TERZA PARTE

Contiene molti consigli per l’esercizio delle virtù

Capitolo I

LA SCELTA NECESSARIA NELL’ESERCIZIO DELLE VIRTU’

Come la regina delle api non esce mai senza essere circondata da tutto il suo piccolo popolo, così la carità non entra mai in un cuore senza condurre al suo seguito tutte le altre virtù. Come un buon capitano le mantiene tutte in esercizio e le impiega in vari compiti, come soldati: chi per un servizio, chi per un altro; chi in un modo, chi in un altro; chi prima e chi dopo; chi in questo luogo chi in quell’altro.

Il giusto è come un albero piantato lungo un corso d’acqua che porta i frutti nella sua stagione. Quando la carità entra in un’anima, produce in essa frutti di virtù, ciascuno a suo tempo.

La musica briosa, tanto gradevole in sé, può essere fuori luogo in un lutto. Sono molti ad avere il difetto che ora ti dico: siccome si sono impegnati in una determinata virtù, si intestardiscono a volerla praticare in tutte le circostanze, e vogliono o piangere senza interruzione o ridere senza fine; proprio come certi antichi filosofi. Anzi, fanno di peggio: trovano da ridire e coprono di biasimo quelli che non li seguono nell’esercizio delle "loro" virtù.

L’Apostolo dice che bisogna rallegrarsi con quelli che sono contenti e piangere con quelli che sono afflitti; dice anche che la carità è paziente e benevola, aperta e prudente, accondiscendente.

Ci sono, a dire il vero, delle virtù che hanno un impiego quasi universale, per cui, non soltanto non devono essere praticate separatamente, ma anzi devono arricchire delle loro qualità gli atti di tutte le altre virtù. Per esempio, le occasioni di praticare la forza, la magnanimità, la munificenza, non sono molto frequenti; altre virtù invece, come la dolcezza, la temperanza, l’onestà e l’umiltà devono dare colore e splendore agli atti di tutte le altre virtù. Non è che non ci siano virtù superiori in eccellenza; ma il fatto è che queste sono richieste con maggior frequenza. Lo zucchero è più buono del sale, ma il sale ha un impiego più frequente e più generale. Questa è la ragione per la quale occorre avere sempre pronta una buona provvista di queste virtù generali. Si può dire che il loro impiego sia necessario quasi ininterrottamente.

Nell’esercizio delle virtù dobbiamo dare la precedenza a quelle più utili al compimento del nostro dovere, non a quelle che ci piacciono di più. A Santa Paola piacevano le asprezze delle mortificazioni corporali per godere più facilmente delle dolcezze dello spirito, ma il suo primo dovere era l’obbedienza ai superiori; questa è la ragione per la quale S. Girolamo dice che era da riprendere perché si dava a digiuni incontrollati contro il parere del suo Vescovo.

Gli Apostoli, per contro, istituiti per predicare il Vangelo e distribuire il pane celeste alle anime, giudicarono cosa molto ben fatta, per poter esercitare tale mansione senza distrazioni, tralasciare la pratica della virtù della cura dei poveri, che pure, in sé, è ottima.

Ogni vocazione ha le sue virtù particolari: le virtù proprie di un Vescovo non sono quelle di un principe; le virtù adatte ad un soldato non sono quelle di una donna sposata; quelle di una vedova, sono altre ancora. E’ vero che tutti devono possedere tutte le virtù, ma questo non vuol dire che debbano praticarle allo stesso modo; ognuno deve impegnarsi in modo tutto speciale in quello proprie dello stato cui è stato chiamato.

Tra le virtù che non riguardano in modo specifico il nostro stato, dobbiamo dare la preferenza alle migliori e non alle più appariscenti. Alla vista le comete sembrano più grandi delle stelle e ai nostri occhi hanno una dimensione maggiore; e invece non sono nemmeno paragonabili alle stelle, né per grandezza, né per luminosità; ci sembrano più grandi solo perché sono più vicine a noi e composte di materiale più grossolano di quello delle stelle.

Lo stesso avviene per certe virtù che, per il fatto che sono più vicine a noi, sono sensibili e direi quasi palpabili, il popolino le stima molto e le preferisce.

