LE COSE PRECEDONO I SEGNI

Agostino: - Secondo te, si possono mostrare senza segno tutte le azioni che siamo in grado di compiere subito dopo che siamo stati interrogati in proposito, o hai qualche eccezione da fare?

Adeodato: - Io, in verità, considerando e riconsiderando tutto questo genere di azioni, non ho trovato ancora niente che si possa insegnare senza segno, a eccezione forse del linguaggio e dell'insegnare, se per caso qualcuno ci chiede cosa sia l'atto di insegnare. Vedo infatti che qualunque atto io compirò per istruire qualcuno, dopo la sua richiesta, non potrò allontanarmi dalla cosa stessa che desidera che gli sia mostrata. Giacché, come si è detto, se qualcuno mi chiede cosa sia camminare quando ho finito di camminare o sto facendo altro e io tento di insegnargli senza segno ciò che mi ha chiesto mettendomi subito a camminare, come potrò metterlo in guardia dal pensare che il camminare si riduce unicamente a quel tanto che avrò camminato? Se pensa così, si ingannerà perché riterrà che non abbia camminato chiunque avrà camminato più o meno di me. E quello che ho detto di questa parola vale per tutto ciò di cui ho ammesso che si può mostrare senza segno, a eccezione dei due casi che abbiamo escluso.

Agostino: - Su ciò sono d'accordo; ma non ti pare che altro è parlare e altro insegnare?

Adeodato: - Certamente, perché, se fossero la medesima cosa, non si insegnerebbe che parlando; ma poiché insegniamo molte cose con altri segni oltre che con le parole, chi potrebbe dubitare di questa differenza?

Agostino: - E che, insegnare e significare non differiscono affatto o differiscono in qualche cosa?

Adeodato: - Penso che siano la medesima cosa.

Agostino: - Non si esprime correttamente chi dice che noi facciamo dei segni per insegnare?

Adeodato: - Certo, parla in modo corretto.

Agostino: - Bene. E se un altro dicesse che noi insegniamo per fare dei segni, non sarebbe facile smentirlo sulla base del principio stabilito sopra?

Adeodato: - Sì.

Agostino: - Se dunque facciamo dei segni per insegnare e non insegniamo per fare dei segni, altro è insegnare e altro è fare dei segni.

Adeodato: - Dici il vero ed erroneamente ho risposto che si tratta della medesima cosa.

Agostino: - Ora rispondi a questa domanda: chi insegna cosa sia insegnare lo fa facendo dei segni o in altro modo?

Adeodato: - Non vedo come sia possibile in altro modo.

Agostino: - È dunque errato ciò che hai detto poco fa, ossia che si può insegnare la cosa senza segni quando si chiede cosa sia l'insegnare. Vediamo infatti che neppure ciò si può fare senza segni dal momento che hai concesso che altro è fare dei segni e altro è insegnare. Se infatti sono due atti diversi, come è evidente, e se l'uno non può essere mostrato che mediante l'altro, vuol dire che esso non si mostra da sé, come ti era sembrato. Finora dunque non abbiamo trovato nulla che possa mostrarsi da se stesso all'infuori del linguaggio che, fra le altre cose, significa anche se stesso. Ma siccome anche il linguaggio è un segno, non c'è assolutamente nulla che, come sembra, si possa insegnare senza segni.

Adeodato: - Non ho alcun motivo per dissentire.

Agostino: - Da quanto detto dunque risulta che niente si può insegnare senza segni e che la conoscenza in sé è per noi più pregevole dei segni con cui conosciamo, sebbene non tutti gli oggetti che sono significati possano essere migliori dei loro segni.

Adeodato: - Mi pare che sia così.

Agostino: - Ma dimmi. Ricordi quanti giri abbiamo compiuto per ottenere un risultato così modesto? Infatti, da quando abbiamo cominciato a scagliarci contro le parole - ed è molto che lo facciamo -, ci siamo affannati per trovare le risposte a questi tre problemi: se si può insegnare qualche cosa senza segni; se ci sono segni che sono da preferire alle cose che essi significano; e se la conoscenza stessa delle cose è preferibile ai segni. Ma c'è una quarta questione su cui vorrei avere in breve una tua opinione, e cioè se, secondo te, le soluzioni che abbiamo trovato sono tali che ormai non se ne può più dubitare.

