DIO È LA LEGGE SUPREMA E IMMUTABILE DI OGNI GIUDIZIO

31.57. Né si può mettere in dubbio che la natura immutabile, che è al di sopra dell'anima razionale, è Dio, e che dove si trovano la prima vita e la prima essenza là si trova anche la prima sapienza. Questa infatti è la verità immutabile che, a buon diritto, è detta legge di tutte le arti e arte dell'artefice onnipotente. Quindi l'anima, in quanto si rende conto che non giudica della bellezza e dei movimenti dei corpi in base a se stessa, bisogna che riconosca che, se la propria natura è superiore a quella di ciò che giudica, invece è inferiore a quella in base alla quale giudica e della quale in nessun modo può giudicare. Io posso dire per quale motivo vi deve essere corrispondenza simmetrica tra le parti simili di ciascun corpo, perché mi compiaccio di quella somma proporzione che di certo non scorgo con gli occhi del corpo ma con quelli della mente. Pertanto giudico ciò che scorgo con gli occhi tanto migliore quanto più, per sua stessa natura, è più vicino a ciò che colgo con l'anima. Perché poi le cose stiano così, nessuno lo può dire, come pure nessuno potrebbe in modo rigoroso affermare che devono essere così, quasi che potessero essere diversamente.

31.58. Nessuno, d'altra parte, se ha ben compreso, oserà dire perché queste cose ci piacciono e perché, quando le gustiamo meglio, le amiamo moltissimo. Come infatti noi, insieme a tutte le anime razionali, giudichiamo rettamente delle cose inferiori secondo verità, così la verità stessa, da sola, giudica di noi, quando ci adeguiamo ad essa. Ma della verità in sé non giudica neanche il Padre, perché essa non è inferiore a Lui e quindi ciò che il Padre giudica, lo giudica proprio secondo verità. Per tutto ciò che tende all'unità la verità costituisce regola, forma, esempio o comunque la si voglia chiamare, perché essa sola ha pienamente realizzato la somiglianza con Colui dal quale ha ricevuto l'essere, ammesso che l'espressione "ha ricevuto" non sia usata in maniera impropria se riferita al Figlio, perché egli non ha l'essere da se stesso ma dal primo e sommo principio che si chiama Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome. È per questo che il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio e l'uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno, ovvero da nessun uomo, ma soltanto da quella stessa legge secondo la quale giudica tutte le cose, giacché è anche detto con assoluta verità: Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo. L'uomo che vive secondo lo spirito dunque giudica tutto, perché è al di sopra di tutto, in quanto è unito a Dio. Ma è unito a Dio in quanto riflette con mente pura ed ama con piena carità ciò che comprende. Così, per quanto gli è possibile, egli stesso si identifica con la legge in sé, secondo la quale giudica tutto e che non può essere giudicata da nessuno. Quanto detto vale anche per le leggi terrene: anche se gli uomini, istituendole, le giudicano, una volta istituite e consolidate, al giudice sarà consentito non di giudicarle, ma di giudicare in base ad esse. Perciò il legislatore, se è uomo buono e sapiente, consulta la legge eterna, che nessun'anima può giudicare, per discernere, secondo le sue immutabili regole, che cosa si debba comandare o vietare, nelle diverse circostanze. Alle anime pure, dunque, è consentito di conoscere la legge eterna, ma non di giudicarla. La differenza consiste in questo: per conoscere è sufficiente constatare che una cosa è così o non è così; per giudicare, invece, aggiungiamo qualche cosa con cui ammettiamo che potrebbe anche essere diversamente, come quando diciamo: "Deve essere così", oppure "avrebbe dovuto essere così", o ancora "dovrà essere così", come fanno gli autori nel confronti delle loro opere.

