VIII.
Chi ha l'anima molto divisa difficilmente riesce a raggiungere lo scopo più alto

Ma ammettiamo pure che l'opinione di quelli che sono versati su quest'argomento sia quella giusta; quanto a noi, continuiamo il nostro discorso. Di che cosa parlavamo? Se è possibile, dobbiamo fare in modo da non allontanarci dal desiderio più divino e da non evitare il matrimonio. Nessun ragionamento può cancellare l'economia naturale e calunniare ciò che è prezioso come se fosse una cosa abominevole. Ricorrendo all'esempio che abbiamo su riportato dell'acqua e della fonte, vediamo che un contadino che vuole far venire dell'acqua su di un terreno per irrigarlo, se nel frattempo ha bisogno di una piccola quantità, ne fa scorrere soltanto una quantità proporzionata al bisogno impellente, che poi fa tornare di nuovo in modo appropriato nel suo corso principale; se invece facesse scorrere l'acqua senza criterio e parsimonia, questa, abbandonata la via maestra, correrebbe il rischio di disperdersi tutta per vie oblique nei canali scavati. Allo stesso modo, poiché nella vita gli uomini devono succedersi gli uni agli altri, chi in tale congiuntura si comporta in modo da lasciare il primo posto alle cose spirituali e da soddisfare in misura moderata e contenuta i suoi desideri «perché il tempo stringe», è veramente il saggio coltivatore, «colui che coltiva se stesso nella sapienza», come dice il precetto dell'apostolo: egli non pensa in modo meschino al pagamento dei suoi tristi debiti, ma sceglie d'accordo con la congiunta la purezza per attendere di più alla preghiera, nel timore di diventare, per colpa della passione, tutto carne e sangue, «in cui non rimane lo spirito di Dio». Chi invece è così debole da non potersi opporre virilmente al corso della natura, farebbe meglio a tenersi lontano dal matrimonio piuttosto che cimentarsi in una lotta superiore alle sue forze. C'è infatti il pericolo che, ingannato dal piacere che prova, egli consideri come unico bene quello che si ottiene tramite la carne con la passione, e che, allontanato dalla mente ogni desiderio dei beni incorporei, diventi interamente carnale, e persegua in tutti i modi questo piacere, sì da rendersi «amico più del piacere che di Dio». Poiché a causa della debolezza della natura non tutti possono trovare la giusta misura in queste cose e chi oltrepassa la misura corre il rischio d'imprigionarsi «nel fango profondo», come dice il salmista, sarebbe meglio per lui trascorrere la vita senza fare tali esperienze, così come consiglia il nostro discorso, in modo da evitare che le passioni assalgano la sua anima sotto il pretesto della liceità.

IX.
E' in genere difficile cambiare le proprie abitudini

Generalmente, contro l'abitudine non si può combattere: essa possiede in effetti una grande forza capace di attirare a sé l'anima umana e di presentarle una sembianza di bellezza alla quale l'anima stessa finisce con l'affezionarsi ed assuefarsi; nulla è per natura così repellente da non essere ritenuto desiderabile e preferibile in seguito all'assuefazione. La verità di ciò che dico è dimostrata dalla vita umana: fra tanti popoli, nessuno esercita le stesse occupazioni; al contrario, le cose belle ed onorate sono diverse da popolo a popolo, in quanto in ciascun popolo è proprio l'abitudine a fare di una cosa l'oggetto di un'occupazione e di un desiderio. Non solo presso i popoli si può constatare questa mutata disposizione nei confronti delle stesse occupazioni che sono da alcuni ammirate, e da altri vilipese: anche in una stessa città ed in una stessa famiglia si possono osservare grandi differenze tra i singoli componenti, dovute all'abitudine. I fratelli nati da un unico parto si differenziano per lo più nella vita per le loro occupazioni; ciò non deve destare meraviglia, giacché la stessa cosa non è giudicata allo stesso modo da tutti gli uomini: ciascuno fa dipendere i propri giudizi dalla propria disposizione d'animo determinata dalle abitudini. Per non parlare di cose troppo lontane dall'argomento del mio discorso, dirò che conosciamo molte persone che sembrano particolarmente amanti della temperanza nella loro prima giovinezza e che poi cominciano a condurre una vita corrotta quando si convincono che il godimento dei piaceri è legittimo e consentito. Per restare nel paragone da noi fatto del corso d'acqua, una volta che hanno provato i piaceri fanno volgere verso di essi tutta la loro facoltà concupiscibile: spostato l'impulso della loro intelligenza dalle cose più divine a quelle più vili e materiali, lasciano aperto un grande varco alle passioni, sulle quali si riversano tutti i loro desideri, mentre ogni spinta verso l'alto si esaurisce e s'inaridisce.

