prede che gli sfuggono e si precipita da ogni parte alla ricerca delle cose temporali. Di lui dice il beato Bernardo: “Tu moltiplichi le prebende, sali all’arcidia­conato, aspiri all’episcopato, ti innalzi a poco a poco, ma ad un tratto e inopinatamente precipiti all’inferno”. E ancora: “Va intorno solerte l’esploratore, simula e dissimula, si accoda e ossequia, si arrampica mani e piedi, per intrufolarsi in qualche modo nel patrimonio del Crocifisso”.

Altro senso: “Toglie la pace dalla terra”, quando mediante questo figlio della perdizione semina la discordia nella chiesa. Perciò continua: “Perché si uccidessero a vicenda”. I ladri e i briganti, cioè i prelati simoniaci, si uccidono a vicenda con la spada della discordia e dell’invidia, quando si denigrano, quando mormorano, quando abbaiano uno contro l’altro. Dice Isaia: “Vi danzeranno i satiri” (Is 13,21); e ancora: “I satiri si chiameranno l’un l’altro” (Is 34,14). Oggi i satiri, cioè i simoniaci danarosi, ballano e si divertono nella chiesa; e un simoniaco accusa l’altro; sono occupati tutto il giorno in processi, intrighi, estorsioni, in urla e in aspre diatribe. Quindi conclude: “E gli fu data una grande spada”. La spada acuminata e affilata è la gloria temporale, per la quale e con la quale gli infelici feriscono e uccidono se stessi.

 

10. “Ed ecco il cavallo nero: e chi lo cavalcava teneva in mano una bilancia”. È detto nero (lat. niger), quasi a dire nubiger (che porta nubi), perché non è sereno ma coperto di foschia. Il cavallo nero è il mercenario, del quale il Signore dice: “Il mercenario e colui che non è pastore, al quale non appartengono le pecore, quando vede venire il lupo...”. Il mercenario, così chiamato perché è ingaggiato “a mercede”, cioè a pagamento, sta ad indicare il prelato che serve la chiesa unicamente per la mercede temporale. Di un simile individuo dice il profeta: “Ti confesserà, ti loderà, quando lo avrai beneficato” (Sal 48,19). E dice ancora il Signore: “In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto i miracoli, ma perché avete mangiato dei pani e vi siete saziati” (Gv 6,26). Quando il ventre è pieno, canta volentieri il miserere.

Questo mercenario non è un pastore ma un simulacro (lat. idolum). Per questo dice Zaccaria: “Guai al pastore e simulatore (idolum) che abbandona il gregge! Una spada sta sul suo braccio e sul suo occhio destro: il suo braccio sarà inaridito e il suo occhio destro ottenebrandosi si oscurerà” (Zc 11,17). Nel braccio è raffigurata la capacità di agire e nell’occhio il lume della ragione. Dice dunque: “Pastore e simulatore”, e lo dice a modo di rettifica, come dicesse: “Non pastore, ma simulatore”. Sei tanto scellerato da essere definito non adoratore di ido­li, ma tu stesso idolo (finzione). L’idolo usurpa il nome di Dio, ma non è Dio. E così è il falso pastore che abbandona il gregge, perché le pecore non gli appartengono. E perciò la spada, cioè l’ira divina, sarà sopra il suo braccio e sopra il suo occhio destro, affinché la sua forza e l’ostentazione della sua forza si secchi, si inaridisca per il venir meno della grazia e delle opere buone, e il lume della ragione si oscuri per le tenebre terrene, poiché per il giusto giudizio di Dio sarà reso incapace di operare e accecato nel suo discernimento.

Infatti nel primo libro dei Re sta scritto : “Il sommo sacerdote Eli era adagiato nel luogo consueto: i suoi occhi si erano annebbiati e non poteva vedere la lampada del Signore prima che si spegnesse” (1Re 3,2-3). Eli s’interpreta “estraneo”, e sta ad indicare il prelato ingaggiato per lo stipendio, estraneo quindi al regno di Dio. Costui è adagiato nel suo posto, cioè nel pantano della carne, dissoluto; i suoi occhi, cioè il lume della ragione e dell’intelletto, sono oscurati dalla caligine, cioè dall’amore delle cose terrene; e così non può vedere la lampada, vale a dire la grazia di Dio, prima che si estingua: cioè non avverte e non riconosce di essere privo della luce della grazia, se non quando questa luce si è in lui già spenta. Molti infatti sono così accecati, da non riconoscere di aver perduto la grazia di Dio, se non quando dallo stato di grazia sono caduti nella cecità del peccato mortale. Giustamente quindi è detto nell’Apocalisse: Ecco il cavallo nero, cioè il mercenario, avvolto non dal sereno della grazia ma dall’ombra oscura della colpa.

“E colui che lo cavalcava teneva in mano una bilancia”. Il cavaliere del cavallo nero, cioè il mercenario, è l’animo (lo spirito) degli affari. Il mercenario, stimolato da questi sproni, come un mercante vende a un dato prezzo la colomba, cioè la grazia di Dio, che dev’essere data gratis, e così della casa di Dio fa una casa di mercato (cf. Gv 2,16). Il mercenario tiene in mano una bilancia truccata, della quale dice Osea: “Canaan, con in mano una bilancia truccata, ha amato la frode” (Os 12,7). Canaan s’interpreta “mer­cante” e raffigura il mercenario della chiesa che, implicato negli affari di questo mondo, non ha cura delle pecore di Dio. Dice Girolamo: Ciò che è l’usura nel laico, lo sono gli affari nel chierico.

Nella sua mano tiene una bilancia truccata, perché predica in un modo, ma vive in un altro; agisce in un modo, ma ne ostenta un altro; predica la povertà e invece è avaro, la castità e invece è lussurioso, il digiuno e l’astinenza e invece è ingordo e goloso; carica sulle spalle della gente pesi opprimenti e insostenibili, ma lui non li tocca neppure con un dito (cf. Mt 23,4). Questa è la bilancia truccata, tutto all’opposto di ciò che dice il Signore: Abbi pesi giusti e misure giuste (cf. Lv 19,36). La bilancia è così chiamata perché pende in equilibrio con un’asticella al centro di due piatti (bilancia, dal lat. lanx, piatto). I due piatti sono il disprezzo del mondo e il desiderio del regno dei cieli. L’asti­cella al centro è l’amore di Dio e del prossimo. Questa è la vera bilancia che pesa esattamente, dando ad ognuno quanto gli spetta di diritto: al mondo il disprezzo, a Dio l’adorazio­ne, al prossimo l’amore. Ma nella mano di Canaan, cioè del mercenario affarista, non c’è questa bilancia, ma c’è quella falsa. “Ha agito con inganno – dice il profeta – e così la sua iniquità è divenuta odiosa” (Sal 35,3), perché ha amato la calunnia (la frode). La calunnia deriva dal lat. calvor, ingannare, imbrogliare.

Questo mercenario affarista confeziona cuscini da mettere sotto ogni braccio, e fa guanciali da mettere sotto il capo [di persone] di qualunque età (cf. Ez 13,18), perché a motivo di lucro asseconda i vizi, blandisce le colpe e non impone penitenze adeguate; e nascondendo la sua avarizia sotto l’apparenza della misericordia e della compassione, dice: Pace, pace!, ma non c’è la pace (cf. Ez 13,10), facen­do vivere le anime che non dovevano vivere (cf. Ez 13,19), e così inganna i fedeli di Gesù Cristo.

A questo si riferiscono le parole che seguono: “Due libbre (lat. bilibris) di grano per un denaro…”, ecc. È chiamato “bilibre” il vaso che contiene due “sestari” (circa un litro). Nel grano è raffigurata la fede, nell’u­nico denaro il sangue di Gesù Cristo. Il bilibre (due libbre) di grano rappresenta la chiesa dei fedeli, formata da due popoli e riscattata con il sangue di Gesù Cristo. “E tre bilibre di orzo per un denaro”. Questi sono i fedeli della stessa chiesa, di grado inferiore, che perseverano nella fede della santa Trinità: anche questi vengono riscattati con l’unico denaro del sangue di Gesù Cristo.

Altra interpretazione. Nel grano sono raffigurati i religiosi e nell’orzo i laici. Il bilibre di grano è la vita dei religiosi che, come il grano, dev’essere candida all’interno per la purezza della mente, rosseggiante all’esterno per la macerazione del corpo. Questa vita deve contenere in se stessa due sestari. Nei due sestari è designato il duplice precetto della carità: l’amore di Dio e l’amore del prossimo, che conducono ogni uomo alla perfe­zione.

L’orzo, così chiamato perché è il primo fra tutti i cereali che si secca (lat. hordeum, aridum), sta ad indicare i laici i quali, spuntato il sole della persecuzione, subito inaridiscono, perché “credono per un certo tempo, ma nel tempo della tentazione vengono meno” (Lc 8,13). Quindi “i tre bilibri di orzo” sono tutti i fedeli laici, che hanno almeno la fede nella santa Trinità; tanto i religiosi che i laici vengono riscattati con l’unico denaro, contrassegnato dall’immagine del re e dalla sua iscrizione, cioè dal precetto del­l’ob­bedienza, proprio come il primo uomo, che non perdette l’immagine e la somiglianza di Dio, finché obbedì al suo comando.

“E non sprecate il vino e l’olio”. Nel vino, che dà ebbrezza, è raffigurata la vita contemplativa, la quale inebria le menti in modo che dimentichino tutte le cose temporali. Nell’olio, che galleggia sopra ogni liquido, e versato nell’acqua rende più chiare (visibili) le cose nascoste nel profondo, è indicata la vita attiva che è attenta a tutte le necessità e le infermità del prossimo e con le opere di misericordia porta un po’ di luce nel buio della povertà. E poiché la chiesa è composta di religiosi e di laici, di attivi e di contemplativi, a quel mercenario viene ordinato di non danneggiarli con il suo cattivo esempio. Afferma Gregorio: “Il prelato merita tante morti, quanti sono i cattivi esempi da lui lasciati ai posteri”.

 

11. Questo “mercenario, poiché le pecore non gli apparten­gono, quando vede venire il lupo, fugge”. Il lupo è così chiamato perché, quasi come il leone, ha nei piedi una forza, per la quale ogni cosa che calpesta, cessa di vivere. Tende agguati alle pecore, le assalta alla gola per strangolarle rapidamente. Di struttura corporea piuttosto rigida, sì da non poter piegare tanto facilmente la testa, si muove con una certa irruenza e quindi spesso si vede beffato. Si dice che quando scorge per primo qualcuno, per una qualche forza di natura gli tolga la voce; ma se si vede scoperto perde l’audacia e la ferocia. Quando ha fame e non trova qualcosa da rubare con facilità, si nutre di terra, poi sale su un monte e con le fauci spalancate si riempie di vento le viscere bramose. Ha grande terrore di due cose: del fuoco e della strada frequentata. Il lupo è figura del diavolo e del tiranno di questo mondo sul quale il diavolo cavalca.

E questo è il quarto cavallo, del quale l’Apocalisse dice: “Ed ecco un cavallo verdastro, e colui che lo cavalcava si chiamava Morte”. Come il soldato si serve del cavallo, così il diavolo, il cui nome è Morte perché per mezzo suo la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2,24), si serve del crudele tiranno di questo mondo per turbare e rovinare la chiesa di Cristo. E il mercenario, quando lo vede arrivare, “abbandona le pecore e fugge, e il lupo rapisce e disperde le pecore”. Quello abbandona e questo rapisce, quello fugge e questo disperde. Il diavolo, come un lupo, uccide tutto ciò che schiaccia con il piede della superbia. Perciò Davide, nel timore di essere schiacciato da quel piede, pregava dicen­do: “Non venga su di me il piede della superbia” (Sal 35,12). Come infatti tutte le membra poggiano sui piedi, così tutti i vizi fanno capo alla superbia, perché essa è il principio di ogni peccato (cf. Eccli 10,15).

Il diavolo tende agguati alle pecore, cioè ai fedeli della chiesa, e li azzanna alla gola per impedire loro di confessare i peccati. E ha una così grande superbia da non poter piegare la testa all’umiltà. Attacca all’improv­viso, irrompendo con la tentazione, ma viene beffato dai santi, che non ignorano certo le sue astuzie. Ma se vede un uomo imprudente, lo rende muto affinché non confessi i suoi crimini e non canti la lode del Creatore. Se invece l’uomo vigila su se stesso e previene la sua tentazione, il diavolo si vergogna di essere scoperto e così perde tutta la forza della tentazione. Quando poi non trova nei santi nulla da mangiare, si nutre di terra, cioè degli avari e dei lussuriosi. Poi sale sul monte, va cioè da coloro che occupano posti e cariche elevate, e lì si ristora con il vento della loro vanagloria e del loro sfarzo mondano. Il diavolo ha terrore soprattutto di due cose: del fuoco della carità e della via calpestata dell’umiltà. Se il mercenario fosse dotato di queste due qualità, certo non fuggirebbe, ma proprio per questo fugge, perché è mercena­rio e non gliene importa nulla delle pecore.

Il mercenario e il diavolo sono legati da una certa amicizia e vincolati da un patto. Il diavolo dice al prelato ciò che disse il re di Sodoma ad Abramo: “Dammi le anime, il resto – cioè la lana, la carne, il latte – prendilo per te” (Gn 14,21). Il diavolo e il tiranno di questo mondo agiscono con i prelati del nostro tempo come i lupi con i pescatori della palude meotide (dalle parti del mar d’Azov). Si racconta che i lupi si avvicinano al luogo dove si trovano i pescatori: se i pescatori danno loro del pesce, non fanno danni; ma se non gliene danno, strappano le reti quando i pescatori le stendono per terra per asciugarle. Così i prelati della chiesa danno al diavolo i pesci, cioè le anime che vivono nell’acqua del battesimo, e cedono i beni della chiesa al tiranno del mondo perché non strappi le reti dei loro affari, degli intrighi temporali e non guastino le relazioni che hanno con la loro parentela. Quindi giustamente è detto: “Ed ecco un cavallo verdastro, e colui che lo cavalcava si chiamava Morte, e l’inferno lo seguiva”, vale a dire che gli insaziabili di cose terrene lo imitano. “E gli fu dato potere sulle quattro parti della terra”, cioè su tutti i cattivi che dimorano ovunque; “di uccidere con la spada” delle cattive suggestioni, “con la privazio­ne” della parola divina, con “la morte” del peccato mortale e con “le fiere della terra”, vale a dire con gli impulsi e gli istinti della carne corrotta.

 

III. la reciproca conoscenza tra il pastore e le pecore

 

12. “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore ed esse conoscono me. Come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e do la mia anima (vita) per le mie pecore” (Gv 10,14-15). All’iniquità del pastore falso, oppone il comportamento del pastore vero. Io sono il pastore buono, a differenza del ladro e del mercenario; e conosco le mie pecore, che sono contrassegnate dal mio carattere. Queste pecore hanno “il nome del pastore e il nome del Padre suo scritto sulla loro fronte” (Ap 14,1). Ed ecco come concordano con questo le parole dell’Apocalisse: “Poi udii il numero di coloro che sono stati segnati: centoquarantaquattromila da ogni tribù dei figli d’Isra­ele. Dalla tribù di Giuda dodicimila, dalla tribù di Ruben dodicimila, dalla tribù di Gad dodicimila, dalla tribù di Aser dodicimila, dalla tribù di Neftali dodicimila, dalla tribù di Manasse dodicimila, dalla tribù di Simeone dodicimila, dalla tribù di Levi dodicimila, dalla tribù di Issacar dodicimila, dalla tribù di Zabulon dodicimila, dalla tribù di Giuseppe dodicimila, dalla tribù di Beniamino dodicimila” (Ap 7,4-8).

“Udii il numero dei segnati”, cioè capii quali dovevano essere segnati: “centoquarantaquattromila”, numero che rappresenta la perfezione. Mette un numero “finito” perché Dio con un numero determinato comprende la totalità. “Da tutte le tribù dei figli d’Israele” (dodici), cioè da tutte le genti che imitano la fede di Giacobbe. Nel numero dodici intendiamo coloro che, nelle quattro parti del mondo, sono segnati dalla fede nella Trinità; e per dimostrare che questi sono perfetti, moltiplichiamo dodici per quat­tro, e otteniamo quarantotto. E affinché questa perfezione si riferisca alla Trinità, triplichiamo il quarantotto e otteniamo centoquarantaquattro.

“Dalla tribù di Giuda”, ecc. Si racconta nella Genesi che “Giacobbe maledisse tre figli, cioè Ruben, Simeone e Levi, i quali in ordine di nascita erano i primi (cf. Gn 49,3-7). Questo ci fa capire che nessuno dei tre ebbe il diritto di primogenitu­ra. Il quarto fu Giuda, che Giacobbe lodò e benedisse dicendo: “Giuda, ti loderanno i tuoi fratelli” (Gn 49,8). Ecco il significato dei dodici nomi: Giuda, “che confessa”; Ruben, “figlio della visione”; Gad, “che è cinto”; Aser, “beato”; Neftali, “larghezza”; Manasse, “dimenti­cato”; Simeone, “ascolto (esaudimento) della tristezza”; Levi, “aggiunto” o “innalzato”; Issacar, “mercede”; Zabulon, “abitazione della fortezza”; Giuseppe, “accrescimento”; Beniamino, “figlio della destra” (Gn 35,18).

Giuda è il penitente, che deve aver con sé gli undici fratelli per avere nella sua confessione una visione chiara; nella tribolazione deve cingersi di sapienza; deve temere Dio, perché “beato è l’uomo che teme il Signore” (Sal 111,1); deve dilatarsi nella carità; dimentico del passato, deve protendersi verso il futuro (cf. Fil 3,13); deve dolersi dei peccati affinché Dio lo ascolti, e deve aggiungere dolore a dolore per poter essere innalzato dal dolore alla gioia; in questo modo conseguirà la mercede della vita eterna, nella quale abiterà con fortezza e fiducia (cf. Dt 33,28) perché non ci sarà chi lo spaventi (cf. Gb 11,19); aggiunto al numero degli angeli, ricolmo delle vere ricchezze, con la benedizione della destra, cioè posto a destra, sarà benedetto nei secoli dei secoli.

 

13. Nell’interpretazione di questi dodici nomi è indicata ogni perfezione di grazia e di gloria. Chiunque voglia ad essa arrivare, è necessario che venga segnato nella fronte con un tau (T). Leggiamo in Ezechiele: “Disse il Signore all’uomo che era vestito di lino: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che gemono e soffrono per tutti gli abomini che si compiono in mezzo ad essa” (Ez 9,2-4). L’uomo vestito di lino è Gesù Cristo, rivestito del lino della nostra carne: il Padre gli ha comandato di imprimere un tau, cioè il segno della sua croce e la memoria della sua passione, sulla fronte, vale a dire nella mente dei penitenti, che gemono nella contrizione, e piangono nella confessione, per tutti gli abomini che hanno commesso o che vengono commessi dagli altri. Di questo segno dissero gli esploratori a Raab: “Saremo sciolti dal giuramento che ci hai fatto fare, se quando entreremo in questa città non ci sarà come segno questa funicella rossa e non l’avrai legata alla finestra” (Gs 2,17-18). La cordicella rossa alla finestra è il ricordo della passione nelle nostre membra: se non l’avremo, andremo alla rovina eterna con i dannati.

Perciò dobbiamo fare come ha comandato il Signore: “Intingete il mazzetto di issopo nel sangue che è sulla soglia, e con esso aspergete l’architrave ed entrambi gli stipiti” (Es 12,22). L’issopo è un’erba in grado di purificare i polmoni: spunta tra le pietre, con le radici aderisce al sasso; è figura della fede in Gesù Cristo, della quale dice l’Apostolo: “Ha purificato i cuori con la fede” (At 15,9). Questa fede è radicata e fondata in Cristo stesso, che è pietra angolare.

Voi dunque, o fedeli, prendete il mazzetto della fede e intingetelo nel sangue di Gesù Cristo, aspergete con esso l’architrave ed entrambi gli stipiti. L’architrave è l’intel­letto; i due stipiti sono il volere e l’operare, che devono agire nel ricordo della passione di Gesù Cristo. Dice infatti la sposa del Cantico dei Cantici: “Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio” (Ct 8,6). Nel cuore è indicata la volontà e nel braccio l’azione: entrambi devono essere segnati con il sigillo della passione di Gesù Cristo. Tutti coloro che saranno contrassegnati con questo sigillo, il Signore li riconosce­rà ed essi riconosceranno il Signore. Per questo dice: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me; come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Il Figlio conosce il Padre per se stesso, noi lo conosciamo per mezzo del Figlio. Dice infatti: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). “E do la mia anima per le mie pecore”. Questa è la prova dell’amore nei riguardi del Padre e nei riguardi delle pecore. Così anche Pietro, avendo protestato per la terza volta il suo amore, riceve il comando di pascolare le pecore e di essere pronto a morire per esse. Perciò il Signore gli dice tre volte “pasci… pasci… pasci!…”, e non “tosa, tosa, tosa!”.

Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di segnarci col segno del sangue della tua passione; dégnati di collocarci tra le pecore destinate a stare alla tua destra. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

  1. la chiesa sarà formata da entrambi i popoli:

l’ebraico e il pagano

 

14. “E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre: ascolteranno la mia voce e ci sarà un solo ovile e un solo pastore” (Gv 10,16). La pecora, un animale soffice nel corpo e nella lana, è chiamata in latino ovis, da oblazione (offerta), perché all’inizio non si offrivano in sacrificio tori ma pecore. Le pecore sono i fedeli della chiesa di Cristo, che ogni giorno, sull’altare della passione del Signore e nel sacrificio del cuore contrito, offrono se stessi quale ostia pura, santa e a Dio gradita (cf. Rm 12,1). “Ho altre pecore”, cioè i gentili (i pagani) “che non sono di questo ovile”, non sono del popolo di Israele; “anche queste io debbo condurre” per mezzo degli apostoli, “e ci sarà un solo ovile e un solo pastore”. E questa è la chiesa, riunita e formata da entrambi i popoli. E questa è la donna di cui parla l’Apocalisse: “Apparve nel cielo un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto” (Ap 12,1-2).

Senso allegorico. Questa donna raffigura la chiesa, che a buon diritto è chiamata “donna”, perché feconda di molti figli, che ha generato dall’acqua e dallo Spirito Santo. Questa è la donna vestita di sole. Il sole è così chiamato perché compare da solo, dopo aver oscurato con il suo fulgore tutte le altre stelle. Il sole è Gesù Cristo, che abita una luce inaccessibile (cf. 1Tm 6,16), e il cui splendore vela ed oscura i deboli raggi di tutti i santi, se vengono a lui paragonati, perché “non c’è santo come il Signore” (1Re 2,2).

Dice Giobbe: “Se anche mi lavassi con le acque della neve, e le mie mani brillassero nitidissime, ugualmente tu mi tufferesti nel sudiciume e le stesse mie vesti mi avrebbero in orrore” (Gb 9,30-31). Nelle acque della neve è raffigurata la compunzione delle lacrime e nelle mani nitidissime la perfezione nell’agire. Dice quindi: Se anche mi lavassi con le acque della neve, cioè della compunzione, e se le mie mani risplendessero nitidissime per lo splendo­re di una condotta perfetta, tuttavia mi tufferesti nel sudiciume, cioè mi faresti vedere che sono ancora sporco, e avrebbero orrore di me, cioè mi renderebbero abominevole le mie vesti, vale a dire le mie qualità o le membra del mio corpo, se tu – aggiungi con me – volessi trattarmi con rigore. E anche Isaia: “Tutti noi siamo diventati come un essere immondo”, cioè come un lebbroso; “tutte le nostre giustizie come panno di donna mestruata; tutti siamo caduti come le foglie e le nostre iniquità ci hanno portati via come il vento” (Is 64,6). Quindi il solo buono, il solo giusto e santo è quel sole, della cui fede e della cui grazia la chiesa è vesti­ta.

“E con la luna sotto i suoi piedi”. La luna, a motivo delle variazioni del suo aspetto, sta ad indicare l’instabilità della nostra misera condizione. Di qui il detto: Il gioco della fortuna cambia come l’aspetto della luna. Cresce e cala e non può mai restare la stessa. Perciò dice l’Ecclesiastico: “Lo stolto cambia come la luna” (Eccli 27,12).

Lo stolto, cioè il seguace di questo mondo, passa dai corni (forma della luna al primo e all’ultimo quarto) della superbia alla rotondità della concupiscenza carnale e viceversa. Questa incostante prosperità delle cose caduche dev’essere posta sotto i piedi della chiesa. I piedi della chiesa sono tutti i prelati che devono reggerla come i piedi reggono e sostengono il corpo. E sotto questi piedi devono essere calpestate, come sterco, tutte le cose temporali. Leggiamo infatti negli Atti: “Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli (At 4,34-35), perché consideravano come sterco tutte quelle cose.

“E sul suo capo una corona di dodici stelle”. Le dodici stelle sono i dodici apostoli, che illuminano la notte di questo mondo. “Voi – dice il Signore – siete la luce del mondo” (Mt 5,14). La corona, così chiamata perché è quasi una ruota intorno al capo (lat. corona, capitis rota) di dodici stelle, è la fede dei dodici apostoli; ed è corona perché non ammette aggiunta o diminuzione, come ogni cerchio: e questo perché è completa e perfetta.

La chiesa ha figli, concepiti con il seme della parola di Dio; essa grida per le doglie nei penitenti, e soffre nel parto per gli sforzi di convertire i peccatori. Quindi essa, con le parole di Baruc, dice: “Sono stata lasciata sola; mi sono spogliata della stola della pace, mi sono vestita del sacco della supplica e griderò all’Altissimo per tutti i miei giorni. Fatevi animo, figli, gridate al Signore, e il Signore vi strapperà dalle mani e dal potere dei nemici. Vi ha fatti partire nel lutto e nel pianto, ma vi ricondurrà a me il Signore nel gaudio e nell’esultanza” (Bar 4,19-23). E questo avviene nel giorno delle Sacre Ceneri, quando i penitenti vengono mandati fuori dalla chiesa, e nel giorno della Cena del Signore, quando vi vengono fatti rientrare.

 

15. Senso morale. “Una donna vestita di sole”. È l’anima fedele della quale Salomone dice: “Chi troverà una donna forte? Il suo valore è come quello delle cose portate da lontano e dall’estremità della terra” (Pro 31,10). Beata quell’anima che, rivestita di forza dall’alto, resiste impavida nell’avversità e nella prosperità, e sconfigge con coraggio le potenze dell’aria. Il valore (il prezzo) di questa donna fu Gesù Cristo che per la sua redenzione venne da lontano: dal seno del Padre, nella sua divinità, e dall’estremità della terra, vale a dire da parenti poveris­simi, nella sua umanità. O anche: per prezzo prendi le virtù: con questo prezzo si viene riscattati, redenti. Dice Salomone: Il riscatto dell’uomo sono le sue ricchezze (cf. Pro 13,8), cioè le virtù. Le virtù vengono da lontano, cioè dall’alto; i vizi invece sono nostri familiari, perché provengono da noi stessi.

Questa donna è vestita di sole. Osserva che nel sole ci sono tre prerogative: il candore, lo splendore e il calore. Nel candore è raffigurata la castità, nello splendore l’umil­tà e nel calore la carità. Con queste tre virtù si confeziona il manto dell’anima fedele, della sposa del celeste sposo. Di questo manto dice Booz a Rut: “Allarga il manto con il quale sei coperta e tienilo con tutte e due le mani. Essa lo stese e lo tenne sollevato, ed egli le versò sei misure di orzo e glielo caricò sulle spalle” (Rt 3,15). Booz si interpreta “forte”, Rut “che vede e si affretta”. Vediamo quale significato abbiano l’esten­sione del manto, le due mani e le sei misure di orzo.

Rut è l’anima che, vedendo la miseria di questo mondo, la falsità del diavolo, la con­cupiscenza della carne, si affretta verso la gloria della vita eterna. Allarga questo manto quando attribuisce non a sé ma a Dio la sua castità, l’umiltà e la carità, e mostra queste virtù unicamente per l’edificazione del prossimo; e per non perderle, le tiene con tutte e due le mani, cioè con il timore e con l’amore di Dio.

La mano (manus) deriva il suo nome dal fatto che difende e fortifica (lat. munio) l’uomo, o anche perché è servizio e dono (lat. munus) di tutto il corpo. La mano infatti somministra il cibo alla bocca e compie tutte le altre funzioni. Così il timore e l’amore di Dio difendono e fortificano l’uomo perché non cada, e infondono il dono della grazia perché sia perseverante. Se l’anima allargherà e terrà con le mani il manto, Booz, cioè Gesù Cristo, il forte e il potente, le verserà sei misure di orzo. L’orzo raffigura il rigore e l’asprezza della penitenza, che consiste in sei cose: la contrizione, la confessione, il digiuno, l’ora­zione, le elemosine e la perseveranza finale.

“E con la luna sotto i suoi piedi”. Osserva che nella luna ci sono tre prerogative, contrarie a quelle indicate sopra [per il sole]: la macchia, l’oscurità, la freddezza. La luna raffigura il corpo dell’uomo che con il succedersi degli anni cresce e diminuisce. Ritornerà al punto dal quale ha avuto inizio, perché terra sei, e in terra ritornerai (cf. Gn 3,19); ha la macchia, perché concepito nel peccato (il peccato originale); è oscuro per le infermità, freddo per la corruzione alla quale è destinato. O anche: ha la macchia perché è macchiato dalla lussuria, è accecato dall’oscurità della superbia e viene reso freddo dal gelo del rancore e dell’odio.

La donna deve tenere questa luna sotto i piedi, cioè sotto gli affetti della mente, affinché la carne serva allo spirito e la sensualità sia sottomessa alla ragione. Si racconta nel primo libro dei Re che Abigail montò su di un asino e andò da Davide (cf. 1Re 25,42). Abigail s’interpreta “esultanza del padre mio” e raffigura l’anima ritornata alla penitenza, per cui ci sarà più gioia tra gli angeli in cielo... (cf. Lc 15,10), ecc. L’anima sale sull’asino quando castiga il corpo e lo costringe a servire alla ragione, e così si avvicina a Davide, cioè a Gesù Cristo.

Concordano con questo le parole del profeta Naum: Entra nel fango, pestalo e impasta dei mattoni (cf. Na 3,14). Entra nel fango, consìderati cioè fango e addirittura letame, affinché con Giobbe sofferente, sieda anche tu addolorato sul letamaio, e con un coccio, cioè con l’asprezza della penitenza, raschi il marcio della colpa (cf. Gb 2,8); e tenendo nella mano, invece del profumo, il fetore della carne, impasta mattoni, cioè castiga la carne. Il mattone si solidifica con il fuoco, e con l’acqua si disgrega. Così la carne, come cotta dalle afflizioni, si rafforza, mentre nei piaceri si svigorisce. Dice Geremia: “Fino a quando ti logorerai nelle dissolutezze, o figlia vagabonda?” (Ger 31,22). E Osea: “Come una giovenca in calore si è sviato Israele” (Os 4,16). La giovenca in calore corre qua e là con l’occhio sbarrato, non prende cibo, sottostà al toro e non lo guarda, e mentre è oppressa dal suo peso è presa dal godimento della libidine. Così la carne, quando è circondata di delizie, vaga per i campi della licenziosità, non prende il cibo dell’anima; sottostà al diavolo e non lo vede, e il diavolo la schiaccia sotto il peso del peccato mentre essa si accende di libidine.

