LA "SANTA REGOLA" DI S. BENEDETTO

Prologo

Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno,

in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza.

Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell'obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore.

Prima di tutto chiedi a Dio con costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ti proponi di compiere,

affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli, egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta.

Bisogna dunque servirsi delle grazie che ci concede per obbedirgli a ogni istante con tanta fedeltà da evitare, non solo che egli giunga a diseredare i suoi figli come un padre sdegnato,

ma anche che, come un sovrano tremendo, irritato dalle nostre colpe, ci condanni alla pena eterna quali servi infedeli che non lo hanno voluto seguire nella gloria.

Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l'incitamento della Scrittura che esclama: "E' ora di scuotersi dal sonno!"

e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo con trepidazione ciò che ci ripete ogni giorno la voce ammonitrice di Dio:

" Se oggi udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore!"

e ancora: " Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese!".

E che dice? " Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio.

Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte".

Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo:

"Chi è l'uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?".

Se a queste parole tu risponderai: "Io!", Dio replicherà:

"Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila".

Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: "Ecco sono qui!".

Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama?

Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita!

Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno.

Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene.

Ma interroghiamo il Signore, dicendogli con le parole del profeta: "Signore, chi abiterà nella tua tenda e chi dimorerà sul tuo monte santo?".

E dopo questa domanda, fratelli, ascoltiamo la risposta con cui il Signore ci indica la via che porta a quella tenda:

"Chi cammina senza macchia e opera la giustizia;

chi pronuncia la verità in cuor suo e non ha tramato inganni con la sua lingua;

chi non ha recato danni al prossimo, né ha accolto l'ingiuria lanciata contro di lui";

chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con le sue suggestioni, respingendolo dall'intimo del proprio cuore e ha impugnato coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo sorgere;

gli uomini timorati di Dio, che non si insuperbiscono per la propria buona condotta e, pensando invece che quanto di bene c'è in essi non è opera loro, ma di Dio,

lo esaltano proclamando col profeta: "Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria!".

Come fece l'apostolo Paolo, che non si attribuì alcun merito della sua predicazione, ma disse:" Per grazia di Dio sono quel che sono"

e ancora: "chi vuole gloriarsi, si glori nel Signore".

Perciò il Signore stesso dichiara nel Vangelo: "Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia.

E vennero le inondazioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia".

Dopo aver concluso con queste parole il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni.

Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita

secondo le parole dell'Apostolo: "Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?"

Difatti il Signore misericordioso afferma: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva".

Dunque, fratelli miei, avendo chiesto al Signore a chi toccherà la grazia di dimorare nella sua tenda, abbiamo appreso quali sono le condizioni per rimanervi, purché sappiamo comportarci nel modo dovuto.

Perciò dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la santa obbedienza.

Per tutto quello poi, di cui la nostra natura si sente incapace, preghiamo il Signore di aiutarci con la sua grazia.

E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene dell'inferno,

finche c'è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni,

dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità.

Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore

nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso;

ma se, per la correzione dei difetti o per il mantenimento della carità, dovrà introdursi una certa austerità, suggerita da motivi di giustizia,

non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida.

Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall'indicibile sovranità dell'amore.

Così, non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina, partecipiamo con la nostra sofferenza ai patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno.

 

Capitolo I - Le varie categorie di monaci

E' noto che ci sono quattro categorie di monaci.

La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.

La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che non sono mossi dall'entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero,

dove con l'aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio;

quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell'eremo, sono ormai capaci, con l'aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni.

La terza categoria di monaci, veramente detestabile è formata dai sarabaiti: molli come piombo, perché non sono stati temprati come l'oro nel crogiolo dell'esperienza di una regola,

costoro conservano ancora le abitudini mondane, mentendo a Dio con la loro tonsura.

A due a due, a tre a tre o anche da soli, senza la guida di un superiore, chiusi nei loro ovili e non in quello del Signore, hanno come unica legge l'appagamento delle proprie passioni,

per cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre respingono come illecito quello che non gradiscono.

C'è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un paese all'altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri,

sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola, peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto.

Ma riguardo alla vita sciagurata di tutti costoro è preferibile tacere piuttosto che parlare.