L'UNITÀ IN SE STESSA SI INTUISCE SOLO CON LA MENTE

32.59. Ma per molti lo scopo è il diletto umano e si rifiutano di mirare alle cose più alte, in modo da giudicare perché le cose visibili piacciano. Così, se chiedo ad un architetto perché, dopo aver costruito un arco, ne innalzi un altro simile nella parte opposta, egli, credo, risponderà: perché ci sia una corrispondenza simmetrica tra le parti dell'edificio. Se continuerò a chiedergli il motivo di questa scelta, mi risponderà che la corrispondenza simmetrica è cosa conveniente, bella e piacevole a chi l'osserva, e non oserà dire niente di più. Con gli occhi rivolti in basso, si rimette a ciò che vede, senza comprendere da dove derivi. Ma all'uomo, che è in possesso di un occhio interiore e che vede nell'invisibile, non cesserò di ricordare perché queste cose piacciano, in modo che sia capace di giudicare lo stesso diletto umano. Così infatti lo può oltrepassare, senza esserne dominato, in quanto non giudica in base ad esso, ma esso stesso. E anzitutto gli chiederò se le cose sono belle perché piacciono o se piacciono perché sono belle; in proposito di certo mi risponderà che piacciono perché sono belle. Gli chiederò poi perché sono belle e, se mostrerà qualche esitazione, gli suggerirò che forse sono tali perché le parti sono tra loro simili e, per una sorta di intimo legame, danno luogo ad un insieme armonico.

32.60. Quando si sarà convinto di ciò, gli domanderò se le parti raggiungano in maniera completa l'unità a cui manifestamente tendono oppure se restino molto al di sotto e, in un certo modo, la simulino soltanto. Ammettiamo che sia così (e chi non vedrebbe, una volta messo sull'avviso, che non c'è nessuna forma, nessun corpo che non presenti in sé qualche segno di unità; e che un corpo, per quanto bellissimo, non può raggiungere l'unità a cui tende, dal momento che, a causa della sua estensione, le sue parti si dispongono necessariamente in punti diversi dello spazio?). Se dunque le cose stanno così, gli chiederò con insistenza di dirmi dove egli veda questa unità e da dove la veda; perché, se non la vedesse, da dove potrebbe sapere cosa imitano i corpi nel loro aspetto e cosa non riescono pienamente a raggiungere? Infatti, quando dice al corpi: "Voi non sareste nulla se non ci fosse qualche unità a tenervi insieme; ma, d'altro canto, se foste l'unità stessa, non sareste corpi", a buon diritto gli si può domandare: "Da dove conosci l'unità in base alla quale giudichi i corpi?". Giacché, se non la vedessi, non potresti giudicare perché i corpi non la raggiungano pienamente. Se poi la vedessi con gli occhi del corpo, non diresti con verità che sono molto distanti da essa, sebbene ne portino in sé un'impronta? Infatti, con questi occhi corporei non vediamo che cose corporee. È con la mente dunque che vediamo l'unità. Ma dove la vediamo? Se fosse nel luogo in cui è il nostro corpo, non la vedrebbe chi, pur stando in Oriente, giudica i corpi con lo stesso nostro procedimento. Essa perciò non è contenuta in un luogo e, poiché è presente ovunque c'è chi giudica, di fatto non è in nessun luogo, in potenza invece è dappertutto.

L'ERRORE NON DIPENDE DAI CORPI O DAI SENSI, MA DAL GIUDIZIO

33.61. Se i corpi costituiscono una simulazione della verità, non dobbiamo credere loro proprio in quanto simulatori per non cadere nelle vanità dei vaneggianti, ma piuttosto dobbiamo chiederci - dato che la simulano perché sembra che la mostrino agli occhi carnali, mentre essa può essere colta solo dalla mente pura - se la simulano in quanto le sono simili o in quanto non la raggiungono. Infatti, se la raggiungessero, realizzerebbero pienamente ciò che imitano. Se poi la realizzassero pienamente, le sarebbero simili in ogni aspetto; ma se le fossero simili in ogni aspetto, non ci sarebbe nessuna differenza fra la sua natura e quella dei corpi. In tal caso, non la simulerebbero, ma sarebbero con essa la stessa cosa. Tuttavia, guardando con maggiore attenzione, ci si rende conto che essi non simulano, perché simula chi vuol apparire ciò che non è; invece chi, suo malgrado, è ritenuto diverso da quello che è, non simula, ma inganna semplicemente. Infatti chi simula si distingue da chi inganna per il fatto che ha sempre la volontà di ingannare, anche quando non gli si creda; mentre, finché uno non inganna, non può essere ingannatore. Perciò le specie corporee, in quanto sono prive di volontà, non simulano; se inoltre non sono prese per quello che non sono, non ingannano neppure.