Per questo pensiamo che le persone più deboli facciano bene a rifugiarsi nella verginità come in una cittadella sicura, senza attirare su di sé le tentazioni scendendo nell'ingranaggio della vita e senza cadere prigionieri di coloro che, servendosi delle passioni carnali, «combattono la legge della nostra intelligenza»: in tal modo, si metteranno a pensare non ai confini dei terreni o alla perdita delle ricchezze o a qualcun'altra delle cose che vengono cercate in questa vita, ma a quella speranza che viene prima di tutto il resto. Chi rivolge il proprio pensiero a questo mondo, chi si preoccupa delle cose di quaggiù, chi passa il proprio tempo a piacere agli uomini, non può obbedire al primo e più grande comandamento del Signore, che prescrive di amare Dio con tutto il cuore e con tutta la forza. Come può infatti costui amare Dio con tutto il cuore, se divide il proprio cuore tra Dio ed il mondo, sottraendogli in un certo senso e lasciando consumare dalle passioni umane l'amore che solo a Lui è dovuto? «L'uomo non sposato si preoccupa infatti delle cose del Signore, l'uomo sposato di quelle del mondo». Se la battaglia contro i piaceri sembra dura, ci si faccia coraggio; va ricordato a tal proposito che l'abitudine non è di piccolo aiuto nel produrre mediante la perseveranza un nuovo piacere anche in quelli che sembrano i frangenti più difficili: si tratta del piacere più bello e più puro, di cui può degnamente cingersi l'uomo assennato, piuttosto che immeschinirsi nelle cose vili e perdere quei beni che sono veramente i più grandi e che «superano ogni intelligenza».

X.
Qual è l'oggetto che si deve desiderare veramente

Quale discorso potrebbe mai descrivere il danno rappresentato dalla perdita della vera bellezza? A quali straordinari pensieri si dovrebbe far ricorso? Come si potrebbe far vedere e delineare ciò che è ineffabile per qualsiasi discorso ed incomprensibile per qualsiasi pensiero? Se l'occhio della mente si purificasse al punto da poter vedere in qualche modo ciò che il Signore annunzia nelle beatitudini, si giungerebbe a disconoscere ogni voce umana, come assolutamente incapace di presentare quest'oggetto di pensiero. Se invece ci si trova ancora in mezzo alle passioni materiali e se la disposizione passionale chiude come una cispa la facoltà visiva dell'anima, neanche in questo caso la potenza del discorso può servire; per chi è insensibile, è indifferente che il discorso diminuisca o esalti le meraviglie, così come nel caso del raggio solare colui che fin dalla nascita non è in grado di vedere la luce ritiene ozioso ed inutile qualsiasi discorso che tenti di spiegarla: non è possibile far brillare attraverso l'udito lo splendore del raggio. Analogamente, anche per quanto riguarda la luce intelligibile e vera, ciascuno ha bisogno dei propri occhi per poter contemplare questa bellezza: chi l'ha vista per effetto di una grazia ed ispirazione divina conserva nell'intimo della propria coscienza uno stupore inesprimibile; chi invece non l'ha vista, non può neppure rendersi conto del danno rappresentato da questa privazione. Come gli si potrebbe infatti presentare il bene che gli è sfuggito? Come gli si potrebbe porre sotto gli occhi l'inesprimibile? Non conosciamo parole capaci di esprimere questa bellezza, e fra gli esseri non esiste nessun esempio che possa dare un'idea di ciò che si cerca; parimenti impossibile è mostrarlo con un paragone. Chi potrebbe paragonare il sole ad una piccola scintilla o mettere una piccola goccia di fronte all'immensità degli abissi marini? Il rapporto che c'è tra la piccola goccia e gli abissi o tra la piccola scintilla e la grande luce del sole esiste anche tra tutte le cose che gli uomini ammirano come belle e quella bellezza che si contempla attorno al primo bene ed a ciò che è al di là di ogni bene.