“E sul suo capo una corona di dodici stelle”. Le stelle sono così chiamate da stare, perché sono sempre fisse nello stesso punto del cielo e insieme con il cielo vengono portate nel loro perpetuo movimento. E quando si vede una stella cadere, non si tratta di stelle ma di piccoli fuochi caduti dall’aria, che si formano quando il vento, raggiun­gendo i punti più alti, trae con sé il fuoco etereo (Aether era la sfera del fuoco). Nel capo, cioè nella mente dell’anima, dev’esserci una corona di dodici stelle, cioè di dodici virtù. Tre nella fronte: la fede, la speranza e la carità; tre nel lato destro: la temperanza, la prudenza e la fortezza; tre nella parte posteriore: il pensiero della morte, il giorno amaro del giudizio e la pena eterna dell’inferno; tre nel lato sinistro: la pazienza, l’obbe­dienza e la perseveranza finale.

Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, tu che sei il buon pastore, di custodire noi, tue pecore, di difenderci dal mercenario e dal lupo, e di incoronarci nel tuo regno con la corona dell’eterna vita. Dégnati di concedercelo tu che sei benedetto, glorioso e degno di lode per i secoli dei secoli. Ogni pecorella, ogni anima fedele dica: Amen. Alleluia!

 

 

DOMENICA III DOPO PASQUA

Temi del Sermone

 

– Vangelo della terza domenica dopo Pasqua: “Ancora un poco e non mi vedrete”; si divide in tre parti.

– Anzitutto sermone agli ascoltatori della parola di Dio, e che cosa comunichi loro: “Va’ e prendi il libro”.

– Parte I: Sermone sulla brevità della gloria temporale: “La speranza dell’empio è come lanugine”.

– Sermone sui sette vizi per i quali saranno puniti con sette castighi coloro che ne sono invischiati: “Udii una grande voce”.

– Parte II: Sermone sul pianto dei giusti e sul gaudio dei carnali: “In verità, in verità vi dico: voi piangere­te”; e “Il Signore chiamerà al pianto”.

– Sermone contro gli adoratori di questo secolo, contro i carnali e i fornicatori: “Vidi una donna seduta sopra un bestia scarlatta”; i tre nomi del diavolo, le dieci corna e le sette teste della bestia, e il loro significato.

– Sermone sulla tristezza dei santi: “Il mondo godrà”.

– Parte III: Sermone sul fatto che Dio ci vede (ci guarda) in tre modi: “Vi vedrò di nuovo”; e sermone sul cuore.

– Sermone sulla gloria della beatitudine eterna e sullo splendore della Gerusalemme celeste: “L’angelo mi mostrò un fiume di acqua viva”.

– Esposizione morale del vangelo: “Quando partorisce la donna è afflitta”; nel prologo si parla della natura dei piccoli corvi e dell’anima penitente: “Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, il Signore ti ha richiamata”.

– Si dice anche in che modo l’uomo è concepito nell’utero della madre e le vicende che seguono, e come si debbano comprendere in senso morale.

– Sermone sulla confessione, nella quale l’anima deve faticare, come la donna nel parto: “Spàsima e gemi!”.

 

esordio - sermone agli ascoltatori della parola di dio

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Ancora un poco e non mi vedrete; e un altro poco e mi vedrete, perché io vado al Padre” (Gv 16,16).

Nell’Apocalisse, l’angelo dice a Giovanni: “Va’ e prendi dalla mano dell’angelo il libro e divoralo: ti riempirà di amarezza il ventre, ma nella tua bocca sarà dolce come il miele” (Ap 10,8-9). Il libro, (in lat. liber, quasi come uber, cioè fecondo di lettere) raffigura l’abbon­danza della predicazione. È quel pozzo che Isacco nella Genesi chiamò “ab­bon­danza" (cf. Gn 26,33); è quel fiume, il cui corso vigoroso rallegra la città di Dio (cf. Sal 45,5), cioè l’anima nella quale Dio abita.

O uomo, “afferra”, cioè impadronisciti di questo libro per eliminare con la sua fecondità la tua sterilità, con la sua abbondanza la tua miseria. “E divoralo!”. Divora il libro chi ascolta con avidità la parola di Dio. Infatti nel secondo libro di Esdra si dice che “gli orecchi di tutto il popolo erano tesi all’ascolto del libro” (2Esd 8,3). Tende gli orecchi al libro colui che ascolta la parola di Dio con attenzione. “E riempirà di amarezza il tuo ventre”. Il ventre è quella parte del corpo che digerisce i cibi che riceve, ed è così chiamato perché distribuisce per tutto il corpo il nutrimento vitale: raffigura la mente dell’uomo, la quale deve accogliere la parola di Dio, accòltala deve quasi digerirla con la meditazione, e dopo averla bene meditata deve metterla in pratica nell’eser­ci­zio delle varie virtù.

La parola di Dio riempie di amarezza il ventre perché, come dice Isaia, “amara è la bevanda per coloro che la bevono” (Is 24,9); e Ezechiele: “Me ne andai amareggiato nel mio spirito” (Ez 3,14). Non deve far meraviglia che la parola di Dio amareggi la mente, giacché annuncia la distruzione di tutte le cose temporali, la brevità della vita presente, l’amarezza della morte, l’asprezza delle pene dell’inferno.

“Ma nella tua bocca sarà dolce come il miele”, perché tutto ciò che è difficile come comando, amaro nelle parole della predicazione, diviene leggero e dolce per colui che ama; o anche: è amaro in questa vita perché stimola alla penitenza, ma sarà dolce nella patria perché condurrà alla gloria. Perciò su queste due cose il Signore dice nel vangelo di oggi: Ancora un poco e non mi vedrete.

 

2. In questo vangelo si devono poi osservare tre verità. Primo, la breve durata della nostra vita, dove si dice: “Ancora un poco e non mi vedrete”. Secondo, la vana felici­tà della cose mondane: “In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete”. Terzo, la gloria eterna: “Io vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà”. Confronteremo le tre parti di questo brano evangelico con le tre ultime dell’Apoca­lisse. La prima parte tratta dei sette angeli che recano le sette coppe dell’ira di Dio; la seconda parla della dannazione della grande meretrice, cioè della vanità mondana; la terza parla del fiume di acqua viva, cioè dell’eternità della vita futura.

Nell’introito della messa si canta: “Innalzate a Dio da tutta la terra inni di giubilo”. Si legge poi l’epistola del beato Pietro: “Io vi esorto, come stranieri e pellegrini”.

 

I. la breve durata della nostra vita

 

3. “Ancora un poco e non mi vedrete”, come dicesse: Poco, cioè breve tempo mi resta, fino a quando dovrò subire la passione e sarò rinchiuso nel sepolcro; e poi ancora un po’ di tempo, fino a quando mi vedrete risuscitato. Oppure anche: Sarà breve il tempo, cioè tre giorni, nel quale non sarò veduto, perché rinchiuso [nel sepolcro]; e di nuovo sarà breve il tempo, cioè quaranta giorni, nel quale mi vedranno risorto. “Perché vado al Padre”, vale a dire, perché è ormai giunto il tempo che io, deposta la mia condizione mortale, introduca in cielo la natura umana.

Senso morale. Osserva che in questo brano evangelico per ben sette volte è ripetuta la parola “un poco”, ad indicare che la nostra vita, che si evolve nel giro di sette giorni, è breve e misurata. Dice infatti Giacomo: “Che cos’è mai la nostra vita? È come vapore che appare un istante e poi scompare” (Gc 4,15). E Giobbe: “Passano nel benessere i loro giorni, e in un istante scendono nel sepolcro” (Gb 21,13). E di nuovo: “La gloria degli empi è breve e la felicità dell’ipocrita è come un punto” (Gb 20,5). Punto deriva da pungere, ed è brevissimo perché non ha durata e perché, a motivo della sua incalcolabile brevità, non può essere diviso in parti. Il punto raffigura la vita del peccatore: in essa c’è la puntura, la trafittura della coscienza e la brevità della vita. Leggiamo nel libro della Sapienza: “La speranza del­l’em­pio è come lanugine spazzata via dal ven­to, e come una schiuma leggera dispersa dalla tempesta, e come il fumo sparpagliato dal vento, e come il ricordo dell’ospite di un sol giorno, che si dilegua” (Sap 5,15).

Il piacere che si spera di trarre dall’abbondanza delle cose terrene è labile come la lanugine. La lanugine è la peluria di certi frutti; è anche il frutto della canna, vuoto e superfluo come la schiuma, della quale dice Osea: “Samaria fece passare il suo re come la schiuma sulla superficie dell’acqua” (Os 10,7). Samaria raffigura la dignità, l’autorità che fa passare il suo re, cioè il prelato, come la schiuma, nella quale è indicata la superbia, che subito è spazzata via dalla tempesta della fragilità. Anche il piacere è come un fumo della mente, che disturba gli occhi; si lascia dietro escrementi, cioè le immondezze del peccato, come un ospite di passaggio. Concorda con questi paragoni ciò che dice Osea: “Saranno come una nuvola del mattino, come rugiada che all’alba svanisce, come la polvere che il turbine alza dall’aia, e come il fumo che esce dal camino” (Os 13,3). La nuvola e la rugiada vengono disperse e consumate dal sole che sorge. La polvere è portata via dal vento e il fumo viene sparpaglia­to in leggere volute. Così, quando arriva la vampa della morte, viene meno e si dissolve l’abbondanza delle cose temporali, svanisce la concupiscenza della carne e ogni vanagloria.

Guai dunque a coloro che per la fallace abbondanza di questa vita, per un misero piacere momentaneo, perdono la vita eterna: nei sette giorni di questo infelice esilio sono invischiati nei sette vizi [capitali], e quindi saranno condannati a bere dalle sette coppe dell’ira di Dio.

 

4. Ed ecco la concordanza con l’Apocalisse: “Udii dal cielo una grande voce che diceva ai sette angeli: Andate e versate sopra la terra le sette coppe dell’ira di Dio. Partì il primo e versò la sua coppa sopra la terra. Il secondo versò la sua coppa nel mare. Il terzo versò la sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti delle acque. Il quarto versò la sua coppa sul sole. Il quinto versò la sua coppa sul seggio della bestia e il suo regno divenne tenebroso. Il sesto versò la sua coppa nel grande fiume Eufrate. Il settimo versò la sua coppa nell’aria” (Ap 16,1-17).

Nella terra sono indicati gli avari e gli usurai; nel mare i superbi e i boriosi (cf. Is 51,9-10); nei fiumi e nelle sorgenti d’acqua i lussuriosi; nel sole i vanagloriosi; nel seggio della bestia gli invidiosi e gli accidiosi; nel fiume Eufrate, che s’interpreta “abbondanza”, i beoni e i golosi; infine nell’aria i falsi religiosi.

Della terra dell’avarizia, il Signore dice al serpente: “Mangerai terra tutti i giorni della tua vita” (Gn 3,14), perché l’avaro è il cibo del diavolo.

Del mare della superbia dice Giobbe: “Il mare dice: non è con me” (Gb 28,14) la sapienza, perché “Dio resiste ai superbi” (Gc 4,6; 1Pt 5,5).

Del fiume della lussuria è detto nell’Esodo che il faraone diede a tutto il popolo quest’ordine: “Ogni figlio maschio che nascerà, lo getterete nel fiume” (Es 1,22). Faraone s’interpreta “che distrugge” o “che spoglia”, e raffigura il diavolo che, dopo aver distrutto l’edificio delle virtù, spoglia e denuda l’uomo sventurato della veste della grazia di Dio. Il diavolo vuole distruggere nel fiume della lussuria ogni opera virile, virtuosa e perfetta, e preservare invece le femmine, cioè le menti effeminate, delle quali si serve per fare il male.

Del sole della vanagloria, parlando della semente del seminatore, il Signore dice: “Spuntato il sole restò bruciata, e poiché non aveva radici si seccò” (Mt 13,6). La semente rappresenta le opere buone le quali, quando arde il sole della vanagloria, si seccano. Infatti, tutto ciò che fai per vanagloria, lo perdi. In proposito dice Bernardo: Da dove la gloria a te, che sei cenere e polvere? Dalla santità della vita? Ma è lo Spirito che santifica: non il tuo, ma quello di Dio. Oppure ti lusinga il favore popola­re, perché sai esporre con eleganza la buona parola? Ma è Dio che dà la bocca e la sapienza. Che cos’è la tua lingua, se non la penna dello scriba che scrive velocemente? (cf. Sal 44,2).

Dice il Filosofo che “per via breve giungono alla gloria coloro che si sforzano di essere realmente ciò che vogliono apparire” (Cicerone, De officiis).

Del seggio dell’invidia, sul quale siede la bestia, cioè il diavolo, dice l’Apocalisse: “So dove abiti, dove è la sede di satana” (Ap 2,13). Gli invidiosi sono la dimora del diavolo. Dice Giobbe: “La bestia entrerà nel suo nascondi­glio, e dimorerà nel suo antro” (Gb 37,8). Il nascondiglio e l’antro sono figura del cuore degli invidiosi, che è ottenebrato dalla fuliggine dell’invidia. “Antro” infatti suona quasi come “atro”, cioè nero, oscuro.

Dell’Eufrate della gola è detto in Geremia che la cintura era imputridita nel fiume Eufrate (cf. Ger 13,7). La cin­tura della castità imputridisce negli eccessi della gola e dell’ebbrezza. Dice il Filosofo: “Mangia e bevi per vivere bene; non vivere solo per mangiare e bere” (Socrate).

Dell’aria della falsa religione è detto nell’Apocalisse che “fu oscurata l’aria dal fumo che saliva dal pozzo” (Ap 9,2). Il pozzo è la cupidigia, il cui fumo ha ormai affumicato quasi tutti i religiosi.

Tutti coloro che si saranno invischiati in questi sette vizi durante i sette giorni di questa vita, saranno ubriacati con le sette coppe, saranno colpiti dalle sette piaghe, vale a dire dalle sette sentenze di condanna, nell’inferno. Saranno eternamente puniti nel corpo e nell’anima, con cui hanno peccato.

Fratelli carissimi, preghiamo dunque Gesù Cristo, che in questi sette brevi giorni della nostra vita ci preservi, ci protegga e ci custodisca da questi sette vizi, affinché, liberati dalle sette pene dell’inferno, meritiamo di arrivare al regno infinito della sua gloria. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. la vana allegria dei mondani

 

5. “In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete: il mondo invece godrà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha partorito il bambino, non si ricorda più delle doglie, per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16,20-21).

Nelle tribolazioni di questo mondo tutti i buoni piangono, mentre gli estimatori e gli amanti del mondo godono. In proposito dice Isaia: “Il Signore degli eserciti chiamò al lamento e al pianto, a radersi il capo e a vestirsi di sacco. Invece si gode e si sta allegri, si uccidono vitelli e si scannano arieti, si mangiano carni e si beve vino: Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (Is 22,12-13). Tutti i giusti sono chiamati dalla gra­zia di Dio al pianto della contrizione e al lamento della confessione; a radersi il capo, cioè alla rinuncia delle cose temporali, a vestirsi di sacco, cioè all’asprezza della penitenza. Invece gli amatori del mondo vivono nei piaceri del mondo, nell’allegria del peccato, ubriachi di gola e di lussuria.

 

6. E questa è la Babilonia alla quale si riferiscono le parole dell’Apocalisse: “Vidi una donna – dice giovanni – seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. E la donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, con in mano una coppa d’oro colma degli abomini e delle immondezze della sua fornicazione” (Ap 17,3-4). La donna (in lat. mulier da mollities, effeminatezza) raffigura quegli effeminati che uniformano la loro vita a quella di Eva, dalla quale ha avuto inizio il peccato. Di questa donna dice Salomone: “La prostituta è come lo sterco sulla strada” (Eccli 9,10). Lo sterco deriva il suo nome dal fatto che viene sparso (lat. sterno, spargo) sui campi. Nella prostituta sono raffigurati tutti i mondani, che vengono calpestati dai demoni come lo sterco dai passanti. Di questa meretrice il Signore si lamenta con le parole di Geremia: “Da tempo hai infranto il mio giogo, hai spezzato i miei legami e hai detto: Non ti servirò! Infatti sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero frondoso ti sei prostituita” (Ger 2,20).

I figli di questo secolo, generazione depravata, adultera e perversa; i figli spuri, com­pagni dei ladri, cioè dei demoni, hanno spezzato il giogo dell’obbedienza, hanno infranto i legami dei comandamenti di Dio e hanno detto: Non serviremo! Infatti dice Giobbe: “Chi è l’Onnipotente, perché dobbiamo servirgli? E che giovamento ne avremo se lo adoreremo?” (Gb 21,15). Sopra ogni colle elevato della super­bia e sotto ogni albero frondoso della lussuria – giacché la lussuria cerca i luoghi frondosi e oscuri – come una meretrice si prosternano davanti al diavolo!

Giustamente quindi dice Giovanni: “Vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta”. La bestia, quasi vastia, devastatrice, è il diavolo che devasta le potenze dell’ani­ma: il diavolo è sanguinario verso se stesso e verso i suoi. Su di lui siedono i mondani; essendo il loro fondamento, essi a lui si appoggiano. Ma chi si appoggia al diavolo, che precipita dal cielo, con lui necessariamente precipiterà. Dice Giobbe: “Precipiterà sotto gli occhi di tutti” (Gb 40,28): tanto lui quanto i reprobi, dei quali lui è il capo.

“Ricoperta di nomi blasfemi”. Il diavolo, come dice l’Apocalisse, ha tre nomi: in ebraico “Abdo”, in greco “Apollyon”, in latino “Exterminans”. Abdo significa schiavo. Apollyon ha lo stesso significato di Exterminans, cioè sterminio, distruzione (cf. Ap 9,11). Il termine greco Apollyon può significare anche dannoso (apothéis pòlin, che scaccia dalla città) e infernale. Questi sono i nomi blasfemi, con i quali il diavolo e i suoi seguaci bestemmiano Dio. Sono infatti schiavi del peccato, dannosi e infernali ster­mi­natori, che mettono cioè se stessi e gli altri extra terminum, fuori dei confini della vita eterna.

“[La bestia] ha sette teste e dieci corna”. Le sette teste sono i sette vizi di cui parla il profeta: “Vidi nella città l’ingiustizia e la discordia. Giorno e notte si aggirano sulle sue mura l’iniquità, e in mezzo ad essa affanno e ingiustizia; e dalle sue piazze mai si allontanano l’usura e la frode” (Sal 54,10-12). Città del sangue, tutta piena di menzogna, nella quale il Signore non entra; vi è riunita una moltitudine di carnali e in essa c’è l’ingiustizia contro Dio, ricordata qui due volte, perché in due modi si pecca contro Dio: eseguendo l’opera cattiva e omettendo l’opera buona. La discordia si riferisce al prelato, l’affanno e l’ingiustizia a te stesso, l’usura e la frode al prossimo.

Delle dieci corna parla l’apostolo: “Sono ricolmi di ogni iniquità, malizia, fornicazione, avarizia, perversità, invidia, omicidi, contese, inganno, malignità” (Rm 1,29). Oppure, le sette teste e le dieci corna sono quelle di cui parla la Sapienza: “Tutto è in grande confusione: sangue e omicidio, furto e inganno, corruzione e infedeltà, disordi­ne e spergiuro, confusione tra i buoni, dimenticanza di Dio, corruzione delle anime, perversione sessuale, infedel­tà matrimoniali, dissolutezze, concubinaggio e impudicizia, culto di idoli abominevoli” (Sap 14,25-27).

 

7. “E la donna era ammantata di porpora e di scarlatto...” Nella porpora è indicata la brama delle dignità; nello scarlatto, che è color sangue, la crudeltà della mente; nell’oro la sapienza mondana; nelle pietre preziose e nelle perle l’abbondanza delle ricchezze. Di tutte queste cose si ammanta e si orna la donna meretrice, cioè la grande Babilonia, la sinagoga di Satana, la turba dei carnali.

“E tiene in mano una coppa d’oro”. La coppa, o calice d’oro, in mano a Babilonia è la gloria del mondo, dorata di fuori, ma dentro ricolma di ogni lordura e abominio. Dice infatti Salomone: “Fallace è la grazia e vana è la bellezza” (Pro 31,30). Con questo calice si ubriacano i re di questo mondo, i prelati della chiesa, le religiose e i religiosi. Perciò dice Giovanni: “Con essa hanno fornicato i re della terra, e quelli che l’abitano si sono ubriacati del vino della sua prostituzione” (Ap 17,2).

Di questa ubriachezza dice Isaia: “Il Signore ha mandato in mezzo all’Egitto uno spirito di vertigine, e lo ha fatto andare errando in ogni sua impresa, come va barcollando l’ubriaco che vomita” (Is 19,14). Il vortice, in senso proprio, si forma quando si alza il vento e fa girare vorticosamente la polvere; invece la vertigine è un distur­bo della testa. In mezzo all’Egitto, cioè tra i mondani, il Signore ha mandato, ha permesso cioè che andasse, lo spirito della vertigine, cioè la passione e la cupidigia, sotto il cui impeto quei miseri sono presi dal vortice, quasi come da un vento, e così vanno errando come l’u­bria­co, per il quale nessuna via è abbastanza larga. E come l’ubriaco mentre viene trascinato o percosso non sente nulla, così anche i monda­ni diventano insensibili. Per questo dicono: Mi bastonarono e non sentii dolore, mi trascinarono ma non me ne accorsi” (Pro 23,35), perché il disgraziato peccatore non sente dolore quando è bastonato dai demoni, e quando dagli stessi è trascinato di peccato in peccato, non se ne rende conto.

Concordano con tutto questo le parole di Geremia: “Godi ed esulta, figlia di Edom, che abiti nella terra di Uz: anche a te arriverà il calice, ti inebrierai e sarai denudata” (Lam 4,21). Edom s’interpreta “sangue”. La figlia di Edom raffigura l’impudica voluttà dei carnali. Il profeta le dice ironicamente: “Godi ed esulta!”. Essa gode nell’ab­bon­danza del mondo ed esulta nella lussuria della carne. Essa abita nella terra di Uz, nome che s’interpreta “consiglio”, del quale dice Isaia: “I sapienti consiglieri del faraone gli diedero un consiglio stolto” (Is 19,11). I sapienti di questo mondo danno un consiglio stolto, di cercare cioè le cose temporali, di rincorrere le cose transitorie, di credere alle false promesse del mondo. La figlia di Edom, ingannata dal consiglio di questo mondo, si ubriaca al calice d’oro della gloria mondana e poi viene denudata. Infatti gli amatori di questo secolo, dopo l’ubriachezza delle cose temporali, saranno denudati di tutti i beni, e così denudati saranno condannati alle pene eterne.

Continua quindi Giovanni nell’Apocalisse: “Un angelo potente sollevò una pietra, quasi una grande mola, e la gettò nel mare gridando: Con la stessa violenza sarà preci­pitata Babilonia, la grande città, e mai più sarà ritrova­ta” (Ap 18,21). L’angelo potente è Cristo che sbaraglia le potestà dell’aria. “Sollevò una pietra”, perché solleva i cattivi e coloro che hanno il cuore indurito, per punirli più gravemente; “quasi una grande mola”, perché sono travolti dalle cose mondane, o anche perché schiacciano gli altri; “e la lanciò nel mare”, cioè nell’amarezza dell’in­ferno, affinché nella misura in cui Babilonia si insuperbì e si abbandonò ai piaceri, nella stessa misura sia sprofondata nei tormenti (cf. Ap 18,7).

 

8. Giustamente quindi nel vangelo di oggi il Signore dice: “Il mondo godrà mentre voi sarete nella tristezza: ma la vostra tristezza si cambierà in gaudio”, e il godimento del mondo si cambierà in tristezza. E dice il Signore in altra parte del vangelo: “Ogni uomo presenta dapprima il vino buono e poi il meno buono” (Gv 2,10). In questo mondo bevono il vino dell’allegria, ma nell’altro berranno l’aceto della geenna. Dice infatti Geremia: “Ecco, coloro ai quali nessun tribunale aveva imposto di bere il calice, lo dovranno bere: e tu credi forse di restare impunito? Non sarai considerato innocente, e anche tu dovrai berlo! Ho giurato infatti per me stesso – dice il Signore – che Bozra diventerà un deserto, un obbrobrio, uno scherno e una maledizione” (Ger 49,12-13).

I santi, ai quali nessun tribunale ha imposto di bere il calice della tristezza di questo mondo, lo berranno con l’amarezza del cuore, lo berranno con la sofferenza del corpo; infatti soffrono e piangono per tutti gli abomini che si commettono sulla terra. E tu, Babilonia, madre di fornicazioni, sarai considerata innocente? No, non sarai trattata come innocente, ma dopo aver bevuto in questo mondo il vino del piacere, berrai nell’altro l’aceto dell’inferno. E dice Gregorio: “Se così grande è la miseria di questa vita mortale, che neppure i giusti, che pur un giorno abiteranno nel cielo, possono trascorrere quaggiù la vita senza travagli, data la vastità dell’umana miseria, quanto più coloro che saranno privati della gloria celeste dovranno aspettarsi come sicura conclusione l’eterna dannazione”. E ancora: “Ogni volta che medito sulla pazienza di Giobbe e richiamo alla mente la morte di Giovanni Battista, dico a te, peccatore, cerca di comprendere che cosa dovranno patire quelli che Dio condanna, se soffrono in questo modo coloro che vengono encomiati dalla testimonianza del giudice stesso”. Che cosa sarà dell’arbusto del deserto, se perfino il cedro del paradiso sarà scosso dal terrore?

“Ho giurato per me stesso, dice il Signore”, – perché non c’è nessuno al di sopra di me (cf. Eb 6,13) sul quale giurare – “che Bozra”, nome che significa “fortificata”, cioè la perfida sinagoga dei mondani che si fortifica contro il Signore con i bastioni dei peccati e con i giavellotti delle difese, “diventerà un deserto”, perché resterà isolata senza la compagnia della grazia, “un obbrobrio” perché spogliata di tutti i beni temporali, “uno scherno” perché schernita e ingannata dai demoni, “e una maledizione”, quella che dice: “Andate, maledetti, nel fuoco eterno!” (Mt 25,41).

“La donna, quando giunge il tempo del parto, è nella tristezza”. Triste suona quasi come trito, dal lat. tero, teris, battere. I santi nel pellegrinaggio di questo mondo sono triti, pestati, battuti, afflitti e angustiati: di essi il mondo non è degno (cf. Eb 11,37-38). Ad essi parla oggi Pietro con le parole della sua lettera: “Carissimi, vi scongiuro, come forestieri e pellegrini, di astenervi dai desideri carnali, che lottano contro l’anima” (1Pt 2,11). Il forestiero è detto in lat. advena, da advenio, arrivo da un altro luogo. Il pellegrino è colui che va lontano dalla sua patria. Tutti siamo forestieri, perché veniamo da un altro luogo: dal gaudio del paradiso [terrestre] siamo arrivati alla misera condizione di questo esilio; siamo anche pellegrini perché, cacciati dal volto e dagli occhi di Dio, ce ne andiamo mendicando, lontani dalla patria del cielo.

Asteniamoci dunque dai desideri della carne, sull’esempio di Nabot, il cui nome significa “eccelso”: come lui preferì morire – così si racconta nel terzo libro dei Re (cf. 3Re 21,1­14) – piuttosto che vendere la sua eredità, così noi dobbiamo essere disposti a soffire qualunque pena, piuttosto che barattare la gloria eterna con i piaceri della carne. E se faremo questo la nostra tristezza si cambierà in gioia.

E con tutto questo si accordano le parole dell’introito della messa di oggi: “Innalzate a Dio da tutta la terra inni di giubilo; cantate un salmo al suo nome, dategli la gloria e la lode (Sal 65,1-2). Ci esorta a fare tre cose: Giubilate con il cuore; cantate un salmo con la bocca; dategli la gloria con le opere buone, per meritare di giungere alla gloria dell’eterno gaudio.

 

III. la gloria eterna

 

9. “Ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore godrà e nessuno potrà togliervi il vostro gaudio” (Gv 16,22).

Osserva che il Signore ci vede (ci guarda) in tre modi. Primo, infondendoci la grazia. Egli disse a Natanaele: “Quando eri sotto il fico, io ti vidi” (Gv 1,48). I proge­nitori, esuli dal paradiso terrestre, ricevettero delle vesti fatte di foglie di fico, foglie che sulla pelle fanno prurito. Sta sotto il fico colui che si ferma all’ombra di una condotta svogliata e si lascia prendere dal prurito della libidine della carne. Dio vede costui, lo guarda, quando gli conferisce la grazia. Secondo, lo vede, quando gli mantiene la grazia che gli ha dato. Leggiamo nella Genesi: “Vide il Signore tutte le cose che aveva fatto, ed erano tutte molto buone” (Gn 1,31). Tutte le cose che il Signore opera in noi quando ci infonde la grazia sono buone; ma quando vede, cioè quando mantiene in noi ciò che ha operato, allora sono molto buone, cioè perfette. Terzo, ci vedrà quando ci prenderà con sé. Dice infatti: “Vi vedrò di nuovo, e godrà il vostro cuore”.

Il cuore è la fonte del calore e il principio del sangue, ed è anche il principio dei moti delle cose piacevoli e di quelle dannose; e in generale i moti di tutti i sensi hanno inizio dal cuore e ad esso ritornano. E l’energia dello spirito rimane nel cuore fino all’ul­ti­mo istante; e avviene la consunzione di tutte le membra prima di quella del cuore: esso per primo incomincia a pulsare e per ultimo si arresta. Poiché dunque il cuore è l’organo più nobile degli altri, dice di esso il Signore: “Godrà il vostro cuore”, perché come da esso procede la vita, così ne proceda anche il gaudio.

 

10. “E nessuno potrà togliervi il vostro gaudio”. Con questo concorda l’ultima parte del­l’Apo­calisse: “L’angelo mi mostrò un fiume di acqua viva, splendido come il cristallo, che procedeva dal trono di Dio e dell’Agnello, in mezzo alla piazza della città” (Ap 22,1-2). Nel fiume è indicata l’eternità, nell’acqua viva la sazietà, nello splendore del cristallo la luminosità, e nel trono di Dio e dell’Agnello, che è Dio e Uomo, è indicata l’umanità glorificata. Ecco il vostro gaudio, che nessuno potrà togliervi.

Del fiume dell’eternità dice il Signore con le parole di Isaia: “Se tu avessi dato ascolto ai miei comandi, la tua pace sarebbe stata come un fiume” (Is 48,18). Il fiume ha l’acqua perenne. O uomo, se tu presti ascolto ai comandi di Dio, godrai sicuro nella pace dell’eternità. Sulla sazietà (procurata) dall’acqua viva è detto nel salmo: “È in te la sorgente della vita” (Sal 35,10): sorgente perenne, sorgente che tutti appaga: chi da essa berrà, non avrà più sete in eterno (cf. Gv 4,13).