33.62. Ma neppure gli occhi ingannano; essi infatti non sono in grado di far altro che riportare alla mente le loro impressioni. E se non solo essi. ma tutti i sensi del corpo riportano soltanto le loro impressioni, non so che cosa dovremmo pretendere di più da loro. Se togli perciò coloro che vaneggiano, non ci sarà più alcuna vanità. Se qualcuno ritiene che il remo in acqua sia spezzato e che torni integro una volta che ne è tolto, ciò non dipende dal fatto che ha un cattivo organo di senso, ma dal fatto che giudica erroneamente. Data la sua natura, infatti, l'occhio non poteva né doveva vedere diversamente nell'acqua; giacché infatti, se l'aria e l'acqua sono tra loro differenti, è legittimo che si abbiano percezioni diverse nel due elementi. L'occhio perciò vede in modo corretto; del resto, è stato fatto per questo, soltanto per vedere; chi sbaglia invece è l'anima, alla quale, per contemplare la suprema bellezza, è stata data la mente, non l'occhio. Ora, essa vuole rivolgere la mente al corpi e gli occhi a Dio, cioè cerca di comprendere le cose carnali e di vedere quelle spirituali, ma questo non è possibile.

COME SI DEVONO GIUDICARE LE IMMAGINI SENSIBILI

34.63. Bisogna dunque correggere questa perversione, perché l'anima, se non avrà riposto in alto quel che è in basso e in basso quel che è in alto, non sarà preparata per il regno dei cieli. Non cerchiamo dunque le cose somme tra quelle infime e non attacchiamoci a queste. Giudichiamole, per non essere giudicati insieme ad esse; ossia diamo ad esse l'importanza che ricoprono le cose di infima bellezza, perché non ci capiti di essere posti tra gli ultimi da colui che è primo, dal momento che cerchiamo le cose prime tra le ultime. Ciò non nuoce affatto alle cose ultime, a noi invece moltissimo. Né per questo il governo della divina Provvidenza viene meno al proprio decoro, perché gli ingiusti hanno il posto che spetta loro secondo giustizia e i deformi quello che spetta loro secondo bellezza. E se siamo ingannati dalla bellezza delle cose visibili, perché essa partecipa dell'unità senza raggiungerla in modo completo, rendiamoci conto, se ci riusciamo, che siamo ingannati non da ciò che è, ma da ciò che non è. Ogni corpo infatti è un vero corpo, ma una falsa unità: non è l'Uno supremo, e non lo imita al punto di raggiungerlo; tuttavia non sarebbe neppure un corpo, se non avesse in qualche modo l'unità. D'altra parte, non potrebbe avere in qualche modo l'unità, se non la ricevesse da colui che è l'unità somma.

