DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE

Temi del sermone

 

– Vangelo dell’ottava domenica dopo Pentecoste: “Guardatevi dai falsi profeti”; si divide in tre parti.

– Anzitutto sermone sulla dimora che l’anima fedele prepara a Gesù Cristo: “Disse la donna sunammita”.

– Parte I: Sermone contro i falsi profeti: “Dai profeti di Gerusalemme è venuta sulla terra la corruzione”.

– Sermone contro i falsi religiosi: “Disse Geroboamo a sua moglie”. Si parla anche della iena, della sua natura e del suo simbolismo.

– Sermone morale sui falsi profeti, cioè sugli affetti carnali: “Guardatevi!...”, e “Adesso tutti i profeti di Baal”, e quello che segue.

– Parte II: Sermone sui cinque elementi di cui è composto l’albero e il loro significato: “Ogni albero”.

– Sermone sulle dieci linee che sono nell’orologio e gli altrettanti gradi, e il loro significato: “Il re Ezechia disse ad Isaia: Quale sarà il segno?”

– Sermone sui cinque elementi che ci sono nell’albero cattivo: “Un vigilante, un santo, scese dal cielo”.

– Parte III: Sermone contro coloro che si rivolgono al Signore mentre sono in peccato mortale: “Gridano a me da Seir”.

– Sermone contro la gola, la superbia, la vanagloria e la lussuria: “Si sono riempiti e si sono saziati”.

– Sermone sul modo di cercare il Signore: “Quando Giosia sentì le parole della Legge del Signore”.

 

esordio - la dimora che l’anima fedele deve preparare a cristo gesù

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore” (Mt 7,15).

Nel quarto libro dei Re si racconta che la donna sunammita parlò di Eliseo a suo marito, e gli disse: “Io sento che è un uomo di Dio, un santo, questi che passa spesso da noi. Prepariamogli una piccola stanza nel piano di sopra, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada, in modo che venendo da noi vi si possa ritirare” (4Re 4,9-10). Vediamo che cosa significhino Eliseo, la Sunammita e suo marito, la stanza, il letto, la tavola, la sedia e la lampada.

Eliseo s’interpreta “salvezza del mio Dio”, ed è figura di Gesù Cristo, mandato da Dio Padre per la salvezza del suo popolo. Gesù Cristo venne alla Sunammita, che s’in­ter­­preta “schiava” o anche “rosso scarlatto”. E questa è l’anima che Gesù Cristo ha riscattata con il suo sangue dalla schiavitù del diavolo: presso quest’anima Gesù Cristo è ospitato mentre le dà la vita; passa oltre quando le sottrae la sua grazia perché, avendo di se stessa un concetto troppo alto, si umili. Il marito di questa sunammita è figura dell’intelletto razionale il quale, con le forze e il sentimento che ha per sua natura o che gli sono stati concessi per grazia, deve dirigere l’anima, deve consigliarla, deve curarla, e suscitare da lei una progenie di virtù e di opere buone. Con questo marito l’anima si consiglia e dice: “Sono convinta che costui è un uomo di Dio, un santo…”, ecc.

Osserva ancora che nella piccola stanza è simboleggiata l’unità, nel letto la castità, nel tavolo la soavità della contemplazione, nella sedia il disprezzo di sé e nella lampada la luce del buon esempio. La stanza è chiamata in lat. coenaculum, cenacolo, cioè locale in cui varie persone mangiano insieme, come anche coenobium, cenobio, che vuol dire “riunione di molti”; e quindi sta ad indicare la riunione, l’unità dei fedeli, della quale lo sposo del Cantico dei Cantici dice: “Mi hai ferito il cuore, sorella, mia sposa, con uno dei tuoi occhi e con un solo ricciolo del tuo collo”(Ct 4,9). “Un solo occhio” (un solo sguardo) simboleggia l’unità dei prelati, i quali devono illuminare tutta la chiesa, come l’occhio illumina tutto il corpo (cf. Mt 6,22). Nei riccio­li che scendono dal capo sono raffigurati tutti i fedeli, uniti a Cristo, loro capo. Quindi lo sposo viene ferito dalla ferita dell’amore per amare la chiesa, quando vede in essa l’unità dei prelati in concordia con i sudditi, con i fedeli. E il cenacolo dell’unità dev’essere piccolo per mezzo dell’u­miltà, virtù che è come il cemento che lega tra loro sudditi e prelati.

Nel letto poi è indicata la castità. Leggiamo nel Cantico dei Cantici: “Il nostro letto è fiorito” (Ct 1,15). Il letto della coscienza dev’essere fiorito dei gigli della purezza. Così nella tavola è indicata la soavità della contemplazione, della quale dice il salmo: “Davanti a me tu prepari una mensa” (Sal 22,5). La mente, quando viene innalzata a gustare quella dolcezza, non dà più alcuna importanza a sofferenze o a tribolazioni. Quella dolcezza infatti influisce nella mente in modo tale che non può più angustiarsi per la sofferenza. Nella sedia, che deriva da “sedersi”, e che suona come sedda, sella, è simboleggiato il disprezzo di sé. In questa sedia sedeva colui del quale parla Geremia: “Egli sederà solitario e tacerà” (Lam 3,28). “Sederà” in segno di disprezzo di sé, “solitario”, in disparte dal tumulto delle cose del secolo e dai ripensamenti, e “tacerà”, non pronuncerà parole maligne. Nella lampada, che non dev’essere occultata sotto il moggio ma posta sul monte, per illuminare quelli che sono nella casa (cf. Mt 5,15), è indicata la luce del buon esempio. Questa è la dimora, così arredata su consiglio del marito, che l’anima deve preparare per il vero Eliseo, e non per i falsi profeti, vale a dire per gli eretici e gli ipocriti, dei quali il Signore nel vangelo di oggi dice: “Guardatevi dai falsi profeti…”, ecc.

 

2. Fa’ attenzione che in questo vangelo sono posti in evi­denza tre fatti. Primo, la simulazione degli ipocriti, quan­do dice: “Guardatevi dai falsi profeti”. Secondo, i frutti dell’albero buono e il taglio di quello cattivo, quando continua: “Così ogni albero buono”, ecc. Terzo, la cacciata dal regno di chi dice e non fa, e l’accoglienza nel regno di chi compie la volontà di Dio, quando conclude: “Non chi dice: Signore, Signore”, ecc. Con queste tre parti del vangelo vedremo la concordanza di alcuni racconti presi dal quarto libro dei Re.

Nell’introito della messa di questa domenica si canta: “Ecco, Dio è il mio aiuto” (Sal 53,6). Si legge quindi l’epistola del beato Paolo apostolo ai Romani: “Noi siamo debitori, ma non verso la carne” (Rm 8,12); divideremo il brano in tre parti, trovandone la concordanza con le tre parti del vangelo. Prima parte: “Siamo debitori”. Seconda parte: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio”. Terza parte: “Lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito”.

 

I. la simulazione degli ipocriti

 

3. “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?” (Mt 7,15-16).

Fa’ attenzione a queste tre cose: falsi profeti, veste di pecore, lupi rapaci. I falsi profeti sono gli ipocriti, dei quali dice Geremia: “Dai profeti di Gerusalemme è usci­ta la corruzione su tutta la terra” (Ger 23,15). Questi sono i profeti di Gezabel, nome che s’interpreta “sterquilinio”; infatti, mentre ricercano i saluti nelle piazze e i primi seggi nelle sinagoghe (cf. Mt 23,6-7)profeteggiano a favore dello sterquilinio, essi che sono diventati “come lo sterco della terra” (Sal 82,11). Di questi profeti parla anche Michea: “Così dice il Signore contro i profeti che seducono il mio popolo, che mordono con i loro denti e predicano la pace; e a chi non mette niente nella loro bocca, dichiarano la guerra santa” (Mic 3,5).

Considera queste quattro parole: seducono, mordono, predicano e dichiarano. I falsi profeti seducono, con la persuasione attirano a sé gli innocenti. Mordono con le detrazioni e le calunnie. Mordono: da mordere viene morbus, malattia, così chiamato, il morbo, perché è via allamorte. La calunnia (la detrazione) è una malattia per la quale, come per una via, la morte arriva all’anima. Predicano la pace, per farsi vedere pacifici, essi che mai hanno trovato la via della pace (cf. Sal 13,3). Questi sono i sacerdoti ladri, che mordono con vituperi coloro che non danno, e a coloro che danno predicano la pace e promettono la misericordia, e a coloro che non danno dichiarano la guerra santa. Infatti ritengono cosa santa perseguitare quelli che non danno, e li feriscono con la spada della scomunica. Che se poi danno, li benedicono con una solenne benedizione, essi che sono maledetti dal Signore, il quale maledice anche le loro benedizioni (cf. Ml 2,2). A quelli che danno, infatti, dicono: Voi siete figli della chiesa e onorate la madre vostra, perché soffrite con lei per la sua povertà, e quindi siete benedetti perché a lei date.

Ma ditemi, o falsi profeti, ladri e omicidi, chi è la chiesa, se non l’anima fedele? Per renderla pura, senza macchia né ruga, il Signore ha consegnato alla morte la sua anima, cioè la sua vita (cf. Ef 5,27). Chi dà a questa chiesa ciò che ha, il Signore lo benedirà. Ma ahimè, ahimè, oggi un’asina cade a terra e c’è subito pronto chi l’aiuta a rialzarsi; ma va in rovina un’anima e non c’è nessuno che la soccorra! Se fossero dei profeti veri, direbbero con il vero profeta Geremia: “Guai a me, perché l’anima mia viene meno a motivo degli uccisi” (Ger 4,31). Guai a me a causa della tribolazione del mio popolo” (Ger 10,19). “Chi verserà l’acqua sul mio capo e chi darà ai miei occhi un fonte di lacrime, e piangerò giorno e notte sugli uccisi della figlia del mio popolo?” (Ger 9,1).

Abbiamo poi la concordanza del quarto libro dei Re, dove si racconta che “l’uomo di Dio, Eliseo, si turbò e pianse. E Cazael gli disse: Per quale motivo piange il mio signore? E quello rispose: Perché conosco i mali che farai ai figli d’Israele: incendierai e brucerai le loro città fortifica­te, passerai a fil di spada i loro giovani, sfracellerai i loro bambini e sventrerai le loro donne incinte” (4Re 8,11-12).

Eliseo è figura del degno prelato della chiesa, il quale deve piangere fino ad avere il volto congestionato, perché Cazael, cioè il diavolo, dà alle fiamme con il fuoco della cupidigia le città, cioè le anime dei fedeli; uccide con la spada della suggestione i giovani, vale a dire distrugge le virtù; sfracella i bambini, distrugge cioè le opere buone ancora ai loro inizi; sventra le donne incinte, distrugge il proposito della buona volontà. E chi non piangerà su così grandi sventure? Ma i falsi profeti non se ne curano, purché abbiano di che depredare. Ben a ragione, dunque, il Signore dice: “Guardatevi”, cioè state bene attenti, “dai falsi profeti”. Falso deriva dal lat. fallere, ingannare, dire ciò che non è vero. Dicono: pace, pace, pace, ma la pace non c’è (cf. Ger 6,14).

Leggiamo nel terzo libro dei Re che Acab, re d’Israele, “radunò tutti i profeti e disse loro: Devo andare a fare la guerra contro Ramot di Galaad, oppure devo desistere? E i profeti risposero: Va’, perché il Signore lo metterà nelle tue mani” (3Re 22,6). Di quei falsi profeti, il vero profeta del Signore, Michea, dice poco più avanti: “Ecco, il Signore ha posto lo spirito della menzogna nella bocca di tutti i tuoi profeti che stanno qui; invece il Signore preannuncia contro di te una sciagura” (3Re 22,23).

Acab è figura di colui che ama questo mondo; egli vuole salire a Ramot di Galaad per ribellarsi contro il Signore. Ramot s’interpreta “visione di morte”, Galaad “cumulo di testimonianze” (Gn 31,47-48), e stanno a indicare le dignità e le ricchezze di questo mondo, nelle quali invece c’è visione di eterna morte e sono accumulate le testimonianze di condanna eterna contro coloro che le amano. E quando [il mondano] vuol salire alle dignità e accumulare ricchezze, consulta i falsi profeti e domanda loro se deve accingersi all’impresa. Va a chiedere consiglio ai sacerdoti del nostro tempo, i quali gli dicono: “Va’ pure!”, non è certo peccato possedere ricchezze o conquistare cariche; anche in quello stato si può salvarsi.

Oh, magari si presentasse Michea, profeta del Signore, a confondere questi negromanti e ventrìloqui e costringerli a confessare di dire il falso, a chiudere la bocca ai menti­tori (cf. Sal 62,12) con l’autorità di Gesù Cristo, che di­ce: “Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi; guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc 6,24-26). Ecco, il Signore dice: “Guai!”, e voi, falsi profeti, dite “Vai!”

Guardatevi dunque dai falsi profeti. Non prestate loro fede, quando vi dicono di salire a Ramot di Galaad, perché lì saranno guai.

 

4. “Essi vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”. “Quale intesa ci può essere tra Cristo e Beliar?” (2Cor 6,15). Quale intesa ci può essere tra la pecora e il lupo? È pecora nella veste, ma lupo nell’animo. La giustizia finta non è giustizia, ma doppia ingiusti­zia (Agostino). I falsi religiosi sono lupi rapaci, ma si presentano in veste di pecora. Abbiamo qualcosa di simile nel terzo libro dei Re, dove si racconta che “Geroboamo disse a sua moglie: àlzati e cambia vestito perché non si sappia che tu sei la moglie di Geroboamo, e va’ a Silo dove c’è il profeta Achia. Quando la donna entrò dal profeta fingendo di non essere quella che era, Achia sentì il rumore dei suoi piedi mentre entrava dalla porta, e disse: Entra, moglie di Geroboamo! Perché fingi di essere un’altra?” (3Re 14,2.5-6).

Geroboamo s’interpreta “divisione del popolo”, ed è figura del falso religioso che, diviso, bipartito in pecora e lupo, provoca sempre divisioni e discordie nel chiostro e nei capitoli. È infatti come un satana tra i figli di Dio (cf. Gb 1,6). Come dice il salmo: È il nemico che vaga nelle tenebre (cf. Sal 90,6).

Sua moglie è la libidine lupigna; e il lupo vuole che essa cambi il vestito, indossi cioè la pelle della pecora. Ma il profeta del Signore Achia la riconosce e le dice: “Entra”, ecc. Achia s’interpreta “esame della vita”, e sta a significare la coscienza dell’uo­mo, la quale sempre protesta e denuncia ogni simulazione. Dice infatti l’Apostolo ai Romani: Il testimonio della loro coscienza e i loro stessi ragionamenti ora li accusano, ora li difendo­no (cf. Rm 2,15). E Salomone nei Proverbi: “Il malvagio cerca sempre contese; ma gli sarà mandato contro un messag­gero senza pietà” (Pro 17,11), cioè la coscienza che rimprovera e rimorde.

E considera che l’ipocrita, camuffato sotto la pelle di pecora, è come la iena, della quale si raccontano tante cose incredibili. La iena è un animale piccolo e selvatico, che di notte scava tra i sepolcri e si ciba dei corpi dei morti. Imita la voce dell’uomo, va dietro ai pastori nei loro recinti, e ascoltandoli a lungo e attentamente ne impara i richiami e i nomi per poter poi esprimersi imitando la voce umana e infierire di notte contro l’uomo, dopo averlo attirato con uno stratagemma. Contraffà anche il vomito dell’uomo e con rantoli e sforzi attira i cani e quindi li divora. E se i cani, quando ne vanno a caccia, entrano in contatto con la sua ombra mentre la seguono, perdono la voce e non possono più abbaiare. Gli occhi della iena hanno grande varietà e mutevolezza di colori; non attenua mai la forza dello sguardo, ma procede senza batter ciglio contro ciò che ha preso di mira. In bocca non ha gengive: ha un solo dente, che non perde mai, e per non spuntarsi rientra come in un incavo naturale. Se questa iena gira tre volte attorno ad un animale, quest’ultimo non è più in grado di muoversi. A questo proposito il Signore, per bocca di Geremia, dice: “La mia eredità è diventata per me come la caverna della iena” (Ger 12,8).

Così anche l’ipocrita è un animale, perché vive bestialmente; si fa piccolo con la simulazione, è selvaggio a motivo della nefandezza della sua condotta, poiché nella not­te va scavando nei sepolcri della simulazione. Come dice l’Apostolo, s’introduce nelle case delle donne (cf. 2Tm 3,6), con parole melliflue e benedizioni seduce i semplici (cf. Rm 16,18) e così si ciba dei cadaveri dei peccatori. Imita la voce, cioè le lodi degli uomini; entra nei recinti dei pastori, vale a dire nei luoghi dove si predica e, ascoltando attentamente, impara anche lui a predicare: poi, col favore delle tenebre, inganna la gente che con la sua predicazione ha attirato a sé.

Contraffà anche il vomito dell’uomo, cioè la confessione dei peccatori. Si proclama peccatore, ma è ben lungi dal credersi tale; con falsi singhiozzi e gemiti tenta di farsi ritenere santo dalla gente che lo vede gemere a quel modo. E qualche volta riesce a ingannare anche i giusti, che cre­dono troppo facilmente alla sua finta devozione. Se la sua ombra sfiora qualcuno, questi non è più capace di abbaiargli contro, anzi lo difende. E questo succede soprattutto oggi a coloro che si fidano degli eretici. Costoro non hanno certo prestato ascolto al consiglio del Signore: “Guardatevi dai falsi profeti”, ecc.

Negli occhi dell’ipocrita poi ci sono tanti cambiamenti. Talvolta leva gli occhi al cielo e sospira, talaltra li rivolge alla terra e piange. E il cambiamento del colore: ora è pallido, ora nero; ora ha vesti dimesse, ora ordina­te; ora l’astinenza gli va bene, ora non gli va bene. Tutto questo cambiamento di colori è indice dell’instabilità interiore.

Parimenti ogni animale che la iena, cioè l’eretico o l’ipocrita, ha aggirato tre volte, lo ha cioè ingannato con la parola della predicazione, con l’esempio della sua finta santità e con la profferta di allettanti promesse, resterà immobilizzato nei confronti del bene. “Guardatevi” dunque, ve ne scongiuro, “dai falsi profe­ti. Li riconoscerete da questi loro frutti”. E avverte la Glossa: Si riconoscono soprattutto a motivo della loro insofferenza nel tempo delle avversità. Infatti quando la prosperità arride, sotto la pelle di pecora si nasconde l’animo del lupo. Ma quando spira il vento contrario, allo­ra la pelle di pecora viene lacerata dai denti del lupo.

“Raccolgono forse uva dalle spine o fichi dai rovi?”. Le spine sono chiamate così da pungere, perché sono appuntite come gli aghi (spicae); e i rovi sono detti in lat. tribuli perché fanno tribolare. Le spine e i rovi raffigurano gli eretici e gli ipocriti, nei quali nessuno che sia assennato potrà mai trovare la santità o la verità; essi sanno solo lacerare e ferire coloro che li seguono.

 

5. “Guardatevi dai falsi profeti”. Falsi profeti sono anche gli istinti carnali che, per ingannare l’anima, accampano il pretesto della fragilità e della debolezza della natura, decantano l’abbondanza delle cose terrene, profetizzano la pace e proclamano che grande è la misericordia di Dio: e insinuano tutte queste cose per indurre l’anima al peccato. Di tutte queste cose il giusto, piangendo con le parole di Geremia, dice: “Ah, ah, ah, Signore Dio, i profeti dicono loro: Non vedrete spada e non soffrirete la fame, ma vi concederà una pace perfetta in questo luogo” (Ger 14,13). Quando gli istinti carnali parlano così, non ci resta che gemere e dire: Ah, ah, ah, Signore Dio. E in questo triplice “ah” è simboleggiato un triplice dolore: quello del cuore, quello della bocca e quello del corpo. E dice in proposito il Signore ad Ezechiele: “Tu, figlio dell’uomo, profetizza e batti mano contro mano affinché si raddoppi e si triplichi la spada per quelli che dovranno essere uccisi. Questa è la spada del grande massacro che li farà tramortire dallo stupore” (Ez 21,14).

Quando il giusto sente la voce dei profeti, il fischio di richiamo dei greggi, il sussurro dei desideri carnali, subito deve battere mano contro mano e raddoppiare o triplicare la spada del dolore, con la quale uccidere i falsi profeti e far tramortire le loro brame. Giustamente quindi il Signore dice: “Guardatevi dai falsi profeti!...”.

Su tutto questo abbiamo una concordanza nel quarto libro dei Re, dove Ieu dice: “Ora convocatemi tutti i profeti di Baal, tutti i suoi servi e tutti i suoi sacerdoti: non ne manchi neppure uno” (4Re 10,19). E quando furono radunati, “Ieu comandò ai soldati e ai suoi comandanti: Entrate e uccideteli; nessuno vi sfugga. Li passarono quindi a fil di spada. Portarono fuori dal tempio la statua di Baal, la frantumarono e la bruciarono. Quindi distrussero anche il tempio di Baal e destinarono il luogo ad immondezzaio, a discarica, fino ad oggi” (4Re 10,25-28). E così Ieu fece scomparire Baal da Israele.

Ieu s’interpreta “eccitato” o “adirato”, ed è figura del giusto il quale deve insorgere, arrabbiarsi con gran furore contro se stesso, quando si sente in preda alla tentazione. Allora deve radunare tutti i profeti di Baal, i suoi servi e i suoi sacerdoti, ecc. Baal, che s’interpreta “divoratore”, simboleggia il ventre che tutto divora e i cui profeti sono gli istinti carnali. Questi il giusto deve radunare tutti insieme e con la spada della penitenza sterminarli.

“E portarono fuori del tempio la statua”. Il tempio è detto in lat. fanum, e deriva da fauno, falsa divinità boschereccia alla quale i pagani nel loro errore costruivano templi; oppure anche perché nel fanum compaiono figure di demoni: infatti la parola greca fanìa significa apparizio­ne; oppure da fando, gerundio del verbo fari, profetizzare. Il tempio di Baal simboleggia la gola, la quale suscita nella mente visioni di pesci e di carni: da questo tempio il giusto deve far uscire la statua, cioè l’idolo della concupiscenza, bruciarlo con la fame e la sete e frantumar­la con svariate mortificazioni.