Per questo rimane più colpito dall’elemosina materiale che da quella spirituale; antepone il cilicio, il digiuno, la nudità, la disciplina e le mortificazioni del corpo alla dolcezza, alla bontà, alla modestia e altre mortificazioni del cuore: se vogliamo essere onesti, queste ultime sono di molto migliori.

Tu, Filotea, devi scegliere le virtù più consistenti, non quelle che godono di maggior stima; le più efficaci, non le più appariscenti; le migliori, non le più onorate.

E’ bene che ognuno scelga l’esercizio particolarmente intenso di qualche virtù, non per questo abbandonando le altre , ma per tenere sempre abitualmente il proprio spirito ordinato e occupato.

Una giovane donna, bellissima, splendida più del sole, vestita come una regina, cinta di una corona di olivo, apparve a S. Giovanni, Vescovo di Alessandria e gli disse: Sono la figlia primogenita del Re, se mi accetti come amica ti condurrò alla sua presenza. La riconobbe, era la Misericordia verso i poveri che Dio voleva da lui. Vi si consacrò con tanta assiduità che fu chiamato S. Giovanni Elemosiniere.

Eulogio di Alessandria desiderava compiere qualche cosa di speciale per il Signore: siccome non aveva abbastanza salute per abbracciare la vita dell’eremita o per porsi sotto l’obbedienza di un altro, accolse presso di sé un emarginato dalla società, campione di ogni vizio e ladroneria, per esercitare nei suoi confronti la carità e la mortificazione; per farlo ancora meglio fece voto di onorarlo, trattarlo e servirlo come un domestico nei confronti del suo padrone e signore. Ad un certo momento, sia l’uno che l’altro, ebbero la tentazione di separarsi; chiesero consiglio al grande S. Antonio che disse: Figli miei, guardatevi bene dal separarvi uno dall’altro; siete oramai prossimi alla vostra fine, e se l’Angelo non vi trova insieme, correte grande pericolo di perdere le vostre corone.

Il Re S. Luigi considerava un premio visitare gli ospedali e serviva gli ammalati di persona.

S.Francesco amava tanto la povertà, che la chiamava la sua signora; S. Domenico invece, amava tanto la predicazione, che ne ha dato il nome ai suoi Frati. S. Gregorio il Grande, sull’esempio di Abramo, trattava i pellegrini con affetto, e il Re della gloria gli fece lo stesso onore che aveva fatto al Patriarca Abramo presentandosi a lui in veste di pellegrino.

Tobia esercitava la virtù della sepoltura dei morti. S. Elisabetta, che pure era una grande principessa, amava l’abiezione di se stessa. S. Caterina da Genova, rimasta vedova, si consacrò al servizio degli ospedali. Cassiano racconta che una ragazza devota, volendo esercitare la virtù della pazienza, ricorse a S. Atanasio, che le pose a fianco una vedova triste, collerica, dispettosa, insofferente che, aggredendola senza interruzione, le diede modo di praticare alla perfezione la dolcezza e la condiscendenza.

Tra i Servitori di Dio c’è chi si impegna nel servizio dei malati, chi ad aiutare i poveri, chi a promuovere la conoscenza della dottrina cristiana tra i piccoli, chi a radunare le anime perdute o smarrite, chi a preparare le chiese e ad ornare gli altari, chi a procurare la pace e la concordia tra gli uomini.

In ciò imitano i ricamatori, i quali, su fondi diversi, dispongono in studiata varietà le sete, l’oro, l’argento, per formare fiori di ogni specie; la stessa cosa fanno quelle anime pie che iniziano uno speciale esercizio di devozione. Tale devozione serve loro da fondo per il ricamo spirituale, sul quale poi impostano le variazioni di tutte le altre virtù; in tal modo mantengono i loro atti e i loro affetti uniti e ordinati proprio in forza del rapporto in cui mantengono le singole virtù con la principale. Per tale motivo il loro spirito appare nel suo bel vestito di broccato d’oro ricamato e trapunto di vari motivo all’ago.

Quando siamo combattuti da qualche vizio, abbracciamo la virtù contraria, sempre che siamo in condizione di farlo, riconducendo le altre a quella. In tal modo sconfiggeremo il nemico e continueremo a progredire in tutte le virtù.