Adeodato: - Avrei voluto in verità che, dopo tanti giri e tortuosità, si fosse giunti a risultati certi; ma questa tua ultima domanda, non so come, mi inquieta e non mi consente di dare l'assenso. Mi sembra infatti che non me l'avresti posta se non avessi qualche cosa da obiettare. La complessità stessa delle cose mi impedisce di esaminare l'insieme e di rispondere con sicurezza; temo appunto che, fra tante pieghe, si nasconda qualche cosa su cui l'acutezza della mia mente non è in grado di far luce.

Agostino: - Accolgo con piacere la tua esitazione perché è il segno di uno spirito non avventato ed è la più grande salvaguardia della tranquillità intellettuale. E’ infatti assai difficile non turbarsi quando le opinioni che accettavamo con spontanea e piena adesione crollano di fronte a dimostrazioni in senso contrario e ci vengono quasi strappate dalle mani. Pertanto, come è bene cedere di fronte ad argomenti ben considerati e attentamente esaminati, così è pericoloso ritenere per conosciuto ciò che non lo è. C'è da temere appunto che, poiché spesso vengono demolite opinioni che si presumevano stabili e durature, cadiamo in tale avversione o tale apprensione nei confronti della ragione, che riteniamo di non dover prestare fede neppure alla verità più evidente.

Ma su, ora esaminiamo con l'animo più libero se a buon diritto hai ritenuto di dover dubitare. Ti pongo una questione. Supponi che un tale, inesperto della caccia agli uccelli che si pratica con panie e visco, s'imbatta in un uccellatore, naturalmente armato dei suoi strumenti, ma che non intende servirsene e procede per la sua strada. A questa vista il nostro uomo tratterrà il passo e, meravigliandosi, come capita, rifletterà fra sé e si chiederà a che cosa possa servire quell'attrezzatura. L'uccellatore, vedendosi osservato, per il desiderio di mettersi in mostra preparerà le canne e poi, scoperto nelle vicinanze un uccelletto, con il fusto di una canna e con il falcone lo immobilizzerà, gli metterà le mani sopra e lo catturerà. Quest'uomo non ha insegnato a colui che lo osserva ciò che voleva sapere, senza ricorrere ad alcun segno ma mediante la cosa stessa?

Adeodato: - Temo che si tratti di qualche cosa di simile a ciò che ho detto di colui che chiede che cosa sia camminare. Vedo che neanche nel caso della cattura degli uccelli l'operazione è stata mostrata nella sua totalità.

Agostino: - E' facile liberarti da questa preoccupazione. Aggiungo la clausola che l'osservatore sia abbastanza intelligente da capire tutta intera questa tecnica a partire da ciò che vede. Giacché, per il nostro assunto, è sufficiente che, se non tutte le cose, almeno alcune possano essere insegnate senza segni ad alcuni uomini.

Adeodato: - Ma anch'io posso aggiungere una clausola: se è abbastanza intelligente, una volta che gli è stato indicato con pochi passi cosa è il camminare, capirà in che cosa consiste nella sua totalità.

Agostino: - Fallo pure; da parte mia non solo non mi oppongo, ma anzi ti assecondo. Vedi dunque che ciascuno di noi ha stabilito che alcune cose si possono insegnare ad alcune persone senza segni e che quindi è falso ciò che pensavamo poco fa, ossia che non vi è assolutamente nulla che si possa mostrare senza segni. A partire da questi casi non sono una o due, ma mille le cose che vengono alla mente come tali che si possono mostrare di per sé senza il ricorso ad alcun segno. E allora, scusa, perché ne dubitiamo? Per non parlare dei tanti spettacoli che, in tutti i teatri, gli attori presentano senza ricorrere ai segni ma mediante le cose stesse, Dio e la natura non fanno sì che si mostrino da se stessi a coloro che li osservano questo sole, cioè la luce che inonda e riveste tutte queste cose, la luna e le stelle, le terre, i mari e gli innumerevoli esseri che vi sono generati?