Quale accorgimento potrebbe mostrare la gravità della perdita a chi la subisce? Mi sembra che il grande David abbia fatto capire bene quest'impossibilità: quando una volta il suo pensiero venne sollevato dalla potenza dello spirito ed egli, uscito come fuori di sé, vide nell'estasi beata quella bellezza straordinaria ed inconcepibile; quando, abbandonati i velami della carne e raggiunta con il solo pensiero la contemplazione delle realtà incorporee ed intelligibili, fu in grado di vedere quello che un uomo riesce a vedere; quando provò il desiderio di dire qualcosa che fosse degno della visione, allora profferì quella frase che tutti cantano: «Ogni uomo è un mentitore». Secondo me, essa significa che ogni uomo che voglia affidare alla voce la spiegazione di quella luce ineffabile è veramente un mentitore, non per odio della verità, ma per l'inefficacia del suo racconto. Ad ammirare, a percepire e a rendere note tutte le bellezze sensibili presenti nella nostra vita, appaiano esse con i loro bei colori o nella materia inanimata o nei corpi animati, basta la forza delle nostre facoltà sensitive: grazie alla descrizione fatta dalle parole, tale bellezza è riprodotta nel discorso come in un'immagine. Ma se il modello sfugge al pensiero, come può il discorso farlo vedere, non trovando alcun mezzo per descriverlo? Non può ricorrere a nessun colore, a nessuna forma, a nessuna grandezza, a nessuna simmetria di parti, e per dirla in breve a nessuna di queste vuote parole. Ciò che è assolutamente privo di forma e di aspetto e che si trova lontano, al di fuori di ogni quantità e di ciò che si contempla nei corpi e che ricade nel dominio dei sensi come può essere conosciuto tramite ciò che si percepisce soltanto con le sensazioni? Non bisogna però ripudiare questo desiderio solo perché il suo soddisfacimento sembra superiore alla nostra comprensione: al contrario, quanto più il nostro discorso mostra la grandezza dell'oggetto ambito, tanto più dobbiamo elevare il pensiero ed innalzarlo fino alla sublimità di ciò che cerchiamo, in modo da non essere esclusi del tutto dalla partecipazione al bene. Data la sua eccessiva altezza ed ineffabilità, è assai facile scivolare al di fuori della sua contemplazione, senza avere modo di appoggiare il pensiero a qualcuna delle cose conosciute.