Lasciamoli quindi da parte e con l'aiuto del Signore occupiamoci dell'ordinamento della prima categoria, ossia quella fortissima e valorosa dei cenobiti.

Capitolo II - L'Abate

Un abate degno di stare a capo di un monastero deve sempre avere presenti le esigenze implicite nel suo nome, mantenendo le proprie azioni al livello di superiorità che esso comporta.

Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato con il suo stesso nome,

secondo quanto dice l'Apostolo: "Avete ricevuto lo Spirito di figli adottivi, che vi fa esclamare: Abba, Padre!"

Perciò l'abate non deve insegnare, né stabilire o ordinare nulla di contrario alle leggi del Signore,

anzi il suo comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime dei discepoli il fermento della santità.

Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto tanto del suo insegnamento, quanto dell'obbedienza dei discepoli

e sappia che il pastore sarà considerato responsabile di tutte le manchevolezze che il padre di famiglia avrà potuto riscontrare nel gregge.

D'altra parte è anche vero che, se il pastore avrà usato ogni diligenza nei confronti di un gregge irrequieto e indocile, cercando in tutti i modi di correggerne la cattiva condotta,

verrà assolto nel divino giudizio e potrà ripetere con il profeta al Signore: "Non ho tenuto la tua giustizia nascosta in fondo al cuore, ma ho proclamato la tua verità e la tua salvezza; essi tuttavia mi hanno disprezzato, ribellandosi contro di me".

E allora la giusta punizione delle pecore ribelli sarà la morte, che avrà finalmente ragione della loro ostinazione.

Dunque, quando uno assume il titolo di Abate deve imporsi ai propri discepoli con un duplice insegnamento,

mostrando con i fatti più che con le parole tutto quello che è buono e santo: in altri termini, insegni oralmente i comandamenti del Signore ai discepoli più sensibili e recettivi, ma li presenti esemplificati nelle sue azioni ai più tardi e grossolani.

Confermi con la sua condotta che bisogna effettivamente evitare quanto ha presentato ai discepoli come riprovevole, per non correre il rischio di essere condannato dopo aver predicato agli altri

e di non sentirsi dire dal Signore per i suoi peccati: "Come ti arroghi di esporre i miei precetti e di avere sempre la mia alleanza sulla bocca, tu che hai in odio la disciplina e ti getti le mie parole dietro le spalle?"

e ancora: "Tu che vedevi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, non ti sei accorto della trave nel tuo".

Si guardi dal fare preferenze nelle comunità:

non ami l'uno piò dell'altro, a eccezione di quello che avrà trovato migliore nella condotta e nell'obbedienza:

non anteponga un monaco proveniente da un ceto elevato a uno di umili origini, a meno che non ci sia un motivo ragionevole per stabilire una tale precedenza.

Ma se, per ragioni di giustizia, riterrà di dover agire così lo faccia per chiunque; altrimenti ciascuno conservi il proprio posto,

perché, sia il servo che il libero, tutti siamo una cosa sola in Cristo e, militando sotto uno stesso Signore, prestiamo un eguale servizio. Infatti, "dinanzi a Dio non ci sono parzialità"

e una cosa sola ci distingue presso di lui: se siamo umili e migliori degli altri nelle opere buone.

Quindi l'abate ami tutti allo stesso modo, seguendo per ciascuno una medesima regola di condotta basata sui rispettivi meriti.

Per quanto riguarda poi la direzione dei monaci, bisogna che tenga presente la norma dell'apostolo: "Correggi, esorta, rimprovera"

e precisamente, alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a seconda dei tempi e delle circostanze, sappia dimostrare la severità del maestro insieme con la tenerezza del padre.

In altre parole, mentre deve correggere energicamente gli indisciplinati e gli irrequieti, deve esortare amorevolmente quelli che obbediscono con docilità a progredire sempre più. Ma è assolutamente necessario che rimproveri severamente e punisca i negligenti e coloro che disprezzano la disciplina.

Non deve chiudere gli occhi sulle eventuali mancanze, ma deve stroncarle sul nascere, ricordandosi della triste fine di Eli, sacerdote di Silo.

Riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più docili e assennati,

ma castighi duramente i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti, appena tentano di trasgredire, ben sapendo che sta scritto: "Lo stolto non si corregge con le parole"

e anche: "Battendo tuo figlio con la verga, salverai l'anima sua dalla morte".

