CAPITOLO XIX.

Il Cristiano non deve attendere alla milizia.

Potrebbe credersi che nel precedente capitolo fosse già definita la quistione del cristiano nei riguardi del servizio militare: la milizia è qualcosa che riveste un carattere di dignità e di potenza. Si chiede invece ora questo: se un cristiano possa fare il mestiere delle armi, e se un soldato, quindi, possa abbracciare la fede: rimanendo nella milizia, sia pure nei gradi inferiori (50), nei corpi meno importanti, ai quali non fossero, magari, imposte celebrazioni di sacrifici, manifestazioni di riti, o fossero obbligati a condanne a morte. Non si trovano d'accordo i giuramenti da prestarsi agli Dei e agli uomini; il vessillo di Dio e quello del demonio non possono trovarsi su una stessa linea; non può trovarsi l'esercito della luce, con quello delle tenebre: come può un'anima sola servire a Dio e a Cesare? Ma, mi potrete dire: non portò forse la verga Mosè, e Aronne non forse le fibbie e Giovanni non si cinse forse della fune? anche Gesù guidò le schiere e il popolo combattè (51), ma tutto questo dobbiamo intenderlo in senso assai alto e detto quasi in senso molto benevolo: come il cristiano potrà scendere in campo, come potrà anzi, anche in pace, attendere ad esercizi di armi, se Iddio strappò a lui le armi stesse? Se pure i soldati si recarono dal Battista, essi riceverono da lui l'essenza dell'insegnamento divino, e il centurione stesso abbracciò il principio di fede; il Signore poi disarmò ogni soldato, nell'ordinare a Pietro che rimettesse la spada nel fodero. Nessun uso può esser conservato presso di noi, qualora esso serva per compiere atti che non siano considerati leciti.

CAPITOLO XX.

Si può incappare nella colpa d'idolatria anche colle semplici parole.

Poiché non è solo colle nostre azioni, ma anche semplicemente parlando sulla nostra divina dottrina, che noi corriamo pericolo di cadere in colpa di idolatria, dobbiamo per questo stare molto attenti a quanto noi pronunziamo, perché appunto non si debba incorrere in tal peccato o per una colpevole consuetudine, o per un senso di non accorta timidezza. Si trova scritto infatti: ecco l'uomo e le sue azioni; ma è anche detto: troverai giustificazione per quello che la tua bocca saprà pronunziare. La legge nostra ci proibisce di nominare le divinità dei pagani, ma non mica però al punto di non ricordare i nomi di quegli Dei che possono capitare nel discorso comune! È comunissimo dover dire: tu trovi costui nel tempio di Esculapio; oppure: io sto di casa nel vico di Iside; ed anche: il tale è stato fatto sacerdote di Giove, e molte altre espressioni che suonano similmente, perché ormai tali nomi corrono sulla bocca di tutti, e sono divenuti così, comuni fra la gente. Io non intendo prestare atto d'onore a Saturno se rammenterò il nome suo, come non onoro uno che si chiama Marco, se pur lo rammenterò con tal nome che gli è proprio. Ma si dice: il nome di altri dèi non sarà ricordato, né dovrà mai uscire dalla tua bocca. Ma l'ordine contenuto in queste parole è di non chiamarli come divinità ed infatti nella prima parte della legge divina è stabilito: non ricorderai il nome di Dio tuo invano, cioè, attribuendo questo nome a un idolo. Cadde dunque nella colpa d'idolatria colui che onorò l'idolo, nel nome del Signore. Se dunque capiterà il caso di dover ricordare i falsi Dei, bisognerà sempre aggiungere qualche cosa da cui risulti chiaro, che io non sono quello che li considera vere divinità: anche la sacra scrittura ha infatti occasione di rammentare le divinità pagane; ma aggiunge: i loro Dei.... gli Dei di quelle genti. E lo stesso fa David quando, ricordando gli Dei, così si esprime: gli Dei di quelle genti sono potenze demoniache (52). Ma io ho accennato a questo per farmi strada a trattare quanto segue: del resto il ricordare il nome di Èrcole o di Giove, rientra molte volte nell'abitudine, e c'è di mezzo poi l'ignoranza anche di coloro che non reputano affatto che ciò significhi giurare in suo nome. Ma in realtà, che cosa è il chiamare con giuramento, in testimonio coloro che tu hai detestati, se non uno scostarsi della vera fede per cadere nell'idolatria? Perché, chi è che non presta tributo d'onore a colui, in nome del quale pronunzia giuramento?