“Distrussero anche il tempio di Baal”. Questo tempio è chiamato qui in lat. aedes, e viene da èdere, mangiare, e sta a indicare l’ingordigia vertiginosa e disordinata nel mangiare, che il giusto deve assolutamente distruggere, e fare al suo posto una latrina. La parola latrina, che è la ritirata o il gabinetto, deriva dal lat. lateo, appartarsi, e simboleggia il fetore del ventre. Quando dobbiamo provvedere al ventre, non per voluttà ma per necessità, pensiamo un po’ che siamo una latrina di sterco, che noi, miseri ed infelici, sempre ci portiamo appresso: e meditando su questo dobbiamo solo umiliarci. Dice Michea: “In mezzo a te sarà la tua umiliazione” (Mic 6,14). Il nostro mezzo, il centro, è il ventre, latrina di rifiuti: meditando su questo troviamo certamente motivo di umiliarci. Giustamente quindi è detto: “Guardatevi dai falsi profeti”.

 

6. Da questi profeti implora di essere liberato il giusto, nell’introito della messa di oggi: “Ecco, Dio è il mio aiuto, il Signore è il sostegno della mia anima. Fa’ ricadere il male sui miei nemici; nella tua fedeltà disperdili” (Sal 53,6-7), “tu che sei la mia difesa” (Sal 58,12). Il Signore va in soccorso al giusto quando gli concede la gra­zia di sterminare i profeti di Baal. Lo accoglie quando dal tempio della gola getta fuori la statua della concupiscenza. Ritorce il male sui suoi nemici quando brucia e frantu­ma quella statua con i digiuni e le veglie. In realtà li disperde quando distrugge completamente il tempio delle cattive abitudini.

Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: “Siamo debitori, ma non verso la carne, per vivere secondo la carne. Poiché se vivrete secondo la carne, voi morirete; se invece, con l’aiuto dello spirito, farete morire le opere della carne, voi vivrete” (Rm 8,12-13).

Ecco che qui l’Apostolo mostra chiaramente come debbano essere sterminati i falsi profeti di Baal. “Noi siamo debi­tori – dice – non verso la carne”, ma verso lo Spirito Santo che fa vivere; non verso la carne dalla quale viene la morte. Per debito, per obbligo siamo tenuti legati allo Spirito, e non alla carne, per vivere secondo la carne, cioè secondo i piaceri della carne, anche se alla carne siamo costretti a concedere il necessario. Infatti se vivremo secondo la carne, se crederemo ai falsi profeti, moriremo, perché quei lupi rapaci ci dila­nieranno. Se invece con l’aiuto dello spirito faremo morire i profeti di Baal, cioè le opere della carne con la spada della penitenza, se ne avremo bruciata la statua, se avremo distrutto il suo tempio, senza dubbio vivremo: della vita della grazia al presente, e della vita della gloria in futuro.

A questa gloria si degni di farci giungere colui che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

II. i frutti dell’albero buono e il taglio dell’albero cattivo

 

7. “Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi. Non può un albero buono produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato, e sarà gettato nel fuoco. Ecco dunque che dai loro frutti li potrete riconoscere” (Mt 7,17-20). Osserva che nell’albero ci sono queste cinque parti: la radice, il tronco, i rami, le foglie e il frutto. La radice si chiama così perché penetra nella profondità della terra quasi con dei raggi (lat. radix, radiis). I na­turalisti infatti dicono che l’altezza degli alberi è pari alla profondità delle loro radici. Il tronco è come la statura dell’albero che si erge sulle radici. I rami sono le propaggini del tronco: su di essi si formano le foglie che proteggono i frutti.

L’albero buono simboleggia la buona volontà, alla quale, per durare ed essere buona, sono necessarie queste cinque cose: la radice dell’umiltà, il tronco dell’obbedienza, i rami della carità, le foglie della santa predicazione e i frutti, cioè la dolcezza della celeste contemplazione. La radice dell’umiltà, quanto più è profonda nel cuore, tanto più è alta nelle opere. E questo è simboleggiato nell’acqua che, quanto più scende, tanto più sale. L’umiltà dell’ipocrita, non avendo radice nel cuore, vuole apparire grande nelle opere. Invece la vera umiltà, quanto più penetra nel profondo, tanto più si abbassa, e così tanto più in alto viene esaltata.

 

8. Su questa santa radice dell’albero buono, abbiamo una concordanza nel quarto libro dei Re, dove si racconta che “il re Ezechia disse ad Isaia: Qual è il segno che il Signore mi guarirà, e che il terzo giorno salirò al tempio del Signore? Isaia gli rispose: Da parte del Signore, questo ti sia come segno che il Signore manterrà la promes­sa che ti ha fatto: Vuoi che l’ombra [della meridiana] avanzi di dieci gradi, o che di dieci gradi retroceda? Ezechia rispose: È facile che l’ombra avanzi di dieci gradi: ma io non voglio questo: voglio invece che retroceda di dieci gradi. Allora Isaia invocò il Signore, e l’ombra tornò indietro di quei dieci gradi che già aveva percorsi sulla meridiana di Acaz” (4Re 20, 8-11). La meridiana di Acaz – nome che s’interpreta “convertito” o anche “che ricorre alla fortez­za" – raffigura il cuore del penitente il quale, convertitosi dalla sua vita di peccato, ricorre alla fortezza della perseveranza per conquistare il premio della gloria. E in questa meridiana vi sono e vi devono essere dieci gradi di umiltà, per i quali il sole, cioè l’anima illuminata dalla grazia di Dio, deve avanzare e quindi nuovamente tornare indietro.

Il primo grado di umiltà consiste nel considerare dentro di sé da quale misera e nauseante materia si è procreati.

Il secondo grado consiste nel considerare che per nove mesi si resta rinchiusi nel grembo materno e si è nutriti con sangue mestruo.

E su queste due realtà troverai più ampie considerazioni nel sermone della domenica di Quinquagesima, dove viene commentato il brano evangelico di Luca: “Un cieco sedeva lungo la via” (Lc 18,35).

Il terzo grado consiste nel considerare come dalle tenebre del grembo materno si esca piangendo e strillando, nudi e sudici.

Per questi tre gradi era disceso Giobbe, quando diceva: “Chi potrà rendere puro chi è stato concepito da seme impuro?” (Gb 14,4). E ancora: “Perché non sono morto fin dal grembo di mia madre, e non spirai appena uscito dal suo ventre? Perché sono stato accolto sulle ginocchia? Perché due mammelle mi hanno allattato?” (Gb 3,11-12). E Geremia: “Perché mai sono uscito dal grembo materno per vedere fatiche e dolori e per finire i miei giorni nella vergo­gna?” (Ger 20,18).

Il quarto grado consiste nel considerare quanto miseranda e ingrata sia la peregrinazione di questo esilio, durante la quale ci sono soltanto gemiti e dolore, diffi­coltà e pianto. Dice infatti Giacobbe: “I giorni della mia vita sono stati pochi e tristi” (Gn 47,9).

Il quinto grado consiste nel ricordo della propria iniquità, dei tanti peccati commessi e delle tante omissio­ni, e quanto si è stati ingrati nei confronti di Dio: si era liberi, e ci si è venduti gratis al diavolo. Su questo grado leggiamo nel quarto libro dei Re che Ezechia voltò il viso verso la parete, pregò il Signore e proruppe in un pianto dirotto (cf. 4Re 20,2-3). La parete è figura della quantità dei peccati ai quali il peccatore deve volgersi, ripensare, nell’amarezza della sua anima, a tutti i peccati che ha commesso e a tutti i doveri ai quali è venuto meno, e pregare il Signore perché gli infonda nuovamente la grazia perduta e gli perdoni i peccati.

Il sesto grado consiste nel pensiero della morte, pensiero più amaro di ogni altra amarezza. Dice i libro dell’Ecclesiastico: “O morte, quanto è amaro il tuo pensie­ro per l’uomo che vive tranquillo nella sua agiatezza” (Eccli 41,1). Se non si pentirà, la sua carne sarà data ai vermi, la sua anima ai demoni; le sue sostanze dovrà lasciarle ai figli e ai parenti. Dice infatti il salmo: “Scenderanno nel profondo della terra”, cioè nell’infer­no, ecco l’anima data ai demoni; “saranno dati in potere della spada”, cioè della morte, ecco la carne data ai vermi; “diverranno preda delle volpi” (Sal 62,10-11), ecco le sostanze lasciate ai parenti i quali, astu­ti come le volpi, si getteranno sulla pelle dell’asino defunto.

Il settimo grado di umiltà consiste nel richiamare alla mente come il Figlio di Dio piegò il capo della sua divini­tà nel grembo della Vergine poverella; come colui che riem­pie di sé il cielo e la terra, e che il cielo e la terra non possono contenere, si rimpicciolì nel talamo di una fanciulla, nel quale dimorò per nove mesi; come fu avvolto in panni, fu adagiato in una mangiatoia di animali (cf. Lc 2,7), fu por­tato in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode; come il padrone di tutto il mondo fu dal mondo scacciato, e come in tutto il mondo non poté trovare un posto dove reclinare il capo, se non sulla croce dove, piegato il capo nel grembo del Padre, nelle sue mani consegnò il suo spirito (cf. Lc 23,46; Gv 19,30).

L’ottavo grado consiste nel considerare quanta misericordia e quanta benevolenza usò verso i peccatori, che attirava a sé con la dolcezza della sua predicazione, e con i quali anche prendeva il cibo per richiamarli alla penitenza; e quanta compassione provò colui che pianse amaramente sulla città nella quale doveva venir crocifisso, e su Lazzaro che avrebbe poi risuscitato; e quanta benignità ebbe nel cuore da voler parlare da solo con la samaritana e da permettere che la Maddalena lo toccasse.

Il nono grado consiste nel considerare come fu percosso con le verghe, colpito con schiaffi, coperto di sputi, coronato con una corona di spine, abbeverato con fiele e aceto e crocifisso tra due ladroni, come fosse stato un ladrone anche lui.

Il decimo grado, infine, consiste nel meditare a fondo come suonerà la tromba e i morti “che dormono nella polvere della terra”, come dice Daniele, “si risveglieranno, alcuni per la vita eterna e altri per l’eterna vergogna, per constatare” (Dn 12,2) come colui che era benigno diventerà severo, colui era stato giudicato verrà per giudicare il mondo nella giustizia, egli che era Figlio della Vergine mendicante (Girolamo); come “ad un suo cenno si scuoteranno le colonne del cielo” (Gb 26,11), “le potenze dei cieli saranno sconvolte” (Mt 24,29), “i cieli si arrotoleranno come un libro” (Is 34,4), e “il sole si cambierà in tenebre e la luna in sangue” (Gl 2,31; cf. At 2,20), e gli uomini fuori di sé fuggiranno e diranno ai monti: Cadete su di noi; e ai colli: Nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono (cf. Os 10,8 ; Ap 6,16).

Per questi dieci gradi (scalini) l’anima del penitente deve salire e scendere; quanto più scenderà, tanto più risalirà. E questo sarà veramente il segno che il Signore la guarirà da ogni infermità di peccato e che potrà salire al tempio della celeste Gerusalemme, costruito con pietre vive. Beato, dunque, quell’albero che avrà tale radice, perché è dalla radice che germogliano i frutti dell’albero. Per questo abbiamo trattato a lungo della radice, nella quale è simboleggiata l’umiltà: da essa nasce l’albero della buona volontà e l’uomo raccoglie il frutto della vita eterna. Giustamente dunque ha detto il Signore: “L’albero buono produce frutti buoni”.

 

9. “L’albero cattivo invece produce frutti cattivi”. Cattivo si dice in lat. malus, e deriva dal greco mélan, colo­re nero, o fiele nero. Per questo gli uomini che rifuggono l’umana compagnia sono chiamati melanconici: in essi è abbondante il fiele nero.

L’albero cattivo raffigura la cattiva volontà: la sua radice è la cupidigia, il suo tronco l’ostinazione, i rami sono le opere cattive, le foglie sono le parole maligne e i frutti la morte eterna. E di tale albero il Signore soggiun­ge: “Ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato e gettato nel fuoco”. Per questo leggiamo in Daniele che “un vigilante, un santo scese dal cielo, gridò ad alta voce e disse: Tagliate l’albero e stroncate i suoi rami; scuotete le foglie e disperdetene i frutti; fuggano le bestie che stanno sotto di esso e gli uccelli che sono tra i suoi rami” (Dn 4,10-11).

L’albero viene tagliato quando il peccatore, tagliato dalla scure della morte, cade e ritorna alla terra. E allora i rami delle ricchezze e i successi di questo mondo vengono stroncati e le leggere foglie delle parole scrolla­te via. Ormai cessano le parole, perché si è arrivati alle percosse (Iam cessant verbaquia ventum est ad verbera).

E i frutti, cioè le sue opere cattive, saranno dispersi, perché le porte del corpo, attraverso le quali quell’anima sventurata era solita uscire per vedere le donne di quella regione (cf. Gn 34,1), ormai vengono chiuse. E le bestie, il cui nome suona come vastiae, devastatrici, cioè i predoni e gli omicidi che erano abituati a ripararsi sotto la sua ombra, morto lui, fuggono. E gli uccelli, cioè i superbi che erano soliti starsene tra i suoi rami, tutti fuggono. Giustamente quindi dice il Signore: “Ogni albero che non porta frutti buoni sarà tagliato e sarà gettato nel fuoco, che è preparato per il diavolo e per i suoi angeli” (Mt 7,19; 25,41).

Dice in proposito Isaia: “Da ieri è preparato il Tofet; è preparato dal re: profondo e largo. Suo alimento è il fuoco e tanta legna: il soffio del Signore lo incendierà come un torrente di zolfo” (Is 30,33). Il Tofet, che significa “larghezza”, raffigura l’inferno, che ha aumentato la sua capienza oltre ogni limite; è stato preparato da ieri, cioè dal­l’eternità, dal re Gesù Cristo, al quale tutto il passato è presente, e per il quale ciò che ha fatto dall’e­ter­nità è ciò che è per noi il nostro ieri. Questo inferno è detto profondo e largo: profondo perché sempre lontano dal toccare il fondo, cioè senza una fine delle pene; largo per ricevere e contenere tutte le anime dei dannati. E si chiama inferno perché le anime vi vengono gettate dentro (lat. inferuntur); il suo alimento è costituito da moltissima legna, cioè dalle anime dei peccatori; il soffio del Signore, cioè la sua ira, come un torrente di zolfo che arde e ammorba, lo accenderà. Chi arde in questo mondo del fuoco dell’ava­rizia ed è contagiato dal fetore della lussuria, brucerà eternamente laggiù.

 

10. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Rm 8,14-15).

Lo spirito di Dio è l’umiltà, e quelli che sono guidati, cioè animati, dall’umiltà, sono veramente “albero buono”, perché sono figli di Dio. Come la radice sostiene e alimen­ta l’albero; così l’umiltà sostiene e alimenta l’anima. Lo spirito di umiltà è dolce più del miele, e chi è alimentato dal miele produce frutti dolci.

“Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi”, che vi costringa di nuovo, come nel tempo della Legge, a servire Dio forzatamente, per timore del castigo. L’albero cattivo riceve non lo spirito di adozione, con i figli, ma quello della schiavitù, con gli schiavi, i quali non restano per sempre nella casa (cf. Gv 8,35), ma saranno tagliati e gettati nel fuoco inestinguibile.

Si ha l’adozione quando viene adottato qualcuno al posto di un figlio. Perciò il figlio adottivo, accolto cioè al posto del figlio (vero) Gesù Cristo – che sempre sia benedetto –, da un albero sterile, dopo avervi innestato il germoglio della fede, ottenne un albero buono e fruttifero; e dei figli dell’ira fa ogni giorno figli della grazia, perché con la contrizione del cuore e la confessione della bocca gridino ogni giorno: “Abbà, Padre”. Abbàè un termine siriaco ed ebraico, che in lat. signi­fica Pater, Padre. E questo doppio nome di paternità sta ad indicare la duplice misericordia della benevolenza paterna. Infatti il penitente, accolto al posto del figlio, è autorizzato a sperare sia nella remissione dei peccati che nella beatitudine della gloria.

Ti preghiamo dunque, Abbà, Padre, di renderci alberi buoni, di farci produrre frutti degni di penitenza, affinché radicati e fondati nella radice dell’umiltà e liberati dal fuoco eterno, meritiamo di poter cogliere il frutto dell’eterna vita. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

III. la cacciata dei cattivi dal regno e l’accoglienza dei buoni

 

11. “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, entrerà nel regno dei cieli (Mt 7,21).

Il Signore ha questo nome, in lat. Dominus, perché signoreggia, o domina su tutte le creature; o perché sta a capo della casa (in lat. domus, casa); o può voler dire anche dans minas, che dà (fa) minacce. La Glossa commenta così questo passo del vangelo: “Il cammino verso il regno di Dio consiste nell’obbedienza, e non nell’invo­ca­zione del suo nome; e neppure lo si invoca con sincerità e convinzione, quando la proclamazione del nome non concorda con la volontà; e infatti dice l’Apostolo: “Nessuno può dire: Signore Gesù, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3). Dire con sincerità: “Signore Gesù”, significa credere con il cuore, confessarlo con la bocca e testimoniarlo con le opere. Una cosa senza l’altra equivale a negare; infatti, per quante lodi faccia risuonare la lingua, la vita poi lo bestemmia. Gridano “Signore” coloro che non sono suoi servi, coloro che non temono le sue minacce.

Dice infatti il Signore stesso con le parole di Isaia: “Mi grida da Seir: Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte? Risponde il custode: Viene il mattino e poi verrà la notte; se volete cercare, cercate; convertitevi e venite!” (Is 21,11-12)Seir s’interpreta “ispido”, ed è figura del peccatore, oppresso dalle spine delle ricchezze e delle preoccupazioni. Perciò la Genesi dice che Esaù si stabilì nella terra di Seir, della regione di Edom (cf. Gn 36,8) E osserva che Esaù fu chiamato Seir e Edom: Seir perché peloso, Edom a motivo delle lenticchie rosse per le quali aveva venduto la primogenitura (cf. Gn 25,29). Esaù vuol dire anche “mucchio di pietre”, e Edom “sangue”. Dove c’è un mucchio di pietre, cioè di ricchezze, lì ci sono anche le spine pungenti delle preoccupazioni e spargimento di sangue. Il peccatore dunque grida: “Custode, quanto resta della notte?”. Ecco qui “la ruota in mezzo ad un’altra ruota” (Ez 1,16; 10,10).

Nel vangelo di Matteo è detto due volte “Signore”, e in Isaia due volte “Custode”, per indicare che colui che è il Signore, è necessario che sia anche il Custode, per custo­dire perfettamente la casa della quale è a capo. Questo duplice nome di Signore comprende in sé il creatore e il giudice, e tra questi due estremi viene posto il centro, cioè il custode. Gesù Cristo nella creazione delle cose fu Signore, e sarà Signore anche nell’esame del severo giudizio perché sarà giudice e renderà a ciascuno ciò che è giusto. Però tra questi due momenti fu custode nella notte: il Signore assunse la condizione di servo per custodire i servi. Infatti leggiamo nel vangelo di Luca che “passava la notte in orazione” (Lc 6,12). Il custode della notte passava la notte in orazione, non per sé ma per la sua creatura, che era venuto a liberare.

Fu ancora custode della notte nella sua passione. Leggiamo sempre nel vangelo di Luca: “Gesù si allontanò da loro quanto il tiro di un sasso, e inginocchiatosi pregava” (Lc 22,41). Solo pregava per tutti, perché solo, per tutti avrebbe sofferto. Dice anche Ambrogio: “Patì per me, egli che in sé non aveva nulla per cui dovesse patire”. Si inginocchia per mostrare, con la posizione del corpo, l’umiltà dello spirito. Allora fu veramente umile e misericordioso, ma ritornerà severo e inesorabile per fare della terra un deserto e distruggere da essa i malvagi.

 

12. E di questi malvagi egli si lamenta con le parole del profeta Osea: “Si sono rimpinzati, si sono saziati, il loro cuore si è inorgoglito e si sono dimenticati di me. Perciò sarò per loro come una leonessa, come un leopardo sulla via degli Assiri. Li assalirò come un’orsa cui sono stati rapiti i piccoli; dilanierò le loro interiora fino al fegato e come un leone li sbranerò. La belva del campo li dilanierà. Viene da te la tua rovina, o Israele: solo da me ti potrà venire l’aiuto” (Os 13,6-9). Osserva che in questo passo sono poste in evidenza otto cose, e cioè quattro vizi e i loro quattro corrispondenti castighi: “si sono riempiti”, ecco le ricchezze e l’avari­zia; “si sono saziati”, ecco la gola; “il loro cuore si è inorgoglito”, ecco la superbia e la vanagloria; “si sono dimenticati di me”, ecco la lussuria.

Dice infatti Ezechiele: “Poiché mi hai dimenticato e mi hai gettato dietro al tuo corpo, anche tu porterai le tue scelleratezze e le tue fornicazioni”(Ez 23,35). Getta il Signore dietro al suo corpo colui che, dimentico dell’amara sua passione, si abbandona ai piaceri del corpo e per amore del suo corpo diventa schiavo della gola e del ventre. “Perciò” – dice il Signore – “sarò come una leonessa” contro quelli che si sono rimpinzati; “come un leopardo nella via degli Assiri, assalirò” quelli che si sono saziati; “come un’orsa cui sono stati rapiti i piccoli dilanierò fino al fegato le interiora” dei superbi, che si sono inorgogliti nel loro cuore. Amiamo con il fegato: in esso è simboleggiato l’amore alle cose terrene, e il Signore dilanierà le interiora di chi le ama. “E come un leone consumerò” i lussuriosi, “e la belva del campo”, che è il diavolo, “li strazierà con la spada della morte eterna, e così avranno come torturatore nella loro sofferenza colui che hanno ascoltato come istigatore nella colpa.

“La tua rovina viene da te stesso, o Israele”, come dicesse: Se sei andato in rovina, la colpa è tua. Ma il soccorso non ti potrà venire da nessun altro che da me, che custodisco Israele. Giustamente dunque è detto: “Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte?”. “E il custode risponde: Viene il mattino e poi verrà la notte. Se volete cercare, cercate. Convertitevi e venite”.