L'abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato, nella consapevolezza che sono maggiori le esigenze poste a colui al quale è stato affidato di più.

Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e correggendo un terzo:

perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l'incremento del numero dei buoni.

Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche,

ma pensi sempre che si è assunto l'impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto

e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto :"Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù"

e anche: "Nulla manca a coloro che lo temono".

Sappia inoltre che chi si assume l'impegno di dirigere le anime deve prepararsi a renderne conto

e stia certo che, quanti sono i monaci di cui deve prendersi cura, tante solo le anime di cui nel giorno del giudizio sarà ritenuto responsabile di fronte a Dio, naturalmente oltre che della propria.

Così nel continuo timore dell'esame a cui verrà sottoposto il pastore riguardo alle pecore che gli sono state affidate mentre si preoccupa del rendiconto altrui, si fa più attento al proprio

e corregge i suoi personali difetti, aiutando gli altri a migliorarsi con le sue ammonizioni.

Capitolo III - La consultazione della comunità

Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l'abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l'affare in oggetto.

Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno.

Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore.

I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute;

comunque la decisione spetta all'abate e, una volta che questi avrà stabilito ciò che è più conveniente, tutti dovranno obbedirgli.

D'altra parte, come è doveroso che i discepoli obbediscano al maestro, così è bene che anche lui predisponga tutto con prudenza ed equità.

Dunque in ogni cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi allontanarsene.

Nessun membro della comunità segua la volontà propria,

né si azzardi a contestare sfacciatamente con l'abate, dentro o fuori del monastero.

Chi si permette un simile contegno, sia sottoposto alle punizioni previste dalla Regola.

L'abate però dal canto suo operi tutto col timor di Dio e secondo le prescrizioni della Regola, ben sapendo che di tutte le sue decisioni dovrà certamente rendere conto a Dio, giustissimo giudice.

Se poi in monastero si devono trattare questioni di minore importanza, si serva solo del consiglio dei più anziani,

come sta scritto: "Fa' tutto col consiglio e dopo non avrai a pentirtene".

Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere

Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze;

poi il prossimo come se stesso.

Quindi non uccidere,

non commettere adulterio,

non rubare,

non avere desideri illeciti,

non mentire;

onorare tutti gli uomini,

e non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.

Rinnegare completamente se stesso. per seguire Cristo;

mortificare il proprio corpo,

non cercare le comodità,

amare il digiuno.

Soccorrere i poveri,

vestire gli ignudi,

visitare gli infermi,

seppellire i morti ;

alleviare tutte le sofferenze,

consolare quelli che sono nell'afflizione.

Rendersi estraneo alla mentalità del mondo;

non anteporre nulla all'amore di Cristo.

Non dare sfogo all'ira,

non serbare rancore,

non covare inganni nel cuore,

non dare un falso saluto di pace,

non abbandonare la carità.

Non giurare per evitare spergiuri,

dire la verità con il cuore e con la bocca,

non rendere male per male,

non fare torti a nessuno, ma sopportare pazientemente quelli che vengono fatti a noi;

amare i nemici,

non ricambiare le ingiurie e le calunnie, ma piuttosto rispondere con la benevolenza verso i nostri offensori,

sopportare persecuzioni per la giustizia.

Non essere superbo,

non dedito al vino,

né vorace,

non dormiglione,

né pigro;

non mormoratore,

né maldicente.

Riporre in Dio la propria speranza,

attribuire a Lui e non a sé quanto di buono scopriamo in noi,

ma essere consapevoli che il male viene da noi e accettarne la responsabilità.

Temere il giorno del giudizio,

tremare al pensiero dell'inferno,

anelare con tutta l'anima alla vita eterna,

prospettarsi sempre la possibilità della morte.

Vigilare continuamente sulle proprie azioni,

essere convinti che Dio ci guarda dovunque.

Spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che ci sorgono in cuore e manifestarli al padre spirituale.

Guardarsi dai discorsi cattivi o sconvenienti,

non amare di parlar molto,

non dire parole leggere o ridicole,

non ridere spesso e smodatamente.

Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio,

dedicarsi con frequenza alla preghiera;

in questa confessare ogni giorno a Dio con profondo dolore le colpe passate

e cercare di emendarsene per l'avvenire.

Non appagare i desideri della natura corrotta,

odiare la volontà propria,

obbedire in tutto agli ordini dell'abate, anche se - Dio non voglia! - questi agisse diversamente da come parla, ricordando quel precetto del Signore:" Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno".

Non voler esser detto santo prima di esserlo, ma diventare veramente tale, in modo che poi si possa dirlo con più fondamento.

Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio.

Amare la castità,

non odiare nessuno,

non essere geloso,

non coltivare l'invidia,

non amare le contese,

fuggire l'alterigia

e rispettare gli anziani,

amare i giovani,

pregare per i nemici nell'amore di Cristo,

nell'eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole.

E non disperare mai della misericordia di Dio.

Ecco, questi sono gli strumenti dell'arte spirituale!

Se li adopereremo incessantemente di giorno e di notte e li riconsegneremo nel giorno del giudizio, otterremo dal Signore la ricompensa promessa da lui stesso:

"Né occhio ha mai visto, né orecchio ha udito, né mente d'uomo ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano".

L'officina poi in cui bisogna usare con la massima diligenza questi strumenti è formata dai chiostri del monastero e dalla stabilità nella propria famiglia monastica.

 

Capitolo V - L'obbedienza

Il segno più evidente dell'umiltà è la prontezza nell'obbedienza.

Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo

e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il timore dell'inferno e in vista della gloria eterna,

appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio.

E' di loro che il Signore dice: " Appena hai udito, mi hai obbedito"

mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: "Chi ascolta voi, ascolta me".

Quindi, questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze e rinunciano alla propria volontà,

si liberano all'istante dalle loro occupazioni, lasciandole a mezzo, e si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore seguano immediatamente i fatti.

Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che è frutto del timor di Dio:

così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna.

Essi si slanciano dunque per la via stretta della quale il Signore dice: "Angusta è la via che conduce alla vita";

perciò non vivono secondo il proprio capriccio né seguono le loro passioni e i loro gusti, ma procedono secondo il giudizio e il comando altrui; rimangono nel monastero e desiderano essere sottoposti a un abate.

Senza dubbio costoro prendono a esempio quella sentenza del Signore che dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato".

Ma questa obbedienza sarà accetta a Dio e gradevole agli uomini, se il comando ricevuto verrà eseguito senza esitazione, lentezza o tiepidezza e tantomeno con mormorazioni o proteste,

perché l'obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha detto lui stesso: "Chi ascolta voi, ascolta me".

I monaci dunque devono obbedire con slancio e generosità, perché "Dio ama chi dà lietamente".

Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico con la bocca, ma anche solo con il cuore,

pur eseguendo il comando, non compie un atto gradito a Dio, il quale scorge 1a mormorazione nell'intimo della sua coscienza;

quindi, con questo comportamento, egli non si acquista alcun merito, anzi, se non ripara e si corregge, incorre nel castigo comminato ai mormoratori.

Capitolo VI - L'amore del silenzio

Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone".

Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato!

Dunque l'importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto:

"Nelle molte parole non eviterai il peccato"

e altrove: "Morte e vita sono in potere della lingua".

Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare.

Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione.

Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per discorsi di questo genere.

Capitolo VII - L'umiltà

La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: "Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato".

Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia,

dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: "Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me".

E allora? "Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre".

Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell'umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l'umiliazione della vita presente,

bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli.

Non c'è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l'umiltà si sale.

La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo;

noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l'anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.

Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione,

si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all'inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti.

In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne,

l'uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli.

E' ciò che ci insegna il profeta, quando mostra Dio talmente presente ai nostri pensieri da affermare: "Dio scruta le reni e i cuori"

come pure: "Dio conosce i pensieri degli uomini".

Poi aggiunge: "Hai intuito di lontano i miei pensieri"

e infine: "Il pensiero dell'uomo sarà svelato dinanzi a te".

Quindi, per potersi coscienziosamente guardare dai cattivi pensieri, bisogna che il monaco vigile e fedele ripeta sempre tra sé: "Sarò senza macchia dinanzi a lui, solo se mi guarderò da ogni malizia".