34.64. O anime pervicaci, datemi un uomo che riesca a vedere senza alcuna immagine di realtà materiali. Datemi un uomo che sia capace di comprendere che il principio dell'unità di ogni realtà non è che quell'unità dalla quale scaturisce tutto ciò che è uno, sia che lo realizzi pienamente sia che non lo realizzi pienamente. Datemi un uomo che veda effettivamente, non che stia a obiettare o che voglia sembrare che vede ciò che invece non vede. Datemi un uomo che resista al sensi della carne e ai colpi che, attraverso essi, ha subito nell'anima; che resista alle abitudini umane e alle lodi degli uomini; che si penta nel suo giaciglio, che rinnovi il proprio cuore, che non ami le vanità esteriori e non cerchi illusioni; che insomma sappia dire a se stesso: "Se non c'è che una sola Roma, fondata, a quanto si dice, da un certo Romolo vicino al Tevere, è falsa questa che immagini con il pensiero; non è infatti la stessa, né io con l'animo sono lì, altrimenti di certo saprei che cosa ora vi accade. Se vi è un solo sole, è falso questo che mi immagino col pensiero; infatti quello compie le sue orbite in spazi e tempi determinati, questo invece lo colloco dove voglio e quando voglio. Se uno solo è quel tal mio amico, falso è questo che mi immagino con il pensiero; infatti, dove quello sia non lo so, questo invece me lo immagino dove voglio. Io stesso, di certo, sono uno e sento che il mio corpo è in questo luogo; tuttavia, con gli artifici del pensiero, vado dove voglio e parlo con chiunque. Tutto ciò è falso e nessuno comprende il falso. Dunque non comprendo, quando contemplo e credo queste cose, perché, se è necessario che sia vero ciò che contemplo con l'intelletto, sono forse tali queste cose che siamo soliti chiamare immagini? Da cosa dipende dunque che la mia anima è piena di illusioni? Dove è il vero che si coglie con la mente?". A chi così pensa si può dire: la vera luce è quella per la quale riconosci che queste cose non sono vere. Attraverso essa vedi quell'Uno in base al quale giudichi che ha unità quanto altro vedi, ma tuttavia non è l'Uno ciò che di mutevole tu vedi.

SOLO NELLA CONTEMPLAZIONE DI DIO L'ANIMA TROVA LA QUIETE

35.65. Se l'occhio della mente freme per il desiderio di vedere queste cose, calmatevi; combattete soltanto contro le abitudini legate al corpi: sconfiggete queste abitudini e tutto sarà vinto. Di certo, noi cerchiamo l'Uno, e niente è più semplice di ciò. Cerchiamolo perciò in semplicità di cuore. Sta scritto: State quieti, e sappiate che io sono il Signore: non nella quiete della pigrizia, ma in quella del pensiero, che lo libera dai condizionamenti dello spazio e del tempo. Infatti, le immagini che provengono dall'eccitazione e dall'incostanza ci impediscono di vedere l'immutabile unità. Lo spazio ci presenta cose da amare, che poi il tempo ci porta via, lasciando nell'anima una folla di immagini, che stimolano la cupidigia ora verso un oggetto ora verso un altro. Così l'animo diviene inquieto e travagliato nel suo vano desiderio di possedere ciò da cui è posseduto. Perciò è invitato alla quiete, ovvero a non amare le cose che è impossibile amare senza affanni. Solo così infatti le dominerà: non ne sarà posseduto, ma le possederà. Il mio giogo è leggero è detto. Chi è sottomesso a questo giogo ha tutte le cose sottomesse e non si affannerà, perché ciò che gli è sottomesso non gli fa resistenza. Ma i miseri, che sono amici di questo mondo, dovranno esserne padroni, se vorranno essere figli di Dio, perché fu data loro la possibilità di divenire tali; appunto i miseri hanno tanta paura di separarsi dall'abbraccio del mondo che niente per essi è più affannoso quanto il non provare affanni.