E se consideriamo la questione con maggiore attenzione, forse non troverai nulla che si apprenda mediante i suoi segni. Quando infatti mi viene dato un segno, se io non so di che cosa è segno, esso non può insegnarmi nulla; se invece lo so, che cosa apprendo mediante il segno?

Così quando leggo Et sarabarae eorum non sunt mutatae, la parola non mi mostra la cosa che significa. Se infatti con tale nome si chiamano certi copricapo, forse che, una volta uditolo, ho appreso cosa è il capo e cosa sono i copricapo? Queste cose le conoscevo già; non ne ho acquistata nozione perché le ho sentite nominare da altri, ma perché le ho viste da me. Non è infatti quando per la prima volta le due sillabe della parola "capo" hanno colpito le mie orecchie, come non è quando per la prima volta ho sentito o letto sarabare che ne ho conosciuto il significato. Ma piuttosto, sentendo spesso dire "capo", ho notato e fatta attenzione alla circostanza in cui era pronunciato, così ho trovato che il termine designava una cosa che mi era già ben nota per averla vista. Prima di questa scoperta la parola per me era soltanto un suono; ho appreso che era un segno quando ho trovato di quale cosa era segno. Ma, come ho detto, questa cosa l'ho appresa non per mezzo del significato, ma per mezzo della vista. Perciò è il segno che si apprende attraverso la conoscenza della cosa e non già la cosa stessa attraverso l'emissione del segno.

Per comprendere meglio la questione, supponi che ora, per la prima volta, udiamo il termine "capo". Non sapendo se è soltanto il risuonare di una voce oppure se ha anche un significato, domandiamo che cosa è il capo. (Ricordati che desideriamo conoscere non la cosa significata, ma il segno stesso, conoscenza di cui evidentemente siamo privi fino a che ignoriamo di che cosa è segno). Se dunque alla nostra richiesta ci viene mostrata col dito la cosa stessa, nel vederla apprendiamo il segno che avevamo soltanto udito, ma non ancora conosciuto. Ora, poiché questo segno presenta due aspetti, il suono e il significato, certamente non abbiamo percepito il suono mediante il segno ma mediante l'udito percosso dal suono e il significato mediante la percezione della cosa significata. Il dito teso infatti non può significare niente altro che ciò verso cui esso è teso. Ora il dito non è teso verso il segno, ma verso quella parte del corpo che è chiamata capo; quindi, mediante questo gesto, non posso conoscere né la cosa che conoscevo già né il segno perché il dito non è teso verso di esso.

Ma non voglio occuparmi troppo del dito teso, poiché mi sembra che sia il segno dell'azione stessa del mostrare piuttosto che delle cose che sono da esso mostrate, come avviene, per esempio, quando diciamo "ecco"; infatti, nel pronunciare questo avverbio siamo soliti anche tendere il dito come se un segno solo per mostrare non sia sufficiente. Ora, se mi sarà possibile, cercherò soprattutto di persuaderti che non apprendiamo nulla con i segni che chiamiamo parole. Infatti, come ho detto, piuttosto che la conoscenza della cosa a partire dal suo significato, apprendiamo il valore della parola (ossia il suo significato che si nasconde nel suono) a partire dalla conoscenza della cosa significata.

E ciò che ho detto del capo lo potrei dire anche dei copricapo e di innumerevoli altre cose; ma queste le conoscevo già, mentre le famose sarabare non so ancora cosa siano. E se qualcuno me le indicasse con un gesto o me le dipingesse oppure mi mostrasse qualche cosa di simile, non direi che non me le ha insegnate - cosa che potrei provare facilmente se volessi dilungarmi un po' - ma dico qualche cosa di molto simile e cioè che non me le ha insegnate con le parole. Se poi, scorgendole davanti a me, mi avvertisse dicendo: "ecco le sarabare", apprenderei una cosa che non conoscevo, però non già per mezzo delle parole pronunciate, ma mediante la percezione diretta delle sarabare. Ne deriverebbe che conoscerei e apprenderei anche il valore di questo nome. Nell'apprendere la cosa infatti non è alle parole altrui che ho prestato fede, ma ai miei occhi; alle parole tuttavia forse ho creduto per prestare attenzione, cioè per cercare con lo sguardo la cosa da vedere.

 

 

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