Sulla luminosità dice sempre l’Apocalisse: “La città non ha bisogno di sole, né di luna; infatti la illumina la luce di Dio e la sua lampada è l’Agnello” (Ap 21,23), cioè il Figlio di Dio. Dal suo trono, cioè dall’umanità nella quale la divinità si è umiliata, procedono la luce dell’eternità, l’acqua viva dell’eterno appagamento, lo splendore cristal­lino dell’eterno fulgore, e si allargano al centro, cioè nella comunità, della piazza della città, della Gerusalemme celeste, perché Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28), tutti riceveranno un solo denaro, tutti insieme parteciperanno alla ricompen­sa, rendendo grazie al Verbo incarnato, perché per mezzo di lui sono diventati eterni, appagati, splendenti e beati.

Anche noi, o Signore Gesù, ti preghiamo che nei sette giorni di questa breve esistenza tu ci conceda di concepire lo spirito della salvezza, e di partorire nella tristezza del cuore l’erede della vita eterna, e così meritiamo di bere al fiume dell’acqua viva nella celeste Gerusalemme e godere per sempre con te. Concedi a noi tutto questo tu che sei benedetto, glorio­so, degno di lode e di amore, benigno e immortale per i secoli eterni. E ogni creatura risponda: Amen. Alleluia.

 

IV. l’anima che soffre e partorisce l’opera buona

 

11. “La donna quando partorisce è nella tristezza”. Dice Isaia: “Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, Dio ti ha chiamata” (Is 54,6). Il Signore con l’ispira­zione della sua grazia e con la predicazione della chiesa chiama alla penitenza la donna, cioè l’anima peccatrice, fiacca ed effeminata: abbandonata dal diavolo ma accolta da Dio. Per questo essa dice: “Mio padre”, cioè il diavolo, “e mia madre”, cioè la concupiscenza carnale, “mi hanno abbandona­ta: il Signore invece mi ha accolta” (Sal 26,10). Coloro che sono abbandonati dal diavolo, vengono accolti da Cristo.

Si racconta che il corvo non nutre i suoi piccoli se prima non vede in essi le penne crescere nere; perciò nel frattempo i piccoli corvi vivono così: sulla bava che esce dalla bocca dei piccoli corvi si radunano tante mosche; allora essi risucchiano la bava insieme con le mosche e in questo modo così singolare si sostentano. Dice Giobbe: “Chi preparò al corvo il nutrimento, quando i suoi piccoli gridano verso Dio, e vanno qua e là perché non hanno cibo?” (Gb 38,41). E nel salmo: “Egli dà il loro cibo ai giumenti e ai piccoli del corvo che gridano a lui” (Sal 146,9). Però il corvo, se vede nei suoi piccoli le penne crescere bianche, li abbandona e li getta fuori del nido.

Il corvo raffigura il diavolo. I figli del corvo sono i peccatori che vivono in peccato mortale, prendendo così il colore nero del padre. Perciò dice di essi il profeta Naum: “La loro faccia è come il nero della pentola” (Na 2,10). La pentola prende il colore nero dal fuoco e dal fumo. La faccia raffigura le opere, dalle quali, come dalla faccia, si riconosce l’uomo. “Li riconoscerete dai loro frutti” (Mt 7,16). Perciò le opere dei peccatori sono come la negrezza della pentola, perché rese tali dal fuoco della suggestione diabolica e dal fumo della concupiscenza carnale. Dice quindi Geremia: “La loro faccia si è annerita sopra i carboni” (Lam 4,8). I peccatori sono quindi figli del diavolo, ma quando, per mezzo della grazia, con la remissione dei peccati riacquistano il candore, allora il diavolo li abbandona e il benignissimo Signore li accoglie tra le braccia della sua misericordia.

Giustamente quindi è detto: “Una donna abbandonata e con l’animo afflitto”. Di essa dice Geremia: “Mi ha reso desolata, affranta dal dolore per sempre” (Lam 1,13). “Desola­ta”, vale a dire priva del conforto delle cose temporali; “affranta dal dolore”: in lat. moerore confectam, lett. composta, “confezionata” di tristezza. Ottima “confezione” (sic), quando con queste tre eccellenti spezie, la contri­zione, la confessione e la soddisfazione, unite al balsamo della divina misericordia, per opera dello speziale, cioè dello Spirito Santo, si confeziona il ricostituente per l’anima pentita. Di essa dice appunto il Signore nel vangelo di oggi: “La donna quando partorisce è nella tristezza”.

E poiché il Signore ci ha presentato l’esempio della donna che partorisce e della sua sofferenza, per insegnarci a pentirci del peccato e a partorire l’opera buona, per questo vogliamo spiegare in che modo l’uomo viene concepito nel grembo materno, come si forma, come viene portato per nove mesi e come venga partorito nella sofferenza: spieghe­remo prima il processo naturale e poi le applicazioni morali che se ne possono trarre.

 

12. La donna concepisce nel piacere e partorisce nel dolore. Dopo la fecondazione la donna aumenta di peso e nei suoi occhi si forma quasi un’ombra; in alcune donne questo avviene presto, dopo dieci giorni, in altre qualche tempo dopo. Nelle donne gravide subentra una diminuzione dell’ap­petito, quando all’embrione incominciano a crescere sulla testa i capelli. Fra tutti gli organi si forma per primo il cuore, e gli organi interni si formano prima di quelli esterni. E si configura per prima la parte superiore, dal diaframma in su, ed è in proporzione la più grande; invece la parte inferiore è più piccola. Necessariamente l’or­gano che è il cuore dev’essere formato prima degli altri, dal momento che è il principio del movimento ed è l’organo che ha un vasto campo di influenza, perché da esso procede (dipende) la vita. E il cuore è collocato nella parte superiore e sul davanti: ciò che è più nobile è insediato nella parte più nobile, secondo la natura.

Solo il cuore fra tutti gli organi interni non deve assolutamente avere sofferenze o grandi infermità. E questo è giusto, perché se si rovina il principio, il fondamento, non c’è più il sostegno degli altri organi. Sono gli altri organi che ricevono forza dal cuore: il cuore invece non la riceve da essi. E nel cuore non c’è osso, fuorché nel cuore del cavallo e in quello di una certa razza di mucche: nel cuore di questi animali c’è l’osso a motivo della grandezza del loro corpo. L’osso infatti è posto nel cuore dalla natura per sostenerlo, come in tutte le altre membra.

Dunque dopo la formazione del cuore, si forma la parte superiore del corpo. Perciò nella formazione dell’embrione compaiono prima la testa e gli occhi. Invece le membra che sono al disotto dell’ombelico, come le gambe e le cosce, appaiono molto piccole, giacché la parte inferiore del corpo è ordinata solo alla parte superiore.

Nel cuore dunque deve trovarsi il fondamento, il principio dei sensi e tutte le potenze naturali, ed è per questo che il cuore si forma per primo. E a motivo del calore del cuore e del fatto che da esso si dipartono le vene, la natura ha disposto, in contrapposizione al cuore, un organo freddo, e cioè il cervello: per questo nel processo dello sviluppo la testa si forma dopo la formazio­ne del cuore.

La grandezza della testa è superiore a quella delle altre membra, perché il cervello è grande e umoroso fin dall’inizio della sua formazione. Infatti i neonati non sono in grado di tenere sollevata la testa per lungo tempo: proprio per il peso del cervello. E tutte le membra ricevono prima la loro configurazione e le loro caratteristiche; e solo dopo ricevono la consistenza, la morbidezza e il colorito che sono loro propri; infatti il pittore fa prima il disegno, e poi sul disegno stende il colore, finché ha completato la sua opera.

Se nel corpicino si formano gli attributi maschili, le donne gravide hanno un colorito più bello e il parto risulterà più facile. Già dal quarantesimo giorno il maschietto incomin­cia a muoversi. L’altro sesso, vale a dire la femmina, incomincia a muoversi solo al novantesimo giorno, e appena concepita copre di pallore il volto della gestante e ne rende fiacche e lente le gambe. Quando in entrambi i sessi spuntano i capelli, aumentano i disturbi nella madre, e nei pleniluni il malessere aumenta; il pleni­lunio poi è sempre dannoso anche ai nati. Se la donna in attesa mangia cibi molto salati, il bambino nasce senza unghie.

Osserva poi che tutti gli animali quadrupedi stanno nell’utero distesi, mentre gli animali privi di piedi, come i pesci – per esempio la balena e il delfino che portano i figli nell’utero –, vi stanno girati sul fianco. Invece altri pesci depongono le uova nell’ac­qua, e perciò amano poco i figli perché poco faticano per essi. Si lamenta infatti Abacuc: “Tu hai fatto gli uomini come i pesci del mare, e come un verme che non ha padrone” (Ab 1,14).

E gli animali che hanno due piedi stanno nell’utero incurvati, come gli uccelli e l’uomo che appunto stanno nell’utero ripiegati in se stessi: il loro naso sta tra le ginocchia e sopra le ginocchia gli occhi. Infatti le guance derivano il loro nome dalle ginocchia (in lat. genae, guance, da genu, ginocchio); e quando nella preghiera pieghiamo le ginocchia, gli occhi vengono eccitati alle lacrime, come per una certa sintonia affettiva.

E i loro orecchi sporgono in fuori. E tutti gli animali tengono da principio la testa rivolta in alto; quando poi sono completamente formati e si muovono per venire alla luce, la piegano verso il basso. Siccome la parte superiore del corpo è più pesante di quella inferiore, avviene come nella bilancia, nella quale il piatto più pesante si abbassa verso terra.

E nell’uomo le mani dell’embrione sono aperte sulle costole; però quando il bambino viene partorito, subito le mani vanno alla bocca.

Quando la donna è prossima a liberare il grembo ed è giunto il momento del parto, conviene che trattenga al massimo il fiato, poiché lo sbadiglio potrebbe fermare il puerperio, e il ritardo sarebbe mortale. E questo si verifica soprattutto nelle donne che non hanno il torace vasto e quindi non possono trattenere a lungo il respiro. Osserva ancora che in moltissime donne lo stato di salute peggiora durante la gravidanza: e questo avviene perché se ne stanno troppo ferme, e quindi si accumulano in esse molti umori superflui. Invece nelle donne che fatica­no, la gravidanza non produce tali inconvenienti, e hanno maggiore probabilità di partorire senza ritardi, poiché la fatica consuma gli umori superflui. La fatica è una di quelle cose che fanno traspirare molto, e così la donna nel momento del parto può trattenere il suo respiro; perciò se fa così, il parto sarà svelto e facile; in caso contrario, il parto sarà doloroso, difficile e triste. “La donna, dunque, quando partorisce, è nella tristezza”.

 

13. Senso morale. La donna raffigura l’anima. La grazia dello Spirito Santo è, per così dire, lo sposo, che la ingravida del figlio della benedizione, cioè del proposito della buona volontà e dello spirito della salvezza. Dice Isaia: Di fronte a te, Signore, abbiamo concepito e abbiamo partorito lo spirito della salvezza (cf. Is 26,17-18). Dopo l’ingravi­damento l’anima si appesantisce perché si affligge per i peccati; la vista viene indebolita dalla caligine, perché le si offusca lo splendore delle cose temporali. Dice Giobbe: “Si oscureranno le stelle a causa della sua caligine” (Gb 3,9) Le stelle della gloria mondana saranno oscurate dalla caligine della penitenza. Nella gravidanza sopravviene la diminuzione dell’appetito e la nausea, perché l’anima, dopo essere ingravidata dalla grazia di Dio, diviene incapace del male e sente la nausea dei vizi di prima. Dice infatti la sposa del Cantico dei Cantici: Dite al mio diletto che languisco di amore (cf. Ct 5,8). L’uomo languente è debole e ha nausea dei cibi. Così l’anima languisce di amore per lo sposo, quando diviene incapace di fare il male e ha nausea dei vizi praticati prima.

Il cuore, tra tutti gli organi, si forma per primo. Nel cuore è indicata l’umiltà: nel cuore questa virtù ha la sua dimora preferita. “Imparate da me – dice il Signore – che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). L’umiltà deve nascere prima di tutte le altre virtù, perché essa è “la forma che riforma le cose deformate”. Da essa infatti viene il principio motore di tutte le buone opere, e ha un grande influsso sulle altre virtù, perché di tutte è la madre e la radice.

Dice infatti Salomone: “Meglio un cane vivo che un leone morto” (Eccle 9,4). E la Glossa commenta: È meglio l’umile pubblicano che il fariseo superbo: il primo, quanto più si è umiliato, tanto più è stato esaltato. E il beato Bernar­do: “Quanto più a fondo scaverai le fondamenta dell’umiltà, tanto più in alto salirà l’edificio” [della santità]. L’umiltà è più nobile delle altre virtù, perché con la sua nobiltà sostiene umilmente le cose meno nobili e meno pregiate; dev’essere collocata di preferenza nel posto più alto, cioè negli occhi, e in quello più avanzato, cioè nei gesti del corpo. Dice infatti il vangelo dell’umi­le pubblicano: “Non osava neppure alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore!” (Lc 18,13).

Come il cuore non deve avere sofferenze o infermità, così la vera umiltà non può soffrire, cioè non può dolersi dell’ingiuria ricevuta, né star male per la prosperità altrui. E questo è giusto, perché se l’umiltà si falsa, crolla anche l’edificio delle altre virtù. Dice Gregorio: “Chi accumula virtù senza l’umiltà è come colui che getta la polvere contro il vento”.

E in nessun cuore c’è osso, fuorché nel cuore del cavallo e di certe mucche. Nel cavallo è raffigurato l’ipocrita arrogante, nella mucca il lussurioso. Nell’umiltà simulata del­l’ipo­crita c’è l’osso della superbia e della rapina: infatti si fa bello delle penne dello struzzo e ruba le lodi della santità altrui. Nell’incostante umiltà del lussurioso c’è l’osso della scusa e dell’ostinazione. In questi due animali, il cavallo e la mucca, sono indicate tutte le specie di vizi.

 

14. Dopo che si è formato il cuore, si forma la parte superiore del corpo. Dopo che nella mente dell’uomo è nata l’umiltà, allora avviene la distinzione tra la parte superiore e quella inferiore, e poiché la parte superiore ha maggiore dignità, essa viene formata per prima, e in essa compaiono prima di tutto il capo e gli occhi. La parte superiore è la vita contemplativa, nella quale compare per primo, e per primo deve comparire, il capo della carità, del quale è detto nel Cantico dei Cantici: “Il suo capo è oro purissimo” (Ct 5,11). L’oro è puro e lucente, e la carità dev’essere pura nei riguardi di Dio e lucente nei riguardi del prossimo.

Compaiono quindi gli occhi, cioè la conoscenza della felicità eterna. La vita attiva, in quanto parte inferiore, deve fare da serva alla contemplazione, poiché la parte inferiore esiste solo in ordine alla parte superiore. Dice infatti l’Apostolo: Non l’uomo per la donna, ma la donna è stata formata per l’uomo (cf. 1Cor 11,9); perché la vita attiva è stata costituita per servire alla vita contemplativa, e non la contemplativa per servire a quella attiva.

E come il cervello, organo freddo, è posto in contrapposizione al cuore per temperarne il calore, così la vita contemplativa, che consiste nella compunzione della mente, è posta in contrapposizione della vita attiva, affinché con la sua preghiera e con la compunzione delle lacrime temperi la febbre dell’attivismo e il fuoco delle tentazioni: e questo deve compiersi con l’umiltà che abita nel cuore.

E come la grandezza del capo è superiore a quella delle altre membra, così la grazia della contemplazione è più sublime, perché più vicina a Dio, oggetto della contempla­zione. Ahimè, quanti bambini, vale a dire quanti incostanti di mente, hanno tentato di reggere la grandezza di questo capo, ma non hanno potuto resistere per lungo tempo, appunto per la sua grandezza. Solo Abramo, cioè il giusto, con il figlioletto, cioè con la purezza della mente, salì al monte della vita contemplativa. Invece i servi restarono nella valle dei piaceri mondani, aspettando insieme con l’asino (cf. Gn 22,3-5), cioè con la lentezza dell’asino.

E come tutte le membra ricevono dapprima la loro confi­gurazione, le caratteristiche, il colorito, la solidità e la morbidezza, così tutte le virtù devono avere la loro configurazione, i loro confini, affinché progredendo per la via regia non pieghino né a destra né a sinistra, e la crudeltà non rivendichi spazio sotto il pretesto della giustizia, e la neghittosa indolenza non si camuffi col manto della mansuetudine. Devono avere i segni della passione del Signore, per contrassegnare col sigillo della sua croce tutto ciò che facciamo di bene. E il colorito non sia fosco ma vero e autentico, affinché i vizi, tinti del colore delle virtù, non ingannino l’anima. Dice sant’Isidoro: Alcuni vizi presentano l’apparenza di virtù, e perciò ingannano più funestamente i loro seguaci, in quanto si nascondono sotto il velo della virtù. E il Filosofo: Non esiste raggiro più larvato di quello che si nasconde sotto l’apparenza del dovere. Infatti il cavallo di Troia poté trarre in inganno, in quanto contraffaceva l’imma­gine di Minerva.

Le virtù devono avere inoltre la solidità e la morbidezza: vino e olio, verga e manna, schiaffi e mammelle, ferro e linimento.

 

15. Quando il corpicino prende le caratteristiche del maschio... Nel maschio è raffigurata l’opera virtuosa, nella femmina l’opera effeminata. Quando l’anima concepisce un’o­pera virtuosa è in stato di benessere perché dispone tutto rettamente e ordinatamente; ed è di colorito buono (sano) perché piace a Dio ed edifica il prossimo. Questo è il maschio che il faraone, cioè il diavolo, vuole annega­re nel fiume dell’Egitto (cf. Es 1,22), vale a dire nell’amore di questo mondo. E di questo maschio è detto nel primo libro dei Re: “Signore degli eserciti – disse Anna –, se darai alla tua serva un figlio maschio, lo consacrerò al Signore per tutti i giorni della sua vita” (1Re 1,11). Domanda un figlio maschio, non una femmina. Sapeva infatti che il faraone aveva coman­dato che le femmine fossero riservate a lui (cf. Es 1,22).

Quindi nel sesso femminile è raffigurata l’opera della mente effeminata, e quando la misera anima la concepisce, il suo volto si copre di pallore, viene cioè reso brutto dal­l’amore delle cose terrene; l’anima è frenata da fiacchezza e languore, ed essendo negligente, tiepida e priva di forze, viene distolta dalle opere buone. Questa è la figlia del re dell’Egitto, la quale rese vana la sapienza di Salomone e pervertì il suo cuore facendogli seguire gli dèi stranieri (cf. 3Re 11,34). Ahimè, quanti sapienti, resi tiepidi dall’effe­minatezza della mente, si abbandonano ai peccati mortali! Quanti sono i tuoi peccati mortali, tanti sono gli dèi che adori. Dice il beato Bernardo: “Anche se sei sapiente, la sapienza ti manca se non lo sei per il tuo bene”.

Quando i capelli, cioè i pensieri inutili, spuntano nella mente, procurano all’anima un grande danno, perché, come dice Salomone, “i pensieri cattivi allontanano da Dio” (Sap 1,3).

E quando la donna gravida mangia cibi molto salati, il nato è privo di unghie. Il sale rende sterile il terre­no. La moglie di Lot fu trasformata in una statua di sale (cf. Gn 19,26). Il Signore comanda che il sale scipito venga gettato via (cf. Mt 5,13). Il sale in questo passo sta a indicare la vanagloria, che rende sterile ogni opera. Se l’anima che sta per partorire l’erede della vita eterna mangia il sale della vanagloria, la sua opera sarà senza unghie, sarà privata cioè della perseveranza finale e della gloria celeste.

Inoltre, l’uomo e gli uccelli stanno nell’utero incurva­ti: il loro naso sta tra le ginocchia, gli occhi sopra le ginocchia e gli orecchi all’infuori. Nel naso è indicata la discrezione, cioè la capacità di giudizio; nelle ginocchia la compunzione delle lacrime e l’afflizione della peniten­za; negli occhi l’illuminazione della mente e negli orecchi il comando dell’obbedienza. Gli uccelli e l’uomo raffigurano il proposito della buona volontà: gli uni volano nella contemplazione, l’altro fatica nell’azione. Dice Giobbe: “L’uo­mo nasce alla fatica, l’uccello al volo” (Gb 5,7). Il suo naso dev’essere tra le ginocchia per poter procedere con discrezione, tenendo il giusto mezzo sia nella compunzione della mente che nella mortificazione del corpo. E gli occhi devono essere sopra le ginocchia per compiere tutte le cose nell’illuminazione di una gioiosa coscienza, poiché il Signore ama chi dona con gioia (cf. 2 Cor 9,7); e gli orecchi devono essere tese all’in­fuori per una spontasnea e libera obbedienza, giacché “l’obbedienza – come dice Gregorio – attira a sé tutte le virtù, e attiratele le custodisce”.

Questo figlio dell’anima deve tenere le mani aperte sopra le costole. Le costole sono così chiamate perché custodiscono gli organi interni, e simboleggiano l’umile sentire di sé e il disprezzo del mondo: due virtù queste che custodiscono egregiamente tutte le virtù; su di esse il figlio dell’anima deve tenere aperte e fisse le mani delle opere, per dire con Abramo: “Parlerò al mio Signore, benché io sia polvere e cenere” (Gn 18,27); e con Davide: “Chi perseguiti, o re di Isra­ele? Chi perseguiti? Un cane morto tu perseguiti e una pulce” (1Re 24,15); e con l’Apo­­stolo: “Per me il mondo è stato crocifisso, come io lo sono per il mondo” (Gal 6,14).

E appena partorito, questo figlio, porta le mani alla bocca. Questo indica che ognuno, memore della sua nascita, deve mettere le mani sopra la sua bocca, per non peccare con la sua lingua, perché, come dice Salomone, chi custo­disce le sue labbra, custodisce la sua anima (cf. Pro 21,23).

“E quando la donna è prossima a liberare il grembo, ed è giunto il momento del parto...”, ecc. “La donna, quando partorisce, è nella tristezza perché è giunta la sua ora”. L’ora del parto della donna simboleggia la confessione dell’anima pentita: in quel momento essa deve rattristarsi, prorompere in amari gemiti, dicendo con il Profeta: “Sono stremata dai lunghi lamenti” (Sal 6,7). Osserva che nella donna che sta partorendo si devono considerare quattro momenti: il dolore, il travaglio, la gioia del parto e il compito dell’ostetrica. Queste stesse cose si devono vedere anche nel penitente, del quale la donna che partorisce è figura.

 

16. Del dolore e del travaglio parla il profeta Michea: “Non hai alcun re, o il tuo consigliere è forse perito, che ti ha presa il dolore come una partoriente? Soffri e datti da fare, figlia di Sion, come una partoriente, perché ora uscirai dalla città e dimorerai nella campagna e andrai fino a Babilonia: lì sarai liberata, lì ti riscatterà il Signore dalla mano dei tuoi nemici” (Mic 4,9-10).

Gesù Cristo è il re che guida l’anima perché non vada errando; è consigliere perché le consiglia di sperare nella misericordia, e le dice: Soffri, figlia di Sion, cioè anima, con il dolore della contrizione; impegnati nell’opera di soddisfazione (di penitenza) in modo che la pena sia proporzionata alla colpa, perché adesso uscirai dalla città, cioè dalla comunità dei santi, come si fa con i penitenti all’inizio del digiuno quaresimale: infatti il lebbroso abitava fuori dell’accampamento (cf. Lv 13,46); e abiterai nella campagna della dissomiglianza, nella quale il figlio prodigo dissipò le sostanze del padre vivendo dissolutamente (cf. Lc 15,13). Abiterai, o anima, nella campagna per riconoscere la tua dissomiglianza e riacquistare la somiglianza con Dio, secondo la quale sei stata creata; e arriverai fino a Babilonia, cioè alla confusione del peccato affinché, umiliata nel tuo peccato, lo riconosca, e riconosciutolo tu lo pianga, e piangendolo tu riabbia la grazia; lì sarai liberata perché, come dice Agostino, “se tu riconosci, Dio perdona”; lì ti riscatterà Dio dalla mano dei tuoi nemici, perché il turbamento e l’umiliazione per il proprio peccato determinano la cacciata dei demoni.

Della gioia del parto spirituale dice il Signore: “Grande gioia c’è nel cielo per un peccatore che fa peni­tenza” (Lc 15,7); e “Rallegratevi con me perché ho ritrova­to la dramma che avevo perduta” (Lc 15,9); e Gabriele nel vangelo di Giovanni: “Molti si rallegreranno della sua nascita” (Lc 1,14). Si legge nella Genesi che “Abramo imbandì un grande banchetto il giorno in cui Isacco fu svezzato” (Gn 21,8). Quando il peccatore viene svezzato, viene cioè staccato dal latte della vita mondana e della concupiscenza carnale, allora Abramo, cioè Dio Padre, imbandisce in cielo un grande banchetto. Infatti dice: Si deve banchettare e rallegrarsi perché questo mio figlio era morto ed è risu­scitato, era perduto ed è stato ritrovato (cf. Lc 15,32).

Sul compito dell’ostetrica, cioè sulla diligenza dei sacerdoti, parla Giobbe: “Con la sua mano in funzione di levatrice, fu estratto il tortuoso serpente” (Gb 26,13). Ostetrica deriva dal lat. obstare, stare davanti, cioè servire. Le ostetriche sono figura del sacerdote, che deve assistere e aiutare i peccatori che si confessano. Per questo è detto: “la sua mano in funzione di ostetrica”. La mano del Signore è il sacerdote: con essa dev’essere estratto dal peccatore il serpente, cioè l’uomo vecchio, perché sia poi in grado di partorire l’uomo nuovo. Come al momento del parto avviene alle donne in certe regioni – almeno così si racconta –, che espellono un rospo prima del bambino, così deve fare anche il penitente: prima di tutto con la confessione espelle l’uomo vecchio, poi finalmente partorisce in sé l’uomo nuovo. E se vuole partorirlo con maggiore facilità e tranquillità, si guardi bene dallo sbadigliare.

Sbadiglia colui che confessa la storia dei suoi peccati con tiepidezza e quasi dormendo. Sbadiglia colui che, impedito dalla vergogna, non manifesta il peccato che aveva promesso di confessare. Dice perciò Isaia: “I figli sono stati portati fino al parto, ma poi non ci fu più la forza di partorirli” (Is 37,3). E ciò avviene quando il peccato è già sulla bocca, ma per la vergogna la bocca non si apre alla confessione, e così l’infe­lice anima muore. Se avesse sofferto e avesse faticato, senza dubbio ora sarebbe lieta per il parto.

Ma a motivo dell’inazione e della tiepidezza, per cui si accumula nell’anima un eccesso di pensieri cattivi, la sua disposizione peggiora e nel parto corre gravi rischi. Dice Girolamo: Bisogna fare sempre qualcosa perché, se la mano si ferma, il campo del nostro cuore viene invaso dai rovi dei cattivi pensieri. E Isidoro: La libidine brucia più intensamente se trova uno in ozio. Invece nell’anima veramente pentita c’è il dolore e la fatica, e quindi il parto della confessione è rapido e facile. Infatti la fatica consuma gli umori superflui ed è una di quelle cose che fanno traspirare abbondantemente. Infatti dice la Genesi: “Col sudore del tuo volto mange­rai il tuo pane” (Gn 3,19). Il volto è così chiamato perché in esso si manifesta la volontà dell’animo (lat. vultus, voluntas). Nel volto del vero penitente si manife­sta il dolore della contrizione e scorrono le lacrime dell’amarezza, come fosse il sudore del corpo, e lì c’è il pane e il nutrimento dello stesso penitente.

Giustamente quindi è detto: “La donna quando partorisce è nella tristezza; ma quando ha partorito il figlio non si ricorda più del travaglio, a motivo della gioia che la ricolma” (Gv 16,21), cioè a motivo della gloria eterna. Infatti dice Isaia: “Le precedenti tribolazioni sono state dimenticate e non ritorneranno ad opprimere il cuore: ma godrete ed esulterete per sempre” (Is 65,16-18).

Dalla tristezza di questo mondo si degni di guidarci a quel gaudio, colui che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

 

 

 

DOMENICA IV DOPO PASQUA

Temi del sermone

 

– Vangelo della IV domenica dopo Pasqua: “Vado da colui che mi ha mandato”; si divide in tre parti.

– Anzitutto sermone al prelato della chiesa, come deve lavorare nel campo dei fedeli: “Il contadino aspetta”.

– Parte I: Sermone per l’annunciazione, o per la natività, o per la passione del Signore: “Ti metterò un anello alle narici”, e “Gli porrai un cerchio alle narici?”.

– Sermone della passione del Signore: “È venuto meno il mantice nel fuoco”.

– Natura della tortora e che cosa raffiguri; la duplice eredità di Gesù Cristo.

– Parte II: Sermone contro i mondani: “Quando verrà il Paràclito”.

– Le uova di vento e la diversità della loro forma; natura della pernice, e che cosa significhino queste cose.

– Sermone contro i fornicatori e gli ubriaconi; come perdano il cuore e la fede: “La fornicazione, il vino e l’ubriachezza tolgono il cuore”.

– Sermone sulla giustizia dei santi: “Convincerà il mondo quanto alla giustizia”.

– Sermone sul giudizio, nel quale si richiedono sei persone: “Convincerà il mondo quanto al giudizio”.

– Sermone contro i golosi e i lussuriosi: “Se mi ascolterai, non ci sarà in mezzo a te”.

– Collocazione dell’orecchio e della lingua e loro significato: “Ogni uomo sia pronto ad ascoltare”.

– Sermone contro gli iracondi: “Sia lento all’ira”.

– Parte III: Sermone sulla venuta dello Spirito: “L’angelo del Signore discese nella piscina”.

– Le proprietà della palma.

– Contro coloro che hanno la grazia informe: “Ogni animale che abbia...”; e il germoglio innestato nell’albero

 

esordio - in che modo il prelato deve lavorare nel campo dei fedeli

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Io vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai?” (Gv 16,5).

Dice Giacomo nell’epistola canonica: “L’agricoltore aspetta il prezioso frutto della terra, portando pazienza finché potrà raccogliere il frutto precoce e quello tardivo” (Gc 5,7). L’agricoltore, colui che coltiva il campo, è il predicatore, che nel sudore della sua fronte, col sarchio della parola coltiva il campo, cioè l’anima dei fedeli. Il campo si chiama in latino ager, perché in esso si opera (lat. agere), si lavora. I campi o si seminano, o si coltivano a piante, o si dispongono a pascolo, o si ornano con fiori diversi. Anche nel­l’a­nima è necessario fare sempre qualche cosa, perché non si avveri ciò che dice Salomone: “Sono passato per il campo dell’uomo pigro, ed ecco che le spine lo avevano invaso completamente” (Pro 24,30-31). Infatti dove c’è il torpore della pigrizia, subito prosperano le spine pungenti dei pensieri perversi. Perciò l’anima dev’essere seminata con la semente della predicazione, coltivata con le piante delle virtù, preparata a pascolo, cioè ai desideri della vita eterna, ornata di fiori diversi, vale a dire degli esempi dei santi. E se il campo sarà coltivato in questo modo, di esso dice il Signore: “Ecco, il profumo del figlio mio è come il profumo di un campo rigoglioso, che il Signore ha benedetto” (Gn 27,27).