ERRORE E VERITÀ

36.66. Ma a chi è chiaro almeno che la falsità consiste nel credere che sia quel che non è, costui comprende che è la verità a mostrare ciò che è. Ma se i corpi ingannano, in quanto non raggiungono completamente quell'unità che, come è provato, imitano, ossia il principio per cui è uno tutto ciò che è; se è naturale che approviamo tutto ciò che tende ad essergli simile, mentre disapproviamo ciò che si allontana dall'unità e tende a essere dissimile da essa; allora si comprende che c'è qualcosa così simile a questa unità, Principio dal quale deriva l'unità di tutto ciò che in qualche modo è unitario, da realizzarla completamente e identificarsi con essa: questa è la verità, il Verbo che era in principio, il Verbo Dio presso Dio. Se dunque la falsità deriva dalle cose che imitano l'unità, però non in quanto la imitano, ma in quanto non riescono a realizzarla completamente, la verità è quella che riuscì a realizzarla completamente e ad essere ciò che essa è. Essa è quella che la mostra come è, per cui assai opportunamente è chiamata suo Verbo e sua Luce. Tutte le altre cose si possono dire simili a questa unità, in quanto sono, giacché, come tali, sono anche vere. Ma essa ne è la perfetta somiglianza e dunque la verità. È per la verità infatti che sono vere le cose che sono vere, come è per la somiglianza che sono simili tutte le cose che sono simili. Come, dunque, la verità è la forma delle cose vere, così la somiglianza è la forma delle cose simili. Perciò, dato che le cose vere sono vere in quanto sono, e in tanto sono in quanto sono simili all'Uno che ne è il principio, la somma somiglianza al Principio è la forma di tutte le cose che sono; essa è anche la verità, perché è priva di dissomiglianza.

36.67. Perciò la falsità non ha origine né dall'inganno delle cose, perché a chi le osserva esse mostrano soltanto l'aspetto che hanno ricevuto secondo il loro grado di bellezza; né dalla fallacia dei sensi, perché all'anima che li governa essi non trasmettono altro che le impressioni che hanno ricevuto secondo la natura del corpo a cui appartengono. Sono invece i peccati che ingannano le anime, quando esse cercano il vero, dopo aver abbandonato e dimenticato la verità. Infatti, dal momento che hanno amato le opere più del loro artefice e dell'arte stessa, è questo stesso errore la loro punizione: cercando l'artefice e l'arte nelle opere e non riuscendo a trovarli (Dio, infatti, non solo non è oggetto dei sensi del corpo, ma sovrasta la mente stessa), credono che le opere siano l'arte e l'artefice.

L'IDOLATRIA NASCE DALL'AMORE PER LE CREATURE

37.68. Da qui scaturisce ogni empietà, non solo di coloro che peccano, ma anche di quelli che sono stati condannati per i loro peccati. Infatti non solo vogliono scrutare le creature contro il precetto divino e godere di esse invece che della legge e della verità - in questo consiste il peccato del primo uomo, che fece cattivo uso del libero arbitrio - ma, in questa loro dannazione, fanno anche dell'altro: non solo amano, ma servono anche le creature piuttosto che il Creatore e le venerano in tutte le loro parti, dalle più alte fino alle più basse. Alcuni si limitano a venerare, invece del sommo Dio, l'anima e la prima creatura dotata di intelletto, che il Padre creò per mezzo della verità perché contemplasse sempre quella stessa verità e, attraverso essa, Lui stesso, in quanto gli è somigliante sotto ogni aspetto. Quindi passano alla vita generativa, attraverso la quale Dio eterno ed immutabile produce gli esseri che generano le cose visibili e temporali. Poi procedono a venerare gli animali, quindi i corpi stessi e, tra questi, in primo luogo scelgono i più belli, tra i quali danno la preminenza al corpi celesti. Di essi il primo che si incontra è il sole, e al sole alcuni si arrestano. Altri giudicano degno di culto anche lo splendore della luna; infatti è più vicina a noi, come si crede, per cui si pensa che abbia un aspetto più familiare. Altri aggiungono altri corpi celesti e l'intero cielo con le sue stelle. Altri al cielo etereo uniscono l'aria e sottomettono le loro anime a questi due elementi corporei superiori. Ma tra questi si reputano i più religiosi quelli che ritengono come unico grande Dio, del quale tutte le altre cose sono parti, tutta quanta la creazione, cioè il mondo intero con tutto ciò che contiene, e il principio vitale, per il quale respira ed è animato, e che alcuni credono corporeo, altri incorporeo. Infatti, non conoscendo l'Autore e Creatore dell'universo, si gettano sugli idoli e, dopo essersi immersi nelle opere di Dio, si immergono nelle proprie, che tuttavia sono ancora visibili.