CAPITOLO XXI.

Non si debbono temere le calunnie dei pagani: quanti si rendono colpevoli d'idolatria, per timidità e mancanza di coraggio!

Tu incappi nella colpa di timidezza, quando un altro t'obbliga a giurare o a fare in qualche modo solenne testimonianza nel nome delle sue divinità pagane e tu pieghi la testa, per non farti scoprire cristiano; è evidente infatti che tu, collo startene quieto, affermi la potenza di coloro per causa dei quali appari obbligato e costretto. Che cosa importa che tu le riconosca Dei, quelle divinità pagane, col farne esplicita dichiarazione verbale o col prestare orecchio a quanto possa venir detto da altri? che importa che tu pronunzi la formula del giuramento o che tu stia in disparte, indifferente e tacito, quando sei stato in loro nome solennemente chiamato e pregato da un altro? Quasi che noi non avessimo conoscenza delle astuzie e delle insidie del demonio: quello che non può ottenere direttamente dalla nostra bocca, cerca di raggiungerlo, suggerendo nelle nostre orecchie ogni principio idolatra, per bocca d'altri. Certamente chiunque sia costui, cercherà di stringerti con un discorso o apertamente ostile o simulatamente amico. Se l'inimicizia è patente, sai benissimo che quel che t'aspetta è la lotta nel circo e quindi il martirio; ma se poi invece avrà la cosa un aspetto amichevole, con quanta maggior fierezza risponderai, rivolgendoti fermamente a Dio, per infrangere e dissolvere così quella specie di vincolo col quale, il malvagio, cercava di stringerti al culto degli idoli e chiuderti nei nodi dell'idolatria? Se tu indulgi a tali manovre e permetti che tale modo d'agire si svolga, sei in colpa d'idolatria. Tu vieni a tributare onore a quelle divinità idolatre, dal momento che hai riconosciuto di dover prestare loro ascolto, quando tu ti sentisti in loro nome in certo modo obbligato. Io so di un tale, e speriamo che Iddio lo perdoni, al quale, essendo stato detto in una quistione: che tu possa provare l'ira di Giove; rispose: ma che questo possa capitare a te. Ebbene che cosa di diverso avrebbe potuto dire un pagano, che credeva realmente all'esistenza di Giove? Anche se costui avesse ritorto l'imprecazione, non nel nome stesso di Giove, ma di un'altra divinità, tuttavia dello stesso stampo di Giove, veniva implicitamente a riconoscere l'esistenza di Giove, dal momento che, ritorcendo la maledizione, significava che egli non aveva certamente piacere di dovere esperimentare Pira di Giove. Infatti che ragione ci sarebbe di sdegnarsi, di dover subire la maledizione di uno che noi riconosciamo come inesistente? Dal momento che tu monti invece su tutte le furie, vieni a dire che Giove esiste e la confessione del tuo timore è riconoscimento esplicito d'idolatria. E se tu ribatti la maledizione nel nome dello stesso Giove, allora poi, rendi a Giove quello stesso onore che gli ha tributato colui che l'ha invocato contro di te. Un cristiano, in una circostanza simile, deve ridere, non sdegnarsi affatto: c'è di più: secondo quanto ha detto Iddio, tu non devi ribattere la maledizione ricevuta neppure nel nome del Dio vero, anzi nel nome d'Iddio, devi pronunziare una parola di benedizione; sarà così che tu infrangerai ogni principio idolatra e tu dirai la gloria e la grandezza di Dio ed ubbidirai ai dettami della dottrina di Cristo.

CAPITOLO XXII.

Non e accettabile la benedizione nel nome degli Dei; il solo Dio può rivolgere la sua parola benedetta all'uomo.