“L’agricoltore aspetta il prezioso frutto della terra”. Per il fatto che il predicatore coltiva il campo del Signo­re, egli attende il frutto della terra, cioè della vita eterna. Per questo il Signore promette al predicatore: “Se convertirai (qualcuno), io convertirò te; e se separerai ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca” (Ger 15,19). “Se convertirai”, cioè se farai convertire – come dice Giacomo – “il peccatore dalla sua via di errore” (Gc 5,20), io convertirò te infondendoti la grazia; e se avrai separato ciò che è prezioso, cioè l’anima che ho riscattato con il mio sangue prezioso, da ciò che è vile, cioè dal peccato, del quale nulla al mondo è più vile, sarai come la mia bocca, perché nella rigenerazione giudicherò gli empi per mezzo di te. Ma nel frattempo bisogna agire con pazienza. E quindi soggiunge: “Deve sopportare con pazienza, finché potrà raccogliere il frutto precose e quello tardivo”. Si chiama precose ciò che matura prima, e tardivo quando la maturazione è completa. Quindi il predicatore, se sopporta con pazienza e con gioia, quando cade in varie tentazioni, riceverà il frutto precoce della grazia nel tempo presente, e quello tardivo della gloria nella vita futura. In proposito il Signore, nel vangelo di oggi, dice: “Vado da colui che mi ha mandato”.

 

2. Osserva che in questo brano evangelico sono poste in evidenza tre fatti. Primo, il ritorno di Gesù Cristo al Padre, quando dice: “Vado da colui che mi ha mandato”. Secondo, l’accusa fatta al mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, dove dice: “Quando verrà lo Spirito, accuserà il mondo...”. Terzo, le ispirazioni dello Spirito di verità, dove conclude: “Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi insegnerà tutta la verità”.

In questa domenica e nella prossima si leggono le epistole canoniche. L’introito della messa di oggi esorta: “Cantate al Signore un canto nuovo” (Sal 97,1). E nell’epistola del beato Giacomo è detto: “Tutto ciò che ci viene dato di buono”, ecc. (Gc 1,17): noi la divideremo in tre parti e ne faremo risaltare la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Le tre parti dell’epistola sono: primo: “Ogni ottimo regalo”; secondo: “Voi lo sapete, fratelli miei dilettissimi”; terzo: “Perciò, deposta ogni impurità”, ecc.

 

I. il ritorno di gesù cristo al padre

 

3. “Io vado da colui che mi ha mandato”. Poco prima il Signore aveva detto: “Voi sapete dove vado, e conoscete anche la via”. Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai” (Gv 14,4-5). E il Signore poco dopo aggiunse: “Vado da colui che mi ha mandato. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e ritorno al Padre” (Gv 16,28). Questo è il cerchio di cui parla il Padre, minac­ciando il diavolo: “Metterò un cerchio nelle tue narici e un morso sulle tue labbra, e ti farò tornare per la strada per cui sei venuto” (Is 37,29). Il cerchio, così chiamato perché gira nella circonferenza, raffigura Gesù Cristo che, come il cerchio, è ritornato da dove era partito. Infatti è partito dal Padre, ha fatto un giro fino agli inferi, ed è ritornato al trono di Dio.

Il cerchio dunque fu posto alle narici del diavolo, perché la Sapienza di Dio si è incarnata per insegnare a noi la vera sapienza e così, per mezzo della sapienza da lui insegnata, vanificasse le insidie del diavolo, raffigu­rate nelle sue narici. Le narici, dette in latino nares perché esce da esse l’aria (lat. nares, aër) ossia il fiato, simboleggiano l’astuzia delle insidie diaboliche. Infatti il diavolo, da congetture e circostanze esteriori e dal temperamento degli uomini, intuisce e subodora, quasi con il fiuto delle narici, a quali vizi uno sia più incline, e lì tende i suoi tranelli. Ma tutti coloro che sono istruiti nella sapienza di Dio sono in grado di sfuggire, se lo vogliono, a questi tranelli.

“E porrò un morso alle sue labbra”. Il morso è la croce di Gesù Cristo: il diavolo, da essa trattenuto come un cavallo, non può più divorarci com’era solito fare. Concor­da con questo ciò che leggiamo in Giobbe: “Porrai forse un anello alle narici di beemot (ippo­potamo), e gli forerai la mascella con un cerchio?” (Gb 40,21).

Il cerchio, detto in lat. armilla, braccialetto, perché può servire anche come arma, è la croce di Gesù Cristo, della quale Isaia dice: “Il potere è stato posto sulle sue spalle” (Is 9,6). Con questo cerchio il Figlio di Dio ha perforato la mascella del diavolo e dalle sue fauci ha liberato il genere umano. Quindi soggiunge: “E ti farò ritornare sulla via per la quale sei venuto”.

Il diavolo perdette il possesso del mondo per la stessa via per la quale l’aveva usurpato: aveva ingannato l’uomo e la donna con l’albero proibito e il serpente. Per opera di un uomo, Gesù Cristo, e di una donna, la Vergine Maria, per mezzo dell’albero della croce e il serpente, vale a dire con la morte della carne di Cristo, che era simboleggiata dal serpente che Mosè aveva innalzato nel deserto su di un’asta di legno (cf. Nm 21, 8-9; Gv 3,14), il diavolo perdette il possesso del genere umano. Quindi, conclusa l’opera della nostra redenzione, Cristo dice: Vado [ritorno] dal Padre che mi ha mandato.

Con tutto questo concorda ciò che leggiamo nel libro di Tobia, quando Raffaele, dopo aver incatenato il demonio, restituì la vista a Tobia e disse: “È tempo ormai che io ritorni a colui che mi ha mandato” (Tb 12,20). Raffaele s’in­terpreta “medicina di Dio”. Egli è figura di Cristo, perché Cristo con la sua carne inchiodata sul legno della croce ha ricavato dal serpente un antìdoto per noi, e così incatenò il diavolo e restituì la vista degli occhi al genere umano. Dopo di che disse: “ È tempo ormai che io ritorni a colui che mi ha mandato”, ossia, “Vado da colui che mi ha mandato”.

 

4. Il Padre ha mandato a noi il Figlio, regalo ottimo e dono perfetto; lo confermano le parole dell’epistola di oggi: “Ogni regalo ottimo e ogni dono perfetto discende dall’alto, viene dal Padre della luce” (Gc 1,17). Ottimo, cioè sommo; perfetto è ciò a cui nulla si può aggiungere. Cristo è il regalo ottimo, perché ci è stato dato dal Padre, del quale egli è il sommo e coeterno Figlio. Per questo è detto nel secondo libro dei Re: “La terza battaglia avvenne a Gob contro i Filistei: in essa Adeodato, figlio di Salto, fabbricante di vesti variopinte, betlemita, abbatté Golia di Gat” (2Re 21,19).

Adeodato è Davide – alla lettera: dato da Dio al popolo d’Israele –; figlio di Salto, perché pascolava le pecore di suo padre in monti boscosi (lat. saltus); è detto infat­ti: “Lo tolse dalla cura delle pecore gravide” (Sal 77,70); fabbricante di vesti variopinte: sua madre era della fami­glia di Beseleel, che era fabbricante di vesti di vari colori, come dice l’Esodo (cf. Es 38,23); betlemita: era infatti originario di Betlemme.

Senso allegorico. “La terza battaglia avvenne a Gob”. Osserva che il diavolo fece contro il Signo­re tre battaglie: in cielo, quando per superbia tentò di usurpare la perfe­zione della divinità; nel paradiso terrestre, quando in oltraggio al creatore, ingannò i progenitori con le lusin­ghe di false promesse; nel mondo, quando nel deserto tentò lo stesso Uomo-Dio e lo fece poi inchiodare sul patibolo della croce. Di questa ultima battaglia è detto appunto: “La terza battaglia avvenne a Gob”, nome che s’interpreta “lago”, e raffigura il mondo, che è lago di miseria e fango di impurità (cf. Sal 39,3).

Il lago è così chiamato perché è come il luogo dell’acqua: infatti l’acqua vi sta ferma e non ne esce. Questo mondo è il luogo dell’acqua, cioè della superbia, della lussuria e dell’avarizia, che mai ne escono, anzi crescono ogni giorno. In questo lago Davide, che s’interpreta “misericordioso”, è figura di Gesù Cristo, la cui misericordia non si può misurare, e che solo per misericordia ci è stato dato dal Padre, e che è ogni regalo ottimo: egli uccise Golia di Gat. Golia s’interpreta “che si trasforma”; di Gat, cioè “che si spaventa”; ed è figura del diavolo, “che si trasforma in angelo di luce” (2Cor 11,14), perché ha paura di essere sorpreso nel suo vero aspetto. Ma il nostro Davide lo ha ucciso, quando gli ha tolto il possesso del mondo e lo ha rinchiuso nel carcere dell’inferno.

Fu “figlio di Salto”. Il termine latino saltus denota un luogo in cui gli alberi salgono (saliunt) molto in alto. Furono “salto” gli antichi padri, i patriarchi e i profeti che, ispirati dallo Spirito di Dio, come alberi che si spingono a grande altezza, profetizzarono l’incarnazione del figlio di Dio: egli provenne da loro secondo la carne, e quindi è detto “figlio di Salto”.

È detto anche “fabbricante di vesti variopinte” (polymitharius). Le vesti variopinte si fanno con l’ago. Osserva che nell’ago ci sono due estremità: una appuntita e una perforata, la cruna: la parte appuntita raffigura la divinità, quella perforata, la cruna, l’umanità. Di quest’ago il Signore stesso dice nel vangelo: Non può un cammello passare per la cruna di un ago (cf. Mt 19,24; Lc 18,25). Il cammello con le gobbe, cioè il ricco pieno di soldi, non può passare per la cruna dell’ago, cioè per la povertà di Gesù Cristo. Oppure, nella parte smussata può essere simboleggiata la mansuetudine e la misericordia che Cristo mostrò nella sua prima venuta; in quella acuta la trafittura della giustizia, con la quale trafiggerà nell’ultimo giudizio. Con quest’ago il nostro polymitharius, il nostro fabbricante di vesti variopinte, confeziona all’anima fedele una tunica variopinta, una veste che si distingue per il vario colore delle virtù. Dice Salomone: “Si confezionò una veste di vari colori: il bisso e la porpora sono le sue vesti” (Pro 31,22). Il bisso (lino purissimo) della castità e la porpora della passione del Signore sono le vesti dell’a­nima fedele.

È detto anche “betlemita”. Betlemme s’interpreta “casa del pane”. Egli, nella sua casa che è la chiesa, ci nutre con il pane del suo corpo. Ha detto infatti: “Il pane che io vi darò è la mia carne, per la vita del mondo” (Gv 6,52).

Altro commento. Gesù Cristo ci fu dato da Dio nella natività. Dice Isaia: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9,6). Fu figlio di Salto nella predicazione e nella passione. Nella predicazione perché scelse gli apostoli, come alberi che si spingono in alto, e infatti disse: “Io vi ho scelti perché andiate e portiate frutto” (Gv 15,16); nella passione, perché fu coronato con le spine dei nostri peccati. Fu fabbricante di vesti variopinte nella risurrezione; in essa riparò con l’ago della sua potenza e della sua sapienza la tunica variopinta, cioè la carne gloriosa presa dalla Vergine Maria, distesa per noi sul legno della croce, lacerata dai chiodi, trafitta dalla lancia, e la restituì all’immortalità. Sarà per noi betlemita nell’eterna beatitudine, dove saremo saziati e lo vedremo faccia a faccia (cf. 1Cor 13,12).

Giustamente quindi è detto: “Ogni ottimo regalo”. Il Padre della luce, come un munifico e misericordioso elemosiniere, non ha dato a noi poveri soltanto del vino buono o migliore, ma quello ottimo.

 

5. “E ogni dono perfetto”. Dice l’Apostolo: “Insieme con lui ci ha donato ogni cosa” (Rm 8,32); e di nuovo: “Lo diede come capo della chiesa” (Ef 1,22). Commenta la Glossa: Non poté dare un dono più grande.

Giustamente Cristo è chiamato “ogni dono perfet­to”, perché quando il Padre ce lo donò, per mezzo suo portò a compimento tutte le cose. Infatti: “Il Figlio dell’uomo venne a salvare ciò che era perduto” (Mt 18,11). Perciò la chiesa nell’introito della messa di oggi esorta: “Cantate al Signore un canto nuovo” (Sal 97,1), come dicesse: O fedeli, salvati e rinnovati per mezzo del Figlio dell’uomo, cantate un canto nuovo. Dovete gettar via le cose vecchie, perché arrivano le nuove (cf. Lv 26,10). Cantate, ripeto, perché Dio Padre ha compiuto cose meravigliose, quando mandò a noi ogni ottimo regalo, cioè il Figlio suo. “Al cospetto delle genti rivelò la sua giustizia” (Sal 97,2), quando ci diede ogni dono perfetto, lo stesso Unigenito, che giustifica le genti e tutto compie e porta a perfezione.

Giustamente quindi è detto: “Ogni dono perfetto”. Tutto fece in sei giorni. “Disse, e fu fatto” (Sal 148,5). Nel sesto periodo “il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). Il sesto giorno e all’ora sesta patì per noi, e così compì tutto. Disse infatti sulla croce: “Tutto è compiuto!” (Gv 19,30). Quanto grande è la distanza tra il dire e il fare, altrettanta ce ne fu tra il creare e il ri-creare. Agevole e facile fu la creazione, che avvenne con una sola parola, anzi con la sola volontà di Dio, il cui dire è volere; ma la ri-creazione fu molto difficile, perché avvenne per mezzo della passione e della morte. Adamo fu creato con facilità, e con grandissima facilità cadde. Guai a noi, miseri, che siamo stati ricreati e redenti con sì grande passione, con sì grandi patimenti e dolori, e poi con così grande facilità pecchiamo gravemente e rendiamo vana tanta fatica del Signore.

Gesù stesso dice per bocca di Isaia: “Ho faticato a vuoto, per nulla e invano ho consumato le mie forze” (Is 49,4). Nella creazione il Signore non ha faticato, perché “ha fatto tutte le cose che ha voluto” (Sal 134,6); ma nella ri-creazione faticò tanto, che “il suo sudore fu di gocce di sangue che scorrevano in terra” (Lc 22,44). Se provò così grande sofferenza nella preghiera, quanta – credi – dovette provarne nella crocifissione? Il Signore quindi faticò e così ci strappò dalle mani del diavolo. Invece noi, peccan­do mortalmente, ricadiamo nelle mani del diavolo e per quanto sta in noi rendiamo vana la fatica del Signore.

Per questo dice: “Ho faticato invano”, per nulla, cioè senza alcuna utilità. Non vedo infatti nessun vantaggio dalla mia passione, perché “non c’è chi faccia il bene, non ce n’è neppure uno” (Sal 13,1). “L’omicidio, l’adulterio, lo spergiuro, il furto, la maledizione e la menzogna hanno dilagato e si versa sangue su sangue” (Os 4,2). “I sacerdo­ti non dissero forse: Dov’è il Signore? I custodi della legge mi hanno ignorato, e i pastori – cioè i prelati – mi si sono ribellati, e i profeti – cioè coloro che predicano – hanno profetato in Baal” (Ger 2,8), cioè “nei luoghi alti” [dove si adoravano gli idoli]: infatti predicano per farsi vedere superiori agli altri.

Ben a ragione perciò il Signore dice: “Ho faticato invano, per nulla e invano ho consumato le mie forze”. La forza della divinità quasi si consumò nella debolezza dell’umani­tà. Non ti sembra che la forza si sia consumata quando lui, Dio e Uomo, fu legato alla colonna come un malfattore, fu colpito con i flagelli, fu schiaffeggiato, fu coperto di sputi, gli fu strappata la barba, il suo capo, che fa tremare gli angeli, fu percosso con una verga, e poi fu croci­fisso tra due ladroni? Guai dunque a quei miserabili, a quei meschini e stolti che neppure da questi fatti si convincono a fuggire le vanità del mondo. Invano ha consumato le sue forze, perché vani sono diventati coloro per i quali le ha consumate.

Bisogna perciò avere un grande timore che come all’inizio disse: Mi pento di aver fatto l’uomo (cf. Gn 6,7), non dica anche adesso: Mi pento di aver redento l’uomo, perché ho consu­mato (distrutto) tutte le mie forze, ma la loro malizia non è stata distrutta!

 

6. Dice Geremia: “È venuto meno il mantice al fuoco, è consumato il piombo; inutilmente il fonditore lo ha fuso, poiché le loro cattiverie non si sono consumate. Chiamateli perciò argento di scoria, perché il Signore li ha rigetta­ti” (Ger 6,29-30). In questa citazione ci sono cinque cose da considerare: il fonditore, il mantice, il fuoco, il piombo e l’argento. Nel fonditore è indicata la divinità, nel mantice la predicazione, nel fuoco la passione di Gesù Cristo, nel piombo l a sua umanità, nell’argento le nostre anime.

Nella fornace del fuoco l’argento viene purificato e liberato dal piombo e raffinato. Per distruggere la scoria dall’argento, cioè la malizia dalle nostre anime, si misero insieme Dio e l’Uomo e la sua predicazione. Ma inutilmente il fonditore fece la fusione e profuse invano la sua forza. Il mantice venne meno e il piombo fu consumato nel fuoco della passione, e così faticò invano e per nulla, perché le nostre cattiverie non si sono consumate. Perciò l’argento di scoria sarà gettato nel letamaio della geenna, perché le anime dei peccatori saranno gettate nello stagno del fuoco ardente.

Dice Osea: “L’ortica erediterà il loro amato argento e nelle loro tende cresceranno le lappole” (Os 9,6). L’ortica, che brucia (lat. urtica, urit), raffigura il fuoco dell’in­ferno; la lappola, che si attacca, indica l’accanimento della pena con cui le anime degli empi saranno tormentate, poiché non hanno voluto accogliere il dono perfetto di Dio, del quale è detto: “Ogni ottimo regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17), come il raggio dal sole. Infatti come il raggio di sole, partendo dal sole illumina il mondo, e tuttavia dal sole non si allontana mai, così il Figlio di Dio scendendo dal Padre illumina il mondo, e tuttavia mai si allontana dal Padre, perché con il Padre è una cosa sola. Infatti disse egli stesso: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30).

Dice Giovanni Damasceno: “Il Verbo s’incarnò senza uscire dalla sua immaterialità, e così fu integralmente incarnato e anche totalmente incircoscritto (infinito). Rispetto alla carne è diminuito e limitato; rispetto alla divinità è senza limiti, ma non perché sia dilatata la carne, che fu invece circoscritta dalla divinità. Era dunque in tutte le cose e sopra tutte le cose, eppure stava nel grembo della santa Genitrice”. E Agostino: “Quando si legge “Il Verbo si è fatto carne”, nel Verbo riconosco il vero Figlio di Dio, nella carne il vero Figlio dell’uomo, uno e l’altro insieme una sola persona, Dio e Uomo, congiunti dall’ine­nar­­rabile grandezza della grazia divina”. Giustamente quindi è detto: “Discese dal Padre della luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamen­to” (Gc 1,17). Non c’è in Dio cambiamento: non può dare ora il bene, ora il male, oppure il bene con una certa mescolanza di male. Nella sua natura non c’è alcun cambiamento, ma solo identità (Dio è sempre se stesso), e ciò non solo nella natura ma anche nella distribuzione dei doni, perché infonde solo e sempre doni di luce, e non tenebre di errori.

E Giacomo continua: “Di sua volontà egli ci ha generati”: dapprima figli delle tenebre, quindi, con l’acqua della rigenerazione, figli della luce; “con una parola di verità”, cioè con la dottrina del vangelo, perché fossimo “come l’inizio della sua creazione”; perché adesso la riforma del nostro essere è solo all’inizio: la riforma completa avverrà nel futuro. Oppure, secondo un’altra versione: “perché fossimo come la primizia delle sue creature” (Gc 1,18), cioè avessimo il primato su tutto il creato. O ancora: Ci ha generati con una parola di verità affinché incominciamo a gemere nella contrizione e a parto­rire nella confessione; perché “ogni creatura”, secondo l’Apostolo, “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,22), perché poi possiamo godere con il Figlio di Dio, che dice: “Vado da colui che mi ha mandato”.

 

7. Cristo fece come la tortora, che nel periodo invernale scende a valle e senza piume si rifugia nei tronchi cavi degli alberi; invece nel periodo estivo ritorna sulle alture. Così Cristo, nell’inverno dell’infedeltà e nel gelo della persecuzione diabolica discese nel grembo dell’umilissima Vergine e dimorò in questo mondo, povero e disprezzato come un uccello senza piume. Di questa tortora dice Salomone: “La voce della tortora si è fatta sentire nella nostra terra” (Ct 2,12). La voce della tortora assomiglia al gemito e al pianto. Cristo è disceso tra noi per gemere e piangere – mai si legge che abbia riso –, per insegnare anche a noi a gemere e a piangere. “Si è sentita la voce della tortora nella nostra terra”, voce che dice: “Fate penitenza!” (Mt 3,2). Quando poi si avvicinò l’estate e incominciò ad accendersi la crudeltà della persecuzione giudaica e divampò il fuoco della passione, allora ritornò sul monte, cioè al Padre. Disse infatti: “Vado da colui che mi ha mandato; e nessuno di voi mi domanda: Dove vai?”. Domandiamo a Cristo per quale via ritorni al Padre. E ci risponderà: Per la via della croce! Egli stesso infatti disse: “Non fu forse necessario che Cristo subisse la passione, e così entrasse nella sua gloria?” (Lc 24,26).

Cristo ebbe una duplice eredità: una da parte della Madre, cioè la fatica e il dolore; l’altra da parte del Padre, e cioè il gaudio e il riposo. Quindi per il fatto che noi siamo suoi coeredi, dobbiamo ricercare anche noi questa duplice eredità. Perciò sbagliamo se vogliamo avere la seconda senza la prima, perché il Signore ha fondato la seconda sulla prima, proprio perché noi non avessimo la pretesa di avere la seconda senza la prima.

Egli ha innestato l’albero della vita sull’albero della scienza del bene e del male, quando “il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14). Quindi “sarà come albero piantato lungo il corso delle acque” (Sal 1,3). E Isaia: “Ha fondato la terra e ha piantato i cieli” (Is 51,16). Nella terra dell’umanità, fondata sulle sette colonne della grazia settiforme (dei sette doni dello Spirito), ha impiantato i cieli della divinità. Procuriamo dunque di venire in possesso della prima eredità che Gesù Cristo ci ha lasciato, per meritare di arrivare alla seconda.

 

II. l’accusa contro il mondo

 

8. “Quando verrà il Paràclito (il Consolatore), egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato già giudicato” (Gv 16,8-11).

Il mondo è chiamato così perché è sempre in movimento (lat. mundus, motus); infatti ai suoi elementi non è concesso riposo. Il mondo è detto in greco kòsmos, l’uomo è detto mikrokosmos, cioè piccolo mondo. Infatti come il mondo fu creato composto di quattro elementi, così gli antichi affermarono che l’uomo consta di quattro umori (fluidi), amalgamati in un unico temperamento. Il mondo sta a indicare i mondani, che sono sempre in movimento. Di essi Giuda, nella sua lettera cattolica dice: “Essi sono nuvole senza pioggia, portate in giro dai venti, alberi autunnali, infruttuosi, due volte morti, sradicati; flutti del mare infuriato, che schiumano le loro brutture; astri erranti ai quali è riservata in eterno la tempesta delle tenebre” (Gd 1,12-13).

In questo passo ci sono quattro elementi da notare: le nuvole, gli alberi, i flutti e gli astri. In questi quattro elementi sono indicati i quattro vizi dei mondani, e cioè la superbia, l’avarizia, la lussuria e l’ipocrisia.

Le nuvole nere ed errabonde raffigurano i superbi che, dalla superficialità del loro animo e dall’oscurità della mente sono portati in giro per vari peccati; sono privi del­l’ac­qua della compunzione e della luce della grazia settiforme. Di essi infatti dice il profeta: “Dio mio, rendili come una ruota, e come la pula davanti al vento” (Sal 82,14). Fa’ attenzione alla ruota e alla pula. La ruota è detta così da ruotare, girare; la pula è detta in lat. stipula, quasi usta, bruciata. Dio rende i superbi come una ruota, permettendo che essi ruotino, ròtolino di peccato in peccato, e poi li rende come pula davanti al vento, perché essi che furono aridi, privi dell’umore della grazia, come pula saranno bruciati nel fuoco delle pene eterne.

Alberi autunnali, infruttuosi, sono gli avari, che occupano inutilmente la terra (cf. Lc 13,7): il Signore li maledice come fece con l’albero nel quale non trovò frutto (cf. Mc 11,21). Fa’ attenzio­ne alle quattro parole: autunnali, infruttuosi, due volte morti, sradicati.

L’autunno è chiamato così da tempestas (bufera): in autunno cadono le foglie. Gli avari sono alberi autunnali, i quali, quando sopraggiunge la bufera della morte, saranno spo­gliati delle foglie delle ricchezze, delle quali adorni e ricoperti incedevano solenni; e siccome sono stati senza frutto, saranno gettati nel fuoco eterno, perché “ogni albero che non fa buon frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3,10); “due volte morti”, perché saranno sepolti nell’inferno con l’anima e con il corpo, sradicati dalla terra dei viventi.

I flutti del mare infuriato sono i lussuriosi. I flutti sono così chiamati perché fluttuano, agitati dal soffiare dei venti. I lussuriosi infatti, agitati dalle suggestioni degli spiriti immondi, fluttuano tra vari pensieri e schiu­mano lussuria nel subbuglio della loro anima. Sono come una pentola posta sopra il fuoco, che manda fuori la schiuma. La pentola è il cuore del peccatore, nel quale c’è l’acqua della concupiscenza carnale: si pone sotto ad essa il fuoco della suggestione diabolica e così schiuma la lussuria del suo ribollimento.

Astri erranti sono gli ipocriti e i falsi religiosi. Gli astri sono detti in lat. sidera, perché i naviganti li osservano (lat. consìderant) e per mezzo di essi regolano la loro rotta. I degni prelati della chiesa e i veri reli­giosi sono astri che brillano in un luogo oscuro (cf. 2Pt 1,19): essi dirigono sulla giusta rotta della vita eterna coloro che navigano nel mare di questa vita. Invece gli ipocriti e i falsi religiosi sono astri erranti, causa di naufragio per gli altri, e perciò saranno travolti dalla tempesta e dalla bufera della morte eterna.

 

9. Tutti costoro sono come “uova di vento”, che non fanno nascere pulcini. Si dice infatti che la libidine ecciti le pernici in modo tale, che quando il vento soffia dietro ai maschi, esse s’ingravidino solo con l’odore e depongano delle uova non fecondate che non producono pulcini; e tali uova sono tutte uova di vento.

La pernice, uccello falso e immondo, sta ad indicare i suddetti peccatori, che hanno, come dice Pietro, gli occhi pieni di adulterio e non sono mai sazi di peccato (cf. 2Pt 2,14); essi con il vento della suggestione diabolica concepiscono uova di vento, cioè amore della vanità mondana, di cui dice Osea: Hanno seminato vento e raccoglieranno tempesta; non c’è in essi spiga eretta e non produrrà farina (cf. Os 8,7). Chi semina il vento dell’amore mondano, senza dubbio raccoglierà la tempesta della morte eterna. La spiga, così chiamata dal lat. spiculum, punta, è la contrizione del cuore, che punge il peccatore e produce la farina della confessione. Questa spiga non è eretta e non produce farina nei peccatori che non concepiscono pulcini, cioè opere di vita eterna, ma solo vento di vanità mondana.

Osserva ancora che le uova si distinguono dal loro aspetto, perché alcune sono appuntite e altre sono rotonde; ed esce prima la parte appuntita e poi quella più larga. Le uova lunghe con la punta acuta producono maschi; le uova rotonde, che invece di avere la punta sono tondeggianti, producono femmine. Per questo si può sapere con sicurezza quali uova producano maschi e quali femmine. Allo stesso modo il diavolo, dall’indizio della acutezza e della rotondità, distingue tra gli uomini quali sono i maschi e quali le femmine. Nell’acutezza è raffigurata la compunzione e la contemplazione delle cose celesti, nella rotondità il piacere della carne e nell’andare in giro alla ricerca delle cose mondane. “Ho fatto un giro sulla terra e l’ho percorsa” (Gb 1,7), dice Satana. “Va in giro come un leone, cercando chi divorare” (1Pt 5,8), dice Pietro. E il profeta Isaia: “La mia mano, come in un nido, ha trovato la ricchezza dei popoli; e come si raccolgono le uova abbandonate, così io ho raccolto tutta la terra; e non ci fu chi muovesse una piuma”, cioè facesse un atto di virtù, “o aprisse la bocca”, per la confessione; “o gemesse” (Is 10,14), per la compunzione interiore.

Non sono i maschi, cioè i giusti, compunti nella mente e immersi nella contemplazione, che si comportano così, ma le femmine, cioè i mondani, resi effeminati dai beni caduchi di questo mondo. Di essi è detto: “Quando verrà il Paràclito convincerà il mondo di peccato”, ecc. Il termine greco paràklisis significa “consolazione”, quindi paràclito vuol dire consolatore: ma la sua consola­zione i mondani non la vogliono accogliere, perché hanno già la loro consolazione. Dice infatti di loro il Signore: “Guai a voi, che avete la vostra consolazione!” (Lc 6,24). E Isaia: “Non siete voi forse figli scellerati, prole bastarda, che vi consolate con gli dèi (falsi) sotto ogni albero frondoso?” (Is 57,4-5). I mondani sono figli scellerati per la loro superbia, sono prole bastarda a motivo della lussuria; essi si consolano con gli dèi dell’avarizia, “che è appunto schiavitù degli idoli” (Col 3,5; cf. Ef 5,5), sotto ogni albero frondoso, vale a dire nella gloria delle cose di questo mondo.

 

10. Dunque “quando verrà il Paràclito, convincerà il mondo del peccato” che ha, “della giustizia” che non ha, “e del giudizio” che non teme. Nota queste tre cose: peccato, giustizia e giudizio.

Il peccato. Peccatore deriva dal lat. pellicio, adescare, sedurre, ciò che fa la meretrice; quindi peccatore è come seduttore. Con questo termine venivano indicati in antico gli infami, gli scandalosi, poi divenne il nome comune di tutti i delin­quenti, appunto perché il mondo è contaminato dalla fornicazione più che da qualunque altro vizio. Perciò dice Osea: “Si prostituirono e non cessarono, perché hanno abbandonato il Signore, trasgredendo la legge. La fornicazione, il vino e l’ubria­chezza distruggono il cuore” (Os 4,10-11).

Osserva che nel cuore ci sono tre sentimenti: lo sdegno, la sede della sapienza e l’amore. Il cuore è un organo nobile e sdegnoso, che non tollera che entri in lui qualcosa di immondo. La fornicazione fa sì che il cuore perda questa intolleranza, questo sdegno, quando si rassegna ad ingoiare tale boccone. Parimenti il cuore è la sede della sapienza: il vino la fa perdere. Con il cuore poi amiamo: ma perde questo amore colui che, ubriaco di cupidigia delle cose terrene, non soccorre il prossimo. E che il peccato di fornicazione distrugga il cuore è dimostrato dal­l’esem­pio di Salomone, che si diede all’ado­razione degli idoli (cf. 3Re 11,4). Dice l’Apostolo: “Con il cuore si crede per ottenere la giustizia” (Rm 10,10), ma la fornicazione distrugge il cuore, nel quale risiede la fede.