Custode deriva da cura; mattino, in lat. mane, dall’aggettivo manus, buono, perché gli antichi chiamavano la mano “un bene”; infatti che cosa c’è di meglio della luce (del mattino, mane)? Il Signore, nostro custode, che ha cura di noi (cf. 1Pt 5,7), a coloro che gridano: “Signore, Signore!”, dice: “Viene il mattino”, cioè la luce della grazia; camminate dunque finché è giorno, perché arriverà la notte nella quale non potrete più far niente. Se un albero, dice Salomone, cade rivolto a mezzogiorno, cioè alla vita, o se cade rivolto a settentrione, vale a dire alla morte, resta dove è caduto (cf. Eccle 11,3). Lavora dunque assiduamente finché è giorno, o peccatore, perché non c’è né azione né ragione in quell’inferno verso il quale ti stai affrettando, anzi ti stai lanciando con i tuoi peccati.

Se dunque vi proponete di cercare, cercate finché è giorno. E se cercate, che cosa vuol dire cercare? “Convertitevi – risponde – e venite”. Ecco come si cerca Dio e come lo si trova. Il Signore non si deve cercarlo gridando “Signore, Signore!”, perché egli cerca adoratori che lo adorino in spirito e verità (cf. Gv 4,23-24), cioè nello spirito della contrizione e nella verità della confessione.

 

13. In questo modo cercò il Signore il santo re di Giuda, Giosia. Concorda con quanto è stato detto finora ciò che si racconta di lui nel quarto libro dei Re, dove si dice che quando ebbe udite le parole della Legge del Signore, Giosia si lacerò le vesti; concluse un’alleanza con il Signore, impegnandosi a seguire il Signore con tutto il cuore e con tutta l’anima; gettò poi fuori dal tempio del Signore tutti i vasi fatti in onore di Baal, e li bruciò fuori di Gerusalemme nella valle del Cedron. Diede alle fiamme i carri del sole; fece scomparire anche i negromanti, gli indovini, le immagini degli idoli e tutti gli abomini e le immondezze, e celebrò la Pasqua del Signore (cf. 4Re 22,11; 23, 3.4.11.24).

Giosia s’interpreta “in lui è il sacrificio”, e raffigu­ra il penitente nel quale “è il sacrificio a Dio”, che è il suo spirito addolorato e pentito (cf. Sal 50,19). Il penitente, quando sente annunciare la gloria eterna dei giusti e il castigo dei peccatori che mai non finirà, si lacera le vesti, vale a dire castiga le sue membra che sono come le vesti dell’a­nima, e stabilisce un patto con il Signore: il Signore gli perdoni le sue colpe ed egli in futuro non tornerà mai più a commetterle.

E dal tempio del Signore, cioè dal suo cuore nel quale dimora il Signore, toglie tutti i vasi che erano stati fatti in onore di Baal, tutti i cedimenti alla gola con i quali serviva al dio Baal, cioè al suo ventre, e li brucia nella valle del Cedron, che s’interpreta “tristezza e dolore”: li brucia cioè nell’umiltà del dispiacere e del pentimento. E con il fuoco della penitenza dà alle fiamme anche i carri del sole, cioè i cinque sensi del corpo che sulle loro quattro ruote, vale a dire tra i piaceri delle cose temporali che si estendono a tutte le quattro stagio­ni, scorrazzano nel sole, cioè nella luce della gloria passeggera. E caccia fuori i negromanti, cioè lo spirito di avarizia, e gli indovini, gli incantatori e i ciarlatani, chiamati in lat.arioli, in quanto gridano preghiere infami attorno agli altari (lat. ara), e nei quali sono raffigurati gli ipocriti; getta fuori inoltre le immagini degli idoli, cioè le fantasie impure, i cattivi pensieri, le fornicazioni e le parole sconce.

Ripulito da tutte queste brutture, il peccatore celebra al Signore “la pasqua”, che vuol dire “passaggio” (cf. Es 12,11), perché passa dai vizi alle virtù per convertirsi e seguire il Signore, non dicendo “Signore, Signore!”, ma fa­cendo la volontà del Padre, per meritare così di entrare, alla fine della vita, nel suo regno.

 

14. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell’epistola: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rm 8, 16-17).

Se dopo esserci convertiti, seguiremo il Signore purificando il tempio da ogni brut­tura, allora potremo veramente riconoscere che lo Spirito di Dio dà al nostro spirito testimonianza di una fondata speranza e attesta che siamo figli di Dio, che fanno la volontà del Padre che è nei cieli. E se siamo figli, siamo anche eredi, cioè partecipi della stessa gloria: eredi di Dio, il quale ci ha costituiti eredi dell’eredità eterna con il testamento convalidato dal sangue e dalla morte del Figlio suo; e del suo Figlio siamo coeredi, perché egli è carne e fratello nostro (cf. Gn 37,27) a motivo della compartecipazione alla nostra natura, ch’egli ha esaltata al di sopra degli angeli, perché noi fossimo partecipi della sua vita divina, e quindi coeredi.

Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Padre onnipoten­te che ci conceda di compiere la sua volontà, di purificare il tempio del nostro cuore da ogni sozzura, di celebrare la vera pasqua, cioè il vero passaggio, per poter giungere all’eredità eterna che egli ci ha promesso per mezzo del nostro coerede Gesù Cristo, suo diletto Figlio.

Ce lo conceda egli stesso, che con il suo amatissimo Figlio e con lo Spirito Santo è Dio, Uno ed eterno, e vive e regna nei secoli eterni. E tutta la chiesa risponda: Amen. Alleluia!

 

 

 

 

 

P R O L O G O

 

Benché indegni, ringraziamo il Dio Uno e Trino perché, con l’aiuto della sua grazia, abbiamo completato il corso dei sermoni domenicali fino alla prima domenica di agosto (l’ottava domenica dopo Pentecoste).

Osserva che dal primo agosto fino al primo settembre si leggono nella chiesa i cinque libri di Salomone, cioè i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici, i libro della Sapienza e l’Eccle­siastico.

Nel mese di agosto ci sono quattro domeniche; se Dio ce lo concede, vedremo di questi cinque libri gli insegnamenti più utili all’edificazione spirituale e più adatti alla nostra materia, e ne troveremo la concordanza con i vangeli di queste domeniche.

 

 

Domenica IX DOPO PENTECOSTE

Temi del sermone

 

– Vangelo della nona domenica dopo Pentecoste: “C’era un uomo ricco che aveva un fattore”; si divide in tre parti.

– Anzitutto sermone sulla scienza e la vita del prelato, o del predicatore, e sulle proprietà del latte: “Chi schiac­cia con forza le mammelle”.

– Parte I: Sermone sulla venuta del Signore: “La lunghezza dei giorni è nella sua destra”.

– Sermone contro i carnali e i mondani: “Per tre cose freme la terra”.

– Sermone morale contro i prelati carnali della chiesa, sulla natura dell’aquila e dell’orso, e sulle caratteristiche dello sparviero (avvoltoio): “C’era un uomo ricco che aveva un amministratore”.

– Sermone contro la simonia dei sacerdoti e dei prelati: “Una donna stolta e loquace”.

– Contro coloro che si danno alle scienze lucrative: “Quando una serva diventa erede”.

– Parte II: Sermone sull’amore di Dio e del prossimo: “Chiamati i debitori ad uno ad uno”; sulla natura dell’o­lio, e sui quattro modi di interpretare il passo “Lo spirito del Signore si librava sulle acque”.

– Sermone ai prelati: “La figura del firmamento”.

– Le quattro specie di generazione e loro significato: “La generazione che maledice il proprio padre”.

– Parte III: Sermone sull’elemosina: “Fiorirà il mandorlo”.

– La quattro tende e il loro significato: “Perché vi accolgano nelle tende eterne”.

– Sermone ai claustrali: “Quanto sono belle le tue tende, Giacobbe!”.

 

esordio - la scienza e la vita del prelato, o del predicatore

 

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: “C’era un uomo ricco, che aveva un fattore. Questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi” (Lc 16,1).

Dice Salomone nei Proverbi: “Chi preme forte le mammelle per trarne il latte, ne fa uscire burro, e chi munge con troppa energia, fa uscire il sangue” (Pro 30,33). Fa’ attenzione alle quattro parole: mammelle, latte, burro e sangue. Le mammelle raffigurano il Vecchio e il Nuovo Testamento; il latte simboleggia l’allegoria (cioè l’interpretazione che si fa dei racconti della sacra Scrittura); il burro rappresenta l’insegnamento morale; il sangue indica la compunzione delle lacrime. Delle mammelle, che sono figura del Vecchio e Nuovo Testamento, dice Osea: “Da’ loro, Signore! Che cosa darai loro? Un grembo senza figli e mammelle vizze” (Os 9,14). Ai predicatori e ai prelati della chiesa che prevaricano il Signore dà ventre senza figli. La loro mente infatti non viene fecondata dalla grazia dello Spirito Santo e quindi resta sterile di opere buone, senza figli; e così le loro mammelle, cioè la scienza del Vecchio e Nuovo Testamento, che predicano, risulta arida e infruttuosa.

Dice infatti Salomone: “Dove non ci sono buoi, la mangiatoia è vuota; invece le messi abbondanti testimoniano della forza dei buoi” (Pro 14,4). La mangiatoia è chiamata in lat. praesepe, da prae e sepe, come circondato da siepe, e sta ad indicare l’as­sem­blea dei fedeli, che il Signore ha circondato con la siepe della fede. Questa mangiatoia è vuota, quando i buoi, cioè i prelati, non sono con la loro vita dove sono con la loro prelatura; se fossero con la fortezza delle opere buone dove sono con la grandezza della dignità, senza dubbio ci sarebbero anche mèssi abbondanti, in tutti i fedeli cioè fiorirebbe la pratica delle virtù. Giustamente dunque dice Salomone: “Chi preme troppo forte le mammelle…”, ecc. Preme forte le mammelle colui che, alla dottrina dei due Testamenti che predica, aggiunge la mano dell’operosi­tà, affinché non gli si possano rinfacciare le parole di Salomone: “IL pigro ha nascosto le mani sotto le ascelle, e fa fatica se deve portarle alla bocca” (Pro 26,15). Le ascelle, che sono cavità sotto le braccia nel punto d’incontro con il corpo, sono così chiamate perché da esse cilluntur, cioè vengono mosse le braccia. Nasconde le mani sotto le ascelle e non le porta alla bocca colui che predi­ca con la bocca ma poi trascura di operare con le mani.

Il predicatore, dunque, deve far uscire dalle mammelle il latte del racconto, in modo da poter poi dal latte estrarre il burro soavissimo dell’insegnamento morale. Considera che il latte è composto di tre sostanze. La prima è il siero acquoso, la seconda è il formaggio e la terza il burro. Il siero acquoso raffigura il racconto, il formaggio l’alle­go­ria o l’applicazione, il burro in fine l’insegnamento morale il quale, quanto più è garbato, tanto più gradevolmente colpisce l’animo degli ascoltatori, perché i costumi sono corrotti. Perciò è meglio insistere sull’insegnamento morale che riforma i costumi, piut­to­sto che sull’alle­goria che è destinata a suscitare la fede: infatti, per grazia di Dio, la fede è diffusa in tutta la terra.

“E chi munge con troppa energia, fa uscire il sangue”. Il sangue è così chiamato perché vivifica e sostenta, o anche perché è soave (lat.sanguissuavis est); esso simboleggia la compunzione delle lacrime, che vivificano l’anima e la sostentano perché non cada nel peccato. E che cosa c’è di più soave delle lacrime, che provengono dalla dolcezza della contemplazione? Le lacrime, dice Agostino, sono il sangue dell’anima. Il peccatore, dunque, quando viene, per così dire, “munto”, cioè spremuto con grande energia dalla parola della predicazione che spinge verso l’alto la sua mente, fa uscire il sangue, cioè prorompe in lacrime per il fatto di aver sperperato i beni, i doni che il Signore gli ha affidati. Per questo nel vangelo di oggi è detto: “C’era un uomo ricco, che aveva un fattore”, ecc.

 

2. Fa’ attenzione che in questo vangelo vengono posti in evidenza tre momenti. Primo, l’accusa a carico del fattore presso il padrone e lo sperpero da lui fatto dei beni affidatigli, dove dice: “C’era un uomo ricco”. Secondo, la convocazione dei debitori del suo padrone, dove dice: “Chiamati ad uno ad uno i debitori”. Terzo, l’accoglienza nelle tende eterne di coloro che fanno del bene ai poveri, dove dice: “E io vi dico: Fatevi degli amici”. Cercheremo di far concordare alcuni detti di Salomone con le tre parti di questo vangelo.

Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: “Ho gridato al Signore: Egli mi esaudirà” (Sal 54,17). Si legge quindi l’epistola del beato Paolo ai Corinzi: “Non siamo bramosi di cose cattive” (1Cor 10,6); la divideremo in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre parti del vangelo. Prima parte: “Non siamo bramosi di cose cattive”. Seconda parte: “Quindi, chi crede di stare in piedi”. Terza parte: “Infatti Dio è fedele”.

 

I. il fattore accusato di sperperare i beni del padrone

 

3. “C’era un uomo ricco che aveva un fattore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che cos’è questo che sento dire di te? Rendimi conto della tua amministrazione, perché non potrai più essere fattore. Il fattore disse tra sé: Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Di zappare non ho la forza, di mendicare mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò allontanato dall’ammini­strazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua” (Lc 16,1-4). In questo primo passo del vangelo dobbiamo considerare attentamente che cosa significhino l’uomo ricco, il fatto­re, lo sperpero dei beni del padrone, zappare e mendicare. Quest’uomo ricco è figura di Gesù Cristo: uomo per la natura umana, e ricco per la natura divina. Quindi dice di lui Salomone: “Il povero e il ricco s’incontrarono: Il Signore ha creato l’uno e l’altro” (Pro 22,2). Il povero, cioè la natura umana, e il ricco, cioè la natura divina, si unirono in Cristo, affinché l’uomo povero fosse liberato dalle pene e dalle colpe con le quali era legato.

Delle ricchezze di quest’uomo ricco è detto nei Prover­bi: “Lunghezza di giorni è nella sua destra, e nella sua sinistra ricchezze e gloria. Le sue vie sono vie deliziose e tutti i suoi sentieri conducono alla pace” (Pro 3,16-17). Destra significa “che dà fuori” (lat. dans extra); sinistra “che permette fuori” (lat. sinens extra). La sinistra e la destra di Cristo sono figura delle sue due venute: la prima è indicata nella sinistra, la seconda nella destra. Nella prima venuta Cristo aveva le ricchezze, cioè la povertà, l’umiltà, che espose, per così dire, nei nostri mercati perché le comperassimo, e senza le quali non possiamo essere ricchi. Presentò anche la gloria, che è la gioia nelle tribolazioni e la pazienza nelle persecuzioni. A questi mercati andarono gli apostoli, e vi acquistarono quelle merci meravigliose, quando “se andarono dal sinedrio, lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41).

Su questo abbiamo la concordanza nei Proverbi: “Robaccia, robaccia” – dice sempre chi compra –; “ma quando se ne va, allora se ne vanta”(Pro 20,14). Se stabilisci di andare ai mercati delle tribolazioni, nei quali vengono vendute le ricchezze, vedi prima se hai nella borsa del cuore il denaro della pazienza e della letizia, con il quale poter comperare; altrimenti non ti consiglio di andarci, perché tornerai a mani vuote. Se invece puoi contare su una somma, allora vai pure e compera. Non preoccuparti se quelle ricchezze sono ardue, se è disgustoso e amaro bere il calice della tribolazione; perché, quando te ne tornerai, allora ti vanterai, perché passerai dalla sinistra alla destra, nella quale sta la lunghezza dei giorni. “Lo sazierò” – dice – “di lunghi giorni” (Sal 90,16).

“Le sue vie sono vie deliziose”. Osserva che due sono le vie e due sono i sentieri di Gesù Cristo. La prima via fu quella che percorse dal Padre alla Madre, e questa via è la via della carità, dell’amore, della quale dice il profeta: “Guidami, o Signore, per la tua via” (Sal 85,11). La secon­da via fu quella che lo condusse dalla Madre al mondo, e questa è la via dell’umiltà, della quale dice il salmo: “Nel mare (lat. in mari) è la tua via” (Sal 76,20), come dicesse: O Cristo, tu sei stato fatto in Maria per la via dell’umiltà. Se alla parola mari aggiungi la di tua, ottieni Maria, nome che s’interpreta “stella del mare”.

E queste vie sono deliziose. Infatti della prima è detto nel salmo: “Con la tua magnificenza e la tua bellezza lànciati, avanza felicemente e regna” (Sal 44,5). O Verbo, che il cuore del Padre ha emanato, procedi felicemente alla li­berazione del genere umano, procedi ad assumere la natura umana e, vinto il diavolo, incomincia a regnare, per poter dire: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18), e compi tutto questo nella grandezza del tuo amore, con il quale distruggi la lebbra della nostra iniquità. Della bellezza della seconda via è detto nel Cantico dei Cantici: “Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia del principe” (Ct 7,1). Madre e figlia del principe, cioè di Gesù Cristo, fu la beata Maria, i cui piedi, cioè i senti­menti del cuore, furono belli nei sandali color giacinto, cioè nei desideri della gloria celeste. Dice infatti Ezechiele: “Ti diedi calzari color giacinto” (Ez 16,10), cioè del desiderio delle cose superne. E Giuditta, come è scritto nell’omonimo libro, “si mise i sandali ai piedi” (Gdt 10,3). Giuditta s’in­ter­preta “colei che riconosce”, ed è figura della beata Maria, che ha rico­nosciuto il Signore dicendo: “L’anima mia magnifica il Signore” (Lc 1,46). Costei ai piedi dei sentimenti si mise i sandali dei desideri celesti.

Analogamente, il primo sentiero di Gesù Cristo fu quello della persecuzione dei giudei, il secondo fu quello del patibolo della croce. Sentiero si dice in lat. sèmita, come dire semis iter, mezzo cammino, poiché semis significa “la metà”. Questi due sentieri furono sentieri pacifici, ci porta­rono cioè la pace. Dice infatti Isaia: “Si è abbattuto su di lui il castigo che ci ha portato la pace; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5). Il castigo è detto in lat. disciplina, come dire addìscitur plena, che si accetta pienamente. Il Figlio di Dio accettò il castigo della passione, per rappacificare con il suo sangue gli esseri del cielo e quelli della terra (cf. Col 1,20), riconciliare cioè il genere umano con il Padre.

Considera, meschina creatura, quanto grande era la discordia tra te e Dio Padre, con il quale mai avresti potuto riconciliarti se non per mezzo delle sofferenze del Figlio suo. Considera, o peccatore, quando gravi erano le tue pia­ghe, che mai avrebbero potuto essere guarite se non dalle piaghe di Gesù Cristo. E poiché le tue piaghe erano mortali, e ti avrebbero portato alla morte eterna, il Figlio di Dio volle morire per te. “Medicina del dolore è il dolore stesso” (P. Siro). Ti scongiuro, non voler essere ingrato verso l’uomo ricco, verso il Figlio di Dio e dell’uomo, perché con le sue piaghe ha curato le tue, con la sua morte ha risuscitato te dalla morte, e ti ha costituito amministratore dei suoi beni perché tu li conservassi e non li sperperassi. Ma siccome non hai paura di sperperare, bisognerà che tu renda ragione. Per questo nel vangelo è detto molto chiaramente: “C’era un uomo ricco che aveva un fattore, e questo era stato accusato presso lui di sperperare il suoi beni”.

Il fattore è chiamato in lat. villicus, cioè custos villae, custode della fattoria, e la parola è usata qui come economo, o amministratore, che amministra tutte le sostanze della casa. Questo fattore è figura di ogni uomo, al quale il Signore ha affidato tre specie di doni: quelli gratuiti, quelli naturali e quelli temporali. Ma l’uomo, sventurato, sperpera i doni gratuiti e quelli naturali peccando gravemente; quelli temporali accumulandone senza misura, o facendone cattivo uso.

 

4. E come avvenga questo sperpero, ce lo spiega la concor­danza che troviamo nei Proverbi di Salomone: “Per tre cose freme la terra, anzi quattro cose non può sopportare: uno schiavo che diventi re, uno stolto che sia rimpinzato di cibo, una donna odiosa che trovi da sposarsi e una schiava che diventa erede della sua padrona” (Pro 30,21-23).

La terra, così chiamata dalla sua superficie che viene calpestata e percorsa (in lat. teritur), raffigura la mente dell’uomo che viene percorsa da molti e svariati pensieri, percorsa freme e si agita, quando si agita disperde le sue energie, e quando è svigorita viene spogliata dei doni gratuiti e ferita in quelli naturali. Si commuove e freme, ripeto, a motivo dei quattro maledetti eventi su indicati.

Lo schiavo che diventa re è figura del corpo che recalcitra, del quale l’Ecclesiastico dice: “Foraggio, bastone e pesi per l’asino; pane, castigo e lavoro per lo schiavo. Questi lavora quand’è castigato, e potrai trovare riposo; allarga con lui la mano ed egli cercherà di mettersi in libertà. Il giogo e la sferza piegano il collo duro e la fatica assidua ammansisce lo schiavo. Per lo schiavo cattivo battiture e ceppi; tienilo sempre occupato, perché non stia in ozio: l’ozio infatti insegna molte cattiverie. Costringilo a lavorare, perché questo a lui conviene, e se non sarà obbediente, domalo mettendolo ai ceppi” (Eccli 33,25-30). Ma poiché anche nel castigare il corpo ci vuole molta discrezione, subito aggiunge: “Non esagerare con nessuno, non fare nulla senza giustizia. Se hai uno schiavo fedele” e giudizioso, – se cioè il tuo corpo non ti reca alcuna molestia –, “tienine conto come della tua anima: trattalo come un fratello” (Eccli 33,30-31).

“Lo stolto rimpinzato di cibo” raffigura lo spirito infatuato, ubriaco di piaceri, del quale è detto: “Quando l’empio viene punito, anche lo stolto diventa più saggio” (Pro 19,25). Quando cioè il corpo verrà castigato nel modo che si è detto, anche lo stolto, cioè l’animo diventerà più saggio, perché non si ubriacherà più di piaceri ma di lacrime di pentimento.