XI.
Come si può giungere a concepire la vera bellezza.

A causa di questa nostra insufficienza dobbiamo in qualche modo guidare il nostro pensiero verso l'invisibile servendoci di ciò che è conosciuto alle sensazioni. Potremmo arrivare a concepirlo nel modo seguente. Coloro che considerano le cose in maniera superficiale e prescindendo dall'intelligenza, quando vedono presentarsi un uomo o un qualsiasi altro oggetto, si danno pensiero solo di ciò che vedono: la sola vista della mole del corpo basta a far credere loro di conoscere l'uomo in modo completo. Chi invece guarda con l'anima ed ha imparato a non affidare ai soli occhi l'osservazione delle cose, non si ferma alle apparenze né considera come non esistente ciò che non vede, ma pensa alla natura dell'anima dell'uomo ed esamina sia nel loro insieme che singolarmente le qualità che appaiono nel suo corpo; con il suo ragionamento le separa le une dalle altre e considera quindi il modo in cui esse concorrono e contribuiscono insieme alla formazione del soggetto. Lo stesso accade nella ricerca del bello: chi è meno intelligente, alla vista di una cosa che ha un'apparenza di bellezza è portato dalla propria natura a pensare che sia bello ciò che attira le sensazioni tramite il piacere, e non si preoccupa d'altro; chi ha invece l'occhio dell'anima più puro ed è in grado di guardare le realtà più alte, lascia andare la materia che si trova sotto l'idea del bello e si serve di ciò che vede come di un punto di partenza per giungere alla contemplazione della bellezza intelligibile, partecipando della quale ogni altra cosa diventa ed è chiamata bella.

Poiché quasi tutti gli uomini viventi nutrono dei pensieri così grossolani, a mio parere riesce loro difficile pensare alla natura del bello assoluto separando con un taglio netto, mediante il loro ragionamento, la materia dalla bellezza che contemplano. Se poi si vuole esaminare con attenzione la causa delle supposizioni errate e perverse, non credo di poterne trovare una diversa dal fatto che «le facoltà sensoriali della nostra anima non sono ben esercitate nel riconoscimento del bello e del brutto». Per questo gli uomini si allontanano dalla ricerca del vero bene: alcuni scivolano verso l'amore carnale, altri rivolgono i loro desideri verso le ricchezze inanimate ed immateriali, altri fanno consistere il bello negli onori, nella fama e nella potenza, altri si stupiscono di fronte alle arti ed alle scienze; altri infine, più abietti di costoro adottano la gola ed il ventre come criteri per giudicare il bene. Se, lasciati i pensieri materiali e le affezioni per le apparenze, cercassero la natura semplice, immateriale e senza forma del bello, non commetterebbero errori nella scelta delle cose desiderabili né si lascerebbero fuorviare da quest'inganno fino al punto da non giungere a disprezzare tali cose considerando il carattere effimero dei loro piaceri.

Questa dovrebbe essere dunque per noi la strada che conduce alla scoperta del bello: lasciate da parte come vili ed effimere le cose che attirano i desideri degli uomini in quanto sono ritenute belle e di conseguenza anche degne di essere ambite ed accettate, non dobbiamo disperdere in nessuna di esse la nostra facoltà concupiscibile, né tenerla chiusa in noi e costringerla a restare inerte ed immobile; al contrario, una volta che l'abbiamo purificata dall'affezione per le cose meschine, dobbiamo condurla là dove non giungono le sensazioni. In tal modo essa non ammirerà più né la bellezza del cielo né gli splendori degli astri né alcun'altra delle cose che sembrano belle, ma si lascerà guidare dalla bellezza che si contempla in esse fino al desiderio di quella bellezza «la cui gloria è celebrata dai cieli e la cui conoscenza è annunziata dal firmamento e da ogni creatura». Così l'anima, salendo in alto e lasciando dietro di sé in quanto inferiore all'oggetto cercato tutto ciò che è percepibile, può giungere a concepire «quella sublimità che si eleva al di sopra dei cieli».