Se sono combattuto dall’orgoglio e dalla collera, devo assolutamente chinarmi e piegarmi all’umiltà e alla dolcezza; per riuscirvi, ricorrerò all’orazione, ai Sacramenti, alla prudenza, alla costanza, alla sobrietà.

Prendo il paragone del cinghiale, il quale, per rendere aguzze le zanne di difesa le sfrega e le appuntisce con l’aiuto degli altri denti, il che fa sì che tutti ne risultino affilati e taglienti; allo stesso modo, l’uomo virtuoso, che ha iniziato l’opera della perfezione, deve limare e affilare quella virtù della quale sente maggiormente il bisogno per la propria difesa; e questo per mezzo dell’esercizio delle altre virtù, che, a loro volta, mentre affilano quella, ne traggono vantaggio, migliorano e risultano meno ruvide.

Così capitò a Giobbe, che esercitando in modo particolare la virtù della pazienza, a causa di tante tentazioni cui era sottoposto, finì col diventare perfettamente santo e virtuoso in tutte le virtù e sotto ogni aspetto.

Secondo quanto dice S. Gregorio di Nazianzo, può capitare che, per un solo atto perfetto di una virtù, qualcuno raggiunga l’apice di tutte le virtù. Come esempio porta Raab che, per aver praticato in modo perfetto l’ospitalità, giunse a somma gloria; ciò si deve intendere solo per i casi in cui l’atto è stato veramente perfetto, e animato da un grande fervore di carità.

Capitolo II

CONTINUAZIONE DEL MEDESIMO DISCORSO SULLA SCELTA DELLA VIRTU’

Molto bene dice S. Agostino quando afferma che coloro i quali iniziano il cammino della devozione commettono certi errori che, stando al rigore dei canoni sulla perfezione, sono biasimevoli; ma per un altro verso sono lodevoli perché sono segno della grande pietà che seguirà; ne sono in certo modo l’avvio.

Il timore servile, frutto d’ignoranza, che genera scrupoli eccessivi nelle anime di coloro che escono dall’abitudine al peccato, all’inizio può essere una virtù raccomandabile; fa prevedere con sicurezza una retta coscienza in futuro. Se lo stesso timore dovesse persistere in coloro che hanno già fatto un certo progresso, sarebbe un segno negativo; perché nel cuore di costoro deve dominare l’amore che, per gradi, elimina il timore servile.

Agli inizi, S. Bernardo era rigido e rude con coloro che si ponevano sotto la sua direzione: diceva loro, per prima cosa, che era necessario abbandonare il corpo per continuare verso di Lui solo con lo spirito. Quando ascoltava le loro confessioni, aggrediva con tale severità ogni loro difetto, per piccolo che fosse, e faceva pressioni con tanta forza su quei poveri principianti, che volendo spingerli con troppa forza verso la perfezione, finiva per farli rinunciare e tornare indietro. Sotto quelle pressioni ininterrotte si scoraggiavano e si sentivano incapaci di affrontare una salita così ripida e così lunga.

Se rifletti un po’, Filotea, giungi alla conclusione che si trattava di uno zelo molto bruciante di un’anima perfetta che consigliava a quel grande santo quel tipo di metodo. Quello zelo era senz’altro una grande virtù in sé, ma una virtù che pur essendo tale, nel caso specifico era da riprovare. Dio stesso gli apparve e lo corresse e colmò la sua anima di uno spirito dolce, soave, amabile e tenero, che lo resero totalmente un altro. Si accusò di essere troppo rigido e severo e si trasformò in un uomo tanto cordiale e arrendevole con tutti, da potergli applicare il detto: Tutto a tutti, per conquistare tutti.

S.Girolamo racconta che la sua cara figlia spirituale S. Paola, non solo era portata all’esagerazione, ma era testarda nella pratica delle mortificazioni corporali, fino a non volersi arrendere al parere contrario che il suo Vescovo, S. Epifanio, le aveva espresso al riguardo. Oltre a ciò, si era lasciata andare talmente al pianto per la morte dei suoi, che aveva rischiato di morire. S. Girolamo conclude: Mi direte che anziché tessere le lodi di questa santa, sto scrivendone critiche e rimproveri. Ma, davanti a Gesù, che ella ha servito e che io voglio servire, affermo che non mento né pro né contro, come cristiano di una cristiana; voglio dire che io ne sto scrivendo la storia e non un panegirico; i suoi vizi sono virtù per gli altri. Intende dire cjìhe gli scarti e i difetti di S. Paola sarebbero state virtù in un’anima meno perfetta; se consideriamo seriamente le cose troveremo degli atti che vengono considerati difetti in coloro che sono perfetti, che potrebbero essere considerate grandi perfezioni in coloro che sono imperfetti. In uno che esce dalla malattia è buon segno avere le gambe gonfie, perché dimostra che la natura ha già ripreso vigore e si sbarazza degli umori superflui; ma lo stesso sintomo sarebbe cattivo indizio in una persona non malata, perché starebbe ad indicare che la natura non ha sufficiente vigore per eliminare e assorbire gli umori.