Uno, seguace della dottrina di Cristo, non permetterà mai d'esser fatto segno a benedizione nel nome degli Dei dei pagani e quindi dovrà, senz'altro, respingere, ripudiare qualsiasi fot ma di benedizione empia e sacrilega e cercare di convertirla in quella del vero Dio, Esser benedetto nel nome delle divinità pagane è lo stesso che esser maledetto dal vero Dio dei Cristiani. Qualora io faccia l'elemosina o se in qualche altro modo presterò i miei benefici e il beneficato invocherà e pregherà per me i suoi Dei o il Genio della sua città perché si dimostrino a me propizi; quella mia azione benefica, quell'atto da me compiuto, non sarà stato che un tributo d'onore reso agli Dei; in quanto il mio beneficato chiede che gli Dei mi siano benigni in compenso di quanto ho fatto io a suo favore. Ma, perché non deve costui sapere chiaramente che io, quanto ho fatto, è stato in nome del vero Dio, perché tornasse ad onore ed a sua gloria, e non perché fosse tributato onore alle potenze demoniache, con quello che compii invece per la vera divinità? Si potrebbe rispondere: Iddio vede, e saprà che io ho compiuto la mia azione per lui! Ma vedrà Iddio anche questo; che tu cioè, non hai voluto che fosse manifesto che tu operavi in suo nome e quindi vedrà che tu hai volto il precetto suo, o quasi, in servigio dell'idolatria. Molti dicono: nessuno si deve manifestare; lo credo bene; ma neppure deve rinnegare la propria fede: ora, chiunque sia preso per pagano in qualsiasi circostanza e cerca di dissimulare, costui rinnega: ogni forma di negazione è idolatria, la quale risulta essere appunto dissimulazione e negazione o in opere o a parole.

CAPITOLO XXIII.

Non si può usare giuramento né orale né scritto, per assicurare chi ci desse a prestito denaro,
delle nostre intenzioni leali ed oneste.

Ma esiste una certa forma d'idolatria che s'esplica nella cosa in sé, come sostanza e nella parte anche formale: sotto ambedue i punti di vista si presenta nimicissima a noi e sottile: può bensì presentarsi sotto aspetto lusinghiero, quasi che nulla vi sia di contrario, né in una cosa né nell'altra, perché dal momento che non si pronunziano parole, anche il fatto viene a rimaner celato. Se capita di prender denaro a prestito dai Gentili, danno essi la sicurezza del pegno, ma poi offrono assicurazione sottoscrivendo una formula di giuramento; e chi fa ciò afferma di non sapere come egli possa aver rinnegato la fede: vogliono essi precisare il momento in cui ciò accadde, durante quale persecuzione, e in quale tribunale e sotto la presidenza di quale magistrato. Ma se è Cristo che prescrive che non si deve giurare! costui però, che ha giurato in scritto, a sua volta, ti salterà su a dire : io sottoscrissi, non dissi nulla; è la lingua, non la scrittura che può rovinare. A questo punto io chiamo a testimoni la natura e la coscienza. Io chiamo dunque la natura, perché essa mi dica: non può la mano nostra scrivere qualsiasi cosa, anche se la lingua se ne stia perfettamente immobile e non pronunzi neppure una sillaba, se sia stata dettata dall'anima? è l'animo nostro stesso che fa pronunziare alla lingua ciò che questo ha concepito o che gli è stato suggerito da altri. E non si venga poi a dire: questo giuramento è un altro che l'ha dettato: ne sia testimone l'anima stessa e mi dica se essa abbia in quel momento ricevuto e approvata quel che altri dettò e se vi sia stato bisogno, per tramandarlo alla mano, dell'aiuto o meno della lingua. Disse bene il Signore quando affermò che si pecca nell'animo e nella coscienza: se, disse la cupidigia e la malvagità avranno fatto tanto di penetrare nel cuore dell'uomo, sei ormai stretto dalla colpa. Tu ti sapesti magari, guardare e sfuggire, nel fatto, a ciò che nel tuo cuore era ormai disceso ed aveva preso dominio; ma con questo non puoi dire d'averlo ignorato e di non averlo voluto: quando tu pur te ne guardasti, sapesti bene quello di cui si trattava e sapendolo, lo avevi in certo modo accolto nella tua intima volontà e quindi sei in colpa, tanto nella realtà della cosa, come nel pensiero che ad essa ti ha condotto.