Perciò a causa della fornicazione si perde la fede. Per questo si dice (in lat.) fornicatio, quasi a dire formae necatio, cioè uccisione della forma, vale a dire uccisione dell’a­nima, formata a somiglianza di Dio. La vita dell’anima è la fede. “Cristo”, dice l’Apostolo, “per mezzo della fede abita nei nostri cuori” (Ef 3,17). Ma la fornicazione distrugge il cuore nel quale è la vita e così l’anima muore, perché venendo meno la causa viene meno anche l’effetto. Per questo il Signore dice: “Lo convincerà di peccato, perché non hanno creduto in me”. Quindi il Paràclito per mezzo dei ministri della predicazione convincerà il mondo del peccato di fornicazione.

 

11. La giustizia. La giustizia è la virtù con la quale, giudicando rettamente, viene dato a ciascuno il suo. Giustizia è come dire iuris status, stato di diritto. La giustizia è l’abito, la disposizione dell’animo di attribuire ad ognuno l’onore, il credito che gli spetta, tenuto conto dell’utilità comune. Fanno parte della giustizia: il timore di Dio, il rispetto della religione, la pietà, l’umanità, il godere del giusto e del buono, l’odio del male, l’impegno della riconoscenza. Il mondo non ha questa giustizia perché non teme Dio, disonora la religione, odia il bene ed è ingrato verso Dio. Sarà convinto riguardo alla giustizia che non ha praticato, perché non ha punito se stesso, secondo giustizia, per i peccati commessi. Sarà convinto riguardo alla giustizia, non la sua, ma quella dei credenti: dal confronto con essi riceverà la condanna. Cristo non disse: Il mondo non mi vedrà, ma “Voi”, apostoli, “non mi vedrete”, e questo contro i mondani, i quali dicono: Come possiamo credere a ciò che non vediamo? È vera giustizia, è cioè fede giusti­ficante, credere in ciò che non si vede.

Oppure, “convincerà il mondo riguardo alla giustizia” dei santi. Dice il Signore per bocca di Zaccaria: “Sarà teso su Gerusalemme il filo a piombo” (Zc 1,16). Il filo a piombo, o piombino, è strumento del muratore, detto in lat. perpendiculum da perpendo, controllare, verificare. È formato da un piombo, o da una pietra legata ad un filo, e con esso si controlla la perpendicolarità delle pareti. La giustizia dei santi (la loro santità) è come un filo a piombo che viene teso su Gerusalemme, vale a dire su ogni anima fedele, affinché misuri e conformi la sua vita sull’esempio della loro. Ogni volta che si celebrano le feste dei santi, viene teso questo filo a piombo sulla vita dei peccatori; e quindi celebriamo le feste dei santi per avere dalla loro vita una regola per la nostra. È assurdo perciò, è una presa in giro, nelle solennità dei santi volerli onorare con i cibi, con grandi mangiate, quando sappiamo che essi sono saliti al cielo con i digiuni. Amando il mondo e la sua gloria, curando il corpo con i suoi piaceri e accumulando denaro non imitiamo certo la vita dei santi: perciò la loro giustizia (santità) sarà la prova che noi meritiamo la dannazione.

 

12. Il giudizio. Osserva che in ogni giudizio si richiedo­no sei persone: il giudice, l’accusatore, il reo e tre testimoni. Il giudice è il sacerdote; l’accusatore e il reo è il peccatore, che deve accusare se stesso come reo; i tre testimoni sono la contrizione, la confessione e la soddi­sfazione (o penitenza), che testimoniano a favore del peccatore, che sia veramente pentito. Dice Agostino: “Sali, o peccatore al tribunale della tua mente: la ragione sia il giudice, la coscienza sia l’accusatore, il dolore sia il tormento, il timore il carnefice; il posto dei testimoni sia tenuto dalle opere. I mondani che non vogliono sottoporsi a tale giudizio, saranno condannati con sentenza eterna e irrevocabile nell’esame dell’ultimo giudizio, insieme con il loro principe, il diavolo, che è già stato giudicato.

L’apostolo Giacomo per istruire questi uomini a guardar­si dal peccato, ad amare la giustizia, a temere il giudi­zio, nella seconda parte dell’epistola di oggi soggiunge: “Lo sapete bene, fratelli miei dilettissimi: ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento invece a parlare e lento all’ira; perché l’ira dell’uomo non opera la giustizia di Dio” (Gc 1,9­20). Ogni uomo dev’essere pronto ad ascoltare ciò che dice l’Apostolo: “Fuggite la fornicazione” (1Cor 6,18).

 

13. Dice il Signore con le parole del salmo: “Se mi ascol­terai, non ci sarà in mezzo a te un nuovo dio, e non adore­rai un dio straniero” (Sal 80,9-10). Il “nuovo dio” è il ventre che cerca sempre nuovi cibi. Questo dio è in coloro dei quali l’Apostolo dice: “Il loro dio è il ventre, si gloriano di ciò che è la loro vergogna, tutti intenti alle cose della terra” (Fil 3,19). Il “dio straniero” che rende l’uomo straniero a Dio, è la lussuria. Essa è il dio Beelfegor (Baal­Peor), nome che s’interpreta “colui che divora le cose antiche”. È appunto la lussuria, male antico, antico morbo che divora tutti i beni.

Concorda con questo, ciò che leggiamo nel libro dei Numeri: “Il popolo fornicò con le figlie di Moab, ed esse lo indussero a partecipare ai loro sacrifici. Il popolo mangiò e si prostrò ad adorare i loro dèi. E così Israele abbracciò il culto di Beelfegor. Il Signore, adirato, disse a Mosè: Prendi tutti i capi del popolo e falli impiccare ai patiboli contro il sole, affinché la mia ira ardente si allontani da Israele” (Nm 25,1-4).

Le figlie di Moab, nome che s’interpreta “dal padre”, sono la gola, la lussuria e gli altri vizi che hanno per padre il diavolo: con queste “figlie di Moab” il popolo del mondo si dà alla fornicazione. Mangiano e adorano i loro dèi, perché sono dediti alla gola e alla lussuria: per questo “i capi del popolo” devono essere appesi ai patiboli. I capi del popolo sono i cinque sensi del corpo, che a motivo dei peccati commessi devono essere appesi al patibolo della penitenza. E questo “contro il sole”. Nel sole è indicata la gloria del mondo: poiché con essa abbiamo pec­cato, contro di essa insistiamo con le opere di penitenza.

Oppure, “contro il sole”: se abbiamo peccato pubblicamente, pubblicamente facciamo penitenza. Considera che Origène si serve di questo passo dei Numeri – “Prendi tutti i capi del popolo…” – per applicarlo agli angeli, e dice: “Se l’angelo spera la ricompensa per il bene che noi, a lui affidati in custodia, abbiamo compiuto, teme anche di essere incolpato per ciò che abbiamo fatto di male. Per questo è detto che saranno esposti contro il sole, perché si veda chiaramente per colpa di chi sono stati commessi i peccati con i quali abbiamo aderito a Beelfegor o ad altro idolo, a seconda del peccato commesso. E se il capo, cioè l’angelo assegnato a ciascuno, non mancò, ma esortò al bene e parlò nel mio cuore per mezzo della coscienza che mi distoglieva dal peccare, e io, respinti i suoi consigli e il freno della coscienza, mi sono gettato nei peccati, mi sarà raddoppiata la pena per aver disprezzato il consigliere e per aver commesso il delitto. E non farti meraviglia che anche gli angeli vengano al giudizio insieme con gli uomini. Il Signore stesso infatti verrà al giudizio con i capi del suo popolo.

Commentando sempre questo passo, Origène dice ancora: Secondo l’Apocalisse di Giovanni, ad ogni singola chiesa presiede in generale un angelo, il quale, o viene encomiato per il buon comportamento del popolo, oppure viene interrogato sui delitti che sono stati commessi. Questo fatto mi induce all’ammirazione dello stupendo mistero, che ci sia in Dio tanta sollecitudine nei nostri riguardi da permettere che anche i suoi angeli siano interrogati e anche rimproverati per noi (cf. Ap 1,20–3,22). Avviene infatti come quando si affida un fanciullo a un educatore: se risulta istruito in materie meno convenienti ne viene incolpato l’educatore, a meno che il fanciullo, testardo, protervo e insolente, non abbia sprezzato le salutari ammonizioni dell’educatore. Ciò che avverrà di quell’anima, ce lo dice Isaia: “La figlia di Sion sarà abbandonata, come un capanno in una vigna” (Is 1,8). E la Glossa: Dio ha maggior sollecitudine della salvezza di un’anima, che il diavolo della sua danna­zione.

 

14. “Sia, dunque, ogni uomo pronto ad ascoltare”. Ogni uomo dovrebbe essere pronto per natura ad ascoltare: infatti l’orecchio è chiamato in lat. auris, quasi àvide rapiens, che afferra avidamente, o anche hauriens sonum, che raccoglie il suono.

E osserva che nella parte posteriore del capo non c’è carne, né il cervello; nella parte posteriore del capo c’è l’apparato dell’udito. E questo è giusto perché la parte posteriore del capo è vuota, piena d’aria, e lo strumento dell’udito è “aereo”, e quindi l’uomo sente subito, a meno che non vi sia frapposto un impedimento. Nel capo, vale a dire nella mente, nella quale non c’è la carne della propria volontà ma l’aria della devozione, passa velocemente la voce dell’obbedienza, e quindi è detto: “All’udirmi, subito mi obbedì” (Sal 17,45). E Samuele nel primo libro dei Re, dice: “Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Re 3,10). E affinché l’obbedienza penetri più velocemente è necessario che sia aerea, pura, sensibile alle cose celesti, niente ritenendo della terra. “Sia dunque ogni uomo pronto ad ascoltare”.

“E lento a parlare”. La natura stessa ha insegnato questo, quasi chiudendo la lingua a doppia porta, perché non uscisse liberamente. La natura infatti ha posto davanti alla lingua come due porte, cioè i denti e le labbra, per indicare che la parola non deve uscire se non con grande cautela. Queste due porte aveva chiuso con cautela colui che diceva: “Ho posto una custodia alla mia bocca e una porta che circondi le mie labbra” (Sal 140,3). Dice giustamente “una porta che circondi” (lat. ostium circumstantiae), perché si deve guardarsi non solo dalle parole illecite ma anche dalle occasioni di parlare illecitamente. Per esempio, ci sono certi che si vergognano di denigrare qualcuno apertamente, ma poi lo fanno sotto l’apparenza della lode e, quel che è peggio, fanno questo perfino in confessione.

E fa’ attenzione, perché non si deve chiudere solo la porta dei denti ma anche quella delle labbra. Chiude la porta dei denti e quella della labbra colui che si rifiuta sia alla calunnia che all’adulazione. Ma la lingua, “male ribelle”, come dice Giacomo, “piena di veleno mortale” (Gc 3,8), fuoco che incendia la foresta delle virtù, che incendia il corso della nostra vita (cf. Gc 3,5-6), sfonda la prima e la seconda porta, esce in piazza come una meretrice, loquace e raminga, insofferente della quiete, e porta ovunque lo scompiglio (cf. Pro 7,8-11).

Di essa dice infatti il beato Bernardo: “Chi potrà calcolare quante abiezioni commetta il piccolo membro della lingua, quale cumulo di sporcizia si ammassi su labbra incirconcise, quanto grande sia il danno arrecato da una bocca sfrenata. Nessuno sottovaluti il tempo che si perde in parole oziose. Appunto perché ora è il tempo favorevole e il giorno della salvezza, la parola se ne vola via irrevocabile, e il tempo passa irrimediabilmente; e lo stolto non sa quello che perde. Dicono alcuni: “Si potrà pure passare un’ora in conversazio­ne”. Quell’ora te l’ha concessa la generosità del creatore per ottenere il perdono, per cercare la grazia, per fare penitenza, per guadagnarti la gloria”. E continua: “Non esitare a definire la lingua del calun­niatore più crudele della lancia che ha trafitto il fianco del Signore. La lingua infatti trafigge il corpo di Cristo: ma non lo trafigge dopo morto, bensì lo uccide proprio trafiggendolo. E neppure furono più dannose le spine che punsero il suo capo, né i chiodi che perforarono le sue mani e i suoi piedi”, se confrontati con la lingua del calunniatore che trafigge il cuore stesso. Dice il Filosofo: “Non dire cose turpi: a poco a poco per mezzo delle parole si perde il pudore” (Seneca). “Mi sono pentito talvolta di aver parlato, mai di aver taciuto” (P. Siro). “Usa più spesso gli orecchi che la lingua” (Seneca). Sia dunque ogni uomo “lento a parlare”, e così potrà imitare la giustizia dei santi, perché, come afferma Giacomo, “colui che non pecca con la parola è un uomo perfetto” (Gc 3,2).

“E lento all’ira”, la quale impedisce all’animo di distinguere la verità. Dice in proposito il Filosofo: “Quanto meno dominerai l’ira, tanto più dall’ira sarai dominato” (Orazio). “L’ira­condo, quando smette di adirarsi, si adira contro se stesso” (P. Siro). “L’ira non è mai stata capace di riflessione” (P. Siro). Giustamente quindi è detto: “L’ira dell’uomo non opera la giustizia di Dio”. Sia perciò ogni uomo “lento all’ira”, per non essere colpito, nel giorno dell’ira, dall’irrevoca­bile sentenza di dannazione, insieme con il diavolo.

 

III. l’ispirazione dello spirito di verità

 

15. “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi inse­gnerà la verità tutta intera” (Gv 16,13). Quando una donna – cioè il piacere della carne e la vanità del mondo – si appresta ad accalappiare le anime, illude l’infelice spirito dell’uomo con il falso piacere e stravolge il senno. Per questo nel libro della Sapienza si legge: “Il fascino della vanità deturpa anche il bene e l’incostanza della concupiscenza perverte la mente” (Sap 4,12). Il fascino è l’adulazione, ossia l’inganno con la lode. Il fascino della vanità è la lode del­l’adu­lazione o l’in­ganno della prosperità mondana, la quale oscura i beni spiritua­li, e l’incostanza della concupiscenza carnale sconvolge l’animo. Ma quando verrà lo Spirito di verità che illumina il cuore dell’uomo, allora insegnerà tutta la verità ed espellerà ogni falsità.

È scritto nel vangelo di Giovanni che l’angelo del Signore scendeva nella piscina: l’acqua si agitava e uno veniva risanato (cf. Gv 5,4). Quando l’angelo del Signore, cioè la grazia dello Spirito Santo, discende nella piscina, vale a dire nel cuore del peccatore, allora la mente si agita con l’acqua della compunzione e “uno” viene risanato, cioè il vero penitente, che dev’essere “uno”, non aver cioè divisione tra bocca e cuore. “Quando dunque verrà lo Spirito di verità, vi insegnerà”, cioè infonderà in voi “tutta la verità”. E ricorda bene che come la generazione non può avvenire senza l’elemento attivo, così l’uomo non può fare opere veramente buone senza lo Spirito di verità.

 

16. La palma, che è femmina, non porta a maturazione frutti, se non riceve, per mezzo del vento che lo traspor­ta, il caldo effluvio di un’altra palma che sia maschio (Plinio). Dice l’Ecclesiastico: “Sono cresciuta come una palma in Cades” (Eccli 24,18).

Cades s’interpreta “trasportata” o “cambiata”. L’uomo non può fare progressi senza la grazia dello Spirito Santo, come la palma non fruttifica senza l’effluvio della palma maschile. Quindi l’uomo che è privo della grazia non è atto al servizio di Dio, ed è paragonabile a colui che è privo di testicoli, perché non ha la capacità di generare opere buone. Si legge in proposito nel Levitico: “Non offrirete al Signore nessun animale al quale siano stati ammaccati o schiacciati o strappati o tagliati i testicoli” (Lv 22,24). Ha i testicoli ammaccati colui che ha la grazia “informe”, e quindi non può generare. Sono invece stati tolti i testico­li a colui che non ha né la grazia “informe” né la grazia “formata”.

“Ma quando verrà lo Spirito di verità, vi insegnerà tutta la verità”. Concorda con questo la terza parte dell’epistola di oggi: “Per questo, rigettata ogni impurità e ogni manifestazione di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime” (Gc 1,21). “Per questo”, cioè per meritare di ricevere lo Spirito Santo, “rigettata ogni impurità” sia dell’anima che del corpo, “e ogni manifestazione di malizia”, che sono i pensieri di una mente depravata, “con docilità”, poiché i docili (i miti) erediteranno la terra (cf. Sal 36,11), “accogliete la parola seminata in voi”, parola che è data da Dio solo ai miti, ai docili, a coloro che hanno la mitezza delle colombe.

E osserva infine che, come un innesto praticato in una pianta vecchia, la fa ringiovanire e fruttificare, così lo Spirito di verità, quando viene infuso in una mente “invecchiata nel male” (Dn 13,52), la fa ringiovanire e la rende atta a produrre frutti degni di penitenza.

Ti preghiamo, dunque, o Signore Gesù, che sei salito da questo mondo al Padre nella forma della nostra umanità, di trascinarci dietro a te con la fune del tuo amore. Ti preghiamo di non accusarci di peccato, di aiutarci ad imitare la giustizia dei santi, di farci temere il tuo giudizio e di infonderci lo Spirito di verità che ci insegni la verità tutta intera. Accordaci tutto questo, tu che sei benedetto e glorioso per tutti i secoli. E ogni anima dica: Amen, alleluia!

 

 

DOMENICA V DOPO PASQUA

Temi del sermone

 

– Vangelo della quinta domenica dopo Pasqua: “In verità, in verità vi dico, qualunque cosa chiederete”; si divide in tre parti.

– Anzitutto sermone sull’unzione della grazia: “La sua unzione”, e “Sadoc e Natan unsero Salomone”.

– Parte I: Sermone sul Padre: “Padre nostro, che sei nei cieli”; il nato della cicogna.

– Sermone sull’amore di Dio: “Ti darò una terra dove scorre latte e miele”.

– Sermone contro coloro che chiedono cose temporali: “Finora non avete chiesto nulla”.

– Sermone sul gaudio dei giusti e su quello dei carnali: “Fiorirà il mandorlo”, e sugli ònagri.

– Sermone sulle tre particolarità dello specchio e sul significato di esse: “Se uno è solo ascoltatore della parola”.

– Parte II: Sermone per l’annunciazione, o per la natività o per la passione del Signore: “Mosè disse ad Aronne: Prendi il turibolo”.

– Parte III: Sermone sulla misericordia di Dio, il suo giudizio e la sua potenza: “Colui che comanda al sole, e il sole non nasce”.

– Sermone per esortare alla mortificazione del corpo: “Colui che creò arturo e orione”.

– Sermone per il giorno della Pentecoste: “Alzati, o aquilone”.

– Sermone sull’osservanza del silenzio e sulle varie istituzioni dei religiosi: “Se qualcuno pensa di essere religioso”.

 

esordio - sermone sull’unzione della grazia

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà” (Gv 16,23).

Dice Giovanni nella sua prima lettera: “La sua unzione vi istruisce su ogni cosa” (1Gv 2,27). Osserva che l’unzione è duplice: la prima è l’infusione della grazia, della quale dice il profeta: “Ti ha unto Dio, il tuo Dio, con olio di letizia, a preferenza dei tuoi eguali” (Sal 44,8). O Dio Figlio, il Dio Padre tuo ti ha unto, in quanto uomo, con l’olio di letizia, cioè con il dono della grazia settiforme, che ti ha reso immune da ogni peccato; “a preferenza dei tuoi eguali”, perché a te lo Spirito è stato infuso senza misura, mentre agli altri è stata infuso con certe limitazioni. Infatti leggiamo in Giovanni: “Dalla su apienezza noi tutti abbiamo ricevuto” (Gv 1,16). La seconda unzione è la predicazione della parola di Dio, della quale è detto nel terzo libro dei Re, che Zadoc e Natan unsero Salomone in Gichon (cf. 3Re 1,38-39). Zadoc s’interpreta “giustizia”, Natan “dono della grazia”, Salomone “pacifico”, Gichon “lotta”. La giustizia della vita onesta e il dono della grazia, vale a dire la predicazione della parola di Dio, ungono il peccatore, riconciliato con Dio in Gichon per mezzo della confessione, affinché, spoglio dei peccati e delle cose temporali, sia in grado di lottare contro il diavolo.

Quando la prima unzione unge interiormente l’anima, la seconda diventa molto efficace. Ma se la prima manca, la seconda non ha più alcuna efficacia. Perciò la Glossa commenta: La sua unzione ci istruisce su tutto. Nessuno attribuisca a chi insegna ciò che sente e comprende dalla bocca di lui, se non c’è all’interno uno che istruisce. La lingua del maestro si affatica invano all’esterno; non per questo il maestro deve tacere, anzi deve fare quanto sta in lui, perché la sua predicazione è utile a creare le buone disposizioni. Infatti l’unzione dell’ispirazione interiore, o della predicazione del Signore, ci istruisce su tutte le cose riguardanti la salvezza dell’anima, che sono: il disprezzo del mondo, l’umile sentire di sé, la ricerca della felicità celeste. E a questo proposito il Signore, nel vangelo di oggi, dice: “In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la concederà”.

 

2. In questo vangelo si devono considerare tre momenti. Primo, la richiesta della gioia perfetta, quando dice: “In verità, in verità vi dico”, ecc. Secondo, la supplica di Gesù Cristo al Padre per noi: “Io pregherò il Padre per voi”. Terzo, la conoscenza che ha Cristo stesso di tutte le cose: “Adesso conosciamo che sai tutto”.

Nell’introito della messa di questa domenica si canta: “Con voce di giubilo annunziate...” (Is 48,20), e si legge l’epistola del beato Giacomo: “Siate esecutori della Parola” (Gc 1,22). Divideremo il brano dell’epistola in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre parti del brano evangelico. Ecco le tre parti dell’epistola: primo: “Siate esecutori della Parola”; secondo, “chi invece fissa lo sguardo nella legge della perfetta libertà”; terzo, “se qualcuno pensa di essere religioso”, ecc.

 

I. chiedere la pienezza del gaudio

 

3. “In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualcosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (Gv 16,23-24). “In verità”, si dice in ebraico amen, ed è un’affer­mazione solenne, un giuramento. La Verità (Gesù Cristo) ci promette la gioia ripetendo due volte la parola del giura­mento, affinché crediamo senza alcun dubbio a ciò che dice.

“Se chiederete qualcosa al Padre nel mio nome”. Fa’ attenzione a queste tre parole: Padre, qualcosa, nel mio nome. Non può essere chiamato padre se non colui che ha un figlio, perché padre e figlio sono due nomi correlati­vi. Quando dice “padre”, pensa al “figlio”, del quale è padre. Il Padre è Dio, di cui noi siamo i figli e al quale ogni giorno diciamo: “Padre nostro, che sei nei cieli” (Mt 6,9). Anche Isaia dice: “Tu, Signore, sei il nostro Padre, il nostro redentore: da sempre questo è il tuo nome” (Is 63,16).

E Dio stesso ci dice con le parole di Geremia: “Ed ora grida verso di me: Padre mio, sei tu la guida della mia verginità” (Ger 3,4). La verginità dell’anima è la fede, che agisce per mezzo dell’amore (cf. Gal 5,6) e preserva l’anima dalla corruzione: è Dio Padre che, come un condottiero, guida l’anima alla fede. Noi, figli, dobbiamo dunque chiedere al nostro Padre qualcosa. Tutto ciò che esiste è nulla, eccetto amare Dio. Amare Dio è qualcosa; è questo qualcosa che dobbiamo chiedere, e cioè che noi, figli, amiamo il nostro Padre, come il figlio della cicogna ama il padre suo.

Si dice che il nato della cicogna ami così tanto il padre, che, quando invecchia, lo sostenta e lo nutre, e questo fa parte delle sue caratteristiche (del suo istin­to). Così in questo mondo che va ormai invecchiando, noi dobbiamo sostentare il nostro Padre nelle sue membra deboli e ammalate, nutrirlo nei poveri e nei bisognosi. Egli ha detto: Ciò che avete fatto ad uno solo di questi miei più piccoli, l’avete fatto a me (cf. Mt 25,40). Se chiederemo l’amore, il Padre stesso che è amore, ci darà ciò che egli è: appunto l’amore.

 

4. Dio stesso dice nell’Esodo: “Ti darò una terra dove scorre latte e miele” (Es 13,5). Fa’ attenzione a queste quattro parole: terra, scorre, latte e miele.

La terra, per la sua stabilità, simboleggia l’amore di Dio, che dà all’uomo la sicurezza di essere nella verità. Infatti Salomone dice: “Una generazione passa, una genera­zione viene: la terra invece resta in eterno” (Eccle 1,4). La generazione, cioè l’amore della carne, passa, e una generazione, cioè l’amore del mondo, viene; la terra invece, cioè l’amore di Dio, resta in eterno, perché, come dice l’Apostolo, “l’amore non avrà mai fine” (1Cor 13,8). Di questa terra è detto: “scorre”, a motivo della sua abbondanza. E anche nel salmo leggiamo: “L’esuberanza del fiume rallegra la città di Dio” (Sal 45,5), cioè l’anima, nella quale Dio ha la sua dimora.

Questa terra abbonda di latte e miele. Il latte nutre, il miele addolcisce: così l’amore di Dio nutre l’anima perché cresca di virtù in virtù e addolcisce il tormento di tutte le tribolazioni. “Per chi ama, nulla è difficile” (Cicerone). Quando la dolcezza dell’amore divino viene a mancare, l’amarezza della tribolazione, anche la più piccola, diventa intollerabile. Ma il legno rese dolci le acque di Mara (cf. Es 15,23.25); la farina del profeta Eliseo rese commestibili le amare colloquintidi (cocomeri selvatici) (cf. 4Re 4,39-41). Così l’amore di Dio cambia in dolcezza ogni amarezza. Dice infatti l’Ecclesiastico: “Il mio Spirito è dolce, e la mia eredità supera in dolcezza il miele e il favo di miele” (Eccli 24,27).

Lo Spirito del Signore è lo spirito di povertà, del quale dice Isaia: “Lo Spirito dei forti è come il turbine che si abbatte sulla parete” (Is 25,4). I forti sono i poveri, che non vacillano né nella prosperità né nelle avversità; il loro spirito (soffio), come il turbine, si abbatte sulla parete delle ricchezze, della quale ancora Isaia dice: “Lo scudo ha messo a nudo la parete” (Is 22,6). Lo scudo è detto in lat. clipeus, in quanto clepit, cioè cela, nasconde, protegge il corpo: simboleggia lo spirito di povertà che nasconde, ripara l’anima dai dardi dei demoni. Questo scudo spoglia la parete delle ricchezze.

L’eredità del Signore fu la passione della croce, che ha lasciato ai suoi figli. Infatti ha detto: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19), cioè in ricordo della mia passione. L’Apostolo, in quanto erede, possedeva questa eredità quando diceva: Porto nel mio corpo le stimmate di Cristo (cf. Gal 6,17). Quindi lo spirito di povertà e l’eredità della passione sono, per il cuore del vero amante di Cristo, più dolci del miele e di un favo di miele.

Giustamente perciò è detto: “Se domanderete qualcosa al Padre nel mio nome”. Il nome di Cristo è in ebraico “Messia”; Cristo è termine greco e significa “Unto”, cioè consa­crato; in greco è chiamato anche Sotèr, cioè Salvatore. Quindi nel nome del Salvatore domandiamo al Padre che, se non per noi, almeno per il Figlio suo, per mezzo del quale ha salvato il genere umano, ci conceda il privi­legio del suo amore; preghiamolo con le parole del Profeta: “O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo e fissa il volto del tuo Cristo” (Sal 83,10); come dicesse: Se non vuoi guardare a noi per amor nostro, guarda almeno il volto del tuo Cristo, per noi colpito dagli schiaffi, lordato dagli sputi, illividito nella morte. “Guarda al volto del tuo Cristo!”. E quale Padre non guarderebbe al volto del figlio morto? Quindi anche tu, o Padre, guarda a noi, perché il Cristo tuo Figlio è morto per noi, che siamo stati la causa della sua morte. Come egli ci ha comandato, noi ti chiediamo nel suo nome che tu dia a noi te stesso, perché senza di te non c’è esistenza. Dice infatti Agostino: “Signore, se tu vuoi che io mi allontani da te, dammi un altro te stesso: altrimenti io da te non mi allontano”.

 

5. Perciò dice giustamente: “In verità, in verità vi dico: Se domanderete qualcosa al Padre nel mio nome, ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome”.

Commenta la Glossa: Fiduciosi nella mia presenza, non avete mai chiesto qualcosa, che sia cioè qualcosa, anche paragonato a ciò che è eterno. In questo passo il Signore rim­provera coloro che chiedono cose temporali, che sono un nulla. Di costoro dice Osea: “La vostra misericordia è come nube del mattino, e come la rugiada al mattino svanisce” (Os 6,4). Come dicesse: Quando domandate a Dio misericor­dia, voi domandate cose temporali che sono come le nubi del mattino, le quali sono soltanto aria ispessita, come vanità ispessita. Così i beni temporali sono come un nulla; ma quel nulla, per sembrare qualcosa, è come avvolto in certe apparenze fantasmagoriche. Le nubi impediscono la vista del sole, e l’abbondanza delle cose temporali toglie la conoscenza di Dio. Giobbe infatti dice: “Il grasso copre la sua faccia” (Gb 15,27), perché la pinguedine della ricchezza acceca gli occhi della mente. Infatti leggiamo nel salmo: “Cadde su di loro il fuoco e non videro più il sole” (Sal 57,9). Il fuoco dell’amore delle cose terrene acceca gli occhi dell’uomo, come una padella bollente acceca gli occhi dell’orso. Quindi “la vostra misericordia, come nube del mattino e come rugiada che all’alba si dissolve”, viene meno quando il sole brucia, proprio quando più sarebbe necessaria; le erbe e i fiori restano esposti all’ardore del sole e così ne sono bruciati. Anche la felicità terrena dà qualche sollievo in questo mondo, ma purtroppo avvia gli uomini agli eterni supplizi.

Leggiamo in Naum: “Ninive, le sue acque sono come una pozzanghera” (Na 2,8). Ninive s’interpreta “splendida”, e simboleggia il mondo che si copre di falsa bellezza, come il fango coperto di neve; il suo conforto è paragonato a quello di una pozzanghera che abbonda di acqua d’inverno ma si secca d’estate. Il mondo infatti abbonda ora delle acque della ricchezza ma, quando arriva la vampa della morte, sarà svuotato delle ricchezze e consegnato agli eterni supplizi. Perciò finora non avete chiesto nulla, e se avete chiesto, non l’avete fatto nel mio nome, vale a dire per la salvezza dell’anima vostra.

L’ordine con il quale dobbiamo chiedere e supplicare ce lo indica l’Apostolo, scrivendo a Timoteo: “Ti raccomando dunque che prima di tutto si facciano suppliche, orazioni, domande e ringraziamenti” (1Tm 2,1). La supplica, tra le pratiche spirituali, è una fervorosa e insistente preghiera a Dio: in queste pratiche chi, prima della grazia soccorritrice, mette la sua cultura, non mette altro che dolore. L’orazione invece è il sentimento dell’uomo che si mette in rapporto con Dio, un pio e familiare collo­quio, la sosta della mente illuminata per fruirne, per quanto è possibile.