Filotea, bisogna avere una buona opinione di quelli che vediamo impegnati nella pratica delle virtù, anche se frammiste a imperfezioni; anche i Santi le hanno praticate in tal modo.

Per quello che ci riguarda personalmente, dobbiamo impegnarci ad esercitarle molto seriamente, non soltanto con fedeltà, ma anche con prudenza. A tal fine facciamo nostro il consiglio del Saggio: Non fare affidamento sulla tua prudenza, ma su quella di coloro che Dio ti ha dato per guidarti.

Ci sono alcune cose che molti considerano virtù, e invece non lo sono affatto! Bisogna che te ne parli in po’. Sono le estasi, i rapimenti, l’insensibilità, l’impassibilità, l’unione deificante, le elevazioni, le trasformazioni e simili perfezioni su cui si dilungano alcuni libri, che promettono l’elevazione dell’anima fino alla contemplazione puramente intellettuale, all’adesione essenziale dello spirito e alla vita superiore.

Vedi, Filotea, queste perfezioni non sono virtù; sono piuttosto ricompense che Dio concede come premio alle virtù o, meglio ancora, saggi della felicità della vita futura, che, qualche volta, il Signore fa intravedere agli uomini per far loro desiderare il tutto lassù in paradiso.

Questa non è una ragione per esigere tali grazie, anche perché non sono in nessun modo necessarie per servire e amare Dio, che deve essere la nostra unica aspirazione. Non sono grazie che possono essere conquistate con lavoro e impegno perché, più che di azioni si tratta di passioni, che siamo in grado di ricevere, ma non di procurare.

Aggiungo che noi abbiamo iniziato un cammino per diventare persone oneste, gente devota, uomini pii, donne pie; ecco perché dobbiamo impegnarci seriamente. Se poi Dio ha deciso di innalzarci fino a quelle perfezioni angeliche, sapremo essere anche dei buoni angeli; in attesa, con molta semplicità, umiltà e devozione, esercitiamoci alle piccole virtù, messe da Nostro Signore alla portata del nostro impegno e del nostro lavoro: e sono, ad esempio, la pazienza, la bontà, la mortificazione del cuore, l’umiltà, l’obbedienza, la povertà, la castità, la dolcezza nei confronti del prossimo, la sopportazione delle sue imperfezioni, la diligenza e il fervore delle cose sante.

Lasciamo volentieri le altezze alle anime grandi: non siamo capaci di un ruolo così elevato nel servizio di Dio. Saremo già contenti di poterlo servire in cucina o come fornai, di essere suoi servi, suoi facchini, magari suoi camerieri; è Lui soltanto che può decidere di chiamarci a far parte degli intimi e del consiglio privato.

E’ così, Filotea. Perché questo Re di gloria non dà ai suoi servi le ricompense secondo il livello dei compiti assegnati, ma secondo l’amore e l’umiltà che hanno messo nell’esercitarli.

Saul cercava le asine di suo padre e trovò il regno di Israele; Rebecca abbeverò i cammelli di Abramo e divenne sposa del figlio; Ruth, dopo aver spigolato dietro ai mietitori di Booz, si coricò ai suoi piedi, ma egli la volle al suo fianco e divenne sua sposa.

La pretesa di cose straordinarie così alte ed elevate è facilmente occasione di illusioni, inganni, e falsità. Capita qualche volta che coloro i quali pensano di essere angeli non siano nemmeno uomini come si deve; in loro, alla prova dei fatti, trovi soltanto sfoggio di parole e termini magniloquenti, ma vuoto di sentimenti e assenze di opere.