Continuano i Proverbi: “La stoltezza è legata al cuore del fanciullo, ma il bastone della correzione l’allontanerà da lui” (Pro 22,15). Il fanciullo raffigura il corpo che si comporta in modo puerile, cerca frutti e fiori di questo mondo; nel suo cuore c’è la stoltezza, vale a dire vi è radicato l’amore alle cose terrene, e solo il bastone della penitenza è in grado di cacciarlo. Con l’uomo dal cuore pieno di superbia si deve fare come con il leone infuriato: in sua presenza viene bastonato il suo cucciolo, e così, spaventato dalle bastonate, si ammansisce. Similmente, se il corpo viene percosso con la verga del­l’astinenza, l’animo colmo di superbia leonina si umilia.

“La donna odiosa che trova da sposarsi”. Donna si dice in lat. mulier, che deriva da mollezza, e suona quasi come mollier; questa donna simboleggia il cattivo pensiero che diventa odioso, cioè peccato grave, quando conduce al consenso della mente; e viene sposato quando il pensiero viene poi realizzato nelle opere.

“La schiava che diventa erede della sua padrona”. La padrona è figura della ragione, mentre la schiava raffigura la sensualità, che neppure la terra riesce a sopportare quando essa pretende di usurpare il dominio sulla ragione.

A motivo di questi quattro maledetti eventi l’ingrato fattore sperpera i beni del suo padrone, e quindi viene accusato presso di lui. Questa accusa viene fatta, come dice a questo punto la Glossa, quando non pratica le opere di misericordia verso coloro ai quali è obbligato.

 

5. “Il padrone lo chiamò”. Il padrone chiama il fattore, quando suscita la paura della dannazione eterna. “E gli disse: Che cos’è ciò che sento dire di te? Rendi conto del­la tua amministrazione”, cioè mentre sei in questa vita, pensa a come devi comportarti. “Chi lavora la sua terra” – dice Salomone – “si sazierà di pane; chi invece si abbandona all’ozio, si riempirà di miseria” (Pro 28,19). Chi occupa il suo corpo nelle opere buone sarà saziato del pane della grazia in questa vita, e sarà colmato di gloria in quella futura. Chi invece si abbandona all’ozio, cioè ai piaceri del corpo, sarà ripieno della miseria della morte eterna. “Ormai”, cioè dal momento della morte, “non potrai più tenere l’amministrazione”.

“Allora il fattore”, in preda al panico, “disse fra sé: Come farò”, ad evitare il castigo, “ora che il padrone mi toglie l’amministrazione? Non ho la forza di zappare”, ecc. Il peccatore quando considera che la sua vita volge al termine e con essa finiscono anche tutti i successi temporali, pensa piuttosto a trovare degli amici che non ad accumulare ricchezze; comprende infatti che, finita questa vita, non c’è per lui alcun posto dove lavorare la terra della sua anima con la zappa della devota compunzione per portare frutto; e anche sarà vergognoso per lui mendicare, come mendicheranno le vergini stolte (cf. Mt 25,8). Dice infatti Salomone: Il pigro non ha voluto arare durante l’inverno: andrà a mendicare durante l’estate e nessuno gli darà niente (cf. Pro 20,4); colui che nella vita presente non vuole arare, è colui che non vuol fare penitenza. Arare viene da ære, bronzo (all’ablativo), perché in antico si arava con l’aratro di bronzo. Il bronzo è indistruttibile e risonante, e raffigura la penitenza assidua che accusa i propri peccati, con la quale gli antichi padri usavano arare la loro carne. Invece i nostri penitenti moderni non arano con il bronzo ma con il legno secco. Oggi non c’è quasi più nessuno che pratichi la vera penitenza e quindi andranno mendicando d’estate, cioè nel giorno della risurrezione finale: “Signore, Signore, àprici!” (Mt 25,11). Ma per loro non ci sarà più vita, anzi sarà detto loro: “Andate, maledetti, nel fuoco eterno” (Mt 25,41).



6. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: “Affinché non desideriamo cose catti­ve, come essi le desiderarono. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. Non abbandoniamoci alla fornicazione, come vi si abbandona­rono alcuni di essi e ne caddero in un solo giorno ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come fecero alcuni di essi, e caddero vittima dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di essi; e caddero vittima dello sterminatore” (1Cor 10,6-10).

In questo passo vengono poste in evidenza soprattutto quattro peccati: l’idolatria, la fornicazione, il tentare Dio e la mormorazione contro Dio; con questi quattro peccati vengono sperperati i beni dell’uomo ricco. E questi quattro peccati concordano con i quattro funesti eventi ricordati più sopra.

Chi ama il suo corpo, che è schiavo malintenzionato, non in misura delle sue necessità ma per il piacere, è come un idolatra che si prostra davanti a un idolo, come sta scrit­to nell’Esodo: “Il popolo sedette a mangiare e a bere” davanti al vitello d’oro, “poi si alzò per divertirsi”, cioè per adorarlo, per fare giochi e feste in suo onore.

Parimenti quando lo stolto si rimpinza eccessivamente di cibo, si macchia di fornicazione, come si legge nel libro dei Numeri: Israele fornicò con le figlie di Moab, che chiamarono gli Israeliti a partecipare ai loro riti sacri­ficali e poi mangiarono le carni offerte agli idoli. Il Signore si adirò e in un sol giorno ne morirono ventitremila (cf. Nm 25,1-2.4.9). Ecco quindi dimostrato che dalla gola si passa alla fornicazione, e dalla fornicazione si arriva alla morte e alla dannazione.

Similmente, “chi sposa una donna odiosa, e questo si fa con il consenso della mente e con il compimento dell’opera cattiva, mette alla prova Cristo, in quanto segue il proprio istinto invece di obbedire alla sua volontà e lo professa soltanto a parole. Cristo stesso ha indicato in breve quei tre peccati dicendo: “Chi guarda una donna con intenti libidinosi”, ecco la donna odiosa, “nel suo cuore ha già commesso adulterio con lei”(Mt 5,28), ecco che in qualche modo l’ha sposata, e quindi sarà ferito dai morsi dei serpenti, cioè dei demoni.

Infine chi fa della sensualità la padrona della sua ragione, suscita mormorazione e dissenso nell’abitazione della sua mente.

Preghiamo dunque il Signore che con le quattro virtù fondamentali distrugga questi quattro vizi, renda salda la terra della nostra mente, conservi in noi i suoi beni affinché non vengano sperperati e possiamo così giungere al possesso dei beni eterni. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli. Amen.

 

7. “C’era un uomo ricco che aveva un fattore”, ecc. Questo fattore raffigura il prelato, al quale il Signore ha affidato in custodia la sua tenuta, cioè la sua chiesa. Salomone nei Proverbi, gli dice: “Sforzati di conoscere bene l’aspetto delle tue pecore, e bada attentamente al tuo gregge. Non potrai avere per sempre questo potere, ma ti sarà data una corona per sempre” (Pro 27,23-24).

O prelato, cerca di conoscere a fondo il volto delle tue pecorelle, cioè dei tuoi sudditi, dei tuoi fedeli: se hanno in fronte il Tau (T) della passione del Signore che hanno ricevuto nel battesi­mo, o se l’hanno raschiato via e vi hanno sovrapposto il segno della bestia (cf. Ap 13,16); e bada attentamente al tuo gregge, che non ci sia qualcuno colpito dalla malattia dell’eresia o dello scisma, e ne infetti anche gli altri. “Corri perciò” – come dice sempre il sacro testo –, “affrèttati a svegliare il tuo amico. Non concedere sonno ai tuoi occhi, né riposo alle tue palpebre” (Pro 6,3-4). Infatti non hai questo potere per sempre, ma solo per qualche tempo. Se avrai vigilato e custodito con diligenza il tuo gregge, ti sarà data la corona per sempre. Ecco in quale modo il fattore deve custodire la tenuta del suo padrone.

Ma ahimè, ahimè! Non dico un fattore, ma un ladro, un lupo distrugge la tenuta del padrone, e divora i beni affidatigli. Salomone stesso dice in che modo la chiesa venga distrutta dall’iniquità dei suoi prelati: “Per tre cose freme la terra, anzi quattro cose non può sopportare: uno schiavo che diventi re, uno stolto rimpinzato di cibo, una donna odiosa che trovi da sposarsi e una schiava che diventi erede della sua padrona” (Pro 30,21-23). La terra, benedetta dal Signore, è la santa chiesa, della quale ha detto egli stesso nella Genesi: “La terra produca erba verdeggiante”, ecc. (Gn 1,11).

E su questo vedi il sermone della domenica di Settuagesima, sul vangelo: “In principio Dio creò il cielo e la terra”.

Questa terra, cioè l’assemblea dei fedeli, viene smossa dalla stabilità della fede e dalla santità della vita a causa del cattivo esempio e della malizia dei prelati.

“Lo schiavo che diventa re”. Lo schiavo che regna è il prelato, schiavo del peccato, gonfiato dallo spirito di superbia, una scimmia sul tetto, che sta a capo del popolo di Dio, e del quale Salomone dice: “Un leone ruggente, un orso affamato, un principe malvagio sono a capo di un popolo povero” (Pro 28,15). Il prelato della chiesa, schiavo che regna e principe malvagio, è un leone che rugge con la sua superbia, un orso affamato con le sue rapine, che spoglia il misero popolo. E osserva che questo sventurato è ancora più crudele dell’or­so affamato. Infatti sappiamo dalla Storia Naturale che l’indo­le dell’aquila e dell’orso è tale che mai fanno rapine nella zona dove hanno fatto il nido o scelto la caverna. O servo iniquo, risparmia almeno i tuoi fedeli, tra i quali hai posto il nido del tuo sterco e l’antro della tua cecità!

Questo schiavo fa ai suoi sudditi ciò che fa l’avvoltoio ai suoi pulcini. Dice la Storia Naturale che l’avvoltoio spinge fuori dal nido il suoi pulcini prima che siano in grado di volare, e fa questo per avversione verso i suoi pulcini, avversione insita nella sua natura, originata dalla voracità: quando è affamato fa molte prede e allora incomincia ad essere geloso dei piccoli che vede crescere e ingrassare.

L’avvoltoio deve il nome al suo volo lento (lat. vultur, avvoltoio, e volatus tardus, volo lento), ed è a motivo della grandezza del corpo che non può avere un volo rapido. L’avvoltoio raffigura il prelato della chiesa il quale, ostacolato dalle cose temporali, non è in grado di levarsi in volo verso le cose celesti e staccarsi così dalle terre­ne. Egli, con il cattivo esempio della sua vita, scaccia i suoi sudditi; ancor prima che possano volare, che siano cioè in grado di disprezzare il mondo e di amare le cose del cielo, egli li getta fuori dal nido della fede e li fa desistere dai loro buoni propositi. Ahimè, quanti cristiani si sono convertiti all’eresia, dopo aver disprezzato, per il cattivo esempio dei prelati, il nido della fede, del quale dice Giobbe: “Io morirò nel mio piccolo nido” (Gb 29,18). E poiché per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2,24), questo prelato invidia i suoi sudditi, i suoi parrocchiani, quando li vede prosperare nell’abbondanza.

“L’invidioso dimagrisce a motivo dell’abbondanza degli altri” (Orazio). Se si tormenta a motivo della felicità dei suoi, a chi mai potrà augurare felicità? Di quale felice evento potrà mai rallegrarsi? Chi è malvagio verso i suoi, come potrà essere buono verso gli estranei? (cf. Eccli 14,5). Ecco dunque che per colpa di questo schiavo viene rovinata la chiesa di Gesù Cristo.

“Lo stolto rimpinzato di cibo”. Anche questo è figura del prelato della chiesa, goloso e lussurioso, del quale è detto nei Proverbi: “Chi ama i piaceri e il vino non arric­chirà” (Pro 21,17). E a costui dice ancora Salomone: “O Lemuel, non dare, non dare vino ai re, perché non c’è più alcun segreto dove regna l’ubriachezza; se bevono si dimenticano dei loro giudizi, cioè dei benefici, e tradiscono la causa dei figli dei poveri”(Pro 31,4-5).

Lemuel s’interpreta “in lui c’è Dio”, ed è figura del prelato, nel quale c’è Dio a motivo della dignità del suo ufficio e – voglia il cielo – anche per la santità della vita. A questo prelato viene detto due volte, perché se lo imprima bene nella mente, il comando: “Non dare, non dare ai re il vino”. Qui per re s’intendono tutti i fedeli cristiani, membra del sommo Re, ai quali, o prelato, non devi dare il vino, che è figura dei vizi della gola e della lussuria, non devi cioè corromperli con il cattivo esempio della tua vita.

“Non devi – ripeto – dare il vino”, perché dove regna l’ubriachezza sia nel prelato che nel suddito, non c’è più alcun segreto di purezza e di castità. Non dare il vino perché, ubriacati dall’esempio della tua vita dissoluta, non dimentichino i giudizi di Dio e con iniquo giudizio tradiscano la causa dei figli dei poveri che domandano sia fatta loro giustizia.

Quando duole il capo, anche tutte le altre membra soffrono. Se si secca la radice, si seccano anche i rami. Infatti sta scritto nei Proverbi: “Se viene meno la profe­zia, il popolo diviene sfrenato” (Pro 29,18): se viene meno l’esempio della vita e l’insegnamento della verità da parte del prelato, anche il popolo si corrompe, perché vengono dimenticati i giudizi di Dio e viene tradita la causa dei poveri. Ecco quale rovina si abbatte sul popolo a causa della vita dissoluta del prelato, il quale, quando è sazio di cibo, si dimentica di Dio e del popolo che gli è affidato. Egli, come è scritto nei Proverbi, si comporta come la donna adultera, “la quale mangia e, pulendosi la bocca, dice: Non ho fatto niente di male” (Pro 30,20). Anche il prelato, nonostante tutto il male che ha operato, davanti agli uomini vuole apparire santo e giusto.

 

8. Similmente la chiesa viene rovinata “per causa di una donna malvagia, che trova chi la prende in moglie”. Questa donna simboleggia la simonia dei prelati, che quando viene promessa è odiosa, e quando viene accettata è, per così dire, presa in moglie. Di questa donna Salomone dice: “Una donna stolta e chiassosa, ricca di lusinghe, ma che non sa nulla, sta seduta alla porta della sua casa, su un trono, in un luogo alto della città, per invitare i passanti che vanno diritti per la loro strada: Chi è piccolo (inesperto) venga da me. E a chi è privo di senno ella dice: Le acque furtive sono più dolci e il pane preso di nascosto è più gustoso. Egli non si accorge che lì ci sono i giganti e che i convitati di quella donna scendono nell’inferno” (Pro 9,13-18). Quin­di quelli che si uniscono a lei precipiteranno nel profondo dell’inferno; solo chi se ne allontana si salverà.

Osserva che la simonia è chiamata “donna stolta e chias­sosa, ricca di lusinghe, ma che non sa nulla”. “Donna” perché per causa sua quasi tutti ormai sono corrotti; “stolta” perché vende oro per comperare piombo, vende cioè le cose spirituali per avere quelle materiali; “chiassosa” perché abbaia sfrontata contro tribunali e curie; “ricca di lusinghe”, che compera per la sua rovina dando in pagamento la sua anima; “ma che non sa nulla” e non comprende che Dio non può lasciare impunito un delitto così grande, perché il denaro del simoniaco andrà con lui in perdizione, in quanto vende, in cambio di denaro, il dono dato da Dio gratuitamente (cf. At 8,20).

“Sta seduta alla porta della sua casa”. La casa della simonia è la cattiva volontà del simoniaco, e le sue porte, alle quali sta seduto, sono le mani e la lingua. Infatti chiunque con una preghiera o con una somma, con la parola o con un dono, con la promessa e con un’offerta, per timore o per amore terreno e carnale, vende o dà una cosa spirituale o una cosa connessa con lo spirituale, è simoniaco, e non si può salvare se non restituisce e non fa una vera penitenza. La cattiva volontà di vendere o comperare ciò che è spirituale fa l’uomo simoniaco.

E poiché la simonia si è scelta il posto più elevato, nei più eminenti prelati della chiesa, il testo sacro continua: “Su di un trono, nel luogo più alto della città”. La città è chiamata in lat. urbs da orbe, cioè cerchio, perché gli antichi costruivano la città entro una cerchia [di mura]. La città è figura della chiesa, che deve essere rotonda, cioè perfetta; ad essa dice il Signore: Siate perfetti, co­me è perfetto il Padre vostro (cf. Mt 5,48). E il luogo più alto della chiesa è la dignità della prelatura. Ecco dunque che la simonia ha la sua sede su di un trono, nel luogo più alto della città, cioè in coloro che siedono sulla cattedra delle dignità ecclesiastiche; e quelli che le ambiscono, sa­ranno privi delle seconde [in riferimento a chi ama i primi posti], quando dal trono cadranno all’indietro e si spezzeranno la testa (cf. 1Re 4,18).

Guai dunque a coloro che accettano volentieri donazioni, perché queste accecano gli occhi dei sapienti. Costoro costruiscono Gerusalemme nel sangue, cioè con i loro consanguinei, nipoti e nipotini, accordando loro i benefici ecclesiastici. In parte è sacrilegio anche dare le cose dei poveri a quelli che poveri non sono. Se tu dài a un paren­te, non devi dargli perché è parente, ma solo perché è povero. Guàrdati dunque dal mettere il patrimonio di Gesù Cristo “nella cassa, perché è prezzo del sangue” (Mt 27,6). Non dare perciò sangue al sangue, ma dà al pellegrino e al povero, per la sepoltura dei quali, con il prezzo del sangue del Signore, fu comperato il campo chiamato Hacèldama (cf. Mt 27,7-8), cioè la santa chiesa, i cui averi non appartengono ai ricchi, ma ai poveri.

“Per invitare i passanti che vanno diritti per la loro strada”. I passanti e quelli che vanno diritti per la loro strada sono i penitenti i quali, non avendo quaggiù una città stabile (cf. Eb 13,14), liberatisi dei loro pesi, corrono al seguito di Gesù, affrettandosi a conquistare la palma della suprema chiamata. La donna stolta, seduta in alto, li chiama perché si fermino da lei. Ma essi rifiutano assolutamente di fermarsi, poiché non cercano la gloria che viene dagli uomini, ma solo quella che viene da Dio (cf. Gv 5,41).

Purtroppo l’inesperto e l’insensato (in lat. vecors, senza cuore), cioè i carnali, attratti solo dai piaceri della carne, la cui gloria sarà la loro rovina, si fermano da lei, bevono l’acqua furtiva e divorano di nascosto il suo pane. Le acque furtive sono le prebende, che vengono attinte come l’acqua, ma furtivamente, vale a dire per simonia. E il pane mangiato di nascosto raffigura l’altezza delle cariche, delle dignità, che vengono assegnate di nascosto, quasi all’oscuro, a coloro che sono ciechi di vita e di sapere. E queste prebende e cariche sono tanto più dolci e gradite, quanto più grande è stato l’ardore della sete e la fame della cupidigia nel ricercarle. E non si accorgono, gli sventurati, che lì, cioè nelle cariche conseguite in questo modo, ci sono i giganti, cioè i demoni; e i loro convitati, cioè i simoniaci, saranno eternamente puniti, insieme con il diavolo, nel profondo dell’inferno. Chi si sarà unito in matrimonio con quella donna malvagia, sprofonderà nell’in­ferno; solo chi la fuggirà si potrà salvare. Giustamente quindi è detto che la simonia è la rovina della chiesa.

 

9. “La terra freme anche per causa di una schiava che diventa erede della sua padrona”. La padrona simboleggia la teologia; la schiava la legge giustinianea (il Codice G.) e la scienza lucrativa. Oggi viene preferita la schiava alla padrona, Agar a Sara, la legge giustinianea alla legge divina.

I prelati del nostro tempo, che non sono discepoli di Cristo ma dell’anticristo, disprezzata la legittima consor­te, non si vergognano di unirsi ad una concubina la quale, constatando di essere incinta, disprezza la sua padrona (cf. Gn 16,4). Nelle curie dei vescovi i birboni fanno risuonare la legge di Giustiniano e non quella di Cristo, fanno grandi chiacchiere, ma non secondo la tua legge, o Signore, che ormai è abbandonata e presa in odio. Per questo sente il bisogno di gridare e dire ad Abramo, insieme con Sara: “Ti comporti ingiustamente con me: io ti ho dato in braccio la mia schiava, ed essa da quando si è accorta d’essere incinta ha incominciato ad insultarmi” (Gn 16,5). Per adesso Abramo fa vista di nulla, ma certamente verrà il momento in cui dirà: Caccia via la schiava e il suo figlio, e solo la libera avrà diritto all’eredità (cf. Gn 21,10). Oh, quanto sventurato è colui che s’impegna per la legge in base alla quale vengono giudicate le cose temporali, e non fa attenzione a quella legge in base alla quale egli stesso sarà giudicato.

Su questo argomento vedi una trattazione più completa nel sermone della domenica II dopo Pasqua, sul vangelo: “Io sono il buon pastore”.

Ecco dunque che ora sai in quale modo il fattore sperpera i beni del Signore; come a causa della malizia dei prelati si rovini la chiesa la quale, vessata dalla loro iniquità, si rivolge al suo Sposo con le parole dell’introito della messa di oggi: Quando gridai al Signore, egli ascoltò la mia voce, contro coloro che mi si avvicinano; li umilierà colui che è prima dei secoli e vive in eterno. Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti sosterrà (cf. Sal 54,17-20.23).

Tre fatti si devono qui considerare: l’esaudimento del grido della chiesa, il rigetto dei falsi ministri, e il conforto della chiesa stessa. La chiesa, contrassegnata dalla povertà del suo Sposo e posta in mezzo ad una nazione iniqua e perversa, che le si avvicina solo a parole ma non con i fatti, con il corpo ma non con lo spirito, alza il suo grido al Signore, domandando di essere liberata dall’op­pressione di questa nazione iniqua e perversa. E il Signore pietoso la libererà e umilierà nel profondo dell’inferno la nazione perversa e peccatrice che pretende di essere chiamata chiesa, ed è invece la sinagoga di satana (cf. Ap 2,9); e farà questo quando ripulirà la sua aia e riporrà il frumento nel suo granaio e brucerà nel fuoco inestinguibile (cf. Mt 3,12; Lc 3,17) la paglia, cioè coloro che si sparpagliano alla ricerca della paglia delle ricchezze.