Ma chi si preoccupa delle cose meschine, come può raggiungere quelle più alte? Come si può volare verso il cielo se non si è muniti delle ali celesti e se non ci si solleva verso le regioni superiori con l'aiuto di una condotta di vita più elevata? Chi sta così al di fuori dei misteri evangelici da ignorare che esiste per l'anima umana un solo veicolo capace di farla viaggiare verso i cieli, il rendersi simili nell'aspetto alla colomba che scese giù, e le cui ali furono desiderate anche dal profeta David? In questo modo enigmatico la Scrittura è solita alludere alla potenza dello Spirito, o perché quest'uccello non ha bile, o perché è nemico dei cattivi odori, come dicono coloro che l'hanno osservato. Chi dunque abbandona ogni amarezza ed ogni lezzo carnale e si eleva al di sopra di tutte le cose meschine e basse; chi, per meglio dire, s'innalza al disopra di tutto il mondo grazie all'ala di cui si è parlato, è in grado di trovare l'unico oggetto degno di desiderio e di diventare anch'egli bello una volta che si è avvicinato al bello: divenuto risplendente e luminoso in questa bellezza, continuerà a rimanere partecipe della vera luce. Dicono gli esperti che gli splendori che spesso appaiono di notte nell'aria e che alcuni chiamano stelle cadenti altro non sono che dell'aria che si riversa nelle regioni eteree sotto la spinta di certi venti: secondo loro, quest'impulso igneo si imprime nel cielo allorché il vento s'infiamma nell'etere. Come l'aria che si trova attorno alla terra sollevata dalla forza del vento diventa luminosa, giacché è trasformata dalla purezza dell'etere, così anche la mente umana, abbandonata questa vita sudicia e squallida, diventa pura e luminosa grazie alla potenza dello spirito, si unisce alla purezza vera e sublime, risplende in un certo senso in essa, si riempie di raggi e diventa luce secondo la promessa del Signore che annunziò che i giusti sarebbero stati splendenti come il sole. Vediamo che ciò si verifica anche sulla terra in presenza di uno specchio d'acqua o di altra superficie capace di risplendere per la sua levigatezza. Una superficie di tal genere, quando riceve il raggio solare, produce e fa uscire da sé un altro raggio; non potrebbe farlo, se la sua purezza ed il suo splendore fossero offuscati dalla sporcizia. Se noi ci eleviamo lasciando la tenebra terrestre e ci avviciniamo alla vera luce di Cristo, possiamo diventare luminosi in queste regioni superiori; e se «la vera luce che risplende anche nelle tenebre» giunge anche a noi, anche noi siamo luce, come dice il Signore ai suoi discepoli in un passo del Vangelo; c'è solo il rischio che la sporcizia prodotta dal vizio, crescendo nel cuore, indebolisca la grazia della nostra luce.

Mediante questi esempi il nostro discorso ci ha forse messo in grado piano piano di pensare a come trasformarci in ciò che è superiore a noi; abbiamo mostrato che non si può unire l'anima al Dio incorruttibile se essa non diventa il più possibile pura mediante l'incorruttibilità in modo da comprendere il simile con il simile, se non si offre come uno specchio riflettente alla purezza di Dio e se non forma la propria bellezza partecipando della bellezza originaria e riflettendola. Chi è capace di abbandonare tutte le cose umane, siano esse i corpi, le ricchezze, le occupazioni che si riferiscono alla scienza o alle arti o tutto ciò che i costumi e le leggi ritengono buono (il giudizio sul bello erra infatti proprio quando si adotta come criterio la sensazione), prova amore e desiderio solo nei confronti di quell'oggetto che non ha ricevuto da altri la propria bellezza e che è bello non in rapporto ad un'altra cosa ma di per sé, grazie a sé ed in sé, in quanto è costantemente bello: esso non diventa bello in un certo momento per non esserlo più in un altro, ma rimane sempre nello stesso stato, al di sopra qualsiasi aggiunta ed accrescimento, senza essere oggetto ad alcun cambiamento ed alterazione.

Oso dunque dire che a colui che ha purificato «da ogni specie di vizio» tutte le facoltà della propria anima si rivela l'oggetto che è bello unicamente grazie alla sua natura e che è la causa di ogni bellezza e di ogni bene. Come l'occhio liberato dalla cispa vede splendere ciò che si trova nell'aria, così l'anima, grazie alla purezza, possiede la facoltà di pensare quella luce: la vera verginità e la ricerca dell'incorruttibilità perseguono lo scopo della visione di Dio, che è resa possibile proprio da esse. Nessuno ha la mente così cieca, da non capire da sé che l'oggetto che è bello, buono e puro in modo vero, originario unico è il Dio di tutte le cose.

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