Tuttavia non è bene disprezzare e censurare in modo temerario; Benediciamo Dio per la superiorità degli altri, ma rimaniamo nel nostro cammino, che corre più a valle ma è più sicuro, meno appariscente, ma più alla portata della nostra insufficienza e della nostra pochezza; e se noi ci manteniamo in quello con umiltà e fedeltà, Dio ci innalzerà a grandezze maggiori.

Capitolo III

LA PAZIENZA

Voi avete bisogno di pazienza, affinché, facendo la volontà di Dio, meritiate di conseguire la sua promessa, dice l’Apostolo. Il Salvatore aveva detto: con la pazienza conquisterete la padronanza delle vostre anime.

Dominare la propria anima è la massima aspirazione dell’uomo, e il dominio dell’anima è commisurato al livello della pazienza!

Ricordati spesso che Nostro Signore ci ha salvato soffrendo con costanza; è nello stesso modo che noi potremo operare la nostra salvezza, sopportando la sofferenza, le afflizioni, le ingiurie, le contraddizioni, i dispiaceri con la maggior dolcezza che ci sarà possibile.

Non limitare la tua pazienza a un genere determinato di ingiurie o di afflizioni, ma estendile a tutte quelle che il Signore ti manderà o permetterà che tu incontri. Alcuni vogliono sopportare soltanto le tribolazioni che procurano onore, come per esempio: essere feriti in guerra, essere prigionieri di guerra, essere maltrattati a causa della religione, diventare poveri per una lite da cui sono usciti vincitori. Io dico che costoro non amano la tribolazione, ma soltanto l’onore che ne deriva. Il vero paziente, ossia chi vuole servire Dio, sopporta con animo uguale le tribolazioni unite al disonore e quelle che danno onore. Se ci disprezzano, ci attaccano e ci accusano i cattivi, per un uomo di coraggio è una vera gioia; ma se quelli che ci attaccano, ci accusano e ci maltrattano, sono gente per bene, amici, i genitori, altri parenti, allora sì che va bene!

Ho una stima maggiore per la dolcezza con la quale S. Carlo Borromeo sopportò a lungo gli attacchi che gli sferrava pubblicamente dal pulpito un predicatore di fama, appartenente ad un Ordine rigorosissimo nell’ortodossia, che non per tutti gli altri attacchi sopportati.

Le punture delle api fanno più male di quelle delle mosche; allo stesso modo il male che riceviamo dalla gente per bene e le opposizioni che ci fanno, risultano molto più difficili da sopportare che qualunque altra. Capita abbastanza spesso che due brave persone, entrambi con la migliore intenzione di questo mondo, per divergenza di opinione, si facciano guerra senza quartiere, accanendosi l’uno contro l’altro.

Non essere paziente soltanto nel momento culminante della tribolazione, ma anche in tutti gli inconvenienti e i guai che si trascina dietro. Molti accetterebbero anche di avere qualche guaio a condizione di non soffrirne conseguenze. Non sono dispiaciuto di essere caduto in povertà, dirà uno, però questo nuovo stato di cose mi impedisce di essere utile agli amici, di educare i miei figli e di vivere in modo decoroso, come avrei voluto.

Dirà un altro: Io non mi preoccuperei se la gente non dicesse che è colpa mia. C’è anche quello che non tiene in alcun conto le maldicenze contro di lui e le sopporterebbe volentieri se i presenti non prestassero fede al maldicente. Altri ancora accettano di provare qualche conseguenza del male, ma, a loro parere, tutte sono troppe! Non si impazientiscono, dicono, di essere malati, ma solo perché non hanno il denaro per farsi curare; trovano anche la scusa che in tale stato sono di peso agli altri. Io dico, Filotea, che occorre sopportare con pazienza, non solo lo stato di malattia, ma anche la malattia che Dio vuole, nel luogo dove vuole, circondati dalle persone che vuole, e con gli inconvenienti che vuole; e così per tutte le altre tribolazioni.

Quando sarai colpita dal male, contrapponi tutti i rimedi che Dio ha messo a tua disposizione; agire diversamente sarebbe tentare la divina Maestà: ma, una volta fatto ciò, aspetta con una fiducia totale, l’effetto che Dio vorrà loro concedere. Se Dio crede bene che i rimedi vincano il male, tu lo ringrazierai con umiltà; ma se invece crede bene di permettere che il male vinca i rimedi, benedicili con pazienza.