E non puoi con una colpa più lieve, liberarti da una maggiore, così che tu possa sostenere esser falsa l'accusa d'aver rinnegata la fede, dal momento che la tua parola non ha giurato, ma ti sei contentato di sottoscrivere tacitamente il giuramento. C'è di più: ammettiamo che tu avessi acconsentito a questo contratto per dire che sei stato uno spergiuro : non voler sostenere che la ta-cita voce della penna non ha valore, o il muto suono dello scritto. Zaccaria infatti, che fu colpito colla materiale perdita della parola, parlò con tutta l'anima sua: non ebbe bisogno di far uso della lingua; fu dal suo cuore che egli dettò, così che le sue mani scrissero e il nome del figlio suo uscì dal suo spirito, da tutto il suo intimo, senza bisogno d'aprir bocca: la sua penna parlò per lui e fu, la mano che impresse sulla cera, udita più chiaramente di qualsiasi voce e lo scritto ebbe delle risonanze più forti di qualunque grido. Chiedi dunque se abbia parlato, quando si sa benissimo che egli chiaramente riuscì a manifestare il suo pensiero? Rivolgiamo fervida preghiera a Dio che noi non siamo costretti giammai a stipulare contratti di tal genere; ma qualora un fatto simile dovesse avvenire, conceda ai nostri fratelli il modo di trovare rimedio alle loro miserie, o ci dia la forza di spezzare, d'infrangere, di vincere qualsiasi dura e trista necessità, perche quelle lettere che invece della bocca dissero negazione di fede, nel giorno del giudizio divino non siano poste dinanzi a noi intatte, con tanto di sigilli, ma non in forza della nostra difesa, ma fissate ormai dalle avverse potenze demoniache, e loro possesso e testimonianza ai nostri danni.

CAPITOLO XXIV.

La Fede è paragonabile ad una nave.

La fede compie la sua navigazione fra questi scogli e insenature, in mezzo a secche, fra gli stretti dell'idolatria; essa è spinta dal divino spirito di Dio e se ne va sicura, se pur procede con cautela; senza pericolo alcuno, se sta in guardia: del resto questo mare profondo non è possibile attraversarlo se uno vi balzasse dentro; con imprudenza chi urta negli scogli subisce inevitabilmente un naufragio, da cui non potrà liberarsi, e coloro che sono incappati e travolti dalle credenze idolatre, non è possibile che tornino a più ampio respiro; non c'è flutto che non li soffochi, ogni vortice li trasporta alla rovina. Nessuno per altro dica: ma come sarà possibile che taluno possa vivere in una tale condizione di sicurezza? Bisognerà assolutamente allontanarsi dalla vita: quasi che infatti metta conto di partirsene, piuttosto che restare su questa terra, come idolatra: nulla può esservi di più facile che guardarsi dall'idolatria, purché si abbia per essa senso di |162 timore e questo sia in cima ad ogni nostro pensiero. Qualunque altra cosa, per quanto grave, è minore del pericolo rappresentato dall'idolatria: fu per questo appunto che lo Spirito Santo, consultandolo gli Apostoli, ci allentò il legame e il giogo della legge, perché attendessimo così ad evitare l'idolatria: questa è la nostra legge: quanto più essa è chiara e libera, tanto più per questo si deve osservare e rispettare pienamente: è proprio essa, dei Cristiani: è per essa che noi ci distinguiamo dai Gentili: ed è su di essa che siamo messi alla prova. È questa la Fede che bisogna inculcare a coloro che vogliono avvicinarsi a noi, perché seguano decisamente una linea di condotta e perseverino nella stretta osservanza di essa, o, non attendendosi ai suoi dettami, vi rinunzino poi decisamente. Nell'arca, simbolo della Chiesa, potremo vedere come vi fosse stato il corvo, lo sparviero, il lupo, il cane, il serpente, e quindi, anche nella Chiesa vi saranno i peccatori; ma nell'arca non ci fu alcun animale che fosse simbolo dell'idolatria; onde, ciò che non fu nell'arca, non sia neppur nella Chiesa.


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