Getta dunque il tuo affanno nel Signore, o chiesa poverella, sbattuta dalla bufera e senza alcun conforto, ed egli ti nutrirà, perché, come dice Isaia, sarai allattata alle mammelle dei re (cf. Is 60,16). Questi re sono gli apostoli, le due mammelle sono l’insegnamento del vangelo e la grazia dello Spirito Santo, alle quali furono allattati gli apostoli stessi e alle quali sarai allattata anche tu, finché, crescendo di virtù in virtù, comparirai davanti a Dio in Sion (cf. Sal 83,8), al quale sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. convocazione dei debitori del padrone

 

10. “Il fattore chiamò ad uno ad uno i debitori del suo padrone, e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d’olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse ad un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento staia di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. E il padrone lodò quel fattore disonesto, perché aveva agito con prudenza. I figli di questo mondo infatti, nel loro genere, sono più prudenti dei figli della luce” (Lc 16,5-8).

La Glossa spiega così le misure nominate in questo passo: il barile è chiamato in greco kàdos, anfora, e contiene tre urne. Lo staio, chiamato dal vangelo con il termine ebraico corus, conteneva trenta moggia. Il tutto può essere inteso semplicemente così: chi allevia per la metà o per un quinto la miseria del povero, riceverà la giusta ricompensa per la sua misericordia.

Senso morale. Vedremo quale sia il significato di questi due debitori, dei cento barili d’olio, delle cento staia di frumento, e della riduzione a cinquanta e a ottanta.

I due debitori stanno a indicare tutti i fedeli cristiani, che devono osservare i due precetti della carità, devo­no cioè amare Dio e il prossimo. Nei cento barili d’olio è raffigurato l’amore di Dio, e nelle cento staia di frumento l’amore del prossimo.

Ed ecco perché l’olio simboleggia l’amore di Dio. L’olio galleggia sopra tutti i liquidi, e questa ne è la causa: nella sostanza oleosa non ci sono elementi di acqua o di terra, ma solo di aria, e per questo galleggia sopra l’acqua, perché gli elementi di aria che sono nell’olio, lo sollevano, come fosse chiuso in un otre, e di qui proviene la sua leggerezza. Così anche l’amore di Dio deve essere al di sopra di ogni altro amore.

Dice Salomone: “Il frutto della sapienza è più prezioso di ogni ricchezza, e tutto ciò che si può desiderare non regge il paragone con essa” (Pro 3,14-15). Il frutto della sapienza è l’amore di Dio: assaporata la sua dolcezza, l’a­nima comprende quanto è soave il Signore (cf. Sal 33,9). Che cosa ci può essere dunque di più prezioso, di più desi­derabile? Ad esso non si possono paragonare né ricchezze né gloria.

E come nell’olio non c’è nulla di acqua o di terra, ma solo elementi di aria, così nell’amore di Dio nulla si deve mescolare di carnalità o di terrenità, ma solo elementi d’aria, cioè la purezza della mente e una condotta celestiale. Beata l’anima che ha in sé l’amore di Dio, perché galleggia su tutte le acque, in quanto l’aria che è nell’anima amante del Signore la porta in alto.

 

11. Leggiamo nella Genesi: “Lo Spirito di Dio si librava sulle acque” (Gn 1,2). Questa espressione può essere interpretata in quattro modi.

Primo: come la mente dell’artefice si libra sopra l’opera che sta per fare, e come l’uccello si posa con delicatezza sopra le uova dalle quali nasceranno i suoi piccoli, così lo Spirito del Signore si librava sulle acque, dalle quali stava per far nascere ogni specie di creatura, secondo il suo genere (cf. Gn 1,11).

Secondo: lo Spirito del Signore, cioè l’intelletto spirituale, deve portarsi al di sopra delle acque, cioè al di sopra dell’intelletto carnale. Dice infatti Giovanni: “È lo Spirito che dà la vita, la carne – cioè l’intelli­genza carnale – non giova a nulla” (Gv 6,64), perché “la lettera uccide” – infatti nel secondo libro dei Re si narra che Uria portò con sé la lettera della sua morte (cf. 2Re 11,14) –; invece lo Spirito dà la vita” (2Cor 3,6). Ed Ezechiele dice: “Lo Spirito di vita era nelle ruote” (Ez 1,20). Nelle “ruote” del Vecchio e del Nuovo Testamento c’è lo Spirito della vita, cioè l’intelligenza spirituale che dà la vita all’anima. Leggiamo infatti nei Proverbi: “La legge del sapiente è fonte di vita, per sfuggire alla rovina della morte” (Pro 13,14).

Terzo: lo Spirito del Signore, cioè il prelato di vita spirituale, si libra al di sopra delle acque, cioè dei popoli. Infatti, quanto la vita del pastore è superiore a quella delle pecore, tanto la vita del prelato deve essere superiore a quella dei sudditi (dei fedeli). Dice sempre Ezechiele: “Al di sopra delle teste degli esseri viventi c’era, disteso sopra le loro teste, una specie di firmamento, simile a un cristallo splendente, che incuteva terrore” (Ez 1,22). Questo firmamento è figura del prelato, nel quale deve risplendere il sole di una vita illibata, la luna della sicura dottrina, che illumina la notte di questo esilio, le stelle della buona riputazione; e il comportamento deve apparire trasparente come il cristallo, e deve anche incutere timore. Nel cristallo è simboleggiato l’equilibrio della mente e il fascino della benevolenza; e deve anche incutere timore con la severità delle sue correzioni. Il prelato dunque deve avere fermezza e dolcezza, dev’essere severo e incutere timore, quando le circostanze lo esigono, e così si librerà al di sopra delle acque e sopra la testa degli “esseri viventi”, cioè dei suoi sudditi, sopra i quali deve per così dire estendersi, come il firmamento, per proteggerli e difenderli.

Quarto: lo Spirito del Signore, cioè l’anima, che già ha concepito lo spirito del divino amore, si libra sopra le acque, vale a dire al di sopra delle cose temporali. Dice la Genesi: “L’arca galleggiava sulle acque. Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo” (Gn 7,18-19).

Le acque delle ricchezze e della concupiscenza si sono ormai innalzate in modo tale, che hanno ricoperto tutta la terra. Perciò dice Isaia: “La sua terra è piena di oro e di argento e senza fine sono i suoi tesori”, ecco l’avarizia; “e la sua terra è piena di cavalli e senza numero sono i suoi carri”, ecco la superbia; “e la sua terra è piena di idoli”, ecco la lussuria (Is 2,7-8). Tutta la terra è ormai coperta da queste acque maledette e, ciò che è peggio e più pericoloso, anche tutti i monti più alti, cioè i prelati della chiesa, sono coperti da queste acque. Ma l’arca di Noè, cioè l’anima dell’uomo dedito allo spirito, galleggia su queste acque, perché tutto reputa come sterco. Giustamente quindi è detto che l’olio dell’amore di Dio galleggia sopra ogni liquido.

Nei cento barili d’olio si deve intendere la perfezione dell’amore di Dio. Quindi il fattore, cioè il prelato della chiesa, deve dire ad ogni fedele che è debitore di Dio: “Quanto devi al mio padrone?”, cioè: in che misura sei tenuto ad amare Dio? Il fedele risponderà: Nella misura di “cento barili d’olio”; cioè sono tenuto ad amarlo di un amore perfetto, perché devo amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Ma poiché sono peccato­re, non riesco a giungere a una tale perfezione di amore. Allora il fattore della chiesa, provvedendo a se stesso e a lui, deve dire: “Prendi la tua ricevuta e scrivi cinquanta”. La ricevuta è detta in lat. cautio, cauzione: il suo nome viene da cautelarsi, ed è un’obbligazione scritta di propria mano per ricordarsi del debito.

Osserva che qui sono indicati i tre atti nei quali consiste la vera penitenza. Il prelato, o il sacerdote, deve dire al peccatore: Poiché non sei ancora in grado di giungere a quella perfezione di amore, per intanto “prendi la tua ricevuta”, disponi cioè la tua vita a fare peniten­za; “siediti”, nella contrizione del cuore; “scrivi subito” con la confessione della bocca perché il tempo è breve; scrivi “cinquanta”, cioè compi le opere che il confessore ti impone in riparazione dei tuoi peccati.

Su questo numero cinquanta troverai una trattazione più ampia nel sermone del giorno di Pentecoste, dove viene commentato il brano degli Atti: “Mentre il giorno di Pentecoste (cinquantesimo) stava per finire”, ecc.

 

12. “Poi disse ad un altro: Tu quanto devi al mio padrone? Rispose: Cento staia di frumento. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, e scrivi ottanta”(Lc 16,7). Il frumento simboleggia l’amore del prossimo, del quale Salomone dice: “Chi nasconde il frumento è maledetto dai popoli; la benedizione invece è invocata sul capo di chi lo vende” (Pro 11,26). “Chi nasconde il frumento”, chi cioè rifiuta il suo amore al prossimo, “sarà maledetto” in quel raduno universale al quale tutti i popoli converranno davanti al tribunale del giudice supremo. Invece “sarà invocata la benedizione – Venite, benedetti del Padre mio (Mt 25,34) – sul capo di chi lo vende”. Se vendi al prossimo il frumento del­l’a­more, riceverai il premio dell’eterna ricompensa. È detto appunto nei Proverbi: “Chi fa la carità al povero presta al Signore, e il Signore lo ricompenserà” (Pro 19,17). Nelle cento staia di frumento si deve intendere la perfezione dell’amore interiore.

Dica dunque il fattore, dica il sacerdote o il prelato della chiesa, al peccatore: “Tu, quanto devi?, cioè: in che misura devi amare il tuo prossimo nel Signore? Egli risponderà: Nella misura di “cento staia di frumento”, devo cioè amare l’amico e il nemico, nel Signore e per il Signo­re; e per il mio prossimo, se sarà necessario, devo essere pronto a dare la vita. Ma poiché sono carnale e fragile, non sono in grado di giungere a tanta perfezione di amore per il prossimo. E allora il fattore deve dirgli: Poiché non sei ancora pronto a rischiare la tua vita per il fratello, per il momento “prendi la tua lettera e scrivi ottanta”.

La parola “lettera” suona quasi come legìtera, cioè legit iter, mostra la via a chi legge, oppure “ripete leggendo”. “Prendi, dunque, la tua lettera”, cioè prepara il cammino della tua mente all’amore del prossimo; “e scrivi ottanta”, vale a dire, insegnagli a non sbagliare e soccorrilo perché non venga meno; istruisci il suo spirito nella dottrina dei quattro evangelisti; ristora il suo corpo, composto dei quattro elementi, aiutandolo anche materialmente, e così scrivi ottanta. E tieni sempre questa lettera davanti agli occhi, così ogni volta che vedrai il prossimo scriverai in lui ottanta, scrivendo leggerai, e leggendo ripeterai la tua buona azione. E leggendo in questo modo, la lettera stessa ti preparerà la strada sulla quale giungerai a meritarti il premio.

 

13. “E il padrone lodò quel fattore disonesto, perché aveva agito con prudenza. I figli di questo mondo, infatti, sono nel loro genere più prudenti dei figli della luce”. (Lc 16,8). Il sacerdote, o il prelato della chiesa, è detto disonesto, perché facendo una vita cattiva, sperpera i beni del suo Padrone. È detto dal vangelo “iniquo”, cioè “non equo”, ossia ingiusto, perché si è macchiato di azioni disoneste. Però, siccome ammonisce i peccatori, spiega la parola di Dio, mostra a tutti e insegna con prudenza che cosa si debba dare a Dio e al prossimo secondo le proprie capacità, il Padrone lo loda: “I figli di questo mondo, sono più prudenti dei figli della luce”.

Fa’ attenzione che la prudenza si riferisce alle cose umane, invece la sapienza a quelle divine. Fanno parte della prudenza la conoscenza degli affari civili, l’arte militare, la conoscenza della terra, la nautica. Parimenti la prudenza è la scienza (conoscenza) sia delle cose buone che di quelle cattive, e di essa fanno parte la memoria, l’intelli­genza e la previdenza.

In secondo luogo, la prudenza è di varie specie. Infatti è detto ciò che segue in quanto certe cose passano e ne so­praggiungono altre: “I figli di questo mondo, nella loro generazione”, cioè per quanto riguarda la carne, “sono più prudenti dei figli della luce”. La luce si chiama così per­chédiluisce, scioglie le tenebre. I figli di questo mondo, che corrono dietro alle cose temporali, sono nel loro genere più prudenti dei figli della luce nel disprezzarle: questi, con la luce della loro vita dovrebbero dissipare le tenebre del peccato.

A questo riguardo abbiamo una concordanza nei Proverbi: “C’è un genere di gente che maledice suo padre e non benedice sua madre. C’è una genere che si crede puro e tuttavia non è si lavato dalle sue sozzure. C’è un genere dagli occhi altèri e dalle ciglia sprezzanti. C’è un genere i cui denti sono spade e i cui molari sono coltelli, per divorare gli indigenti della terra e i poveri tra gli uomini” (Pro 30,11-14).

In questo passo vengono segnalati quattro generi di uomini iniqui, e cioè i prelati malvagi, i falsi religiosi, i superbi, e gli avari e gli usurai.

“Il genere che maledice suo padre e non benedice sua madre” raffigura i prelati e sacerdoti malvagi della chiesa, i quali con la loro vita scandalosa e la negligenza nel loro ufficio maledicono Dio Padre, il cui nome viene bestemmiato per loro colpa (cf. Rm 2,24), e non benedicono la loro madre, la chiesa, anzi distruggono la sua fede, che invece dovrebbero predicare con la parola e con l’esempio.

“Il genere che si crede puro, ma che non si è lavato dalle sue sozzure” raffigura i falsi religiosi, ipocriti, che assomigliano ai sepolcri imbiancati(cf. Mt 23,27), dei quali il beato Bernardo dice: Se riescono a vivere la loro vita esteriore senza infamia, pensano di aver salvato tutto.

“Il genere dagli occhi altèri e dalle ciglia sprezzanti” sono i superbi, che incedono con il collo eretto e ammiccan­do con gli occhi (cf. Is 3,16): le loro palpebre non sono rivolte ai passi ma verso l’alto. Contro di essi il Profeta dice: “O Signore, non si è inorgoglito il mio cuore e non si levano con superbia i miei occhi” (Sal 130,1).

“Il genere i cui denti sono spade e i cui molari sono coltelli” raffigura gli avari e gli usurai, i cui denti sono lance e frecce (cf. Sal 56,5) che divorano i poveri e si impossessano delle sostanze altrui. Tutti costoro sono figli di questo mondo, che reputano stolti i figli della luce e credono se stessi prudenti, ma loro prudenza è la loro morte (cf. Rm 8,6).

Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: “Quindi chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Nessuna tentazione vi sorpren­da, se non umana” (1Cor 10,12-13). Il fattore pensava di stare bene in piedi, e invece fu privato dell’amministrazione perché aveva sperperato le sostanze del padrone. I figli di questo mondo pensano di stare in piedi, e invece, venuto meno il bastone di canna delle ricchezze, al quale si appoggiano, precipitano nell’inferno, e allora si accorgono che sono i figli della luce ad essere più prudenti dei figli di questo mondo.

“La tentazione”, cioè l’attrattiva del peccato, “non vi sorprenda, o figli della luce, cioè non induca la vostra ragione al consenso; ci può essere un’eccezione per quella umana, vale a dire per quelle cose senza le quali non è possibile la vita. La tentazione umana consiste nel giudicare le cose in modo diverso da come sono nella realtà, e quando in buona fede sbagliamo in qualche decisione. Ma anche se non c’è in noi la perfezione dell’angelo, non ci sia neppure la presunzione del diavolo.

Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di infondere in noi l’amore verso Dio e verso il prossimo; fa’ che siamo figli della luce, preservaci dal cadere nel peccato e dall’essere tentati dal diavolo, affinché meritiamo di salire alla gloria della luce inaccessibile. Accordacelo tu che sei benedetto e glorioso nei secoli dei secoli. Amen.

 

III. accoglienza nelle dimore eterne di chi fa del bene ai poveri

 

14. “E io vi dico: Procuratevi degli amici con la iniqua ricchezza perché, quando essa vi verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Il vangelo chiama le ric­chezze con il termine siriaco mammona, che significa “ricchezze inique”, in quanto sono frutto dell’ingiustizia. Se dunque l’iniquità accortamente amministrata si converte in giustizia, quanto più innalzeranno verso il cielo un bravo amministratore le ricchezze della parola divina, nella quale non c’è nulla d’ingiusto.

Dire amico è come dire “custode dell’anima” (lat. animi custos, e il termine viene da amare. L’amicizia consiste nel desiderare il bene a vantaggio di colui che sia ama, in accordo con le sue aspirazioni (Agostino). I ricchi di questo mondo che con gli imbrogli accumulano ricchezze di iniquità, cioè facendo differenze, non potrebbero avere amici più affezionati – se lo capissero – delle mani dei poveri, che sono il tesoro di Cristo. Dice Gregorio: Perché i ricchi si ritrovino qualcosa nelle mani dopo la morte, si dice loro, prima della morte, nelle mani di chi devono ripor­re le ricchezze. O ricco, dà a Cristo quello che egli stes­so ti ha dato: lo hai avuto come donatore, àbbilo come debitore, che ti restituirà con grande interesse. O ricco, stendi, ti prego, la mano arida al povero, e se prima era arida per l’avarizia, rifiorisca ora con l’elemosina. Dice infatti Salomone nell’Ecclesiaste: “Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappe­ro” (Eccle 12,5). Il mandorlo, dice Gregorio, fiorisce pri­ma delle altre piante, ed è figura di colui che fa l’elemo­sina, il quale, fiorente di compassione e di misericordia, deve far sbocciare prima di tutto il fiore dell’elemosina.

Dice Isaia: “Fiorirà e germoglierà Israele” (Is 27,6). Israele, cioè il giusto, fiorirà con l’elemosina e germo­glierà con la compassione. Ma fa’ attenzione che, pur venendo il germoglio prima del fiore, non ha scritto prima “germoglierà, ma “fiorirà” e poi “germoglierà”; e lo ha fatto per la ragione che quando il giusto fiorisce con l’elemosina, deve poi germogliare con la compassione, perché deve offrire l’elemosina al povero non solo con la mano ma anche con l’affetto del cuore, perché non succeda che l’avarizia faccia rimpiangere l’elemosina.

“Fiorirà dunque il mandorlo”, cioè chi fa l’elemosina, “e si ingrasserà la locusta”, cioè il povero, che giustamente viene paragonato alla locusta. Come infatti la locusta quando fa freddo va in letargo e perde le forze, ma poi quando ritorna il caldo si risveglia, ridiventa per così dire allegra e rincomincia a saltare, così il povero in tempo di fame e nel gelo della miseria perde le forze, il suo corpo s’intorpidisce e il suo viso si fa pallido, ma poi quando arriva il calore della beneficenza e il dono dell’elemosina ricupera le forze e rende grazie a Dio del dono ricevuto. E così “viene disperso il cappero”, cioè l’avarizia. L’elargizione dell’elemosina segna la distruzione dell’ava­rizia. “Fatevi dunque degli amici con le inique ricchezze, perché quando verrete a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”.

 

15. Considera che quattro sono le dimore. La prima è quella dei carnali, la seconda degli incipienti, la terza dei proficienti e la quarta quella degli arrivati, ossia dei perfetti. La prima è la dimora degli Idumei e degli Ismaeliti, la seconda di Kedar, la terza di Giacobbe e la quarta del Signore degli eserciti.

Della prima dimora dice il salmo: “Contro di te hanno concluso un’alleanza le dimore degli Idumei e degli Ismaeliti” (Sal 82,6-7). Idumei s’interpreta “sanguinari” e Ismaeliti “obbedienti”, e aggiungi “a se stessi e non a Dio”. E in essi dobbiamo vedere raffigurati i lussuriosi che si contaminano con il sangue della lussuria, e i superbi, che fanno la propria volontà e non la volontà di Dio. Le loro dimore, cioè i loro conciliaboli, stipulano un’alleanza contraria all’alleanza che il Signore ha stipulato sul monte quando disse: “Beati i poveri di spirito” (Mt 5,3). Da queste dimore si deve fuggire e andare in quelle di Kedar, delle quali è detto nei Cantici: “Sono bruna ma bella, figlie di Gerusalemme, come le dimore di Kedar, come i padiglioni di Salomone. Non state a guardare che sono bruna, perché mi ha abbronzata il sole” (Ct 1,4-5).

Troverai il commento a questo passo nel sermone della domenica III di Quaresima, parte IV, che spiega il vangelo: “Quando uno spirito immondo esce da un uomo”.

Chi avrà agito rettamente in queste dimore, passerà a quelle di Giacobbe, delle quali è detto nel libro dei Numeri: “Come sono belle le tue tende, o Giacobbe, e le tue dimore, o Israele! Sono come vallate boscose, come giardini irrigati lungo i fiumi; sono come tende piantate dal Signo­re, come cedri vicini alle acque” (Nm 24,5-6).

Fa’ attenzione a queste tre cose: le vallate, i giardini e i cedri. Le valli boscose simboleggiano l’umiltà della mente; i giardini irrigati la compunzione delle lacrime; i cedri la contemplazione delle realtà superne. Quindi le tende di Giacobbe e le dimore di Israele raffigurano la vita dell’uomo attivo e di quello contemplativo: il Signore stesso ha piantato queste tende, perché sono disposte secondo il suo beneplacito. Infatti nell’Esodo viene detto a Mosè: “Guarda ed eseguisci secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte” (Es 25,40). Il monte, così chiamato perché non si muove (mons, non motus), è Cristo il quale “non segue il consiglio degli empi” (Sal 1,1). Il modello è la sua vita, secondo la quale anche noi dobbiamo piantare e costruire le nostre dimore. Queste dimore sono chiamate in lat. tentorium, perché vengono tese con corde e pali, e si chiamano anche tende o padiglioni.

Le dimore dell’uomo attivo e di quello contemplativo sono quindi belle come “val­late boscose”, perché sono fondate sull’umiltà della mente, la quale offre ombra e protezione contro l’ardore dei vizi; e sono come “giardini irrigati lungo i fiumi”, perché la loro mente è irrigata dalla compunzione delle lacrime; “e come cedri vicini alle acque”, perché sono radicati e piantati nella sublimità della contemplazione, nel soave profumo di una santa vita, nella ricchezza del fiume che rallegra la città di Dio (cf. Sal 45,5).