Io sono del parere di San Gregorio: quando ti accusano giustamente di qualche colpa realmente commessa, umiliati molto, confessa che meriti l’accusa che ti è stata mossa. Se poi sei accusata ingiustamente, discolpati con calma, prova che non sei colpevole: hai l’obbligo di rispettare la verità anche per il buon esempio al prossimo. Ma se dopo la tua sincera e onesta spiegazione dei fatti a tua discolpa, gli altri insistono nel caricare su di te le responsabilità dei fatti, non angustiarti in alcun modo e non cercare altre strade per far accettare la versione autentica dei fatti. Sai perché? Dopo che hai reso il suo alla verità, rendilo ora all’umiltà.

Lamentati meno che puoi per i torti che ricevi; è un fatto certo che chi abitualmente si lamenta finisce per peccare. E’ colpa dell’amor proprio che ingigantisce per professione i torti subiti: ma quello che più ti raccomando e di non andare a lamentarti con persone facili all’indignazione e a pensare male. Se proprio non puoi fare a meno di lamentarti con qualcuno, sia per riparare l’offesa, sia per calmare te stessa, rivolgiti a persone calme e piene di amore di Dio. Se non farai così, il tuo cuore, invece di ricavarne serenità, sarà spinto ad essere ancora più inquieto: invece di toglierti la spina che ti punge appena, te la conficcherebbero più profondamente nel piede. Ci sono poi alcuni che quando sono ammalati, afflitti o offesi da qualcuno, stanno bene attenti a non lamentarsi e a dimostrare troppa permalosità; a loro parere, ed è vero, ciò darebbe prova di grande debolezza e di mancanza di generosità; ma poi, nel fondo di loro stessi, desiderano intensamente che qualcuno li compatisca e si danno da fare con mille arti a tale scopo. Vogliono che tutti sappiano che loro sono afflitti, ma anche pazienti e coraggiosi! Ti pare che quella sia pazienza? Chiamala come vuoi, ma quella è soltanto una finta pazienza. In fondo è soltanto un’abile e studiata ambizione, è vanità: ne ricavano gloria, ma non davanti a Dio!

Il vero paziente non si lamenta del male e non desidera essere compatito; ne parla con naturalezza, sincerità e semplicità, senza lamenti, senza rimpianti, senza esagerazioni; se lo compatiscono, sopporta con pazienza i compatimenti, a meno che addirittura siano per mali che non ha; in tal caso, con molta umiltà, farà notare che quel male non l’ha e poi si manterrà con animo sereno nella pace tra la verità e la pazienza, ammettendo sì il male, ma senza lamentele.

Nelle contrarietà che ti piomberanno addosso nell’esercizio della devozione, e vedrai che non mancheranno, ricordati della parola di nostro Signore: La donna quando partorisce provi dolori molto forti, ma tutto dimentica alla vista del bambino, perché ha dato un uomo alla vita. Nella tua anima hai concepito il figlio più meraviglioso di questo mondo, Gesù Cristo. Prima che sia dato completamente alla luce e generato, può darsi che ti procuri ansia e sofferenza; ma fatti animo perché, passati quei dolori, ti rimarrà la gioia senza fine di aver dato tale uomo al mondo. Per quello che ti riguarda sarà generato totalmente solo quando l’avrai formato completamente nel tuo cuore e nelle tue azioni con l’imitazione della sua vita.

Quando sarai malata, offri i tuoi dolori, gli inconvenienti e le debolezze per il servizio del Signore, e chiedigli, con insistenza, di unirli a quanto Egli ha sopportato per te. Obbedisci al medico, prendi le medicine, i cibi e gli altri rimedi per amore di Dio; ricordati del fiele che egli ha preso per amore nostro.

Desidera pure di guarire per servirlo, ma non rifiutare di essere ammalata per obbedirgli; e preparati anche alla morte, se quella a lui piacesse, per lodarlo e gioire con Lui. Le api nel periodo in cui fanno il miele, vivono e si nutrono con una sostanza molto amara; lo stesso avviene per noi: non potremo mai compiere atti di grande dolcezza e pazienza, fare il miele delle buone virtù, finché non saremo capaci di mangiare il pane dell’amarezza e vivere tra le sofferenze. Il miele ricavato dai fiori di timo, piccola erba amara è, senza confronti, il migliore; lo stesso è della virtù esercitata nell’amarezza delle tribolazioni più vili, basse e abbiette.