LE TRE FORME DELLA CONCUPISCENZA

38.69. C'è infatti un culto idolatrico deteriore e più basso, per il quale gli uomini adorano le proprie immaginazioni e rispettano con il nome di religione tutto ciò che, nella loro mente in disordine, hanno immaginato pensando con superbia ed orgoglio, fino a che l'anima non prende coscienza che nulla affatto si deve adorare e che errano gli uomini che si avvolgono nella superstizione, impigliandosi in una misera schiavitù. Tuttavia si tratta di una vana coscienza, perché non riescono a liberarsi della schiavitù: rimangono infatti gli stessi vizi dai quali sono attratti, al punto di ritenerli degni di adorazione. Sono schiavi di una triplice cupidigia: del piacere, dell'ambizione e della curiosità. Escludo che vi sia qualcuno. fra coloro che ritengono che nulla si debba adorare, che non sia sottomesso al piaceri carnali o non nutra una vana ambizione di potenza o non vada pazzo per qualche spettacolo. Così, senza rendersene conto, amano le cose temporali al punto che si aspettano da esse la felicità; e di queste cose, dalle quali si attendono la felicità, ineluttabilmente diventano schiavi, lo vogliano o no. Infatti si finisce con il seguirle, dovunque esse conducano, nel timore che qualcuno possa portarsele via. Eppure le può portar via o una scintilla di fuoco o una piccola bestiola; inoltre, per tralasciare le innumerevoli avversità, c'è il tempo che ineluttabilmente porta via tutte le cose destinate a finire. Pertanto, siccome questo mondo comprende tutte realtà temporali, quelli che ritengono che non si deve adorare nulla per non essere schiavi, di fatto sono schiavi di tutte le parti di cui il mondo è costituito.

38.70. Questi infelici tuttavia, benché si trovino in una condizione così bassa da essere dominati dai loro vizi, vittime o della lussuria o della superbia o della curiosità, oppure di due di questi vizi o di tutti, fino a che sono nella vita terrena possono combattere e vincere, a patto però che prima credano a ciò che non sono ancora in grado di comprendere e non amino il mondo, perché, come Dio stesso ha detto, tutto quello che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione mondana. I tre vizi sono così designati: la concupiscenza della carne indica chi ama i piaceri più bassi; la concupiscenza degli occhi i curiosi; l'ambizione mondana i superbi.

38.71. Nell'umana natura, di cui essa stessa si è rivestita, la Verità ha mostrato una triplice tentazione da cui liberarci. Il tentatore disse: Ordina che queste pietre diventino pane; ma l'unico e solo Maestro rispose: Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che proviene da Dio. Così ha insegnato che bisogna dominare le brame del piacere, in modo da non cedere neppure alla fame. Ma chi non si era lasciato attrarre dal piacere della carne, forse avrebbe potuto essere attratto dal fasto del potere temporale; perciò gli furono mostrati tutti i regni della terra e gli fu detto: Ti darò tutte queste cose se, prostrandoti, mi adorerai. Ma gli fu risposto: Adorerai il Signore Dio tuo e a Lui solo renderai culto. Così fu schiacciata la superbia. Ma fu domata anche l'ultima tentazione, quella della curiosità. Il tentatore lo spingeva a gettarsi giù dalla sommità del tempio solo allo scopo di dare una prova; ma neppure in questo caso fu vinto e rispose in modo da farci comprendere che, per conoscere Dio, non c'è bisogno di prove rivolte a scoprire le cose divine in modo visibile. Disse infatti: Non tenterai il Signore Dio tuo. Pertanto, chiunque si nutre interiormente della parola di Dio, non cerca il piacere nel deserto di questo mondo. Chi è sottomesso solo all'unico Dio, non cerca di mettersi in mostra sul monte, cioè attraverso l'elevazione terrena. Chiunque sta saldamente legato allo spettacolo eterno della verità immutabile, non se ne distacca per precipitarsi a conoscere, attraverso la parte più alta del suo corpo, cioè gli occhi, le cose temporali e inferiori.