E infine, da queste dimore, quando sarà conclusa la prova di questa vita, quando l’inverno sarà passato e la pioggia cesserà di cadere (cf. Ct 2,11), allora passerà alle dimore del Signore degli eserciti (cf. Sal 83,2), delle quali Isaia promette: “Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille e in un benessere di grande riposo” (Is 32,18). Il popolo dei penitenti, “il popolo del Signore e le pecore del suo pascolo” (Sal 94,7), che ora è in mezzo alle lotte, vivrà in una pace meravi­gliosa.

La pace è la libertà nella tranquillità (Cicerone). Pace viene da patto: prima si stabiliscono i patti e poi si consegue la pace. Chi stabilisce quaggiù il patto di riconciliazione con il Signore, sederà poi in una pace meravigliosa nel regno celeste.

Pace del tempo e pace del cuore: ahimè, quante volte viene turbata! Invece la pace dell’eternità sarà meravigliosa nei secoli de secoli, e perfettamente sicura. Allora nessuno potrà incutere spavento (cf. Gb 11,19) e là tutti si sentiranno sicuri e tranquilli e “in un riposo pieno di benessere” (lat. requies opulenta), riposo ricco, splendido. Opulento viene da ops, ricchezza. Questo “riposo ricco” sta ad indicare il conseguimento della duplice stola di gloria, cioè la glorificazione dell’anima e quella del corpo, che i santi godranno per tutta l’eternità.

O ricchi di questo mondo, fatevi amici i poveri; accoglieteli nelle vostre dimore affinché, quando vi verrà a mancare la ricchezza accumulata con le ingiustizie, quando vi verrà sottratta la paglia delle cose temporali, essi vi accolgano nelle dimore eterne, dove regna una pace meravigliosa, una tranquilla sicurezza, e lo splendido riposo dell’eterno appagamento.

Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell’epistola: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche una via d’uscita (proventum, esito felice, vittoria) e la forza per resistervi” (1Cor 10,13). L’Apostolo parla ai poveri di Cristo e ai penitenti “che lottano nelle dimore di Kedar”. “Dio è fedele”, sincero nelle promesse, “e non permetterà che voi”, che già soffri­te per lui, “siate tentati al di sopra delle vostre forze”; ma colui che dà il permesso al tentatore, offre anche al tentato la sua misericordia. “Vi darà anche una via d’usci­ta”, cioè l’aumento delle forze, “affinché possiate resistere alla tentazione”, perché cioè non veniate meno ma ne usciate vittoriosi.

Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo di farci uscire dalle dimore degli Idumei e vivere in quelle di Kedar; ci faccia poi passare alle dimore di Giacobbe per meritare di giungere finalmente a quelle eterne della pace, della fiducia e del riposo. Ce lo conceda egli stesso che è benedetto, degno di lode e di amore, e che vive per i secoli eterni. E tutta la chiesa dica: Amen, alleluia!

 

 

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE

Temi del sermone

 

– Vangelo della decima domenica dopo Pentecoste: “Gesù si avvicinava a Gerusalemme”; si divide in tre parti.

– Anzitutto sermone per la natività o per la passione del Signore: “Il sole sorge e tramonta”.

– Parte I: I tre nomi di Gerusalemme e il loro significato: “Gesù si avvicinava a Gerusalemme”.

– La regina Saba e il suo significato: “La regina Saba”.

– La vanità del mondo: “Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole”.

– Sermone ai penitenti: come debba esser fatta la penitenza: “Figlia del mio popolo”.

– Sermone sul pianto: “I tuoi occhi come quelli della colomba”.

– Sermone sull’allegria dei carnali: “Venite, godiamoci i beni presenti”.

– Sermone contro coloro che amano le ricchezze, contro i religiosi, i prelati e i chierici: “L’anatèma sia in mezzo a te, Israele!”.

– Parte II: Sermone sulla miseria di questo esilio e sulla fine dell’uomo: “Ricordati del tuo creatore”; e tutto ciò che riguarda quest’argomento.

– Parte III: Sermone contro i simoniaci: “Gesù, entrato nel tempio”.

– Sermone sulla sapienza di Dio, cioè su Gesù Cristo, e sulla sua potenza: “La sapienza arriva ovunque”.

– Sermone morale sulla contemplazione: “Entrando in casa mia”.

– Sermone sull’orazione, su ciò che ad essa è necessario, e sulla natura delle api: “La mia casa si chiamerà casa di orazione”.

– Sermone ai religiosi, sulla raccolta dell’incenso e sulle sue proprietà: “Come incenso non inciso”.

– Sermone sulla compunzione delle lacrime: “Ti inebrierò con le mie lacrime, Chesbon”.

– Sermone sulla spelonca dei ladroni, la natura del drago, dello struzzo, del fauno, della civetta e della sirena, e che cosa raffigurino: “Le bestie riposeranno”.

 

esordio - sermone per la natività e per la passione del signore

 

1. In quel Tempo: “Gesù si avvicinava a Gerusalemme, e contemplando la città pianse su di essa dicendo: Se tu avessi compreso...” (Lc 19,41-42).

Disse Salomone nell’Ecclesiaste: “Il sole sorge e il sole tramonta e ritorna al suo posto; di lì tornando a risorgere gira a mezzogiorno, quindi piega a settentrione. Il vento (spiritus) gira all’intorno quasi esplorando tutte le cose e poi ritorna sopra i suoi giri” (Eccle 1,5-6). Il sole, così chiamato perché risplende “solitario”, è Gesù Cristo che vivifica e illumina tutto il creato con la virtù e lo splendore della grazia spirituale: Egli sorge per il fedele e tramonta invece per l’infedele. Oppure: sorge nella natività e tramonta nella passione; infatti sta scritto: “Il sole conobbe il suo tramonto” (Sal 103,19); “e ritorna al suo posto” nell’Ascensione; infatti sta scritto: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo”, dove è il tramonto, “ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre” (Gv 16,28). La natura infatti procede per via circolare. Gesù Cristo che, in quanto Dio, è creatore della natura e governa tutto il creato, procede per via circolare, perché “ritorna al suo posto”, dal quale era partito, “e di lì ritornando”, ritornando cioè dal cielo per il giudizio finale, “gira a mezzogiorno”, vaglia cioè le opere buone, “poi piega a settentrione”, vaglia cioè le opere cattive, “esplora e mette in chiaro tutte le cose” perché nulla c’è di nascosto che non venga svelato (cf. Lc 12,2).

Dice infatti in Isaia: “Io riposerò e dal mio luogo osserverò, come chiara luce del mezzogiorno e come nube rugiadosa al tempo del raccolto” (Is 18,4). Ecco come una tenda trascina l’altra (essendo unite tra loro) (cf. Es 26,3). Ciò che dice l’Ecclesiastico: “Ritorna al suo luogo”, è la stessa cosa che il Signore dice in Isaia: “Io ripose­rò”; come dicesse: “Ho faticato portando” (Ger 6,11) la croce; sono tramontato, per così dire, nella passione, ma risorgendo ritornerò nel seno del Padre, dove riposerò. E dove dice: “Risorgendo gira verso mezzogiorno e quindi piega a settentrione”, corrisponde alle parole: “E dal mio luogo osserverò”. E quando dice: “Passa in rassegna e mette in chiaro tutte le cose”, corrisponde all’espressione: “come chiara luce del mezzogiorno”.

Allora saranno aperti davanti a lui i libri, saranno portati alla luce i segreti delle tenebre e manifestate le intenzioni dei cuori (cf. 1Cor 4,5), perché lo spirito (vento), cioè il sole stesso, che dà vita a tutte le cose, che dà il respiro a tutti coloro che sono sulla terra, Gesù Cristo, girerà all’intorno, senza lasciare pietra su pietra (cf. Mt 24,2), tutto osservando, esaminando il muro (cf. Is 22,5) e perforando la parete (cf. Ez 12,5), entrando in mezzo alla bocca di Beemot e legando con una fune la sua lingua (cf. Gb 40,20), facendo sprofondare, sotto gli occhi di tutti, la morte con i morti per l’eternità (cf. Is 25,8). E così “ritornerà sopra i suoi giri”, cioè alla celeste Gerusalemme insieme con i suoi santi, per i quali sarà “come nube di rugiada al tempo del raccolto”. Completato il raccolto, brucerà la paglia nel fuoco inestinguibile e riporrà il frumento nel suo celeste granaio (cf. Lc 3,17), e allora sarà come nube di rugiada: nube luminosa sopra l’accam­pa­mento di Israele e sopra le tende della chiesa trionfante, di rugiada perché ristorerà e sazierà. Di questo sole, del suo giro, dei suoi riflessi, della sua irradiazione, dice il vangelo di oggi: “Gesù si avvici­nava a Gerusalemme”.

 

2. Nel vangelo di oggi sono posti in evidenza tre eventi. Primo, la commossa pietà di Gesù Cristo verso la città di Gerusalemme, quando dice: “Gesù si avvicinava alla città di Gerusalemme”. Secondo, la rovina di Gerusalemme, quando dice: “Verranno per te giorni in cui i tuoi nemici...”. Terzo, la cacciata dal tempio dei venditori e dei comprato­ri, quando dice: “Entrato nel tempio”. Cercheremo in tre libri di Salomone, l’Eccle­siaste, il Cantico dei Cantici e la Sapienza, alcuni passi che concordino con queste tre parti del vangelo.

Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: “Dio nella sua santa dimora” (Sal 67,6). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Paolo ai Corinzi: “Voi sapete che quando eravate pagani” (1Cor 12,2). La divideremo in tre parti e ne troveremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: “Voi sapete”. Seconda parte: “Vi sono diversità di carismi”. Terza parte: “A ciascu­no è data una manifestazione dello Spirito”.

 

I. la commossa pietà di gesù cristo verso gerusalemme

 

3. “Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa, dicendo: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace! Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi” (Lc 19, 41-42).

Ricorda che Gerusalemme si chiamava dapprima Salem. I giudei sostengono che fu fondata in Siria, dopo il diluvio, dal figlio di Noè, Sem, che dicono sia Melchisedek, il quale proprio in Siria ebbe il suo regno. In seguito la conqui­starono i Gebusei, dai quali fu chiamata Iebus. Quindi dai due nomi uniti insieme, Iebus e Salem, fu chiamata Ierùsalem, Gerusalemme. In fine Salomone, dopo averla restaurata e abbellita, la chiamòIerosòlyma, quasi a dire Iero­solomòniaSalem significa “pace”, Iebus “oppressa”, Gerusalemme “visione di pace”: e in queste tre denominazioni sono simboleggiati i tre stati dell’anima.

L’ani­ma nel battesimo fu Salem; nella penitenza è Iebus; e infine nella gloria sarà Gerusalemme. Nel battesimo fu restituita all’anima la pace, perché da figlia dell’ira diventò figlia della grazia. Nella penitenza dev’essere oppressa e calpestata, poi­ché dice Isaia: “Sarà calpestata sotto i piedi la corona di superbia degli ubriachi di Efraim” (Is 28,3). Gli ubriachi di Efraim, nome che s’interpreta “fertile”, sono i ricchi di questo mondo, ubriachi di superbia e di lussuria; la loro corona, cioè la loro gloria, viene calpestata sotto i piedi della penitenza, quando vengono inebriati dal vino della contrizione. Leggiamo nei Proverbi: “Non esiste alcun segreto dove regna l’ebbrezza” (Pro 31,4). Non c’è alcun segreto di iniquità dove regna la vera ebbrezza della contrizione: infatti rivela nella confessione tutto ciò che prima era nascosto nella mente. Sarà visione di pace nella gloria, dove, come dice Isaia, vedrà con i propri occhi il ritorno del Signore in Sion (cf. Is 52,8). E ancora: “A quella vista sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore” (Is 60,5). O anima, se prima sarai stata Iebus (oppressa), vedrai poi ciò che occhio mai vide.

 

4. Dice Isaia: “Occhio mai vide che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui” (Is 64,4). Veramente vedrai, perché vedrai colui che tutto vede! Vedrai la sapienza di Salomone, come si racconta nel terzo libro dei Re quando si parla della regina Saba; vedrai la casa che egli edificò a Gerusalemme e i cibi della sua mensa (cf. 3Re 10,4-5). Leggiamo in proposito nel vangelo di Luca: “Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel regno dei cieli” (Lc 22,29-30). Allora veramente potrai dire con la regina Saba, nome che si in­terpreta “prigioniera”, poiché anche tu ora sei prigioniera ma poi sarai regina: “Era vero, dunque, quanto avevo sentito nel mio paese”, cioè nella terra del mio pellegrinaggio, “sui tuoi discorsi e sulla tua saggezza. Io non avevo voluto credere a quanto si diceva, finché non sono giunta qui e i miei occhi non hanno visto; ebbene, non me ne era stata riferita neppure una metà! La tua saggezza e le tue opere sono molto più grandi della fama che ne ho sentito. Beati i tuoi uomini e beati questi tuoi ministri che stanno sempre davanti a te e ascoltano la tua saggezza” (3Re 10,6-8).

Ecco che cosa vedrai! Abbonderai di delizie e di ric­chezze, sarai cioè glorificato nell’anima e nel corpo, e il tuo cuore sarà rapito dalla bellezza della celeste Gerusalemme, dalla beatitudine degli angeli, dalla corona immarcescibile di tutti i santi; e così il tuo cuore si dilaterà per il gaudio incomparabile e l’indicibile felicità.

Ma ahimè, l’anima sventurata, disprezzando sì grande gloria e abbondanza di delizie, si attacca alle cose tempo­rali, fa ogni sforzo per conquistare beni effimeri e abbraccia i rifiuti! E quindi il Signore, “vedendo la città, pianse su di essa dicendo: Se avessi compreso anche tu”. Il Signore non piange sulla città terrena, ma sull’anima, non sulla rovina delle pietre ma sulla rovina delle virtù.

Fa’ attenzione a queste due parole: “vedendo”, e “pianse”. O anima, se tu vedessi, piangeresti veramente; ma poiché non vedi, non piangi.

 

5. “Se tu vedessi”, dirò con l’Ecclesiaste, dove leggiamo: “Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole, ed ecco tutto è vanità e afflizione di spirito” (Eccle 1,14). Considera che sotto il sole c’è la vanità, sopra il sole invece la verità. Quindi l’anima che sta sotto il sole, a motivo del suo attaccamento alle cose temporali, e non sopra il sole con la contemplazione delle cose celesti, che cos’altro deve fare se non piangere e gemere? E giustamente sono unite insieme la vanità e l’afflizio­ne: infatti dove c’è la vanità della felicità terrena, c’è l’afflizione della morte eterna. Dunque, se tu vedessi, certamente pian­geresti.

Continua l’Ecclesiaste: “Mi rivolsi poi ad altro e osservai gli intrighi che si fanno sotto il sole, e le lacrime degli innocenti che non hanno chi li consoli; ed essi non possono resistere all’altrui violenza poiché nessuno corre in loro aiuto. E allora ho proclamato più fortunati i morti che i vivi, e più felici di entrambi giudicai chi non è ancor nato e non ha visto le azioni malvage che si commettono sotto il sole” (Eccle 4,1-3). “Sotto il sole” ci sono falsità e vanità, intrighi dei potenti contro i miseri, crudeli sentenze contro i poveri, che versano lacrime innocenti e non hanno alcuno che li sostenga. Consolatore è colui che si avvicina a chi è solo e con buone parole gli allevia l’angoscia.

“Nessuno” si dice in lat. nemo, e suona quasi come ne homo, cioè nessun uomo. Si dice anche nullus (homo), nessun uomo, e nullus viene dane ullus, neppure uno. Se ci fosse l’uomo, non mancherebbe il consolatore; ma poiché sono leoni, e non uomini, ecco che fanno soffrire i poveri, che sono privi di appoggio umano e non sono in grado di resi­stere alla loro violenza.

“Allora ho proclamato più fortunati i morti”, cioè i morti al mondo, che sono certamente migliori di coloro che vivono per il mondo, “e più felici di entrambi ho giudicato chi non è ancora nato”, che ancora cioè non è nato al peccato. Dice infatti Giobbe: “Perisca il giorno in cui sono nato”(Gb 3,3), cioè il giorno in cui di nuovo sono diventato peccatore. Se l’anima sventurata vedesse tutto questo, certamente piangerebbe.

 

6. Per questo Geremia insegna all’anima come debba piange­re se stessa, dicendo: “Figlia del mio popolo, vestiti di cilicio e cospargiti di cenere; fa’ lutto come per la morte di un figlio unico e piangi amaramente! (Ger 6,26).

Fa’ attenzione a queste quattro cose: il cilicio, la cenere, il lutto come per un figlio unico, e il pianto amaro. Nel cilicio è raffigurata l’aspra penitenza e l’ese­crazione delle proprie colpe; nella cenere la bassezza e la miseria della nostra condizione umana; nel lutto per il figlio unico il dolore della contrizione interiore; nel pianto amaro l’effusione delle lacrime. Dice dunque Cristo: O anima, figlia, che con grande dolore ho partorito nella passione, tu che per la fede sei la figlia del mio popolo, cioè della chiesa militante, cingiti di cilicio, fa’ cioè aspra penitenza, affinché la carne che allegramente ti ha condotta alla colpa, soffrendo ti riporti al perdono; ed essa che prima ha assaporato il piacere del peccato, ne abbia adesso l’esecrazione.

E fa’ pure attenzione che dice “cingiti”, e non “indossa” il cilicio. Con questa parola intende ricordarti due cose: la repressione della lussuria e la resistenza alla suggestione diabolica. Anche il salmo dice: “Cingi la spada al tuo fianco” (Sal 44,4). Il cilicio e la spada indicano la stes­sa cosa, cioè la mortificazione della carne, che stringe per così dire i fianchi, frena cioè gli stimoli della lussuria. Troviamo anche nel Cantico dei Cantici: “Ognuno porta la spada al suo fianco contro i pericoli notturni” (Ct 3,8). I pericoli notturni sono appunto i demoni e le subdole suggestioni della carne, e per evitarle, colui che vuole custodire il letto del vero Salomone (cf. Eccli 23,25), cioè la sua coscienza, nella quale riposa Gesù Cristo, deve avere appunto la spada della mortificazione cinta ai fianchi della sua carne.

“E cospàrgiti di cenere”, memore di quella condanna: Sei cenere e in cenere ritornerai (cf. Gn 3,19). Cenere, in lat. cinis, viene da incendio, infatti la cenere è prodotta dal fuoco. Adamo, con la sua discendenza, arso dal fuoco della cupidigia, fu incendiato dal soffio della falsa promessa, e quindi è ritornato in cenere di morte.

“Prendi il lutto come per un figlio unico”. Il lutto è così chiamato perché produce nel cuore dell’uomo come una ferita, in lat. ulcus o vulnus; per risanarla si ricorre alle consolazioni; questa ferita simboleggia la contrizio­ne, che è una ferita del cuore, per quale è necessaria la consolazione, cioè la speranza nella misericordia del Redentore.

E osserva che dice “lutto come per un figlio unico”. Come non esiste dolore più grande di quello della donna che vede morire il suo unico figlio, che ama sopra tutte le cose, così non ci deve essere dolore più grande di quello dell’anima penitente che, avendo un unico figlio, cioè la fede che opera per mezzo dell’amore, la perde a causa del peccato mortale. L’anima della fede è la carità, che la tiene viva: venendo meno la carità, la fede muore. Perciò, poiché hai perduto l’anima della fede, “prendi il lutto come per un figlio unico, e piangi amaramente”. Alla contrizione del cuore si deve unire l’amarezza delle lacrime, affinché l’anima pianga se stessa e richiami in vita il figlio unico che è morto, poiché anche il Signore pianse su Lazzaro e sulla città di Gerusalemme.

 

7. Considera che “piangere”, in lat. flere, significa effondere lacrime copiose, come dire flùere, fluire, scorrere; invece plorare significa unire al pianto la voce; lugère poi significa unire alle lacrime dei pietosi lamen­ti, e anche luce egère, mancare o aver bisogno di luce. Su questo pianto dirotto abbiamo una concordanza nel Cantico dell’amore, quando lo sposo parla alla sposa: “I tuoi occhi sono come colombe sopra ruscelli di acqua: esse sono lavate nel latte e si fermano presso abbondanti acque correnti” (Ct 5,12). Negli occhi è raffigurata l’accorta vigilanza. La colomba che vola sulle acque previene lo sparviero che tenta di assalirla. E noi, mentre siamo sui rigagnoli del piacere transitorio, dobbiamo prevenire il carnefice (il diavolo), perché colui che ora ci istiga alla colpa sarà poi anche l’esecutore della pena. Il latte, del quale nulla è più gradito, simboleggia la gioia della coscienza, confortata dalla speranza della misericordia divina.

Le abbondanti acque correnti rappresentano l’effusione delle lacrime. Quindi l’ani­ma che, quale colomba, si ferma sopra abbondanti lacrime che scorrono, confidando nella miseri­cordia di Dio, deve prevenire con accorta vigilanza e cautelarsi contro l’illu­sione della felicità passeggera e contro l’astuzia delle suggestioni diaboliche. Dice Agostino: In questa valle di miseria tanto più si deve piangere per quelle cose, per le quali meno si piange. Il Signore, dunque, “vedendo la città, pianse su di essa dicendo: Oh, se avessi compreso anche tu” la rovina che ti sovrasta, certamente piangeresti, tu che adesso esulti.

 

8. Su questa esultanza della città abbiamo una concordanza nel libro della Sapienza, dove gli empi, che non nutrono in se stessi sentimenti retti, dicono: “Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con giovanile ardore. Inebriamoci di vino squisito e di soavi profumi, e non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera; coroniamoci di rose prima che appassiscano e non vi sia prato che la nostra lussuria non percorra. Nessuno vi sia tra noi che non partecipi alle nostre intemperanze. Lasciamo dovunque i segni della nostra allegria, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte” (Sap 2,6-9). Queste parole non hanno certo bisogno di spiegazioni, perché ogni giorno le vediamo avverarsi nel comportamento dei carnali.