Guarda spesso con gli occhi interiori Gesù cristo crocifisso, spogliato, bestemmiato, calunniato, abbandonato, oppresso da ogni sorta di mali, tristezze e ansie, e pensa che tutte le tue sofferenze non sono in alcun modo paragonabili alle sue, né per intensità, né per numero; e pensa che mai riuscirai a soffrire per Lui quello che Egli ha sofferto per te.

Considera i tormenti atroci sopportati dai Martiri e le sofferenze che tante persone sopportano e che sono, senza confronto, più penose delle tue, e poi dì a te stessa: Le contrarietà che mi affliggono sono consolazioni e le mie spine sono rose a confronto di coloro che vivono in una morte continua, oppressi da croci infinitamente più gravose e questo senza aiuti, senza consolazioni, senza alcun sollievo.

Capitolo IV

L’UMILTA’ ESTERIORE

Disse il profeta Eliseo ad una povera vedova: Prendi tutti i vasi vuoti che hai e riempili d’olio. Per ricevere la grazia di Dio nei nostri cuori, dobbiamo vuotarli di noi stessi. Il gheppio, stridendo e fissando gli uccelli da preda, li mette in fuga per una forza misteriosa; per questo è il preferito delle colombe, che vicine a lui si sentono sicure. Allo stesso modo l’umiltà respinge Satana e conserva in noi le grazie e i doni dello Spirito Santo. E’ per questo che i Santi, e in modo particolare il Re dei Santi e sua Madre, onorano e amano l’umiltà più di tutte le altre virtù morali.

Sono diverse le ragioni per le quali dobbiamo considerare vana la gloria che ci viene attribuita: o perché non è in noi, o anche perché, pur essendo in noi, non è nostra; o anche perché, pur essendo in noi ed essendo nostra, non è meritata. La nobiltà della stirpe, il favore dei potenti, la popolarità, sono glorie che non hanno radice in noi, ma o nei nostri predecessori o nella stima degli altri. C’è gente che va superba e altera perché cavalca un bel destriero, perché ha un bel pennacchio sul cappello, perché indossa vestiti meravigliosi. Non ti pare che quella gente sia un po’ matta? Se proprio vogliamo parlare di gloria, spetta al cavallo, allo struzzo, al sarto. Ci vuole proprio un bel coraggio per prendere in prestito un po’ di stima da un cavallo, da una piuma, da una piega dell’abito!

Altri si sentono importanti e si danno delle arie per un bel paio di baffi all’insù, per una barba ben curata, per i capelli ricciuti, per le mani delicate; perché sanno danzare, giocare, cantare; e non ti pare che anche questi abbiano una rotellina fuori posto? Vorrebbero aumentare il proprio pregio e la propria reputazione con cose frivole e insulse!

Ci sono poi quelli che, per quel poco che sanno, esigono onore e rispetto dal mondo intero; tutti dovrebbero, secondo loro, precipitarsi a imparare qualcosina alla loro scuola. Loro si sentono maestri, la gente li considera soltanto dei pedanti. Ci sono anche quelli che sono convinti di essere molto belli e credono che tutti li corteggino.

Tutto ciò è tremendamente vuoto, sciocco e senza senso; la gloria che proviene da "valori" così insignificanti deve essere ritenuta vana, sciocca e frivola.

Il bene vero si conosce come il vero balsamo: la prova della genuinità del balsamo si fa distillandolo nell’acqua; se va a fondo e rimane sommerso è valutato finissimo e prezioso. Allo stesso modo per sapere

se un uomo è veramente saggio, sapiente, generoso, nobile, bisogna vedere se le sue doti tendono all’umiltà, alla modestia, al nascondimento; in tal caso si tratta di doti genuine; ma se galleggiano e si mettono in mostra sono false e tanto maggiori saranno gli sforzi che faranno per farsi notare, tanto più sarà evidente che non sono doti autentiche.