La domanda è la preoccupazione, l’ansia di ottenere alcune cose temporali, necessarie alla vita presente: in questo caso Dio, pur considerando la buona volontà di chi prega, fa tuttavia ciò che egli giudica più utile ed esaudisce volentieri colui che domanda rettamente. Di questa specie di preghiera, la domanda, dice il salmista: “La mia preghiera è volta alle cose che anch’essi amano” (Sal 140,5), cioè gli empi; infatti in generale è di tutti, e soprattutto dei figli di questo secolo, desiderare la tranquillità della pace, la salute del corpo, la clemen­za del tempo e le altre cose che riguardano le esigenze e i bisogni di questa vita, nonché i piaceri di chi ne abusa. Chi domanda con coscienza queste cose, non le chieda se non per necessità, e in questo modo sottomette sempre la propria volontà a quella di Dio. In queste domande si deve pregare con devozione e con coscienza: ma non bisogna ostinarsi in quelle richieste, perché solo il Padre che è nei cieli sa che cosa ci è necessario in questa vita, e non noi.

Infine il ringraziamento consiste nel comprendere e nel riconoscere la grazia di Dio e la sua volontà salvifica, nel continuo e instancabile orientamento a Dio, anche se qualche volta l’atto esteriore o l’affetto interiore non ci sono o sono alquanto tiepidi. Dice in proposito l’Apostolo: “C’è in me la volontà, ma non trovo la via per compiere il bene” (Rm 7,18); come dicesse: C’è sempre la volontà, ma talvolta dorme, cioè è inefficace; perché io cerco di compiere l’opera buona, ma non ne trovo il modo. Questa è la carità, che non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8); con la carità si realizza “la preghiera senza interruzione”, e il rendimento di grazie, di cui dice l’Apostolo: “Pregate senza cessare mai” (1Ts 5,17), “renden­do sempre grazie a Dio” (Ef 5,20).

Ben a ragione quindi dice: “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena”.

 

6. Osserva che c’è una gioia vuota, quella dei carnali, e una gioia piena, quella dei santi. Della gioia vuota dei carnali, dice Isaia: “La gioia degli ònagri (asini selvatici) sono i pascoli dei greggi” (Is 32,14). Ci sono due specie di ònagri: la prima ha le corna e si trova in Grecia; di essa dice Giobbe: “Chi ha lasciato libero l’ònagro e chi ha sciolto i suoi legami?” (Gb 39,5); la seconda specie si trova in Spagna, e di questa dice sempre Giobbe: “Il vanaglorioso si innalza nella sua superbia e si crede libero come il puledro dell’ònagro” (Gb 11,12).

Parimenti in questo mondo ci sono due specie di ònagri, cioè di superbi. Ci sono appunto alcuni che vanno tronfi delle “corna” della loro dignità; altri che vanno in superbia solo per la vanità della loro mente, e scuotono da sé il giogo dell’obbedienza. Quindi gioia degli ònagri sono i pascoli dei greggi, cioè dei poveri: ma coloro che ingoiano e depredano i beni dei poveri, saranno essi stessi preda del diavolo. Dice infatti Salomone: “La preda di caccia del leone, cioè del diavolo, è l’ònagro nel deserto” (Eccli 13,23); e Isaia: “Guai a te, che depredi! Non sarai forse anche tu depredato?” (Is 33,1).

Della gioia vuota dei carnali dice ancora Salomone: “Fiorirà il mandorlo, s’ingras­serà la locusta, sarà disper­so il cappero” (Eccle 12,5). Come il mandorlo fiorisce prima delle altre piante, così l’uomo carnale brama il fiore in questo mondo, ma nell’al­­tro resterà nudo di ogni fiore: del suo fiore caduco s’ingrasserà la locusta, cioè il diavolo; la grassezza del diavolo, se così si può dire, consiste nella gioia sfrenata della gloria temporale; e il cappero della concupiscenza carnale e della gloria mondana sarà disperso. Dice infatti Giacomo: “Il ricco passerà come il fiore d’erba. Si leva il sole con il suo ardore e fa seccare l’erba; il suo fiore cade, la bellezza del suo volto svanisce: il ricco appassirà nelle sue imprese” (Gc 1,10-11). La radice è la concupiscenza della carne; il fiore è il godimento delle cose temporali. Al sopraggiungere del sole, cioè all’arrivo dell’inesorabilità della morte e della severità del giudice, la radice si secca, il fiore cade, la bellezza del suo volto, cioè l’onore del mondo, gli amici e i vicini, svaniranno. Per questo la gioia del mondo è vuota.

Invece della gioia piena e vera della vita eterna, dice sempre Salomone: “Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero”. Osserva che la gioia dei santi consiste in tre cose: nella risurrezione del corpo, nella beatitudine dell’anima, nella liberazione dallo stimolo della carne e della tenta­zione diabolica. Il mandorlo, cioè il corpo, fiorirà di quattro prerogative: la luminosità, l’agilità, la sottigliezza e l’immorta­lità. E la locusta, cioè l’anima, si sazierà della visione di Dio, della beatitudine degli angeli, della compagnia dei santi. E allora sarà disperso il cappero, cioè lo stimolo della carne, la tentazione del demonio. Scrive infatti l’Apostolo ai Corinzi: “Quando questo corpo mortale sarà rivestito di immortalità, allora si avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato” (1Cor 15,54-56). Allora sarà disperso il cappero perché, come dice il Profeta, gli estranei non passeranno più per Gerusalemme (cf. Gl 3,17), vale a dire i demoni non tenteranno più il giusto, e la mala bestia, cioè la concupiscenza della carne, non passerà più per la sua anima (cf. Is 35,9).

 

7. Con questa duplice gioia, cioè quella vuota e quella piena, concorda la prima parte dell’epistola di oggi: “Siate esecutori della Parola e non solo uditori, ingannan­do voi stessi. Perché se uno è uditore della parola ma non esecutore, questi è paragonabile a un uomo che esamina il suo volto allo specchio: lo considera e poi se ne va, e subito dimentica come era” (Gc 1,22-24). Esecutori della parola di Dio sono coloro che domandano la gioia piena e la ricevono; solo ascoltatori sono quelli che si sforzano di conseguire la gioia vuota del mondo. A questo proposito dice il salmo: “È tempo di agire, Signo­re”, non solo di ascoltare o di parlare; “hanno violato la tua legge” (Sal 118,126) coloro che ascoltano e non agiscono. E Salomone: “Chi distrugge la siepe”, cioè la legge, “lo morderà il serpente” (Eccle 10,8), cioè il diavolo. Viola la legge colui che non vive secondo quanto dice o ascolta; di lui appunto è detto: “Se uno è solo uditore della parola e non esecutore”, ecc.

Osserva che lo specchio non è altro che un vetro sottilissimo, nel quale si devono considerare tre caratteristiche: lo scarso valore, la fragilità e la trasparenza. Il vetro è una materia di poco valore, perché è fabbricato con un po’ di sabbia, è di sostanza fragile e traspa­rente nella sua chiarezza; posto contro il sole, risplende come un altro sole. È detto specchio perché riflette lo splendore, oppure perché le donne, guardandolo, ammirano la bellezza (lat. species) del loro volto, o anche perché è trasparente come il vetro. E il vetro è così chiamato perché risplende con chiarezza allo sguardo (lat. vitrum, visum).

Lo specchio, o il vetro, simboleggia la sacra Scrittura, nel cui splendore sta il volto della nostra origine: da dove siamo nati, quali siamo nati, e a che scopo siamo nati. Da dove siamo nati, si riferisce alla meschinità della nostra origine fisica; quali (di che natura) siamo nati, riguarda la fragilità della nostra sostanza; a che scopo siamo nati, si riferisce alla dignità della gloria, nella quale, se saremo stati esecutori della Parola, per la vicinanza con il vero sole, come il sole risplenderemo.

Nello specchio della sacra dottrina si ritrovano queste tre carateristiche. Sul poco valore della materia, sta scritto nella Genesi: “Sei cenere e in cenere ritornerai” (Gn 3,19). Sulla fragilità della nostra sostanza dice il salmo: “I nostri anni saranno considerati come tela di ragno” (Sal 89,9). Che cos c’è di più fragile, di più inconsistente della tela di ragno? E che cos’è la vita dell’uomo corruttibile, che si consuma per una piccola lesione e per una anche minima febbriciattola? Della luminosità poi è detto nel vangelo: “I giusti splenderanno come il sole”, ecc. (Mt 13,43).

In questo specchio il misero uomo osserva il volto della sua nascita, come sia nato, quanto sia fragile, e che cosa sarà di lui, e da queste considerazioni si sente nascere talvolta la compunzione e la volontà di fare penitenza. Ma siccome è solo uditore della Parola, e non esecutore, è amante della gioia vana e vuota, subito dimentica com’era e come si è veduto. Il piacere della vanità scaccia il pensiero della propria salvezza; al contrario, il pensiero della vera gioia produce nell’anima l’amore alla propria salvezza. “Chiedete, dunque, e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena”.

Di questa gioia si ricorda la chiesa nell’introito della messa di oggi: Con voce di giubilo date l’annuncio fino agli estremi confini della terra (cf. Is 48,20). O predicatori, date l’annuncio di gioia: “Chiedete, affinché la vostra gioia sia piena”, non soltanto ai giusti che sono in seno alla chiesa, ma fatelo risuonare fino agli estremi confini della terra, e anche per coloro che sono fuori dei confini, cioè fuori dei comandamenti di Dio, i quali sono per noi come i confini del vivere, perché tutti sentano la voce dell’esultanza e possano conquistare la gioia piena, che non avrà mai fine.

A questa gioia ci conduca Gesù Cristo. Amen.

 

II. gesù cristo intercede per noi presso il padre

 

8. “Io pregherò il Padre per voi: il Padre stesso vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito dal Padre” (Gv 16,26-27). Cristo, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, mediatore tra Dio e gli uomini, prega per noi il Padre. Leggiamo nel Levitico: “Il sacerdote pregherà per loro, e il Signore sarà loro propizio” (Lv 4,20); e di nuovo: “Il sacerdote pregherà per lui e per il suo peccato, e il peccato gli sarà perdonato” (Lv 4,26). Concordano con questo le parole del libro dei Numeri: “Mosè disse ad Aronne: Prendi il turibolo, accendilo con il fuoco dell’altare, mettici sopra l’incenso e va’ subito dal popolo a pregare per loro: perché l’ira del Signore è divampata e il flagello è già incominciato. Aronne eseguì il comando: corse in mezzo alla moltitudine, già colpita dal flagello, offrì gli incensi; e stando tra i morti e i vivi pregò per il popolo, e il flagello cessò” (Nm 16,46-48).

“Disse Mosè ad Aronne”, cioè il Padre al Figlio: “Prendi il turibolo” dell’umanità, che fu fabbricato per opera di Bezaleel (cf. Es 31,2), che s’interpreta “divino adombramento”: adombramento dello Spirito Santo nel grembo della Vergine gloriosa, che dallo Spirito Santo fu appunto “adombrata” (cf. Lc 1,35), apportandole così il refrigerio ed estinguendo totalmente in lei il fomite del peccato. “Riempi” con il fuoco della divinità il turibolo dell’umanità, nella quale abitò corporalmente la pienezza della divinità (cf. Col 2,9). E giustamente dice “dall’altare”, perché sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo (cf. Gv 16,28). “E mettivi sopra l’incenso” della tua passione e così, quale mediatore, pregherai per il popolo, che l’incendio del diavolo sta atrocemente devastando. Ed egli, obbediente alla volontà di colui che comandava, preso il turibolo, corse “alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8). “E stando” sulla croce con le braccia aperte, “tra i morti e i vivi”, cioè tra i due ladroni, dei quali uno fu salvato e l’altro dannato – oppure anche tra i morti e i vivi, cioè tra quelli che erano rinchiusi nel carcere dell’inferno e quelli che vivevano nella miseria di questo esilio –, li liberò tutti dall’in­cen­dio della persecuzione diabolica offrendo se stesso in sacrificio di soave odore (cf. Ef 5,2).

Ben a ragione quindi dice di se stesso: “Io pregherò il Padre per voi”. E Giovanni nella sua lettera canonica scrive: “Abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto: egli è propiziazione”, cioè espiazione, “per i nostri peccati” (1Gv 2,1-2). Per questo ogni giorno lo offriamo al Padre nel sacramento dell’altare, perché sempre di nuovo espii per i nostri peccati. Facciamo infatti come fa la donna che ha un bambino piccolo: quando il marito arrabbiato vuole percuoterla, essa, tenendo il bambino tra le braccia, lo mette davanti all’uomo dicendo: Percuoti questo, colpisci questo! Il bambino, con le lacrime agli occhi, soffre insieme con la madre. Invece il padre, che si sente sconvolgere le viscere per le lacrime del figlio che ama immensamente, a motivo del figlio perdona alla moglie. Così anche noi, a Dio Padre adirato per i nostri peccati, offriamo il figlio suo Gesù Cristo nel sacramento dell’altare come patto della nostra riconciliazione; e Dio Padre, se non per riguardo a noi, almeno per riguardo al suo Figlio diletto, allontani da noi i giusti flagelli che abbiamo meritato e ci perdoni ricordando le sue lacrime, le sue sofferenze e la sua passione.

Il Figlio stesso infatti dice per bocca di Isaia: “Io ho fatto e io reggerò; io porterò e salverò” (Is 46,4). Fa’ attenzione ai quattro verbi: Io “ho fatto” l’uomo e io lo “reggerò” sulle mie spalle come una pecora smarrita e stanca; io lo “porterò” come la nutrice porta il bimbo tra le braccia. E che cosa può fare il Padre, se non risponde­re: “Io salverò”? Giustamente quindi Cristo dice: “Io pregherò il Padre per voi; il Padre stesso vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito dal Padre”. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola. Il Figlio stesso lo ha affermato: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Chi ama il Padre ama anche il Figlio, e il Padre e il Figlio amano lui. Nel vangelo di Giovanni infatti, il Figlio dice: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21).

 

9. In riferimento a questo amore, concordano anche le parole dell’epistola di oggi: “Chi invece fissa lo sguardo sulla legge della perfetta libertà e le resterà fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi sarà beato nel praticarla” (Gc 1,25). La legge della perfetta libertà è l’amore di Dio, che rende l’uomo perfetto in tutto e libero da ogni schiavitù. Perciò il salmo dice del giusto: “La legge del suo Dio è nel suo cuore” (Sal 36,31). Nel cuore del giusto infatti c’è la legge dell’amore di Dio, e quindi Dio dice: “Figlio, dammi il tuo cuore” (Pro 23,26).Come lo sparviero quando cattura degli uccelli ne cerca prima di tutto il cuore e lo mangia, così Dio nulla ricerca e nulla ama maggiormente nell’uomo come il suo cuore, nel quale c’è la legge dell’amore, e quindi “i suoi passi non vacilleranno” (Sal 36,31).

I passi del giusto sono le sue opere o anche gli affetti della mente, che mai vacilleranno, cioè mai sono colti nel laccio della suggestione diabolica, né scivolano nella piazza della vanità mondana. Del laccio parla Giobbe: “Il suo piede sarà preso al laccio e la sete infierirà contro di lui” (Gb 18,9). Il piede dell’iniquo è preso nel laccio della cattiva suggestione e così infierisce contro di lui la sete della cupidigia.

Dello scivolamento parla Geremia: “I nostri piedi scivolarono nel cammino verso le nostre piazze” (Lam 4,18). Piazza (lat. platea) viene dal greco plàtos, larghezza. I nostri piedi – detti in lat. vestigia, perché per mezzo di essi si invèstiga, cioè si scopre il percorso di chi è passato – stanno ad indicare le opere, in base alle quali uno viene conosciuto. Nella fangosa vastità del piacere mondano scivolano le opere dei peccatori, perché cadono di peccato in peccato e alla fine rovinano nell’inferno. Dice infatti il salmo: “Le loro vie divengano oscure e scivolo­se, e l’angelo del Signore”, cioè l’angelo cattivo (del Signore, perché anche lui è creatura di Dio), “li perseguiti” (Sal 34,6), finché li precipiti nell’abisso dell’inferno. Invece i passi del giusto non vacillano, perché nel suo cuore c’è la legge dell’amore, e chi ad essa è fedele “troverà la felicità nell’osservarla”. L’amore di Dio infonde la grazia nella vita presente e la beatitudine della gloria in quella futura. Ad essa ci conduca colui che è benedetto nei secoli. Amen.

 

III. il cristo che tutto sa e conosce

 

10. “Gli dicono i suoi discepoli: Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno ti interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio” (Gv 16,29-30). A ragione i discepoli hanno detto: “Ora conosciamo che sai tutto”. E su questo abbiamo la testimonianza dell’Apostolo: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. E non v’è creatura alcuna che possa nascondersi di fronte a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi” (Eb 4,12-13). La Parola, cioè il Figlio di Dio, per mezzo della quale abbiamo conosciuto la sua volontà, è viva, cioè conferisce la vita; è efficace, cioè capace di effetto, e può con facilità compiere ciò che vuole. La parola di Dio è effica­ce, perché il Figlio di Dio “operò tutto ciò che volle” (Sal 113 B,3). Opera ciò che vuole, dove vuole e quando vuole.

Dice infatti Giobbe: “Egli comanda al sole, e questo non sorge, e alle stelle pone il suo sigillo. Egli da solo stende i cieli e cammina sulle onde del mare. Crea le costellazioni di Arturo (l’Orsa Maggiore) e di Orione, le Pleiadi e i penetrali dell’Austro. Egli fa cose grandiose e inconcepi­bili e meraviglie senza numero” (Gb 9,7-10). Colui che fa tali cose, conosce e sa veramente tutto. Il Figlio di Dio può fare veramente tutto: egli è vita e potenza.

“Comanda al sole, e questo non sorge”. Nel sole è raffi­gurata l’illuminazione della grazia, che sorge quando viene infusa nella mente, e non sorge quando non viene concessa. Dice perciò il Signore: “Avrò misericordia di chi vorrò, e sarò clemente verso chi mi piace” (Es 33,19). E ancora: “Io indurirò il cuore del faraone” (Es 4,21). Si dice che il Signore indurisce il cuore quando toglie la sua grazia, oppure non la concede. Dice infatti per bocca di Osea: “Non visiterò le vostre figlie quando si prostituiranno” (Os 4,14). All’anima peccatrice non può accadere nulla di peggio, come quando il Signore abbandona il peccatore alla depravazione del suo cuore e non lo corregge con il flagello del paterno castigo.

“Alle stelle pone il suo sigillo”. Il sigillo è un segno che s’imprime su qualche cosa, perché resti nascosta finché il sigillo non verrà rimosso. Le stelle raffigurano i santi, che Cristo mette sotto il sigillo della sua provvidenza, affinché non compaiano in pubblico quando vogliono, ma siano sempre pronti per il tempo stabilito da Dio e quando udranno con l’orecchio del cuore la voce di colui che comanda, escano dal segreto della contemplazione per operare a seconda delle necessità.

“Egli da solo stende i cieli”. I cieli raffigurano i predicatori santi, che piovono con le parole, lampeggiano con gli esempi della vita santa, tuonano con le minacce della pena eterna. Questi cieli stende il Signore, perché diffondano la luce e ne ricoprano i peccatori e li inducano a liberarsi dal vischio delle cose temporali.

“E cammina sui flutti del mare”. I flutti del mare raffigurano i superbi di questo mondo, sopra i quali il Signore cammina quando nel loro cuore imprime le orme della sua umiltà. Dice infatti nell’Ecclesiastico: “Il giro del cielo da sola ho percorso, sono penetrata nella profondità dell’abisso, ho camminato sui flutti del mare, ho sostato su tutta la terra; su ogni popolo e su ogni gente ho posto il mio dominio, e di tutti i grandi ho soggiogato il cuore con la mia potenza” (Eccli 24,8-11). “Il giro del cielo”, cioè il cuore del giusto io circondo, difendo e proteggo; penetrai “nelle profondità dell’abisso”, cioè nel cuore dei cattivi, per convertirli alla penitenza; camminai “sui flutti del mare”, cioè su coloro che sono oppressi dalle tentazioni; e mi fermai “su tutta la terra”: Dio si ferma sull’umile, su coloro che fanno frutti di opere buone e sono costanti, mentre il diavolo si ferma sulla sabbia; “su ogni popolo e su ogni gente” ho posto il mio dominio: di tutti questi è formata e composta la chiesa.

 

11. “Egli fa Arturo e Orione, le Pleiadi e i segreti dell’Austro”. Fa’ attenzione a queste quattro parole. Arturo (l’Orsa Maggiore) è chiamato dai latini settentrione, perché è composto di sette stelle; è chiamato anche “carro” perché le stelle sono disposte a forma di carro. Infatti cinque formano il carro, e due, che sembra­no quasi nello stesso punto, fanno da buoi. Le cinque stelle raffigurano i cinque sensi del corpo; le due stelle, che a guisa di buoi devono tirare, sono la speranza e il timore. E qui hai la concordanza con quanto è scritto nel primo libro dei Re, dove si narra che i filistei presero due mucche, le attaccarono al carro e posero l’arca sopra il carro che era nuovo (cf. 1Re 6,10-11). Il carro è detto in lat. plaustrum, che suona quasi come pilastro, attorno al quale si gira, ed è figura del nostro corpo che deve rivolgersi alle opere di misericordia; nuovo, per aver riparato ai peccati con la penitenza, perché deve portare l’arca dell’obbe­dienza. E questo carro devono tirarlo due mucche, cioè la speranza e il timore, fino a Betsames, che s’interpreta “casa del sole”, cioè alla dimora della vita eterna, nella quale abita il Sole di giustizia.

“Orione” è chiamata la stella della spada. Per questo i latini la chiamano iugula, cioè spada per scannare: infatti è armata come un gladiatore (gladius, spada) e per la sua luce è la più impressionante e luminosa delle stelle. Le stelle di Orione compaiono proprio nel rigore del tempo invernale e la loro comparsa porta piogge e tempeste. Le stelle di Orione raffigurano la contrizione del cuore e la confessione della bocca: quando queste compaiono producono la pioggia delle lacrime e le tempeste della disciplina, del digiuno e dell’astinenza.

“Le Pleiadi” sono cinque stelle, disposte come la lettera greca Y (ìpsilon). Le Pleiadi raffigurano quelle cinque parole che Paolo, scrivendo ai Corinzi, voleva dire nella chiesa (cf. 1Cor 14,19), nel senso da lui inteso. Esse sono: orazione, lode, consiglio, esortazione e confessione.

“I penetrali dell’Austro”. L’Austro è un vento caldo e simboleggia lo Spirito Santo, del quale la sposa del Cantico dei Cantici dice: “Lèvati, Aquilone, e tu, o Austro, vieni e soffia nel mio giardino, per far stillare i suoi aromi” (Ct 4,16). “L’Aquilone”, così chiamato quasi perché “lega le acque” (aquas ligans), è simbolo del diavolo, che con il gelo della malizia fa rapprendere le acque della compunzione nel cuore del peccatore. All’Aquilone è detto “lèvati”, cioè allontànati; “e vieni tu, o Austro”, cioè Spirito Santo, “e soffia nel mio giardino”, cioè nella mia coscienza, “per far stillare i suoi aromi”, cioè le lacrime, che al cospetto del Signore sono più olezzanti più di tutti gli aromi. “I penetrali dell’Austro” simboleggiano il segreto della contemplazione, il gaudio della mente, la soavità della dolcezza interiore, che sono come gli intimi segreti dell’Austro, cioè dello Spirito Santo, con i quali esso dimora e dimorando spira con la brezza soave del suo amore.

 

12. “Egli fa cose grandiose e inconcepibili e meraviglie senza numero”. Fece cose grandi nella creazione, inconcepi­bili nella ri-creazione; farà per noi cose meravigliose nell’eterna beatitudine. O anche: “fece cose grandi” nella sua incarnazione, e perciò la beata Vergine Maria dice: “Ha fatto in me grandi cose colui che è potente, e santo è il suo nome” (Lc 1,49); “inconcepibili” nella sua nascita, nella quale la Vergine partorì lo stesso Figlio di Dio; “meravigliose” nell’operare miracoli. Sia benedetto, perché sa e conosce tutto colui che per noi ha operato tali meraviglie. Di lui l’Apostolo dice: “La parola di Dio è viva ed efficace”.

“Ed è più penetrante di ogni spada a doppio taglio”. Cristo infatti colpisce l’anima con la contrizione, il corpo con la sofferenza, “penetrando fino alla divisione dell’ani­ma”, cioè dell’animalità (della natura), “e dello spirito”, cioè della ragione. E considera che l’anima è un’entità incorporea, capace di ragione, ordinata a vivificare il corpo. L’anima rende gli uomini “animali” (naturali), che sono i sapienti secondo la carne (cf. Rm 8,5), soggetti ai sensi del corpo. Essa, se incomincia ad essere perfettamente ragionevole, respinge subito da sé le caratteristiche di genere femminile, e diventa “animo” partecipe della ragione, ordinato a governare il corpo. Infatti, fino a che è “anima”, presto infiacchisce in ciò che è carnale; invece l’“animo”, ossia lo spirito, considera solo ciò che è virile e spirituale: e così avviene la divisione dell’anima e dello spirito.

“Delle giunture e delle midolla”. Le giunture sono le articolazioni; il midollo è la sostanza che impregna (riempie) le ossa. Nelle giunture sono simboleggiate le misteriose concatenazioni dei pensieri, nel midollo la compunzione delle lacrime che impregnano le ossa delle virtù. Cristo, in virtù della sua divinità, penetra fino alla divisione delle giunture e delle midolla, perché conosce con esattezza l’inizio, lo svolgimento e la conclusione dei pensieri, a che cosa tendano, in che modo si concatenino uno con l’altro, in quale maniera e per quali processi sorga nel cuore la compunzione.

Dice infatti Salomone: “Come ignori quale sia la via dello spirito e in che modo si formino le ossa nel grembo della donna gravida, così ignori l’opera di Dio, autore di tutte le cose” (Eccle 11,5). Solo Dio sa qual è la via dello spirito, cioè della contrizione, e in che maniera si formino le ossa nel grembo della donna gravida, vale a dire le virtù nella mente del penitente. Aggiunge infatti l’Apostolo: “Egli scruta i pensieri e le intenzioni del cuore; non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, perché, come dice anche l’Ecclesiastico, gli occhi del Signore sono in ogni luogo (cf. Eccli 23,28); tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi; davanti a lui, come dice Giobbe, è aperto anche l’inferno e non ha copertura l’abisso (cf. Gb 26,6). Quindi proprio con profonda convinzione i discepoli dissero: “Ora conosciamo che tu sai tutto e non c’è bisogno che qualcuno ti interroghi: per questo crediamo che sei uscito da Dio”.

Il Figlio è uscito da Dio perché tu uscissi dal mondo; è venuto da te perché tu andassi da lui. Che cosa significa uscire dal mondo e andare a Cristo, se non soggiogare i vizi e legare l’anima a Dio con i legami dell’amore?

 

13. Da tutto ciò risulta la concordanza con la terza parte dell’epistola che si legge nella messa di oggi: “Se uno crede di essere religioso ma non frena la lingua, ingannando così il suo cuore, la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia davanti a Dio, nostro Padre, è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro necessità e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,26-27). La religione è chiamata così perché per mezzo di essa leghiamo la nostra anima all’unico Dio per tributargli il culto divino. “Religione è quella che presta culto e venera­zione di natura superiore, che chiamano divina” (Agostino). Ascolti il religioso, gonfio di presunzione, sfrenato di lingua, bandito dal regno di Dio: “Se uno crede di essere religioso”, ecc. La lingua è chiamata così da “legare”, e chi non la tiene legata con il silenzio, dà prova di essere senza religione. L’inizio della religione è il tenere a freno la lingua (cf. Gc 1,26).

Dice infatti Salomone: “Chi porrà una guardia alla mia bocca e chi metterà un sigillo sicuro sulle mie labbra, affinché io non cada per loro colpa e la mia lingua non mi porti alla rovina?” (Eccli 22,33), vale a dire: affinché io non dica il bene in modo errato, e sappia quindi sia tacere che parlare al tempo giusto. Di proposito dice “sigillo”: ciò che si mette sotto sigillo, viene rinchiuso perché non sia aperto ai nemici, ma solo agli amici.

Ascoltino i religiosi del nostro tempo, che caricano l’edificio della loro religione con grande varietà di prescrizioni, con svariati elenchi di precetti: essi, come i farisei, si gloriano dell’apparenza di purezza esteriore. Al primo uomo, elevato a sì alto grado di dignità, Dio ha dato un solo e breve comando: “Non mangerai dell’albero della scienza del bene e del male” (Gn 2,17), e l’uomo non osservò neppure quell’unico comando. Invece agli uomini del nostro tempo, ridotti alla miseria di sì grande infelicità e posti ai margini del mondo, anzi, per parlar chiaro, tra i rifiuti del mondo, vengono imposti molti e nuovi comandamenti, vengono fatte lunghe prescrizioni. E tu credi che le osserveranno? Al contrario, in questo modo si creano solo trasgressori.

Ascoltino costoro che cosa dice il Signore nell’Apocalisse: “Non imporrò su di voi altri pesi; ma quello che avete, tenetelo” (Ap 2,24-25), cioè il vangelo. E dice la Glossa: Ascoltino costoro, che cos’è la vera religione: Religione pura e senza macchia davanti a Dio, nostro Padre, è questa: soccorrere gli orfani e le vedove (cf. Gc 1,25), ecc. Osserva che la vera religione consiste in due cose: nella misericordia e nell’innocenza. Infatti, ordinando di soccorrere gli orfani e le vedove, suggerisce tutto ciò che dobbiamo fare per il prossimo; e comandando di preservarci senza macchia in questo mondo, ci mostra tutto ciò in cui noi dobbiamo essere casti (astinenti).

Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il nostro Signore Gesù Cristo di infonderci la sua grazia, con la quale possiamo tendere e arrivare alla pienezza della vera gioia; di pregare per noi il Padre affinché ci conceda la vera religio­ne e possiamo così giungere al regno della vita eterna.

Ce lo conceda lui stesso, che è degno di lode, che è principio e fine, che è mirabile e ineffabile nei secoli eterni. E ogni religione pura e senza macchia dica: Amen, alleluia.

 

 

DOMENICA VI DOPO PASQUA

Temi del sermone

 

– Vangelo della VI domenica dopo Pasqua: “Quando verrà il Paràclito”; vangelo che si divide in due parti.

– Anzitutto sermone sulla risurrezione dell’anima e del corpo: “I morti vivranno”.

– Parte I: Sermone sulla santa Trinità: “Quando verrà il Paràclito”.

– Sermone contro coloro che sono nella stretta del diavo­lo, che vivono in peccato mortale: “Il faraone mise a capo dei figli d’Israele dei sovrintendenti”; natura della rana e del ragno.

– Sermone contro coloro che vivono nei piaceri: “Seppelli­rono Asa”.

– Sermone contro la vanità del mondo che inganna anche l’uomo spirituale: “Il vecchio profeta ingannò l’uomo di Dio”.

– Sermone a consolazione di chi si trova nella tentazione: “Quando attraverserai le acque, io sarò con te”.

– Sermone sull’infusione della grazia e sulla compunzione della mente: “Figlie di Sion, esultate e rallegratevi”.

– Sermone sul giusto che rinuncia al mondo: “Giacobbe attraversò il guado di Iabbok”.

– Sermone sulla preghiera: “Ascolta, Signore, la mia voce”.