PERFINO I VIZI SONO UN RICHIAMO A DIO. INTERIORITÀ E TRASCENDENZA

39.72. C'è dunque ancora qualcosa che non possa ricordare all'anima la primitiva bellezza che ha perduto, dal momento che lo possono fare i suoi stessi vizi? La sapienza divina pervade il creato da un confine all'altro; quindi, per tramite suo, il sommo Artefice ha disposto tutte le sue opere in modo ordinato, verso l'unico fine della bellezza. Nella sua bontà pertanto a nessuna creatura, dalla più alta alla più bassa, ha negato la bellezza, che da Lui soltanto può venire, così che nessuno può allontanarsi dalla verità senza portarne con sé una qualche immagine. Chiediti che cosa ti attrae nel piacere fisico e troverai che non è niente altro che l'armonia; infatti, mentre ciò che è in contrasto produce dolore, ciò che è in armonia piacere. Riconosci quindi in cosa consista la suprema armonia: non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell'uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che trascendi l'anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione. A che cosa perviene infatti chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione. Vedi in ciò un'armonia insuperabile e fa in modo di essere in accordo con essa. Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da un luogo all'altro, ma cercandola con la disposizione della mente, in modo che l'uomo interiore potesse congiungersi con ciò che abita in lui non nel basso piacere della carne, ma in quello supremo dello spirito.

39.73. Ma se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo. In questo caso senz'altro non ti si presenterà la luce di questo sole, ma la luce vera, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Essa non si può percepire né con questi occhi né con quelli con cui sono pensate le rappresentazioni che gli occhi stessi imprimono nell'anima, ma con quelli con cui alle stesse rappresentazioni diciamo: "Non siete voi ciò che lo cerco, e non siete neppure il principio in base al quale vi dispongo in ordine; ciò che trovo brutto in voi lo disapprovo, mentre approvo ciò che trovo di bello; ma, poiché il principio per cui disapprovo e approvo è più bello, lo approvo di più e lo antepongo non solo a voi, ma anche a tutti i corpi dal quali vi ho attinte". Quindi questa regola, che tu constati, formulala così: Chiunque comprende che sta dubitando, comprende il vero e di ciò che comprende è certo; dunque è certo del vero. Ciò vuol dire che chiunque dubita dell'esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non può dubitare. Ma il vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve dubitare della verità chi ha potuto dubitare per qualche motivo. Queste cose appaiono manifeste dove risplende la luce che non si estende né nello spazio né nel tempo e che non può essere rappresentata né in forma spaziale né in forma temporale. Tali cose possono corrompersi da qualche parte? No, benché perisca o diventi vecchio tra gli esseri carnali inferiori chiunque possiede l'uso di ragione. In realtà il ragionamento non crea tali verità, ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e, una volta scoperte, ci rinnovano.

LA BELLEZZA DEI CORPI COME RIFLESSO DELL'ORDINE UNIVERSALE

40.74. Così rinasce l'uomo interiore mentre l'uomo esteriore si corrompe di giorno in giorno. Ma l'interiore guarda l'esteriore e lo trova deforme rispetto a se stesso; eppure lo vede bello nel suo genere, lieto per l'armonia che è propria dei corpi e capace di consumare ciò che trasforma a suo beneficio, cioè gli alimenti della carne. Questi, una volta che sono stati consumati, cioè che hanno perduta la propria forma, vanno a costituire la materia di cui sono fatte queste membra e ricostituiscono ciò che è stato disgregato, assumendo altre forme ad esse assimilabili. Mediante l'impulso vitale quindi sono in qualche modo selezionati, così che quelli tra essi che sono adatti vengono assunti nella struttura della nostra bellezza visibile, quelli che non lo sono invece sono espulsi attraverso le opportune vie. Di questi ultimi alcuni vengono restituiti alla terra come escremento per assumere altre forme, altri fuoriescono per tutto il corpo, altri ancora accolgono in sé gli ordini temporali latenti di tutto l'essere vivente, preparandosi alla procreazione, e, quando sono stimolati o dall'unione di due corpi o dall'immagine di tale unione, defluiscono dalla sommità della testa attraverso gli organi genitali, in un basso piacere. Nella madre poi, secondo un ordine temporale ben determinato, essi vengono predisposti in un ordine spaziale, di modo che tutte le membra occupino il loro posto. E se queste hanno mantenuto la giusta proporzione, una volta aggiunto lo splendore del colore, nasce il corpo che si dice ben formato e che è amato intensamente da coloro che lo hanno a caro. E tuttavia in esso ciò che piace di più non è la bellezza che viene animata, ma la vita che la anima. Infatti questo essere vivente, se ci ama, ci attira a se con più forza; se invece ci odia, ci adiriamo e non riusciamo a sopportarlo, anche se ci offre la sua stessa bellezza per goderne. È qui che regna il piacere, e la bellezza più bassa, perché è soggetta a corruzione; se così non fosse, sarebbe ritenuta somma.