Le perle nate e cresciute all’aperto, al vento e al rumore dei tuoni, hanno soltanto l’involucro di perle, dentro sono vuote. Allo stesso modo le virtù e le belle qualità degli uomini, nate e cresciute nell’orgoglio, nell’esaltazione di sé e nella vanità, hanno soltanto l’apparenza del bene, senza linfa, senza midollo e senza solidità. Gli onori, la stirpe, le dignità sono come lo zafferano: più lo calpesti e più si rinforza e rende bene. Essere belli, quando ci si tiene, perde il suo pregio: la bellezza per piacere deve essere disinvolta; la scienza ci rende ridicoli quando ci gonfia e degenera in pedanteria.

Se siamo puntigliosi per la stirpe, per il rango, per i titoli, offriamo le nostre qualità all’esame sindacatore degli altri, alla loro inchiesta su di noi, all’indagine e così ci ritroveremo le nostre credute qualità svuotate e scostanti; sì, perché l’onore che è bello quand’è ricevuto in dono, diventa dozzinale e di nessun pregio quando è preteso, cercato e mendicato.

Quando il pavone fa la ruota per farsi notare, drizzando le sue belle piume, scopre tutto il resto e fa vedere da tutte le parti ciò che ha di meno bello; i fiori sono belli quando sono piantati in terra; una volta staccati appassiscono. Il profumo della mandragora può esserci di aiuto per capire: coloro che la odorano da lontano e di passaggio, ne rimangono conquistati; ma coloro che la odorano da vicino e con insistenza ne rimangono intontiti o addirittura ammalati; lo stesso avviene per gli onori che danno una dolce consolazione a chi li gode da lontano e solo leggermente senza spenderci troppo e diventare ansioso; ma chi ci si attacca e se ne ciba, merita di essere biasimato e ripreso.

La ricerca e l’amore della virtù ci rende già un po’ virtuosi; la ricerca e l’amore degli onori invece, ci rende soltanto meritevoli di disprezzo e di rimprovero. Le persone serie non perdono tempo nell’inutile groviglio di gerarchie, di onori, di saluti; hanno altro da fare! Questo è un terreno per il perditempo.

Chi può avere perle non va alla ricerca di conchiglie: coloro che tendono alla virtù, non si agitano alla caccia di onori.

Ognuno ha diritto di rimanere nel proprio rango senza mancare di umiltà, a condizione che ciò avvenga con naturalezza e senza contese.

Mi sembra che si possa fare un paragone con quelli che tornano dal Perù i quali, oltre all’oro e all’argento, portano con sé anche scimmie e pappagalli; costano poco e non pesano molto per il carico della nave; così è di coloro che tendono alla virtù senza per questo lasciare il loro rango e gli onori inerenti; a condizione che ciò non sottragga loro troppo tempo e troppa attenzione e che sia senza gravarsi di dubbi, d’inquietudine, di dispute e di contese. Tuttavia non parlo di coloro la cui dignità è in rapporto con una carica pubblica e nemmeno di alcune situazioni particolari nelle quali le conseguenze potrebbero incidere negativamente; in tali casi ognuno deve rimanere al posto che gli compete con prudenza e discrezione, accompagnate sempre da carità e cortesia.

Capitolo V

L’UMILTA’ INTERIORE

Tu, Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello dell’umiltà; quindi andiamo avanti.

Molti non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente, non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.

Direi proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da noi.

Rifletti: i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?

E se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la conoscenza genera la riconoscenza.

Ma se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile: pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.

La Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore, dice, perché ha fatto in me cose grandi.

Spesso diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’ proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma soltanto per passare con grande onore a capotavola.

L’umiltà vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà; perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere completamente ignorata e nascosta.

Eccoti il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero. Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione; aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno; questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità affettuosa.

L’uomo sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia contento di vedere condivisa la sua opinione.

Molti affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri. Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria opinione, della propria indole, della propria pigrizia.

Domanda a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso. Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra miseria.

Molto umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la responsabilità della nostra anima.

Pensare di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.

Quando lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.

L’umiltà richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude soltanto quando si alza il sole, sicché la gente del paese dice che questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo, non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.

Non vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.

E anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a trarre conclusioni per noi.

Davide, saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.

Quando sua moglie Micol glielo rimproverò cime una follia, non fece caso all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di disprezzo per il suo Dio.

Per questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.

 

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