– Parte II: Sermone sulla pazienza: “Vi ho detto queste cose perché non vi scandalizziate”.

– Sermone contro molti predicatori; sulla natura della mucca selvatica che colpisce il cacciatore con lo sterco: “Sai che i farisei nel sentire questa parola si sono scandalizzati?”

– Sermone sull’ospitalità: “Siate ospitali a vicenda”.

 

esordio - la risurrezione dell’anima e del corpo

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre”, ecc. (Gv 15,26).

Dice il Signore per bocca di Isaia: “Vivranno i morti, i miei uccisi risorgeranno. Risvegliatevi e cantate lodi, voi che giacete nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada di luce” (Is 26,19). La rugiada è chiamata in lat. ros perché è rara, cioè rarefatta e leggera, e non densa e fitta come la pioggia. Si dice poi che la rugiada bagni più intensamente i campi quando la notte è più serena e la luna più limpida, e che la rugiada, nel breve corso della notte, restituisca alla terra tutta l’umidità che il calore del sole le ha sottratto lungo tutto il corso del giorno.

La rugiada simboleggia il Paràclito, lo Spirito di verità che, scendendo con delicatezza nella mente del peccatore, raffredda l’ardore del sole, vale a dire la concupiscenza della carne. Dice infatti l’Ecclesiastico: “La rugiada che scende su chi viene dal caldo, lo rinfresca (lat. humilem facit, lo rende umile)” (Eccli 43,24). Sul peccatore, che viene dall’ardore dei vizi, scende la grazia dello Spirito Santo e ne raffredda l’ardore, e mentre gli fa conoscere in quanti e quanto grandi vizi sia impantanata la sua anima, lo rende umile fino al pianto, perché si dolga di ciò che ha commesso. Dice infatti Geremia: “Dopo che tu mi hai illuminato, io ho percosso il mio femore” (Ger 31,19). Dopo che la grazia dello Spirito Santo ha mostrato al peccatore il cumulo della sua iniquità, egli percuote con i flagelli della penitenza il suo femore, vale a dire il suo corpo.

E osserva che giustamente lo Spirito Santo è detto “rugiada di luce”: rugiada perché rinfresca, di luce perché illumina. Perciò quando arriva la rugiada di luce i morti per i peccati vivranno la vita della grazia, e gli uccisi dalla spada della colpa risorgeranno nella prima risurrezione, che è la penitenza. “Svegliatevi”, dunque, voi che siete immersi nel sonno del peccato, “e lodate Dio” confessando il vostro crimine, “voi che abitate nella polvere” della vanità terrena, “perché rugiada di luce” è lo Spirito Santo, padre dei penitenti e consolatore di coloro che gemono: di essi il Figlio di Dio nel vangelo di oggi dice: “Quando verrà il Paràclito”, ecc.

 

2. In questo brano evangelico sono posti in evidenza due fatti. Primo, l’invio dello Spirito, dove dice: “Quando verrà il Paràclito”; secondo, la persecuzione contro i discepoli di Cristo, dove si legge: “Vi ho detto queste cose affinché non vi scandalizziate”.

In questa domenica poi si canta l’introito: “Ascolta, Signore, la mia voce, con la quale a te ho gridato” (Sal 26,7); inoltre si legge l’epistola del beato Pietro: “Siate prudenti e vigilanti”, che noi divideremo in due parti mettendone in evidenza la concordanza con le due parti del vangelo su indicate. La prima parte: “Siate prudenti e vigilanti”; la seconda, “Siate ospitali a vicenda, senza mormorazione”.

 

I. l’invio del paraclito

 

3. “Quando verrà il Paràclito”. Si dive notare anzitutto che in questo brano evangelico viene proclamata espressa­mente la fede nella santa Trinità. Dal Padre e dal Figlio viene mandato lo Spirito Santo: queste Tre divine Persone sono una sola sostanza e perfette nell’uguaglianza. Unità nell’essenza e pluralità nelle Persone. Il Signore rivela chiaramente l’Unità della divina sostanza e la Trinità delle Persone, quando dice: Andate e battezzate tutte le genti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cf. Mt 28,19). Dice appunto: “nel nome”, e non “nei nomi”, per indicare l’unità della sostanza. E con i tre nomi che aggiunge, indica che sono “Tre Persone”.

Nella Trinità è il principio ultimo di tutte le cose, la bellezza perfettissima e la suprema beatitudine. Per “principio ultimo”, come dimostra Agostino nella sua opera La vera religione, s’intende Dio Padre, dal quale sono tutte le cose, dal quale sono il Figlio e lo Spirito Santo. Per “bellezza perfettissima” si intende il Figlio, cioè la verità del Padre, per nulla diverso da lui; bellezza che con lo stesso Padre e nello stesso Padre adoriamo, che è forma di tutte le cose, da un solo Dio create e ad un solo Dio ordinate. Per “suprema beatitudine” e “somma bontà” s’intende lo Spirito Santo, che è dono del Padre e del Figlio; dono che noi dobbiamo adorare e credere immutabile insieme con il Padre e il Figlio.

In riferimento alle cose create, intendiamo la Trinità in una sola sostanza, vale a dire un solo Dio Padre dal quale proveniamo, un unico Figlio per mezzo del quale esistiamo, e un solo Spirito Santo nel quale viviamo; vale a dire: il principio al quale ci riferiamo, la forma, il modello al quale tendiamo e la grazia con la quale veniamo riconciliati. E affinché la nostra mente si innalzi alla contemplazione del Creatore, e creda senza ombra di dubbio all’Unità nella Trinità e alla Trinità nell’Unità, consideriamo quale impronta della Trinità ci sia nella mente stessa.

Dice Agostino nell’opera La Trinità: “Benché la mente umana non sia della stessa natura di Dio, dobbiamo tuttavia cercare e trovare la sua immagine – della quale nulla di meglio esiste – in ciò che di meglio c’è nella nostra natura, vale a dire nella mente. La mente si ricorda di se stessa, comprende se stessa e ama se stessa. Se riconosciamo questo, riconosciamo la trinità: non certo Dio, ma l’immagine di Dio. Qui infatti compare una certa trinità: della memoria, dell’intelligenza e dell’amore o della volontà. Queste tre facoltà non sono tre vite, ma una sola vita; né tre menti, ma una sola mente; non tre sostanze, ma una sola sostanza. Memoria vuol dire relazione a qualche cosa; intelligenza e volontà, o amore, indicano pure relazione a qualche cosa; la vita invece è in se stessa e mente e sostanza. Quindi queste tre facoltà sono una sola cosa, in quanto sono una sola vita, una sola mente e una sola sostanza.

Queste tre facoltà, pur essendo distinte tra loro, sono dette una cosa sola, perché esistono sostanzialmente nello spirito. E la mente stessa è quasi la genitrice, e la sua cognizione è quasi la sua prole. La mente infatti, quando riconosce se stessa, genera la conoscenza di sé ed è essa sola la genitrice della sua conoscenza. Terzo viene l’amore, che procede dalla mente stessa e dalla sua cono­scenza, quando la mente, conoscendo se stessa, si ama: non potrebbe infatti amare se stessa se non conoscesse se stessa. E ama anche la prole in cui si compiace, cioè la conoscenza di sé: e così l’amore è una specie di legame tra genitrice e prole. Ecco quindi che in queste tre parole – memoria, intelligenza e amore – compare una certa impronta della Trinità.

 

4. “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità”, ecc. Fa’ attenzione a queste tre parole: Paràclito, Spirito e ‘di verità’. Nella miseria di questo mondo ci sono tre mali: l’angustia (oppressione) che tormenta, il peccato che dà la morte e la vanità che inganna.

Dell’oppressione che tormenta è detto nell’Esodo che “il faraone impose ai figli d’Israele dei sovrintendenti ai lavori per opprimerli con i loro gravami, e così costruiro­no per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses” (Es 1,11). Così il diavolo, a coloro che sono cristiani solo a parole, impone dei sovrintendenti ai lavori, cioè altri demoni incaricati a fomentare ogni vizio, perché li tormentino con il peso dei peccati. E quindi essi gemono e si lamentano: “Eravamo minacciati e afferrati per il collo; eravamo sfiniti, ma non ci si concedeva riposo. All’Egitto abbiamo teso la mano e agli Assiri, per essere saziati di pane” (Lam 5,5-6). I Babilonesi, cioè i demoni, impongono gravi pesi sul collo dell’uomo che conducono in schiavitù, e con minacce lo trascinano con una fune legata al collo, come un asino o un bue; e anche se è sfinito non gli danno tregua, poiché lo fanno precipitare di peccato in peccato.

Ahimè, quanto grande follia è lo stancarsi nel cammino e non volersi fermare! Abbiamo teso la mano all’Egitto e agli Assiri, cioè ci siamo fatti servi del mondo e dei demoni, per essere saziati di pane, cioè dei piaceri della carne. Questi cristiani costruiscono le città-deposito per il faraone, cioè per il diavolo: Pitom e Ramses. Pitom s’in­terpreta “bocca dell’abisso”, e Ramses “danno dalla tigno­la”.

Pitom simboleggia la lussuria, che è la bocca dell’abis­so che mai dice basta, giacché è priva della luce della grazia e non c’è misura che la plachi. “Il piacere, dice Girolamo, ha sempre fame di se stesso”.

Di questo abisso dice il salmo: “L’abisso chiama l’abis­so” (Sal 41,8), cioè la lussuria chiama lussuria, come la rana chiama la rana. La rana ha un suo richiamo particolare, che suona coax, e lo fa solo nell’acqua. È soprattutto il maschio che al tempo degli accoppiamenti chiama la femmina con questo richiamo ben noto. E la rana aumenta la sua voce quando tiene la mandibola inferiore sul livello dell’acqua e spalanca quella superiore. E a motivo della dilatazione delle due mandibole, i suoi occhi luccicano come candele. Analogo è pure il comportamento dei ragni quando vogliono accoppiarsi. La femmina attira il maschio per mezzo dei fili della tela e il maschio fa altrettanto con la femmina. E la trazione reciproca non cessa, finché non arrivano all’accoppiamento. I lussuriosi sono come le rane che, nell’acqua del piacere carnale, si incitano vicendevolmente alla lussuria con segni e richiami: i loro occhi sono pieni di adulterio, accesi di libidine e, come i ragni, si attraggono con certi fili di parole e di promesse; si attraggono e infine si congiungono nell’abisso della loro perdizione.

Ramses simboleggia l’avarizia, che corrode la mente come la tignola corrode le vesti. La tignola è chiamata in lat. tinea, perché tiene, e penetra a tal punto da corrodere. Parimenti l’avarizia corrode la mente dell’avaro perché moltiplichi i suoi beni: ma l’in­fe­lice, più moltiplica e più ha fame. Infatti dice il beato Bernardo: “Non diversamente il cuore dell’uomo si sazia con l’oro, di quanto non si sazi il suo corpo con l’aria”. E il Filosofo: “Che cosa puoi augurare di male all’avaro se non che viva a lungo?” E ancora: “Nulla di buono può fare l’avaro, se non morire” (P. Siro). Queste sono le città del diavolo, la lussuria e l’avarizia. E quale oppressione è più dolorosa di essere imprigio­nati nell’abisso e invasi dalla tignola?

 

5. Sul peccato che dà la morte si legge nella Genesi che “Rachele morì e fu sepolta sulla strada che porta ad Efrata” (Gn 35,19). Efrata s’interpreta “fertile”, e simboleggia l’abbondan­za delle cose temporali, dalle quali l’infelice anima è soffocata e, dopo sepolta, è schiacciata dalla massa delle abitudini cattive. Infatti “il ricco rivestito di porpora, poiché quaggiù visse sepolto nei piaceri, nell’aldilà fu sepolto nei tormenti dell’in­ferno (cf. Lc 16,19-22).

Leggiamo nel secondo libro dei Paralipomeni che “posero Asa sul suo letto, pieno di aromi e di unguenti da meretri­ce, preparati da un esperto di profumeria, e li bruciarono su di lui in grandissima quantità (cf. 2Par 16,14). Asa s’interpreta “che s’innalza”, e raffigura il ricco di questo mondo nella sua superbia, del quale dice il Profeta: “Ho visto l’empio trionfante, ergersi come il cedro del Libano” (Sal 36,35). Il suo letto è il corpo, nel quale giace dissoluto, (privo di forze) come un paralitico; letto che è pieno di aromi e di unguenti da meretrice, cioè di onori, di ricchezze e di piaceri, preparati da esperti profumieri, cioè dai demoni. Ma poi nell’aldilà l’infelice anima sarà bruciata, insieme con lo sventurato suo corpo, nel fuoco inestinguibile della geenna, in una fiamma smisurata. “Ogni uomo serve dapprima il vino buono, e poi quello meno buono” (Gv 2,10). Poiché hai bevuto dal calice d’oro di Babilonia, berrai poi fino alla feccia dal pozzo della dannazione eterna.

 

6. Sulla vanità ingannatrice parla il terzo libro dei Re, dove si legge che un vecchio profeta ingannò un uomo di Dio e lo costrinse ad andare con lui nella sua casa: e l’uomo di Dio nella casa di lui mangiò il pane e bevve l’acqua. E dopo aver mangiato e bevuto, sellò il suo asino. Partito di lì, l’uomo di Dio lungo la strada fu assalito da un leone, che lo uccise; il suo cadavere era steso a terra e l’asino stava fermo accanto ad esso: il leone stava vicino al cadavere dell’uomo di Dio. E il leone non fece nulla all’asino e non si cibò neppure del cadavere (cf. 3Re 13,11-30).

Il vecchio profeta raffigura la vanità del mondo, che promette sempre cose false. Dice infatti Geremia: “I tuoi profeti fanno per te profezie false e stolte” (Lam 2,14). I nostri profeti sono la vanità del mondo e i piaceri della carne, i quali, se vedono che noi disprezziamo il mondo e mortifichiamo la carne, subito ci predicono miseria e malattie. Dicono: Se tu dài via le tue cose, di che cosa vivrai? Se tu fai del male al tuo corpo, ti ammalerai. Ahimè, quanta gente hanno ingannato questi profeti! Questi sono profeti che parlano in nome proprio e non in nome di Dio.

Giustamente quindi è detto che il vecchio profeta ingannò l’uomo di Dio. E giustamente la vanità del mondo è detta “vecchio profeta”: infatti ha continuato ad ingannare dall’inizio del mondo fino alla feccia di questo nostro tempo, e ancora continuerà. “E nella sua casa” l’uomo di Dio “mangiò il pane e bevve l’acqua”. Il pane simboleggia la grandezza della gloria del mondo, della quale Salomone dice: “È gradito all’uomo il pane della menzogna, ma poi la sua bocca sarà piena di sassi” (Pro 20,17). Il pane della menzogna è la gloria del mondo che si illude di essere qualcosa, mentre non è nulla. Dice Agostino: “Tutto ciò che ha una fine è da ritenersi come passato”. Questa gloria, essendo piacevole per l’uomo, riempie la sua bocca di sassi, di pietra infuocata, cioè della pena eterna, che non può essere inghiottita né vomitata. “E bevve l’acqua”. L’acqua raffigura la lussuria o l’avarizia: chi la beve avrà ancora sete (cf. Gv 4,13). Chi mangerà questo pane e berrà quest’acqua sarà ucciso dal leone, vale a dire dal diavolo.

E osserva che il leone non fece alcun male all’asino, e non mangiò il cadavere, perché il diavolo non si cura del denaro o del corpo, ma fa di tutto solo per uccidere l’ani­ma. Disse infatti il re di Sodoma ad Abramo: “Dammi le anime, il resto tienilo pure” (Gn 14,21). Cristo ha compe­rato le anime, consegnando alla morte la sua anima (cf. Is 53,12); e perciò il diavolo fa ogni sforzo per ingannare un sì grande “compratore”, quando vuole uccidere l’anima nostra.

 

7. Ma il Signore, contro i tre mali su descritti, cioè l’oppressione, il peccato e la vanità, mandò il Paràclito, lo Spirito Santo, Spirito di verità: Paràclito contro l’op­pressione, Spirito contro la colpa, di verità contro la vanità. Il Paràclito ci consola nell’oppressione delle tribolazioni. Dice Isaia: “Quando attraverserai le acque io sarò con te e i fiumi non ti sommergeranno; se camminerai in mezzo al fuoco non ti scotterai e la fiamma non ti brucerà” (Is 43,2). Fa’ attenzione a queste quattro parole: acque, fiumi, fuoco e fiamma. Le acque raffigurano la gola e la lussuria; i fiumi la prosperità mondana; il fuoco l’oppressione delle avversità e la fiamma la malizia della persecuzione diabo­lica.

Dice dunque: “Quando attraverserai le acque...” La mente che lo Spirito Santo ha reso forte con il fuoco della carità, non può essere travolta dalle acque della gola e della lussuria, né sommersa dai fiumi della prosperità terrena. Dice infatti Salomone: “Le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo, perché le sue vampe sono vampe di fuoco e di fiamme” (Ct 8,7.6). La mente che lo Spirito Santo infiamma, non può essere consumata né dal fuoco delle avversità né dalla fiamma della persecuzione diabolica. Lo Spirito stesso infatti, come è detto nel libro di Daniele, allontana la fiamma di fuoco dalla fornace e fa spirare in mezzo alla fornace come un venticello rugiadoso (cf. Dn. 3,49-50).

Parimenti, contro il peccato mandò lo Spirito per ridare la vita all’anima. Leggiamo nella Genesi: “Spirò sul suo volto il soffio della vita e l’uomo divenne anima vivente” (Gn 2,7). Il soffio della vita è la grazia dello Spirito Santo, e quando Dio la infonde nel volto dell’anima, non c’è dubbio che l’anima risuscita da morte a vita.

E questo Spirito è detto “di verità”, contro la vanità del mondo, che la verità stessa discaccia. Dice Gioele: “Figlie di Sion, gioite e rallegratevi nel Signore, vostro Dio, perché vi ha dato il maestro della giustizia, e farà scendere su di voi la pioggia del mattino e della sera. E le vostre aie si riempiranno di frumento, e i vostri torchi traboccheranno di vino e di olio” (Gl 2,23-24). Sia benedetto il Signore, Dio nostro, il Figlio di Dio, nel quale noi, figli di Sion, cioè della chiesa militante e trionfante, dobbiamo gioire nel cuore e rallegrarci con le opere, perché ci ha dato il maestro della giustizia, cioè lo Spirito della grazia, che insegna a ciascuno di noi a mostrare la sua giustizia (santità). Nel darci questo Spirito, egli ha fatto discendere su di noi la pioggia del mattino, cioè la compunzione dei nostri peccati, e la pioggia della sera, cioè il dolore per i peccati degli altri. Infatti chi piange pietoso per i peccati altrui, lava perfettamente anche i propri. Nella discesa di questo Maestro della giustizia le aie, cioè le menti dei fedeli, furono riempite del frumento della fede, e i torchi, cioè i loro cuori, traboccarono del vino della compunzione e dell’olio della pietà.

Giustamente quindi è detto: “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza. E anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dall’inizio” (Gv 15,26-27).

Infatti nel cuore dei fedeli lo Spirito di verità rende testimonianza dell’incarnazione di Cristo, della sua passione e della sua risurrezione. E anche noi dobbiamo dare a tutti gli uomini la testimonianza che Cristo si è veramente incarnato, ha veramente subìto la passione ed è veramente risorto.

 

8. Con questa prima parte del brano evangelico concorda la prima parte dell’epistola di oggi: “Siate prudenti e vegliate nella preghiera. Soprattutto abbiate sempre tra voi la carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati” (1Pt 4,7-8). Osserva che il beato Pietro ci richiama a tre virtù: alla prudenza, alla vigilanza e alla costanza nella preghiera.

Della prudenza dice Salomone: “Beato l’uomo che è pieno di prudenza: il suo possesso vale più dell’argento e il suo provento più dell’oro” (Pro 3,13-14). Chi invece è negli­gente e imprudente, è esposto a molti pericoli.

Sulla vigilanza poi leggiamo nella Genesi che “Giacobbe attraversò il guado di Iabbok: trasportate all’altra riva tutte le sue cose, restò solo. Ed ecco, un uomo incominciò a lottare con lui fino al mattino, e poi gli disse: Lasciami andare perché ormai spunta l’aurora” (Gn 32,22-24). Giacobbe s’interpreta “soppiantatore”; Iabbok “torrente di polvere”, e raffigura i piaceri temporali che passano come un torrente, sono sterili e accecano gli occhi come la polvere. Il penitente deve attraversare questo torrente con tutti i beni che il Signore gli ha elargito, deve attraversarlo e rimanere solo. Rimane solo colui che nulla attribuisce a se stesso, ma tutto al Signore; che sottomet­te la sua volontà a quella degli altri; che non conserva il ricordo delle ingiurie ricevute e che accetta di essere disprezzato (lett. sperni se non spernit, non disprezza l’essere disprezzato).

E se in questo modo resterà solo, potrà lottare valorosamente con il Signore e ottenere da lui ciò che vuole, e meriterà di sentirsi dire: “Lasciami andare, ormai spunta l’aurora”. L’aurora segna la fine della notte e l’inizio del giorno. Essa raffigura la morte del giusto, la fine della miseria di questa vita, e l’inizio della beatitudine, nella quale il Signore dice al giusto: Lasciami andare, ormai spunta l’aurora. Come dicesse: Non c’è più bisogno di lotta, finisce per te la prova, la miseria, e incomincia la gloria.

Infatti dell’anima del giusto è detto nel Cantico dei Cantici: “Chi è costei che sorge come l’au­rora, bella come la luna, fulgida come il sole?” (Ct 6,9). La luna è chiamata così perché è quasi (lat.) luminum una, una delle luci. L’anima del giusto, quando sale dalla dimora di questa miseria, entra nella beatitudine, nella quale è bella come la luna, perché viene immersa nella luce delle anime sante, come una di esse. Ed è fulgida come il sole, perché viene illuminata dallo splendore di tutta la Trinità.

 

9. Dell’assiduità nell’orazione si parla nell’introito della messa di oggi: Ascolta, Signore, la mia voce, con la quale a te ho gridato. Di te ha detto il mio cuore: Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, io cercherò. Non nascondermi il tuo volto (cf. Sal 26,7-9). Ricordati che ci sono tre specie di orazione: l’orazio­ne mentale, l’orazione vocale e l’orazione manuale (delle opere). Della prima dice l’Ecclesiastico: “L’orazione di colui che si umilia, penetra i cieli” (Eccli 35,21). Della seconda parla il salmo: “La mia orazione entri al tuo cospetto” (Sal 87,3). Della terza parla l’Apostolo: “Pregate senza interruzione” (1Tes 5,17). Non cessa mai di pregare colui che non cessa mai di fare il bene.

Dice dunque l’introito: “Ascolta, Signore, la mia voce”, la voce del cuore, della bocca e delle opere, “con la quale a te ho gridato. A te ha detto il mio cuore: Ho cercato il tuo volto”. Il volto del Signore è quell’immagine secondo la quale siamo stati creati “a sua immagine e somiglianza” e che poi abbiamo perduto quando siamo caduti nel peccato mortale. Infatti sopra il volto del Signore abbiamo disegnato il volto del diavolo; e questo lo vieta l’Ecclesiastico, dove dice: “Non assumere un volto contro il tuo volto” (Eccli 4,26). Ogni volta che commetti il peccato mortale, sovrapponi il ceffo del diavolo al volto di Dio. Dice infatti il salmo: “Fino a quando giudicherete iniquamente e assumerete la faccia dei peccatori?” (Sal 81,2).

Per essere in grado di ritrovare il volto del Signore, che abbiamo perduto, accendiamo la lucerna, buttiamo completamente all’aria la casa, finché lo troviamo (cf. Lc 15,8): ciò significa che dobbiamo quasi distruggerci per i nostri peccati, perlustrare ogni angolo della coscienza nella confessione e perseverare nelle opere di penitenza. E così finalmente potremo ritrovare il volto del Signore, perduto con il peccato, e cantare esultanti: “Risplende su di noi, Signore, la luce del tuo volto” (Sal 4,7).

E poiché il volto del Signore si ricompone e si conserva sino alla fine con la carità, dice Pietro di questa virtù: “Soprattutto abbiate sempre tra di voi una grande carità” (1Pt 4,8). Come Dio è il principio di tutte le cose, così la carità, virtù fondamentale, si deve conquistare prima di tutte le altre; e se sarà reciproca e costante, coprirà tutto il cumulo dei peccati. La carità dev’essere vicendevole, cioè reciproca, e fatta in comune; dev’essere continua: non deve cioè mai mancare, non solo quando tutto va bene, ma anche quando tutto sembra andar male; e dev’essere incessante e perseverare sino alla fine. Oppure anche: la carità è il Paràclito, lo Spirito di verità che, come l’olio copre ogni liquido, copre la molti­tudine dei peccati. Ma fa’ attenzione, che se l’olio viene soffiato via, ricompare ciò che prima era nascosto. Così la grazia di Dio che con la penitenza copre la moltitudine dei peccati, se viene soffiata via con la ricaduta nel peccato mortale, ciò che era già stato perdonato ritorna, perché chi pecca contro il primo dei precetti, cioè contro il precetto della carità, si rende colpevole anche di tutti gli altri (cf. Gc 2,10). E quindi se commetterai di nuovo il peccato mortale e ti rivolgerai ad un altro confessore, sarà necessario che tu confessi tutto.

Lo Spirito Santo, che è l’amore del Padre e del Figlio, si degni di coprire con la sua carità la moltitudine dei nostri peccati. A lui sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. la persecuzione contro i discepoli di cristo

 

10. “Vi ho detto queste cose perché non vi scandalizziate. Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E vi faranno ciò perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, vi ricordiate che ve ne ho parlato” (Gv 16,1­4). E poiché “i dardi che si prevedono feriscono di meno” (Gregorio), per questo il Signore ha prevenuto i suoi soldati affinché, contrapponendo ai dardi della persecuzione lo scudo della pazienza, non si scandalizzino quando si imbatteranno nel momento della prova. “Vi ho detto queste cose, perché non vi scandalizziate”. Io, Verbo del Padre, da cui dovete prendere esempio di pazienza, parlo a voi affinché non vi scandalizziate.

Chi si scandalizza nel momento della persecuzione, con lo scandalo della sua impazienza si separa dai discepoli di Cristo. “Vi scacceranno dalle loro sinagoghe”. Infatti dice Giovanni: “I giudei avevano già stabilito che se uno avesse riconosciuto il Cristo, sarebbe stato espulso dalla sinagoga” (Gv 9,22).

Cristo dice: “Io sono la verità” (Gv 14,6). Chi predica la verità professa Cristo. Chi invece nella predicazione tace la verità rinnega Cristo. “La verità genera l’odio” (Terenzio), e quindi alcuni, per non incorrere nell’odio di certe persone, si coprono la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, se dicessero le cose come stanno, come la stessa verità esige e come la sacra Scrittura espressamente comanda, incorrerebbero – se non mi inganno – nell’odio dei carnali e forse questi li scaccerebbero dalla loro sinagoga; siccome si regolano sull’esempio degli uomini, temono lo scandalo degli uomini, mentre non è lecito rinunciare alla verità per timore dello scandalo. E infatti i discepoli dissero a Gesù: “Sai che i farisei, sentita questa parola, si sono scandalizzati? Allora Gesù rispose: Ogni albero che non è stato piantato dal Padre mio celeste, sarà sradicato. Lasciateli perdere: sono ciechi e guide di ciechi” (Mt 15,12-14).

O predicatori ciechi, poiché temete lo scandalo dei ciechi, per questo cadete nella cecità dell’anima. Questi fanno con voi ciò che fa la vacca selvatica con il cacciatore. Si legge nella Storia Naturale che la vacca selvatica lancia da lontano il suo sterco contro il cacciatore che la insegue e lo colpisce: il cacciatore viene così trattenuto e ritardato, e intanto essa fugge. Sicuramente fanno oggi così anche alcuni prelati, vacche grasse sul monte di Samaria (cf. Am 4,1), vacche belle e molto grasse che pascolano in luoghi paludosi (cf. Gn 41,2), le quali al cacciatore, cioè al predicatore, lanciano lo sterco delle cose temporali per sfuggire alle sue rampogne. Leggiamo infatti nell’Ecclesiastico: “Il pigro sarà lapidato con sassi infangati” (Eccli 22,1). E il Signore dice per bocca di Isaia: “Susciterò contro di loro i Medi”, cioè dei predicatori, “che non cerchino l’argento, né bramino l’oro, affinché uccidano con le frecce i loro pargoli”, cioè gli amatori del mondo, con le frecce della santa predicazione (Is 13,17-18).

 

11. Con questa seconda parte del brano evangelico concorda la seconda parte dell’epi­stola: “Siate ospitali a vicenda, senza mormorazione; ognuno secondo la grazia che ha ricevu­to, mettendola a disposizione degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Se uno parla, usi le parole di Dio; se uno esercita un ufficio, lo compia con la forza che ha ricevuto da Dio” (1Pt 4,9-11).

Ospite è colui che accoglie e anche colui che è accolto. È chiamato in lat. hospes, come mettesse un piede sulla porta (lat. infert ostio pedem), oppure perché tiene la porta aperta (ostium patens), e quindi è detto ospitale. Sono ospitali quei predicatori che sentono il dovere di aprire ai peccatori la porta della predicazione; e fanno ciò senza mormorazione, cioè senza scandalo. Non si può infatti fare della mormorazione senza scandalo.

E giustamente i predicatori sono detti ospitali, perché come buoni amministratori devono mettere a disposizione altrui la grazia della predicazione che hanno ricevuto e che si effettua in tante forme. Infatti, come tante sono le forme con cui si fanno i peccati, così anche la predicazione deve assumere svariate forme, affinché le anime, deformate dalle varie forme di vizi, vengano riformate con la forma della predicazione. Così parla Pietro ai prelati predicatori: “Pascete il gregge di Dio, che vi è affidato, provvedendo ad esso non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interes­se, ma di buon animo; e non spadroneggiando sulla parte a voi affidata, ma facendovi modelli del gregge” (1Pt 5,2-3).

E continua: “Se uno parla, adoperi le parole di Dio”. Usa le parole di Dio colui che attribuisce a Dio, e non a se stesso, la perizia che ha nel parlare. E colui che usa le parole di Dio, si ricordi che null’altro deve insegnare se non la volontà di Dio, la dottrina delle sacre Scritture e ciò che è utile ai fratelli; e si guardi bene dal tacere ciò che invece deve insegnare. “E chi esercita un ufficio”, sia con la parola, sia con qualunque altro incarico di carità, “lo faccia con la forza” non sua, ma “con quella ricevuta da Dio, affinché in tutte le cose”, in tutte le nostre opere, “venga glorificato Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 4,11).

Fratelli carissimi, supplichiamo umilmente Cristo Gesù affinché infonda in noi il Paràclito, lo Spirito di verità, e ci dia la pazienza per non scandalizzarci nel momento della tribolazione. A lui appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.

 

 

LITANIE

(O ROGAZIONI)

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Se uno di voi ha un amico [e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti. E se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.

Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, che cerca trova e chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà un sasso? O se gli chiede un pesce gli darà una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?

Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!]” (Lc 11,5-13).

In questo vangelo sono posti in evidenza tre argomenti:

- la richiesta del pane,

- l’insistenza nella preghiera,

- l’amore del padre verso il figlio.