40.75. Ma interviene la divina Provvidenza per mostrare che tale bellezza non è di per sé un male, perché sono ben evidenti in essa le tracce delle supreme armonie in cui si manifesta la sapienza infinita di Dio; ma anche per mostrare, col mescolarvi dolori, malattie, deformazioni di membra, pallori, gelosie e discordie tra gli animi, che si tratta di una bellezza infima, in modo che siamo ammoniti a cercare ciò che non muta. Realizza tutto ciò tramite quegli infimi servitori che provano piacere a farlo, che le Sacre Scritture chiamano angeli sterminatori ed angeli dell'ira, benché non sappiano quale beneficio ne derivi. Ad essi sono simili quegli uomini che godono delle disgrazie altrui e che si procurano o cercano di procurarsi motivi di riso o divertenti spettacoli con le sciagure e gli errori altrui. Per i buoni tutto ciò serve di ammonimento e di prova e così essi vincono, trionfano, regnano; i malvagi invece sono ingannati, tormentati, vinti, condannati e costretti a servire non l'unico sommo Signore di tutte le cose, ma gli ultimi suoi servi, ossia quegli angeli che si nutrono dei dolori e della miseria dei dannati e, a causa della loro malvagità, si affliggono per la liberazione dei buoni.

40.76. Così tutti, secondo i rispettivi ruoli e fini, sono ordinati in rapporto alla bellezza dell'universo in modo che quanto, considerato per se stesso, ci fa orrore, se considerato nell'insieme, invece ci piace moltissimo. Pertanto, nel giudicare un edificio non dobbiamo limitarci a considerare un angolo soltanto, né in un uomo bello i soli capelli, né in un buon oratore il solo movimento delle dita né nel corso della luna le fasi di tre giorni soltanto. Queste cose infatti, che sono infime perché composte di parti imperfette, sono invece perfette nell'insieme: la loro bellezza può essere percepita sia in quiete sia in movimento; tuttavia bisogna considerarle nell'insieme, se si vuole giudicarle in modo corretto. Il nostro giudizio vero, infatti, è bello sia che riguardi l'insieme sia una sua parte: in quanto è conforme alla verità, con esso trascendiamo il mondo intero e non restiamo legati a nessuna delle sue parti. Il nostro errore invece è brutto di per sé, in quanto ci fa aderire ad una sua parte. Ma come il colore nero in un dipinto diviene bello in rapporto all'insieme, così l'agone della vita nel suo insieme si rivela accettabile perché l'immutabile divina Provvidenza assegna un ruolo ai vinti, un altro a chi lotta, un altro ancora ai vincitori e uno agli spettatori, un ultimo infine ai pacifici che contemplano solo Dio. In tutti costoro infatti non vi è altro male che il peccato e la pena del peccato, ossia il distacco volontario dalla più alta essenza e l'affanno involontario in quella più bassa o, per dirla in altri termini, l'affrancamento in virtù della giustizia, la servitù in conseguenza del peccato.

 

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