Ci è poi vietato di fare la volontà propria, dato che la Scrittura ci dice: "Allontanati dalle tue voglie"

e per di più nel Pater chiediamo a Dio che in noi si compia la sua volontà.

Perciò ci viene giustamente insegnato di non fare la nostra volontà, evitando tutto quello di cui la Scrittura dice: "Ci sono vie che agli uomini sembrano diritte, ma che si sprofondano negli abissi dell'inferno"

e anche nel timore di quanto è stato affermato riguardo ai negligenti: "Si sono corrotti e sono divenuti spregevoli nella loro dissolutezza".

Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: "Ogni mio desiderio sta davanti a te".

Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere.

Per questa ragione la Scrittura prescrive: "Non seguire le tue voglie".

Se dunque "gli occhi di Dio scrutano i buoni e i cattivi"

e se "il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio",

se a ogni momento del giorno e della notte le nostre azioni vengono riferite al Signore dai nostri angeli custodi,

bisogna, fratelli miei, che stiamo sempre in guardia per evitare che un giorno Dio ci veda perduti dietro il male e isteriliti, come dice il profeta nel salmo e,

pur risparmiandoci per il momento, perché è misericordioso e aspetta la nostra conversione, debba dirci in avvenire: "Hai fatto questo e ho taciuto".

Il secondo grado dell'umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri,

ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato".

Cosa" pure un antico testo afferma: "La volontà propria procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio".

Terzo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l'Apostolo dice: "Fatto obbediente fino alla morte".

Il quarto grado dell'umiltà è quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell'esercizio dell'obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza

e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura: " Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato".

E ancora: "Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore".

E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono: "Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da macello".

Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: "E di tutte queste cose trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato",

mentre altrove la Scrittura dice: "Ci hai provato, Signore, ci hai saggiato come si saggia l'argento col fuoco; ci hai fatto cadere nella rete, ci hai caricato di tribolazioni".

E per indicare che dobbiamo assoggettarci a un superiore, prosegue esclamando: "Hai posto degli uomini sopra il nostro capo".

Quei monaci, però, adempiono il precetto del Signore, esercitando la pazienza anche nelle avversità e nelle umiliazioni, e, percossi su una guancia, presentano l'altra, cedono anche il mantello a chi strappa loro di dosso la tunica, quando sono costretti a fare un miglio di cammino ne percorrono due,

come l'Apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e ricambiano con parole le offese e le ingiurie.

Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le colpe commesse in segreto,

secondo l'esortazione della Scrittura, che dice: "Manifesta al Signore la tua via e spera in lui".

E anche: "Aprite l'animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia",

mentre il profeta esclama: "Ti ho reso noto il mio peccato e non ho nascosto la mia colpa.

Ho detto: "confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore" e tu hai perdonato la malizia del mio cuore".

Il sesto grado dell'umiltà è quello in cui il monaco si contenta delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno nei riguardi di tutto quello che gli impone l'obbedienza,

ripetendo a se stesso con il profeta: "Sono ridotto a nulla e nulla so; eccomi dinanzi a te come una bestia da soma, ma sono sempre con te".

Il settimo grado dell'umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore,

umiliandosi e dicendo con il profeta: "Ora io sono un verme e non un uomo, l'obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe";

"Mi sono esaltato e quindi umiliato e confuso"

e ancora: "Buon per me che fui umiliato, perché imparassi la tua legge".

L'ottavo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non fa nulla al di fuori di ciò a cui lo sprona la regola comune del monastero e l'esempio dei superiori e degli anziani.

Il nono grado dell'umiltà è proprio del monaco che sa dominare la lingua e, osservando fedelmente il silenzio, tace finché non è interrogato,

perché la Scrittura insegna che "nelle molte parole non manca il peccato"

e che "l'uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra".

Il decimo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: "Lo stolto nel ridere alza la voce".

L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza alzare la voce,

come sta scritto: "Il saggio si riconosce per la sobrietà nel parlare".

Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore,

in quanto durante l'Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell'orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi;

e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio,

ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: "Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo".

E ancora con il profeta: "Mi sono sempre curvato e umiliato".

Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore;

per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura;

in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per timore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù.

Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati.

 

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