 

I. la richiesta del pane

 

2. “Se uno di voi ha un amico”. Vedremo il significato di queste sei cose: l’amico, la notte, i tre pani, l’amico che torna da un viaggio, la porta chiusa, e i bambini che sono a letto col padre.

L’amico – in lat. amicus, che suona quasi come animi custos, custode dell’animo – è Gesù Cristo, che, se non è lui che custodisce l’animo, invano veglia chi lo custodisce (cf. Sal 126,1). Leggiamo nell’Ecclesiastico: “Un amico fedele è una protezione potente: chi lo trova, trova un tesoro. Nulla è paragonabile a un amico fedele, e non c’è peso d’oro e d’argento che possa contrapporsi al valore della sua fedel­tà” (Eccli 6,14­15); e più avanti continua: “Non abbandonare un vecchio amico, perché quello recente non è uguale a lui” (Eccli 9,14): l’amico recente simboleggia il diavolo, che si avvantaggia nei cambiamenti.

Il vero amico nostro è Gesù Cristo, che ci ha amati tanto da dare per noi la sua vita (cf. Gal 2,20). Pensa quale amico fedele sarebbe colui che, vedendoti in punto di morte, si offrisse per te e prendesse volentieri su di sé la tua malattia e la tua morte!

Si legge nella Storia Naturale che la calandra (l’allo­dola), uccello tutto bianco, le cui interiora curano l’annebbiamento (la cataratta) degli occhi, fissa lo sguardo su di un ammalato se questi è destinato a sopravvivere, perché questo fatto è presagio della sua guarigione: quest’uccello si avvicina al volto dell’infermo, assorbe e prende su di sé la sua malattia, quindi vola in cielo e lì, tra i raggi infuocati del sole, la disperde e la distrugge. Così Cristo, amico nostro, tutto bianco perché assolutamente immune da ogni ombra di peccato, con il sangue che uscì dalla ferita del suo costato, guarì l’offusca­mento della nostra anima, che prima non poteva vedere con chiarezza. Per questo è detto che il sangue estratto dal fianco di una colomba rimuove la macchia dell’occhio (Plinio).

Gesù Cristo, con gli occhi della sua misericordia, guardò fissamente il genere umano malato, e questo fu il segno della nostra salvezza; si avvicinò a noi, prese su di sé la nostra infermità, salì sulla croce, e lì nel fuoco ardente della sua passione consumò e distrusse i nostri peccati. Fu dunque veramente nostro amico, e di lui è detto: “Se uno di voi ha un amico, e va da lui a mezzanotte”.

La notte, chiamata in lat. nox perché nuoce agli occhi, è simbolo della tribolazione o della tentazione, che ostacola l’occhio della ragione. Dice Giobbe della notte: “Quella notte sia di solitudine e non sia degna di lode” (Gb 3,7). La notte della tentazione è “di solitudine” quando non trova consenso nell’uo­mo, e “non è degna di lode” quando l’uomo non l’asseconda e non l’approva. Acconsente alla tentazione e l’approva colui che quando essa si presenta l’accoglie e, accoltala, se ne compiace con l’immaginazione della mente. In tale notte devi andare da Cristo, tuo amico, e dirgli: “Amico, prestami tre pani”.

I tre pani simboleggiano la triplice grazia della compunzione. La prima consiste nel ricordo della propria fragilità e della propria malizia; la seconda nella considerazione dell’esilio di questa vita terrena; la terza nella contemplazione del creatore. Questi tre pani chiede che gli siano prestati [chi è tentato].

Prestare vuol dire dare una cosa, con la condizione che venga restituita. Tutto ciò che abbiamo nell’ambito della grazia lo riceviamo da Dio e a lui dobbiamo restituirlo. “Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria” (Sal 113B,1). Sei povero, non hai il pane della compunzione: chiedilo in prestito all’amico, con il patto di restituirgli ciò che da lui hai ricevuto.

“Perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti” (Lc 11,6). L’amico che è venuto dal viaggio raffigura l’anima nostra la quale, ogni volta che va in giro alla ricerca delle cose temporali, si allontana da noi: ritorna poi quando medita sulle verità eterne e brama rifocillarsi con il nutrimento celeste. Ma non c’è nulla da metterle dinanzi, perché all’anima, che dopo le tenebre sospira a Dio, nulla più piace se non pensare, parlare e guardare a Dio soltanto. L’anima, quando rico­mincia a vedere con chiarezza, fa di tutto unicamente per meditare più profondamente e per giungere al gaudio della Trinità, anche questo simboleggiato nei tre pani.

 

3. “Ma l’amico dall’interno deve rispondere: Non m’impor­tunare: ormai la porta è chiusa e i miei bambini sono a letto con me” (Lc 11,7). Lo stesso amico nostro è all’in­terno, e noi miseri stiamo ancora fuori, perché siamo stati allontanati dallo sguardo dei suoi occhi, nella miseria del presente esilio; stiamo fuori, e perciò dobbiamo gridare: “Amico, prestami tre pani”. Chiede che gli siano prestati tre pani colui che è oppresso da molte sofferenze. Ecco, sta fuori nel cuore della notte e nell’assoluta necessità di pane; sta fuori davanti alla porta chiusa, chiama e si sente rispondere: “Non importunarmi!”, cioè non ho il dovere di preoccuparmi per le tue richieste, perché ormai “la porta è chiusa”.

Troviamo qualcosa di simile nel Deuteronomio: “Il cielo che ti sta sopra sia di bronzo, e la terra che calpesti di ferro. Il Signore mandi sulla tua terra come pioggia la polvere, e dal cielo discenda su di te la cenere, finché sarai schiacciato” (Dt 28,23-24). La porta è chiusa e il cielo diventa di bronzo quando il raggio della grazia divina non illumina più la mente dell’uomo, la cui preghiera non penetra più nel cielo che per lui è diventato di bronzo. “Hai posto davanti a te una nube, perché non giungesse fino a te la preghiera” (Lam 3,44).

Infatti se il cielo fosse di bronzo e il sole non desse più la sua luce e non cadesse più la pioggia, gli uomini sarebbero avvolti dalle tenebre e perirebbero tutti per la siccità. Così avviene anche quando la porta o il cielo della grazia celeste si chiude, e il peccatore resta nelle tenebre della sua coscienza e rimane privo della pioggia della compunzione; la terra che calpesta, cioè la vita attiva, nella quale lavora e suda, diventa di ferro, quando da essa non ricava alcun frutto di consolazione, ma solo gelo e durezza di mente: il ferro infatti è freddo e duro.

Alla terra è data la polvere invece della pioggia quando, invece dell’effusione delle lacrime, viene data all’infelice anima la polvere dei pensieri inutili e frivoli, dai quali resta come accecata. Cade su di essa la cenere, quando ricerca solo le cose caduche e periture, dalle quali viene tormentata e distrutta. Quanto dolore e quanta sofferenza! Nella vita contemplativa nessuna dolcezza, in quella attiva nessuna consolazione, nell’orazio­ne l’oscuramento della mente, nelle cose temporali traviamento!

Ma si deve forse disperare? Si deve forse desistere dalla preghiera? No, certamente! E anche se la porta della grazia celeste è chiusa, forse lo è a causa dei nostri peccati, oppure è chiusa allo scopo di spronarci ad implorare e a scongiurare con maggiore insistenza. E anche se i bambini, vale a dire se gli spiriti angelici, per mezzo dei quali Dio infonde i doni della sua grazia e manda la consolazione nelle tribolazioni, sono con lui a letto, cioè nella pace eterna, per il fatto che non escono a farci questo servizio – di essi dice l’Apostolo: “Non sono tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza?” (Eb 1,14) – si deve forse smettere di domandare il pane? “Non posso, dice, alzarmi a darti il pane”. Osserva la Glossa: Non toglie la speranza di ottenere ma, dopo averne posto in evidenza la difficoltà, stimola ancor più il desiderio di pregare.

“Ma se lui persisterà nel bussare, io vi dico...”, ecc. Commenta ancora la Glossa: Se l’amico si alza e gli dà i pani, spinto non dall’amicizia ma solo dalla voglia di liberarsi da quella seccatura, quanto più generoso sarà Dio, il quale senza badare al fastidio, dà nella più larga misura quanto gli si domanda. Perciò, affinché l’anima nostra, convertitasi dalla vanità dell’errore, non languisca più a lungo per la mancanza di aspirazioni spirituali, chiediamo i pani, cerchiamo l’amico che ce li dia, bussiamo alla porta dove sono tenuti nascosti. Dà una grande speranza colui che non inganna con la sua promessa. “Si alzerà almeno a motivo della sua indiscrezione”, perché la dura fatica (l’ostinazione) vince tutte le diffi­coltà, “e gliene darà”, con l’infusione della sua grazia, “quanti gliene occorrono”, anche se non sempre quanti egli ne vorrebbe.

 

II. l’insistenza nella preghiera

 

4. “E io vi dico: Chiedete e vi sarà dato” (Lc 11,9). Dice il profeta Zaccaria: “Chiedete al Signore la pioggia della sera, ed egli manderà la neve; e darà loro piogge abbondan­ti e a ciascuno erba nei campi” (Zc 10,1).

Nella neve che è candida e fredda è raffigurato il nitore della castità; nelle piogge abbondanti la compunzione accompagnata dalle lacrime; nell’erba la compassione per le necessità dei fratelli, che sempre deve verdeggiare nel campo del nostro cuore. Queste tre cose dobbiamo chiedere al Signore, anche se non al mattino presto, almeno sul far della sera, cioè in un secondo momento, giacché prima di tutto dovremmo cercare il regno di Dio e la sua giustizia (cf. Mt 6,33; Lc 12,31). I mondani chiedono prima di tutto le cose terrene, e per ultime quelle eterne, mentre prima dovrebbero incominciare dal cielo, dove sta il nostro tesoro, e dove perciò dovrebbe essere anche il nostro cuore (cf. Mt 6,21; Lc 12,34), e anche la nostra domanda.

“Cercate e troverete” (Lc 11,9). Dice la sposa del Cantico dei Cantici: “Mi alzerò e mi aggirerò per la città: per strade e piazze cercherò colui che la mia anima ama” (Ct 3,2). La città raffigura la patria celeste, nella quale ci sono strade e piazze, vale a dire gerarchie angeliche minori e maggiori. L’anima alzandosi, vale a dire sollevandosi dalle cose terrene, va in giro quando contempla l’ardente amore dei serafini verso Dio, quando osserva la sapienza dei cherubini nei riguardi di Dio, e così degli altri ordini angelici, tra i quali è alla ricerca del suo sposo. Ma poiché egli è molto più in alto di tutti, non lo trova, e quindi è necessario che essa superi con lo sguardo della mente le sentinelle, cioè gli spiriti celesti, per poter trovare il suo amato.

“Cercate e troverete”. Dice Sofonia: “Cercate il Signore voi tutti, umili della terra, che avete praticato i suoi precetti; cercate la giustizia, cercate l’umiltà per trovarvi al riparo nel giorno della sua ira” (Sof 2,3). E Amos: “Cercate il Signore e vivrete. Non rivolgetevi a Betel, non andate a Gàlgala e non passate a Bersabea” (Am 5,4-5). I figli d’Israele avevano fabbricato dei vitelli d’oro e li avevano collocati a Betel, per adorarli in quel luogo (cf. 3Re 12,32). Nell’oro è simboleggiato lo splendore della gloria temporale, nel vitello la lussuria della carne. Non cercate queste cose.

“Non andate a Gàlgala”, che s’interpreta “pantano”, figura del fango della lussuria, nel quale i porci si rotolano. “E non passate a Bersabea”, che s’interpreta “settimo pozzo”, vale a dire abisso di cupidigia, che è assolutamente senza fondo, come il settimo giorno del quale si legge che non ha fine. “Cercate, dunque, il Signore finché si fa trovare; invocatelo mentre è vicino” (Is 55,6).

 

5. Infatti continua: “Bussate e vi sarà aperto” (Lc 11,9). Leggiamo negli Atti degli Apostoli: “Pietro continuava a bussare. Quando finalmente aprirono la porta e lo videro, rimasero stupefatti” (At 12,16). Pietro, liberato dalla prigione per opera di un angelo, raffigura colui che per mezzo della grazia di Dio viene liberato dal carcere del peccato. Costui deve bussare con perseveranza alla porta della corte celeste, e allora gli angeli gli apriranno, presenteranno cioè al cospetto del Signore la sua devota orazione: e il loro stupore, per così dire, non è altro che la gioia che provano per un peccatore che fa penitenza (Lc 15,10).

 

III. l’amore del padre verso il figlio

 

6. “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane…” (Lc 11,11), ecc. Vedremo quale sia il significato di queste sei cose, che si contrappongono tra loro, e cioè: il pane e il sasso, il pesce e il serpente, l’uovo e lo scorpione.

Il pane, così chiamato perché si pone [in tavola] insieme con ogni altro cibo, simboleggia la carità, la quale deve accompagnare ogni altro cibo di opere buone. “Tutto si faccia nella carità” (1Cor 16,14). Come senza il pane la mensa sembra squallida, così senza la carità le altre virtù sono un nulla: esse sono perfette solo unite alla carità.

Leggiamo a questo proposito nel Levitico: “Mangerete il vostro pane a sazietà e dimorerete senza paura nella vostra terra” (Lv 26,5). Il Signore promette qui due cose, che avremo in modo perfetto nella vita futura: la sazietà della carità, della quale sarà ricolma l’anima, e la pace della terra, cioè della nostra carne. Ogni cristiano, figlio della grazia, deve chiedere a Dio Padre questo pane, per essere capace di amare Dio sopra tutte le cose e il prossi­mo come se stesso. Per questo prega: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Lc 11,3).

“Forse che gli darà un sasso?” (Lc 11,11). Dice Giobbe: “Un torrente separa la pietra della caligine e l’ombra della morte dal popolo peregrinante” (Gb 28,3-4). Il torrente raffigura la compunzione delle lacrime, la quale separa la pietra della caligine, cioè la durezza della mente ottenebrata, e l’ombra della morte, cioè il peccato mortale che proviene dal diavolo il cui nome è morte (cf. Ap 6,8), dal popolo peregrinante, cioè dai penitenti, i quali si considerano pellegrini in questo esilio. Quindi al figlio che domanda la carità, Dio Padre non dà la durezza del cuore, ma piuttosto la toglie. “Toglierò da voi il cuore di pietra”, che è insensibile, “e vi darò un cuore di carne” (Ez 36,26), in grado di sentire dolore.

“O che chiede un pesce” (Lc 11,11). Il pesce raffigura la fede nelle cose invisibili. Infatti come il pesce nasce immerso nell’acqua e in essa vive e si nutre, così la fede che riguarda Dio, viene generata in modo invisibile nel cuore; viene consacrata dalla grazia invisibile dello Spirito Santo per mezzo dell’acqua del battesimo; viene nutrita, affinché non venga meno, con il misterioso aiuto della protezione divina; compie tutto il bene che le è possibile in vista dei premi invisibili. O anche: la fede viene paragonata al pesce perché, come esso è continuamente sbattuto dalle onde del mare ma non ne viene ucciso, così la fede non viene scossa dalle avversità. Questo pesce ogni cristiano deve chiedere a Dio Padre dicendo: Concedimi di vivere e di morire nella fede dei tuoi apostoli e della tua santa chiesa cattolica.

 

7. “Forse che invece del pesce gli darà un serpente?” (Lc 11,11). Il serpente è così chiamato perché si avvicina di nascosto, serpeggiando.

I serpenti sono freddi per natura, e non attaccano se non quando si sono riscaldati. Alcuni affermano che i serpenti nascono dal midollo spinale di un uomo morto. Dicono che il serpente muore se gli si gettano sopra delle foglie di rovo. Si dice anche che se il serpente vede un uomo nudo, ha paura, mentre se lo vede vestito, lo attacca. E i serpenti gradiscono molto il vino, e mangiano la carne e le erbe, e succhiano gli umori dell’ani­male al quale si attaccano.

Il serpente è il diavolo, che si avvicina di nascosto per tentare; oppure anche la sua perfidia che “serpeggia”, va cioè di traverso come il granchio. Il diavolo, per innata malvagità è freddo, ma infiammato dall’ardore di nuocere, tenta di inoculare il veleno dell’infedeltà (mancanza di fede) nei fedeli, i soli che sono vivi. Invece tutti gli altri sono morti, perché uccisi dal veleno dell’infedeltà, che nasce dal loro stesso cuore e ne fuoriesce per dare la morte anche ad altri. Ma siano rese grazie a Dio che, contro questo veleno, ci ha dato un rimedio: le foglie del rovo. Il rovo, che ardeva e non si consumava (cf. Es 3,2), simboleggia l’uma­nità di Cristo la quale, coperta degli aculei della sofferenza, bruciò nel fuoco della passione, ma non si consumò: “Si disseccò come un coccio la mia potenza” (Sal 21,16). Le sue foglie, cioè le sue parole uccidono il serpente, vale a dire il diavolo e la sua perfidia.

Il diavolo ha paura dell’uomo nudo, cioè del povero di Cristo, spoglio di cose temporali; ma quando vede l’uomo vestito, cioè ingordo, pieno di beni terreni, lo attacca, vale a dire lo assedia di tentazioni e, per quanto gli è possibile, gli inocula il veleno. Oppure: l’uomo nudo è colui che si è spogliato della veste della sua volontà; di lui dice il vangelo: “Gettato il mantello, balzò in piedi e corse da Gesù” (Mc 10,50). Chi vuole ricevere la luce e giungere alla salvezza, deve prima di tutto gettare lontano la sua volontà. Chi invece vuole restare coperto con la veste della sua volon­tà, viene subito attaccato dal diavolo. Questo si constata chiaramente in Adamo: finché restò nell’obbe­dienza, il diavolo ebbe paura di lui: “Erano tutti e due nudi e non se ne vergognavano” (Gn 2,25); ma quando si coprirono con la veste della loro volontà, il serpente li attaccò: “Quando si accorsero di essere nudi, intrecciarono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture” (Gn 3,7).

Il diavolo poi gradisce molto il vino della lussuria, e la carne, cioè la carnalità della gola; ingoia anche volentieri le erbe, cioè lo splendore della gloria terrena; e dall’uomo, al quale si attacca approfittando del suo consenso, succhia ed estrae tutti gli umori, vale a dire la compunzione della mente.

Dio Padre non darà mai un tale serpente al figlio suo che gli chiede un pesce; anzi, di un infedele fa un fedele, e lo richiama dalla morte alla vita.

 

8. “Oppure, se il figlio gli chiede un uovo…” (Lc 11,12), ecc. Nell’uovo è simboleggiata la certezza della nostra speranza, perché nell’uovo si può vedere il feto non ancora perfetto, ma si spera, riscaldandolo, che giunga a maturazione. L’uovo deriva il suo nome dal lat. uvidum, umido: infatti nel suo interno è pieno di umore. Così colui che nutre la speranza dei beni eterni è pieno dell’umore della devozione.

Si legge nella Storia Naturale che le uova si diversificano tra loro per la forma: alcune sono appuntite, altre tondeggianti. Le uova lunghe, con una estremità stretta, producono i maschi; quelle tondeggianti producono invece le femmine, e hanno le estremità larghe. Ci sono anche le “uova di vento”, piccole e sterili, che non producono nulla. Quando durante la cova ci sono dei tuoni, le uova si guastano.

Nelle uova appuntite è indicata la speranza dei beni eterni. Dimentico delle cose passate, dice l’Apostolo, sono proteso a quelle future (cf. Fil 3,13). Nella lun­ghezza e nella parte stretta dell’uovo è simboleggiato il desiderio che l’anima nutre nella speranza del regno cele­ste. Da tale uovo nasce un maschio, cioè la vita virtuosa. Invece nelle uova larghe e tondeggianti è simboleggiata la speranza dei beni passeggeri, se può esser detta speranza. “Ciò che uno vede, come può sperarlo?” (Rm 8,24). C’è appunto in tali uova la via larga che conduce alla morte (cf. Mt 7,13). E ancora: “All’in­torno (lat. in circuitu) si aggirano gli empi” (Sal 11,9); “Dio mio, fa’ che siano come una ruota” (Sal 82,14). Da queste uova nasce una femmina, cioè una vita effeminata.

E tale speranza è ottusa, cioè oscura, perché preferisce le tenebre alla luce (cf. Gv 3,19). Questa speranza è raffigurata nell’uovo di vento, perché è volubile e piena di vento. Infatti dice Osea: “Hanno seminato vento: raccoglieranno tempesta” (Os 8,7). Quale il seme, tale il frutto, perché chi semina vanità, raccoglierà dannazione. La speranza posta nel vento non produce il frutto della carità; è piccola e meschina perché non cresce in Dio; è insipida perché la sua sapienza non è condita con il divino sapore.

Infine, quando all’inizio della conversione e della nuova vita scoppiano i tuoni, cioè le tentazioni della prosperità o delle avversità, queste riescono spesso a guastare le uova della speranza e dei santi propositi. Quindi il figlio della grazia deve domandare al Padre della misericordia l’uovo della speranza dei beni eterni perché, come dice Geremia, “benedetto è l’uomo che confida nel Signore: il Signore stesso sarà la sua speranza” (Ger 17,7).

 

9. “Forse che il padre gli darà uno scorpione?” (Lc 11,12). Come si deve aver paura del pungiglione che lo scorpione ha sulla coda, così è un atto contrario alla speranza guardare indietro, cioè al passato: la speranza è la virtù che si protende in avanti, che aspira cioè ai beni futuri.

Lo scorpione, che ha la caratteristica di non ferire il palmo della mano, lambisce con la bocca, ma intanto la coda, nella quale ha due pungiglioni, colpisce e inocula il veleno. Il palmo della mano è così chiamato in quanto è glabro e non ha peli. La mano raffigura l’opera buona, il palmo la retta intenzione nell’operare. Il pelo nel palmo o nell’occhio è l’intenzione cattiva. Leggiamo nel vangelo: “Se il tuo occhio” – cioè la tua intenzione – “è limpido, tutto il tuo corpo” – cioè il tuo operare – “sarà luminoso” (Lc 11, 34). Lo scorpione è il diavolo che, mentre blandisce, lusinga con la suggestione, e alla fine colpisce con i due pungiglioni della coda: infatti nella vita presente avvelena con il peccato il corpo e l’anima, e poi in quella futura manda entrambi all’eterna punizione. Beato colui che nella mano delle sue opere ha il palmo della retta intenzione, che il diavolo non è in grado di danneggiare. Infatti il palmo senza macchia della retta intenzione purifica e rende bello il volto e tutto il corpo.

“Se dunque voi, che siete cattivi…” (Lc 11,13), ecc. Tutte le creature al cospetto della bontà divina sono cattive, perché “nessuno è buono se non Dio solo” (Lc 18,19). Il paragone è quanto mai appropriato. Infatti se l’uomo peccatore, ancora sotto il peso della fragilità della carne, non si rifiuta di dare i beni temporali ai figli che glieli chiedono, a maggior ragione il Padre celeste largisce ai figli, che vivono in terra nel suo timore e nel suo amore, i beni imperituri nel cielo. Colui che è benedetto nei secoli si degni di elargire anche a noi questi beni eterni. Amen.

 

IV. sermone morale

 

10. “Vennero da Sichem, da Silo e da Samaria ottanta uomini con la barba rasa, con le vesti stracciate, smunti e macilenti: avevano in mano doni e incenso da offrire nella casa del Signore” (Ger 41,5).

Così ci dice Geremia. Come quegli uomini si unirono insieme per pregare il Signore, così anche noi in questi giorni ci raduniamo nella preghiera: perciò questi giorni sono chiamati in greco litanèia (litanie, suppliche) e in it. rogazioni (dal lat. rogare, pregare, domandare).

Le rogazioni sono state istituite per pregare il Signore e per ottenere da lui qualche cosa. Proprio per questi due scopi sono state istituite: per pregare Dio che ci perdoni i peccati; infatti dice Isaia: “Mi chiedono giudizi giusti e vogliono avvicinarsi a Dio” (Is 58,2); e per ottenere i benefici della sua misericordia, sia nelle cose spirituali che in quelle temporali. E noi per meritare di ricevere questi benefici dobbiamo fare spiritualmente ciò che quegli uomini hanno fatto materialmente.

Gli “ottanta” raffigurano tutti quelli che, “nei sette giorni” della vita presente, vivono operando il bene nell’attesa dell’ottavo giorno, quello della risurrezione. Tutti sono chiamati uomini (lat. viri), perché non compiono opere frivole o vane, ma solo atti di virtù. Infatti il sostantivo vir, uomo, viene dalla parola virtus, virtù, fortezza.

Questi uomini vengono da Sichem che s’interpreta “fati­ca", e da Silo che s’interpreta “dov’è lui?”, e da Samaria, che s’interpreta “lana”, termine che deriva dal lat. laniare, dilaniare, cioè lacerare, strappare. Queste tre località simboleggiano le tre caratteristiche che riguardano i beni temporali: si conquistano con fatica e travaglio; si conservano con il timore di perderli: infatti l’avaro dice sempre: “Dov’è lui?”, cioè il denaro; si perdono con grande dispiacere: ecco la “dilaniazione”, cioè lo strazio del cuore. Deve disprezzare tutte queste cose colui che vuole veramente pregare il Signore.

 

11. “Con la barba rasa”. Nel fatto di radersi la barba è simboleggiata l’opera virtuosa. Dice il salmo: “Come olio profumato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne” (Sal 132,2). Aronne s’interpreta “monte eccelso”, e raffigura l’uomo costante, che stende la mano a cose eccelse (cf. Pro 31,19), sul cui capo, cioè nella cui mente, è sparso l’olio profumato della grazia divina.

I pugili che si accingono al combattimento sono soliti ungersi il capo. Così Dio unge la mente del giusto affinché sia forte contro l’antico avversario. Questo unguento scende su tutta la barba, parola che il salmo dice due volte, perché dall’abbondanza della grazia interiore vengono profumate le grandi opere del duplice comandamento della carità. E si rade la barba colui che mai presume di affidarsi al valore delle sue opere buone. Dice infatti Isaia: “In quel giorno il Signore, con un rasoio affilato”, o preso in prestito, “raderà il capo, il pelo delle gambe e tutta la barba a coloro che sono oltre il fiume” (Is 7,20). Al di là del fiume dei piaceri mondani stanno i penitenti, ai quali il Signore con il rasoio affilato, o preso in prestito, della sua passione rade ogni presunzione e fiducia nel bene operato. Chi può infatti presumere o gloriarsi del bene operato, quando vede il Figlio del Padre, fortezza e sapienza del Padre (cf. 1Cor 1,24), inchiodato in croce, sospeso in mezzo a due ladroni?

Nel capo, nelle gambe e nella barba sono simboleggiati l’inizio, la continuazione e il compimento dell’opera buona; e il Signore rade nel penitente tutto questo, quando gli vieta di confidare o di gloriarsi sia all’ini­zio, che nella continuazione e nel compimento dell’opera buona, perché “chi si gloria, si glori nel Signore” (1Cor 1,31; 2Cor 10,17)), e non in se stesso.

 

12. “E con le vesti strappate”. Le vesti simboleggiano le membra del corpo. Dice infatti l’Apocalisse: “Hai nella città di Sardi poche persone che non hanno macchiato le loro vesti” (Ap 3,4), cioè le loro membra. Sono veramente poche a Sardi quelle persone. Sardi s’interpreta “bellezza del dominio”, e in ciò è indicata la verginità, e chi la conserva possiede veramente la bellezza del dominio. Quale splendido dominio quando il creatore domina lo spirito, e lo spirito domina la carne!

Si strappa le vesti colui che non risparmia se stesso nel mortificare il corpo. È detto di Giobbe: “Si alzò, si strappò la tunica; tosatosi il capo si prostrò a terra e adorò Dio” (Gb 1,20). Giobbe, che s’interpreta “dolente”, è figura del penitente che si duole nella contrizione, si alza nella confessione, si strappa la tunica, cioè castiga la sua carne per riparare al peccato, si tosa il capo con l’umiltà della mente, si prostra per terra nella meditazione della morte, e adora Dio nel rendimento di grazie.

“Smunti e macilenti”. Il latino dice squalentes, squallidi. Lo squallore significa pallore, magrezza, sporcizia e denutrizione. I grandi penitenti hanno questo squallore: sono pallidi in viso, magri nel corpo, miseri nelle vesti e sobri nel mangiare.

 

13. “Avevano in mano doni e incenso”. Dice la Storia Naturale che la mano dell’uo­mo, datagli dal creatore, è adatta a qualsiasi lavoro, perché è aperta e larga, è articolata in varie parti: e se ne può usare una parte sola, o due e anche molte, a seconda del­le circostanze. E l’agi­lità e le articolazioni delle dita danno la capacità di prendere e di trattenere.

Nella mano è simboleggiata l’attività caritativa; dobbiamo stendere la mano ad utilità del prossimo e articolarla, per così dire, in tante parti a seconda delle necessità. Viene usata una sola parte (della mano), quando ci dedichiamo solo a Dio; ne vengono usate due parti, quando si somministra al prossimo il nutrimento dell’anima e del corpo. L’agilità delle dita, cioè la pratica delle virtù nella vita attiva, compie due cose: prende la grazia data da Dio, quindi la trattiene, cioè la conserva, per non perderla. In questa mano, dunque, dobbiamo avere i doni della fortezza, della carità e dell’ele­mo­sina, e l’incenso della devozione interiore, affinché tutto ciò che facciamo, sia fatto con devozione.

“Per offrirli nella casa del Signore”. E questo è ciò che si dice anche nell’Apoca­lisse: “E il fumo degli incen­si, con le preghiere dei santi, salì davanti a Dio per mano dell’angelo” (Ap 8,4). Chi cerca la propria lode per le buone opere che compie, non offre doni nella casa di Dio e neppure il fumo dell’incenso sale davanti al Signore. Veniamo così istruiti a fare l’offerta delle nostre opere nella casa del Signore, davanti a lui, cioè con pura coscienza nella quale egli dimora, e da lui solo attendere la ricompensa.

Solo così, mediante il ministero degli angeli deputati alla nostra custodia, la nostra devozione salirà a Dio e la sua grazia scenderà su di noi, affinché anche noi diveniamo finalmente capaci di salire alla sua gloria.

Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen.

 

 Non c’è nulla nel sermone che possa essere riferito a questo titolo.

 Da notare che san’Antonio include tra le persone anche il lupo.

 “Myrtos, piccola isola presso l’Eubea, donde Mirtoo, mare, una parte del mare Egeo tra Creata, il Peloponneso e l’Eubea” (Diz. latino del Georges). Forse per questo il Santo dice che mirto viene da mare.

 Dum satur est venter, cantant miserere libenter.

 Non è chiaro che cosa intenda sant’Antonio per “grazia informe” e “grazia formata”. Analogamente a ciò che vari teologi (tra i quali il Suarez) dicono delle virtù “informi” e “formate”, si potrebbe intendere “grazia non operante” e “grazia operante” (cf. L. OttCompendio di teologia dogmatica, p. 430).

 Forse sant’Antonio accenna qui ad un metodo di caccia all’orso, praticato ai suoi tempi.

 Gli esperti di storia naturale asseriscono il contrario (cf. Aristotele).

 L’edizione latina riporta solo l’incipit di questo brano evangelico. Qui, per la comodità del lettore, il brano è stato riportato integralmente.

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