“Se tu avessi compreso, adesso, in questo giorno, ciò che giova alla tua pace”. E Salomone nell’Ecclesiaste: “Poiché non viene subito emessa una sentenza contro i cattivi, per questo i figli dell’uomo operano il male senza alcuna paura. Così il peccatore, anche se ha fatto il male cento volte, tuttavia viene sopportato con grande pazienza”. E ancora: “Vi sono dei malvagi che vivono tranquilli, come se compissero le opere dei giusti” (Eccle 8,11.14).

O peccatore, “se tu comprendessi in questo giorno ciò che giova alla tua pace!”. Ora tu sei padrone di te stesso, ma verrà il giorno nel quale apparterrai ad altri, perché sarai consegnato al diavolo. Ora, in questo tuo giorno, tu esulti; ma verrà il suo giorno, nel quale sarai afflitto. Sta scritto: “Nel tempo che avrò stabilito, io emetterò giuste sentenze” (Sal 74,3). O peccatore, il Signore ti ha concesso (imprestato) il tempo per guadagnarti la salvezza, e tu ti sei appropriato del tempo che ti è stato accordato. Ma, credi a me! Il Signore ti richiederà ciò che è suo, e farà giustizia. O Signore, se tu giudicherai i giusti, che cosa ne sarà degli ingiusti?

Dice Ezechiele: “Ecco, sguainerò la mia spada dal suo fodero e ucciderò in te il giusto e il peccatore” (Ez 21,3): s’intende il giusto che si crede tale, del quale dice l’Ecclesiaste: “Non presumere di essere troppo giusto” (Eccle 7,17).

Il fodero si chiama in lat. vagina, che suona come bagina, involucro, perché in essa la spada viene portata, in lat. baiulatur. La spada nel fodero è figura della divinità riposta nell’umanità. Da questo fodero il Padre estrarrà la spada e la vibrerà, come dice il Profeta: “Vibrerà la sua spada”(Sal 7,13). Considera che quando la spada viene vibrata, fa due cose: manda bagliori, e produce un’ombra paurosa. Il Padre, nel suo giorno, vibrerà la spada, cioè il Figlio suo, perché a lui rimetterà ogni giudizio (cf. Gv 5,22): Egli dirigerà verso i giusti i bagliori, e verso i malvagi l’ombra paurosa della dannazione. L’empio venga portato via affinché non veda la gloria di Dio, perché nella terra dei santi ha commesso le iniquità (cf. Is 26,10). Veda invece soltanto colui che ha trafitto (cf. Gv 19,37).

O anima sventurata! Adesso queste cose sono nascoste ai tuoi occhi, accecati dal giorno e dalla tua falsa sicurezza. Così accecata, come un animale bruto sei trascinata dal diavolo con la corda della cupidigia alla conquista di queste cose transitorie.

Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: “Voi infatti sapete che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare verso gli idoli muti, secondo l’impulso del momento. Ebbene, io vi dichiaro: come nessuno che parli sotto l’impulso dello Spirito di Dio può dire: Gesù è anàtema!, così nessuno può dire: Gesù è il Signore!, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,2-3).

I pagani, cioè i carnali che vivono da pagani, poiché in questa vita si sentono tranquilli, vanno dietro a idoli muti, cioè a queste cose temporali, che hanno sì l’apparen­za della durata e della stabilità, ma a colui che osserva attentamente rivelano la loro evidente inconsistenza. Sono come lo sterco coperto di neve, falsa gloria e vana bellezza (cf. Pro 31,30). Colui che si attacca a questi idoli del tempo è “anatema di Gesù”, cioè separato da Gesù che comanda di disprezzarli.

 

9. E su questo troviamo una corrispondenza nel libro di Giosuè, dove il Signore dice: “L’anatèma sta in mezzo a te, Israele: tu non potrai resistere contro i tuoi nemici finché non sarà eliminato da te colui che si è macchiato di questo delitto”, cioè Acan, al quale Giosuè disse: “Figlio mio, dà gloria al Signore, Dio d’Israele, e confessa e dimmi che cosa hai fatto: non me lo nascondere!”. E Acan ripose: “Ho visto nel bottino un mantello rosso molto bello, duecento sicli d’argento e una sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli, e vinto dall’avidità ho nascosto tutto ciò sotto terra al centro della mia tenda e l’ho ricoperto con la terra scavata. Allora Giosuè prese Acan, l’argento, il mantello e la sbarra d’oro: lapidarono Acan e diedero alle fiamme e distrussero tutto quello che gli apparteneva” (Gs 7,13.19.21.24-25).

Acan s’interpreta “che corrompe”, o anche “rovina del fratello”, ed è figura del ricco di questo mondo che corrompe la giustizia, sottraendo ai poveri i loro beni, o negando loro quello di cui hanno diritto, e così diventa la rovina del fratello. Egli ruba il mantello rosso, i duecento sicli d’argento e la sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli. Considera che nel mantello rosso sono indicate tutte le sostanze delle persone povere, conquistate con tanto sudore e sangue; nei duecento sicli d’argento è indicata la conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento; nella sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli è simboleggiata la vita di tutti i religiosi.

Il mantello rosso lo rubano i soldati, i signorotti, gli avari e gli usurai. I duecento sicli d’argento li rubano i predoni del nostro tempo, cioè i prelati e i chierici. E infine la sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli la rubano i falsi religiosi.

I ricchi e i potenti di questo mondo sottraggono ai poveri la loro misera sostanza, conquistata con il sangue, con la quale in qualche modo si proteggono: la tolgono ai poveri, che essi chiamano “i nostri villani”, cioè servi della campagna, mentre proprio essi, i ricchi, sono i servi del diavolo. Di essi dice Giobbe: “Mandano via nude le per­sone, rubano loro le vesti e così non hanno da coprirsi contro il freddo” (Gb 24,7). E Salomone: “Chi munge con troppa forza, fa uscire il sangue” (Pro 30,33). E Geremia: “Perfino nelle falde delle tue vesti si trova il sangue dei poveri” (Ger 2,34).

E la conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, che per la sua perfezione e la sua coerenza viene simboleggiata nei duecento sicli d’argento, la rubano i prelati e i chie­rici, quando la imparano non per istruire ed edificare, ma per ricavarne lodi e onori. Perciò dice di essi Salomone: “Un anello d’oro al naso di una scrofa, tale è la donna bella ma fatua” (Pro 11,22). Il termine sus (maiale), usato nei Proverbi, può indicare anche la scrofa.

La donna bella è figura dei chierici. Essi sono donna, in lat. mulier, perché molli, effeminati e corrotti, si presentano per denaro nei tribunali e nelle curie, come le prostitute. Bella per la sontuosità delle vesti, per la folla dei nipoti, e forse anche di figli, e per l’accumulo delle prebende.Fatua, perché non capisco­no ciò che essi stessi o gli altri dicono (in lat. fantur); tutto il giorno gridano in chiesa, abbaiano come cani, ma non capiscono neanche se stessi, perché hanno il corpo in coro ma il cuore nel foro (in piazza). E anche se ascoltano una predica, non capiscono. Predicare ai chierici e parlare ai cretini: quale utilità in entrambi i casi, se non chias­so e fatica? Essi, benché abbiano il cerchio d’oro della scienza e dell’eloquenza, non si vergognano, proprio come una scrofa, di affondarlo nello sterco della lussuria e dell’avarizia.

Parimenti, la sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli la rubano i falsi religiosi. La sbarra è chiamata in lat. regula, quasi a dire che regola la misura, o che raddrizza ciò che è distorto e difettoso. La vita dei religiosi è una regola d’oro che corregge l’uomo fuorviato e difettoso, lo riporta alla norma del retto vivere e stabilisce la giusta misura in tutte le cose. Quasi tutti i religiosi hanno defraudato questa regola, perché non camminano più secondo la verità del vangelo, non vivono secondo gli insegnamenti dei padri, ma conducono una vita depravata e falsa. I monaci defraudano l’aurea regola del beato Benedetto, i canonici defraudano l’aurea regola del beato Agostino, e così è anche dei singoli religiosi, i quali curano i propri interessi e non gli interessi di Cristo (cf. Fil 2,21). È detto che questa “sbarra” pesava cinquanta sicli, per il fatto che la vita di tutti i religiosi consiste princi­palmente nella penitenza, descritta in modo perfetto nel salmo 50, Miserere mei, Deus, Pietà di me, o Dio!

Quindi tutti costoro che rubano il mantello rosso, i duecento sicli d’argento e la sbarra d’oro, come si è detto sopra, nel giorno del giudizio saranno lapidati con duri rimproveri, bruceranno nell’eterno fuoco e così saranno colpiti da anatèma per l’eter­nità, e separati da Gesù. Invece il giusto, che è mosso dallo Spirito di Dio e che nello Spirito di Dio parla, non dice mai, né con il pensie­ro, né con la parola, né con le opere “Gesù è anàtema”: non fa cioè nulla che possa separarlo da Gesù. “E nessuno può dire”, con il pensiero, con la parola o con le opere: “Gesù è il Signore”, e io sono il suo servo, se non sotto l’azio­ne dello Spirito Santo.

Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù, di infonderci la grazia di piangere sopra la nostra città, di disprezzare le cose temporali, per giungere così alla celeste Gerusalemme. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. la rovina di gerusalemme

 

10. “Verranno per te giorni in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Lc 19,43-44).

Verranno, verranno i giorni, quando i nemici, i demoni, cingeranno di trincee le anime che escono dai corpi, trascinandole con sé alla dannazione; e da ogni parte ti circonderanno e ti stringeranno, quando esporranno davanti ai loro occhi le iniquità commesse non solo con le opere, ma anche con le parole e i pensieri.

“E ti stenderanno a terra”, quando la carne ritornerà in polvere. E anche i figli cadranno, quando “in quel giorno svaniranno tutti i loro progetti”(Sal 145,4): i progetti sono indicati anche dalle pietre, quando dice: “E non lasceranno pietra su pietra”. Il malvagio infatti, quando a un disegno perverso ne aggiunge un altro peggiore, mette per così dire pietra su pietra. Ma quando l’anima viene portata via per il castigo, tutta questa costruzione di iniqui disegni viene abbattuta: e questo appunto perché non ha riconosciuto il tempo della sua visita.

Dio infatti visita anche l’anima pervertita, una volta con un comando, un’altra volta con un castigo, una terza con un miracolo; ma poiché essa, nella sua superbia, di­sprezza tutto questo e non si vergogna delle sue malefatte, alla fine sarà abbandonata nelle mani dei suoi nemici, in compagnia dei quali sarà associata nell’eterna condanna della dannazione. E per quale motivo piombi sulla sventurata una simile rovina, il vangelo soggiunge: “Perché non hai riconosciuto il tempo della tua visita”.

Dice Isaia: “Il bue riconosce il suo proprietario, e l’asino riconosce la greppia del suo padrone; Israele invece non mi ha riconosciuto e il mio popolo non ha compreso” (Is 1,3). Il bue, cioè il buon ladrone che, come il bue si sottomette al giogo, subì il supplizio della croce, riconobbe il suo proprietario dicendo: “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). L’asino, cioè il centurione, benché pagano, riconobbe il Signore, dicendo: “Davvero costui era il Figlio di Dio!” (Mt 27,54). Invece Israele, cioè i chierici, non lo riconoscono, e il popolo, cioè i laici, non lo comprendono.

E su questo concordano le parole dell’Ecclesiaste, che dice: “Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che venga il tempo della sofferenza e giungano gli anni in cui dovrai dire: Non mi piacciono; prima che si oscuri la luce del sole, e si oscurino la luna e le stelle, e ritornino le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa, e anche gli uomini più forti vacilleranno, e resteranno oziose le donne che macinano, perché rimaste in piccolo numero, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre, e chiuderanno le porte che danno sulla piazza, e si indebolirà la voce di quelle che stanno macinando, e si alzeranno al canto degli uccelli e diventeranno sorde le figlie del canto; quando si avrà paura delle alture e dei pericoli della strada. Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta e sarà disperso il cappero, poiché l’uomo se ne va alla dimora eterna e gireranno per la piazza quelli che piangono. Prima che si rompa il cordone d’argento e la benda d’oro si allenti, prima che s’infranga l’anfora alla fonte e la ruota sopra la cisterna di sfasci, e la polvere ritorni alla sua terra da dove è venuta, e lo spirito ritorni a Dio che lo ha dato” (Eccle 12,1-7).

O città di Gerusalemme, anima creata a somiglianza di Dio, ricordati del tuo Creatore: egli ti ha creata ed egli ti giudicherà; ricordati di lui soprattutto nei giorni della tua giovinezza, che è l’età più proclive al peccato ma anche la più adatta a far penitenza.

Per questo l’Ecclesiaste consiglia subito prima: “Sta’ lieto, o giovane, nella tua ado­­le­scenza, e il tuo cuore sia rivol­to al bene” (Eccle 11,9). Si dice giovane, in quan­to è in grado di giovare. Ricòrdati dunque, e tieni bene a mente, in questo tuo giorno, ciò che serve alla tua pace e le cose che ti piacciono, prima che venga il tempo della sofferenza, cioè del­la vecchiaia, della morte e del giudizio, prima che giunga­no i giorni, dei quali dovrai dire: non mi piacciono!

Perché verranno anche per te i giorni che non ti piaceranno. Sei piaciuto a te stesso, ma sei dispiaciuto a Dio. Verranno i giorni in cui dispiacerai a te stesso. Ricordati, ti dico, prima che si oscuri la luce del sole, prima cioè che lo splendore della prosperità mondana venga oscurata dall’ombra della morte; prima che si oscurino la luna e le stelle, cioè i sensi del corpo che nella vecchiaia si debilitano e nella morte si oscurano del tutto. Dice infatti Isaia: “Guarderà in alto e poi rivolgerà lo sguardo a terra: ed ecco la tribolazione e le tenebre, lo sfinimento e l’angoscia e la caligine che lo perseguita: e non potrà liberarsi da questa sua angoscia” (Is 8,21-22).

La tribolazione verrà dalla suggestione diabolica, le tenebre consisteranno nell’an­neb­biamento della mente, l’inerzia nel compiere le opere buone, l’ango­scia nelle cattive abitudini, e la caligine perenne nella dannazione nella geenna. Parimenti la tribolazione riguarda la vita, le tenebre la vecchiaia, lo sfinimento la malattia, l’angoscia lo spirare dell’anima, la caligine che perseguita l’irruzione dei demoni.

“Ricordati, dunque, del tuo creatore. E ritornino le nubi dopo la pioggia”. Le nubi raffigurano i predicatori, i quali fanno cadere la pioggia quando annunciano all’anima il pericolo della sua dannazione; si allontanano, quando l’anima non vuole prestar loro fede; ritornano, quando si avvera ciò hanno annunciato.

“Quando tremeranno i custodi della casa”. In questo pas­so Salomone parla sia della vecchiaia che della morte dell’uomo. Da questo punto, fino alla frase “prima che si rompa il cordone d’argento”, parla della vecchiaia dell’uo­mo, che è la messaggera della morte.

“I custodi della casa” sono le costole, che difendono gli organi interni del corpo; esse difendono le parti molli, ma quando l’uomo arriva alla vecchiaia anch’esse tremano e s’indeboliscono. “E vacilleranno anche gli uomini più forti”, cioè le gambe che sostengono tutto il corpo, anch’esse traballeranno.

“E le donne che macinano saranno oziose”: anche i denti cioè s’indeboliranno e non saranno più in grado di mastica­re il cibo. “E si oscureranno quelle che guardano dalle finestre”, cioè gli occhi si offuscheranno. “Chiuderanno le porte che danno sulla piazza”: i vecchi, che non sono più in grado di camminare, staranno seduti in casa e chiuderanno le porte per non vedere i divertimenti dei giovani: tutte queste cose diventano per loro insopportabili.

“S’indebolirà la voce di quelle che stanno macinando” perché i sensi invecchieranno, la voce sarà fioca e spenta, non potranno più procurarsi il cibo con la loro fatica, né masticarlo. “E si alzeranno al canto degli uccelli”, cioè al canto del gallo: infatti con il sangue che si raffredda, la linfa vitale che inaridisce e non concilia più il sonno, non possono più nemmeno dormire.

“E diventeranno sorde le figlie del canto”, cioè le orecchie, che traggono grande diletto dai canti e dai suoni, per l’età troppo avanzata non sentiranno più nulla e diventano sorde.

“Avranno anche paura delle alture”. Infatti i vecchi hanno paura di andare in alto con le ginocchia sconocchiate. “E hanno quindi paura della strada”, temono di cadere anche se la strada è pianeggiante. “Fiorirà il mandorlo”, cioè la testa incanutirà; “s’in­gras­serà la locusta”, cioè le gambe si gonfieranno. La locusta ha il ventre gonfio, e anche i vecchi di solito hanno le estremità infe­riori gonfie.

“Sarà disperso il cappero”: anche la libidine si raffredderà e verrà meno la funzionalità dei vari organi. Il cappero è figura della libidine in quanto è utile ai reni, e nei pressi dei reni si forma appunto la libidine.

“Perché l’uomo”, così ridotto, “se ne va alla dimora eterna”, ritorna cioè alla terra, “e quelli che piangono gireranno per la piazza”, cioè i parenti e gli amici andranno fare lamenti sul suo cadavere.

Ecco quanto grande è la tua miseria, o uomo. Di che cosa dunque ti insuperbisci?

 

11. E Salomone continua parlando della morte. “Prima che si rompa il cordone d’ar­gen­to”, ecc. Ricordati del tuo creatore prima che si rompa il cordone d’argento, prima cioè che la tua vita s’interrompa, “e la benda d’oro”, cioè l’anima che è la parte più preziosa dell’uo­mo, “si allenti” e ritorni donde era venuta. “Prima che s’infranga l’anfora”: l’anfora è l’uomo, che è fatto di terra.

“Prima che la ruota della cisterna si sfasci”. La ruota, poiché il mondo gira sempre come una ruota, si sfascia sopra la fonte o sopra la cisterna quando l’uomo, distrutto dalla morte, viene privato delle acque della concupiscenza che aveva attinto dalla cisterna delle vanità del mondo.

E osserva che nell’anfora viene simboleggiata la cupidi­gia: infatti la samaritana abbandonò l’anfora dopo aver ascoltato la predicazione del Signore (cf. Gv 4,28). Perciò quando il ricco muore in mezzo alle sue ricchezze, si può dire che l’anfora si è infranta sopra la fonte, in quanto lo sventurato muore con la sorgente della cupidigia. Nella cisterna poi è simboleggiato l’accumulo delle ricchezze. Dice infatti Geremia: “Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si sono scavati delle cisterne che non sono in grado di trattenere l’acqua” (Ger 2,13). E la ruota si sfascia sopra la cisterna quando la cupidigia dell’uomo non gli permette di abbandonare le ricchezze, e così il disgraziato muore in mezzo ad esse.

“E la polvere”, cioè il corpo, “ritorna alla sua terra, donde era stata tratta”. Al primo uomo era stato detto: “Tu sei polvere, e in polvere ritornerai” (Gn 3,19). La polvere è chiamata così perché viene spazzata via dalla forza del vento (in lat. pulvis, pulsa vi venti). “E lo spirito”, cioè l’anima, “ritorni” a Dio “che l’ha creato”: lo spirito infatti non viene trasmesso per genera­zione. Dio ha creato l’anima, nella quale ha infuso gratui­tamente delle potenze (facoltà) affinché fosse in grado di riconoscerlo come suo creatore, conoscendolo lo amasse, amandolo lo adorasse, e adorandolo meritasse di goderlo eternamente.

Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: “Vi sono poi diversità di grazie, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; e vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti” (1Cor 12,4-6).

Considera queste tre distinzioni: diversità di carismi, diversità di ministeri, diversità di operazioni. Le grazie, dice l’Apostolo, sono le virtù stesse infuse da Dio gratuitamente, cioè la fede, la speranza e simili, i cui effetti sono nei riguardi del prossimo i ministeri, e nei riguardi di sé l’opera. Dio infonde, noi ministriamo, e Dio stesso, che infonde, è poi colui che opera, che agisce.

Quando l’Apostolo dice: Spirito, Signore, Dio, intende sempre la stessa sostanza divina. È la Trinità, in tre Persone, che opera tutto in tutti. Non attribuisce tutto ad uno solo, ma opera tutto in tutti, perché ciò che uno non ha in se stesso, lo abbia in un altro, e così si mantenga la carità e l’umiltà.

A te dunque, o santissima Trinità e Unità, supplici ci rivolgiamo, perché quando verranno i giorni della sofferenza e della corruzione finale, della rottura del cordone d’argento (dell’interruzione della vita), l’anima da te creata a te ritorni, e tu l’accolga, affin­ché, liberata dall’assedio dei demoni, meriti di alzarsi in volo alla gloria della libertà dei figli di Dio.

Accordacelo tu, Dio Uno e Trino, che sei benedetto per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

III. la cacciata dal tempio dei venditori e dei compratori

 

12. “Entrato poi nel tempio, Gesù incominciò a scacciare i venditori e i compratori, dicendo loro: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera; voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri. E ogni giorno insegnava nel tempio” (Lc 19,45-47). Giovanni racconta così l’episodio: “Gesù salì a Gerusalemme e trovò nel tempio gente che vendeva pecore, buoi e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi; e ai venditori di colombe disse: Por­tate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato” (Gv 2,13-16).

Fa’ attenzione che per ben due volte si legge che il Signore scacciò dal tempio i venditori e i compratori: una volta il primo anno della sua predicazione, l’altra volta quando si avviò alla sua passione. Gesù entra nel tempio, quando ogni giorno visita la sua chiesa e osserva gli atti di ciascuno, e ne scaccia coloro che, frammisti ai suoi santi, o fingono di fare il bene o fanno apertamente il male.

Nei buoi, che arano, sono raffigurati i predicatori della dottrina celeste. Vendono buoi coloro che predicano non per amore di Dio ma per il guadagno temporale. Le pecore innocenti offrono i loro velli di lana a coloro che se ne dovranno rivestire. In esse sono raffigurate le opere di purezza e di carità, che vengono vendute quando si compiono per essere lodati dagli uomini. Lo Spirito apparve in forma di colomba (cf. Lc 3,22); e quindi nella colomba è simboleggiato lo Spirito che viene venduto dai simoniaci. E questo è un peccato gravissimo.

Si narra negli Atti che i Giudei domandavano che cosa dovevano fare; ad essi fu detto: Fate penitenza (cf. At 2,38). Invece al mago Simone che domandava la stessa cosa, fu riposto: Fa’ penitenza, chissà che il Signore voglia perdonarti (cf. At 8,22). Prestano soldi in chiesa coloro neppure fingono di servire le cose celesti, ma si danno apertamente a quelle terrene. Tutti costoro saranno estromessi dalla sorte dei santi (cf. Col 1,12): essi fingono di fare il bene, oppure compiono apertamente il male, ed ora vengono flagellati con le corde dei peccati perché si correggano; ma se non si correggeranno, alla fine con le stesse saranno legati. E scaccia anche le pecore e i buoi perché smaschera la vita corrotta e il falso insegnamento di tali persone. Getta a terra il denaro e rovescia i banchi perché alla fine saranno distrutte proprio quelle cose che esse hanno amato. E osserva che mentre il Signore scacciava dal tempio i venditori e i compratori, emanava dai suoi occhi come dei lampi di luce, e i sacerdoti e i leviti, spaventati, non potevano far nulla contro di lui.

 

13. E su questo abbiamo una concordanza nel libro della Sapienza, dove leggiamo: La sapienza “per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa. Essa è soffio ardente della potenza di Dio ed emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente: per questo nulla di contaminato s’infil­tra in essa. È splendore della luce eterna e specchio senza macchia della maestà di Dio e immagine della sua bontà. E sebbene unica, essa può tutto, e pur rimanendo se stessa tutto rinnova” (Sap 7,24-27).

Cristo, sapienza e potenza di Dio, penetra ovunque: in cielo appaga gli angeli con la visione di sé, in terra attende misericordioso i peccatori che facciano penitenza, nell’inferno tormenta i demoni e i peccatori che non hanno voluto sperare in lui. Penetra, ripeto, per la sua purezza, perché “egli è luce, e in lui non ci sono tenebre” (1Gv 1,5). È un soffio ardente che scioglie il gelo della nostra infedeltà, essendo la potenza stessa di Dio Padre; è sua emanazione, cioè è splendore della sua gloria, con lui consustanziale, uguale e coeterno; emana dallo splendore dell’Onnipotente, essendo con l’On­ni­potente un’unica luce; è emanazione genuina perché al Sommo Bene non si unisce alcun male, e quindi nulla di contaminato s’infiltra in essa, perché è semplice e bene in eterno.

“È splendore della luce eterna e specchio” nel quale si vede il Padre; infatti dice: “Chi vede me, vede anche il Padre mio” (Gv 14,9). È “senza macchia” perché “non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca” (1Pt 2,22). “È immagine della sua bontà”, cioè sua personifi­cazione perfetta, essendo con lui la bontà stessa: “e sebbene unica” con il Padre, “tutto può” perché onnipoten­te; e pur “restando se stessa”, cioè immutabile, “tutto rinnova” regolando e ordinando ogni cosa. Non c’è quindi da meravigliarsi se ebbe il potere di scacciare dal tempio venditori e compratori, e se quei sacerdoti e leviti non ebbero alcuna possibilità di opporglisi.

Altra applicazione. La Sapienza di Dio Padre fu soffio ardente nella sua incarnazione. Allora infatti passò l’inverno dell’infedeltà, cessò la pioggia della persecu­zione diabolica. I fiori dell’eterna promessa apparvero nella nostra terra (cf. Ct 2,11-12). Fu emanazione della gloria nel compimento dei miracoli, fu splendore di luce eterna nella sua risurrezione, sarà per noi specchio senza macchia nell’eterna beatitudine, nella quale ci specchiere­mo in lui come egli è, e la sua Sapienza rifulgerà anche in noi. Dice Agostino: Come sarà quell’amore, quando ognuno di noi si vedrà rispecchiato nel volto dell’altro come ora ci guardiamo vicendevolmente in faccia?.

Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza, a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza”, ecc. (1Cor 12,7-8). “A ciascuno”: i doni del­lo Spirito sono distribuiti variamente, e non sempre vengono dati a seconda dei meriti di un singolo, ma per l’utilità e per l’edificazione della chiesa. E coloro che li vendono o li comperano devono essere scacciati dalla chiesa, come Cristo scacciò i venditori e i compratori.

 

14. “La mia casa si chiamerà casa di preghiera: voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri”. Dice Salomone: “Entrato in casa riposerò con lei”, cioè con la sapienza; “perché la sua compagnia non dà amarezza, né fastidio la sua convivenza, ma contentezza e gioia” (Sap 8,16).

L’uomo sollecito delle cose dello spirito, dopo aver accudi­to alle necessità materiali, e dopo essersi liberato da pensieri e preoccupazioni, rientra nella sua casa, cioè nella sua coscienza, e chiusa la porta dei sensi, riposa con la sapienza dedicandosi alla contemplazione divina, nella quale assapora la dolcezza della quiete spirituale.

Infatti la compagnia della sapienza non dà amarezza, scaccia cioè il piacere del peccato: il palato che ha gustato la sapienza non è più toccato da nessun veleno. E la sua convivenza non procura fastidi o nausea; infatti i piaceri dello spirito acuiscono il desiderio, e più si gustano più avidamente si bramano: in essi c’è solo conten­tezza e gioia. Beata quella casa, felice quella coscienza che ha conosciuto il sapore della sapienza, e nella quale riposa la stessa Sapienza, che dice: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera”.

La casa si chiama in lat. domus, e viene dal greco dòma, che vuol dire anche tetto. Considera che la casa consta di tre parti: le fondamenta, le pareti e il tetto. Nelle fondamenta è raffigurata l’umiltà, nelle pareti l’insieme delle virtù e nel tetto la carità. Dove sono riunite queste tre “parti”, lì c’è il Signore che dice: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera”. La preghiera si chiama in lat. oratio, come dire oris ratio, la ragione, cioè il ragionamento della bocca. Considera che per la preghiera sono necessarie sei disposizioni: il profumo della devozione interiore, il gradimento della tribolazione, le lacrime della compunzione, la mortificazione della carne, la purezza della vita e l’elemo­sina; e queste sei disposizioni sono indicate nella Genesi, quando Giacobbe disse ai suoi figli: Andate e portate a quell’uomo, cioè a Giuseppe, dei doni, cioè balsamo, miele, incenso, mirra, resina e mandorle (cf. Gn 43,11).

Il balsamo è il profumo della devozione interiore; infatti dice l’Ecclesiastico: “Come balsamo non miscelato è il mio profumo” (Eccli 24,21): la devozione deve essere genuina, non contaminata da doppiezza di intenzioni.

Il miele raffigura il gradimento, l’accoglimento riconoscente della tribolazione. Dice il Deuteronomio: Succhiaro­no miele dalla rupe (cf. Dt 32,13). La rupe è figura della durezza dell’avversità o della tribolazione. Infatti dice Giobbe: “Con la durezza delle tue mani mi perseguiti” (Gb 30,21). Succhia miele dalla pietra colui che accoglie la durezza delle avversità nella gioia dello spirito. Dice la Storia Naturale che le api, disposte sopra gli alveari, succhiano il miele che è nei favi, e si dice che se non facessero questo, il miele che sta nei favi si guasterebbe e da esso si produrrebbero dei ragni. Il favo è fatto di cera e contiene il miele; si chiama favo perché viene mangiato piuttosto che bevuto: la parolafavo infatti richiama il verbo greco fagèin, mangiare.

Le api raffigurano i giusti, che stanno sopra gli alvea­ri, che affliggono cioè e umiliano il proprio corpo e succhiano ciò che c’è nel favo. Osserva che come nel favo ci sono la cera e il miele, così nella vita del giusto c’è il miele della dolcezza interiore e la cera delle avversità esteriori; e la cera si scioglie e svanisce di fronte al fuoco, cioè alla presenza dell’amore di Dio.

Si fermino, vi prego, le api sopra gli alveari e succhino ciò che c’è nei favi, affinché per colpa dell’insofferenza e dell’amarezza del cuore non si guasti il miele della dolcezza interiore e si generi il ragno. Il ragno, chiamato in lat. aranea da aer, aria, e neo, tessere, perché fabbri­ca (tesse) i fili nell’aria, raffigura la superbia del cuore la quale, essendo di origine celeste, fa ogni sforzo per penetrare nella mente di chi è dedito alle cose celesti. Ahimè! Quando si guasta il miele, viene prodotto il ragno: dalla distruzione della dolcezza interiore viene generato il ragno della superbia.

Parimenti, l’incenso raffigura la preghiera. Sta scritto: “Salga la mia preghiera come incenso al tuo cospetto” (Sal 140,2). L’incenso è chiamato in lat. thus, dal termine greco Theòs, Dio, al quale viene offerto. Osserva che l’in­censo lo produce solo l’Arabia, nome che s’interpreta “sacra”. In Arabia c’è un albero, chiamato lìbano, che assomiglia nella corteccia e nelle foglie al lauro; quest’albero emette ogni tanto un succo come di mandorla, che viene rac­colto due volte all’anno, in autunno e in primavera. Ma al­la raccolta autunnale ci si prepara durante il caldo dell’e­state: incisa la corteccia ne sgorga una schiuma grassa che, a seconda della natura del luogo, si secca e s’indurisce. Questo è l’incenso bianco.

La seconda raccolta si prepara d’inverno, dopo aver inciso la corteccia: in questo tempo il liquido sgorga rosso, ma non è neppure paragonabile al precedente. Quello che esce da alberi giovani è più bianco, ma quello degli alberi vecchi è più profumato. Tutti i padroni di un boschetto di piante di incenso si chiamano in arabo “sacri”; e quando fanno la raccolta in questi boschetti o incidono le piante, non prendono parte a funerali, né si contaminano con contatti di donne.

 

15. L’Arabia è figura della mente santa del giusto, nella quale c’è e ci dev’essere il lìbano, che s’interpreta “bianchezza”; ci dev’essere cioè l’illibatezza della vita, dalla quale proviene l’incenso della genuina preghiera. Dice l’Ecclesiastico: “Come un libano non inciso riempii di profumo la mia abitazione” (Eccli 24,21).

Il libano raffigura coloro, la cui vita è spesa tutta nella preghiera. Libano non inciso devono essere tutti i religiosi, soprattutto perché la loro mente non sia divisa durante la preghiera, non abbiano cioè una cosa sulle labbra e un’altra nel cuore: la mente divisa non ottiene nulla. Devono quindi adoperarsi per essere integri, affinché la lingua sia in accordo con il cuore: solo così sarà alle orec­chie del Signore degli eserciti una soave melodia.

La raccolta dell’incenso in autunno raffigura la devozione nella preghiera dei proficienti; invece la raccolta della primavera raffigura la preghiera degli incipienti, di quelli cioè da poco convertiti. Sia gli uni che gli altri, dopo incisa la corteccia, emettono la gomma, giacché dai loro cuori compunti si innalza a Dio la preghiera. Ma i pri­mi vengono incisi nel caldo dell’estate, i secondi in inverno; i primi emettono un incenso bianco, i secondi rosso.

Infatti i proficienti, nel fervore del desiderio cele­ste, fanno la preghiera con una devozione candida (innocente), unita alle lacrime della compunzione. Gli incipienti invece, nell’inverno della loro tentazione, ancora tormentati dal gelo della suggestione diabolica, fanno una preghiera dolorosa e quasi insanguinata, unita all’amarezza delle lacrime e dei sospiri. Infatti il faraone vedendosi di­sprezzato, esce in escandescenze e imprecazioni. L’incenso degli alberi giovani è candido, ma quello degli alberi vecchi è più profumato. Infatti deve precedere la santità della vita perché possa seguire il profumo della buona reputazione. Quando incominci, devi applicarti soprat­tutto a vivere santamente; quando progredirai, penserai al profumo della buona reputazione. E chi vuole raccogliere e offrire a Dio l’incenso della preghiera, si guardi bene dal prender parte ai funerali del rancore e dell’odio – “chi odia il suo fratello è un omicida” (1Gv 3,15) –, e non si macchi frequentando donne o fermandosi su pensieri cattivi.

Parimenti la mirra, così chiamata da amarezza, raffigura la mortificazione della carne, della quale è detto nel libro di Giuditta, che essa “lavò il suo corpo e lo cosparse di mirra purissima” (Gdt 10,3). Chi si confessa deve, nella confessione, lavarsi, e quindi ungersi con la mortificazione del corpo, eseguendo la penitenza imposta dal confessore in espiazione del suo peccato. Fu detto a Daniele: “Fin dal primo giorno in cui per ottenere intelligenza hai stabi­lito nel tuo cuore di affliggerti al cospetto del tuo Dio, le tue parole sono state ascoltate” (Dn 10,12). “Al cospetto di Dio” – è detto – e non degli uomini.

 

16. Ancora: la resina è la lacrima delle piante, e raffigura la lacrima che esce dall’intimo del cuore, della quale il Signore dice al re Ezechia: “Ho sentito la tua preghiera e ho visto la tua lacrima” (Is 38,5). E di nuovo: “Ti inonderò con le mie lacrime, Chesbon ed Eleale!” (Is 16,9). Chesbon s’interpreta “cingolo di tristezza” o anche “pensiero di mestizia”; Eleale s’interpreta “salita”: raffigurano le anime dei penitenti che si cingono con il cingolo della tristezza e della mestizia, per poter salire con minore difficoltà alla casa del Signore.

Dice Isaia: “Per la salita di Luchit salirà piangendo; sulla via di Coronaim manderanno grida strazianti” (Is 15,5). Luchit s’interpreta “guance”. Per la salita di Luchit, cioè su per le guance salirà il pianto al Signore. Coronaim s’interpreta “apertura della mestizia”, e sta a indicare l’occhio, attraverso il quale esce il lamento del lutto, che sale al Signore.

Dice l’Ecclesiastico: “Le lacrime della vedova non scen­dono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza con­tro colui che gliele fa versare? Ma dalle sue guance sali­ranno fino al cielo, e il Signore, che esaudisce, non le vedrà certo con piacere” (Eccli 35,18-19). Il Signore dunque inonda con le lacrime della sua passione le anime dei penitenti: egli con forti grida e lacrime offrì se stesso a Dio Padre (cf. Eb 5,7). Le inonda, ripeto, perché, dimentichi delle cose temporali, tendano a quelle future (cf. Fil 3,13).

In fine il mandorlo, che fiorisce in inverno, è figura dell’elemosina, per mezzo della quale uno deve fiorire nell’inverno della vita presente.

Leggiamo nell’Ecclesiaste: “Fiorirà il mandorlo, la locusta s’ingrasserà e il cappero sarà disperso”, ecc. (Eccle 12,5).

Vedi per questo passo la terza parte del sermone sul vangelo “C’era un uomo ricco che aveva un fattore”, della IX domenica dopo Pentecoste.

E nell’Ecclesiastico: “Figlio, non defraudare l’elemosina al povero” (Eccli 4,1). A ragione è detto “non defraudare”, perché la frode si compie rispetto alle cose degli altri, secondo quel detto: È provato che ruba le cose degli altri, chi tiene per sé più di quanto gli è necessario. L’elemosina è così chiamata da Heli, Dio, e moys, acqua (forse in egiziano antico]: quindi helimòsina, acqua di Dio. Elemosina è anche una parola greca, che significa misericordia (da elèin, aver pietà). Fortunata quella casa, beata quella dispensa, nella quale vengono riposti i sei doni sopra descritti, dai quali proviene la vera e genuina preghiera, capace di salire fino agli orecchi di Dio e di ottenere ciò che domanda. Giusta­mente quindi il Signore dice: “La mia casa si chiamerà casa di preghiera”.

E su questa casa abbiamo la concordanza nell’introito della messa di oggi: “Dio sta nel suo luogo santo, Dio fa abitare nella sua casa coloro che vanno d’accordo; egli stesso darà forza e vigore al suo popolo” (Sal 67,6-7.36). Il luogo santo e la casa sono figura della mente del giusto. Del “luogo” dice Ezechiele: “Sentii dietro di me la voce di un grande sommovimento: Benedetta la gloria del Si­gnore nel suo luogo santo” (Ez 3,12). Questa “voce di gran­de sommovimento (lett. commozione) simboleggia la contrizione del cuore, per mezzo della quale la mente dell’uomo diventa “luogo di Dio”, dal quale Dio viene benedetto e glorificato. E della “casa” il Signore dice: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera”. In questa casa fa abitare quelli che sono in accordo, cioè la ragione e la sensualità, in modo che la sensualità sia soggetta alla ragione, e la ragione obbedisca al suo superiore, cioè a Dio. “Egli stesso darà forza e vigore al suo popolo” affinché non si esalti nella prosperità e non si deprima nelle avversità, secondo ciò che dice Isaia: “Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato” (Is 40,29).

 

17. “Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri”. Dice Geremia: “È diventata forse ai vostri occhi una spelonca di ladri questa casa, nella quale viene invocato il mio nome?” (Ger 7,11). La coscienza dell’uomo diventa una spelonca di ladri, quando si avvera in essa ciò che dice Isaia: “Vi riposeranno le bestie; le loro case si riempiranno di draghi, vi abiteranno gli struzzi e vi danzeranno i satiri; nei loro palazzi si manderanno richiami i gufi, e nei templi dei loro piaceri le sirene” (Is 13,21-22).

Le bestie (vastiae) sono chiamate così da vastare, devastare, perché devastano, straziano la preda con morsi e unghie. Il drago è il rettile più grande di tutti gli animali senza piedi; è chiamato drago, perché uscito (lat. tractus) dalle spelonche, si alza nell’aria e l’atmosfera è pertur­bata dal suo volo; la sua forza non è nei denti ma nella coda. Il drago marino ha nelle branche un pungiglione rivolto verso la coda. Lo struzzo, il cui nome in greco (stroutos) indica un animale che ha le penne come un uccello, ma non è in grado di alzarsi molto da terra e volare; non cova le uova: le lascia per terra e vengono portate a maturazione solo dal calore della polvere. I satiri, o fauni, detti anche ìncubi, sono esseri somiglianti all’uomo nella parte superiore, e alle bestie in quella inferiore. I greci li chiamano panas (divinità dei boschi), e dicevano che i satiri avevano la barba, il muso rosso acceso e gli zoccoli come le capre. I gufi sono uccelli notturni, chiamati in lat. ùlula dal verso che emettono, e sono chiamati dalla gente anche allocchi o civette. Le sirene sono animali marini micidiali – almeno così si racconta – che hanno forma umana dalla testa fino all’ombe­lico, e il resto del corpo fino ai piedi a forma di volati­li; fanno risuonare voci e canti dolcissimi, in modo da at­tirare a sé con l’incanto della voce naviganti anche molto lontani; quindi, dopo averli immersi in un sonno profondo, li straziano. In realtà erano delle prostitute che riducevano in miseria i loro frequentatori. Si dice che le sirene avessero ali e unghie, poiché l’amore della lussuria vola e ferisce.

Osserva che nelle bestie sono indicate la superbia e la rapina; nei draghi la velenosa malizia dell’ira e dell’invidia; negli struzzi la falsità degli ipocriti; nei satiri l’avarizia e la simonia; nei gufi la detrazione e l’adulazione; nelle sirene la gola e la lussuria.

I rapinatori con la loro superbia distruggono, quali bestie feroci, i poveri, gli orfani e le vedove. Ezechiele, parlando del potente superbo di questo mondo, dice: “Prese uno dei suoi leoncini”, cioè uno dei suoi figli, “e ne fece un leone: imparò a cacciare la preda; imparò a fare delle vedove, cioè a divorare gli uomini; e il suo ruggito dava la misura della sua forza” (Ez 19,5-7).

Così gli iracondi e gli invidiosi, come draghi, usciti dalla spelonca della loro coscienza – non possono infatti restarvi rinchiusi – riempiono l’aria di parole, l’agitano con le grida, la contaminano con le bestemmie; la forza della loro malizia non sta tanto nei denti, per via delle bestemmie, quanto piuttosto nella coda, a motivo delle ingiurie e delle vendette che compiono con le loro mani.

Anche gli ipocriti, come struzzi, ostentano l’apparenza della santità, ma avidissimi della gloria terrena, non sono in grado di levarsi da terra e spiccare il volo. Lo struzzo trascura di covare le uova, e così l’ipocrita lascia andare in rovina tra le cose della terra i figli, cioè i meriti, che aveva acquistato dopo la predicazione. Dice infatti Giobbe: “Le penne dello struzzo sono come quelle della cicogna e dell’avvoltoio; esso abbandona alla terra le sue uova. For­se tu le riscalderai nella polvere? Esso dimentica che un piede può schiacciarle e una bestia selvatica romperle. Tratta duramente i figli, come non fossero suoi” (Gb 39, 13-16)Uova suona come in lat. uvida, umide, perché sono piene di liquido. Umido è ciò che ha del liquido all’esterno, uvido ciò che lo ha all’interno. Le uova raffigurano i neoconvertiti che hanno nel loro cuore la linfa della compunzione: il Signore li riscalda nella polvere, vale a dire nell’umiltà e nella penitenza, perché possano produrre frutti di buone opere.

Il prelato ipocrita, tutto preso dalla gloria terrena, dimentica che i piedi degli affetti carnali possono calpestare i suoi sudditi, e la bestia selvatica, cioè il diavolo, può schiacciarli; ma egli li tratta con durezza, come non fossero figli suoi. Infatti è un mercenario, e quindi non gliene importa niente né delle uova né delle pecore (cf. Gv 10,13) – in lat. de ovis et de ovibus. Così gli avari e i simoniaci danzano oggi e giocano, come satiri e fauni, nella chiesa di Cristo, rubicondi in volto, cappati e panciuti: i loro piedi, cioè i loro senti­menti e i loro costumi sono caprini, cioè puzzolenti; e di questa puzza ne dà prova la lurida spelonca della loro coscienza.

Anche i detrattori e gli adulatori, come gufi nella notte, cioè in assenza di coloro di cui dicono male, mandano paurosi ululati con la falsa lode con cui adulano.

I golosi e i lussuriosi, come sirene, straziano l’anima propria, divorano le sostanze e fanno precipitare insieme a sé, nel mare del­l’eterna dannazione, quelli che riescono a sedurre. Ecco che così si riempie di tutti questi vizi, dall’alto in basso, la casa, cioè la chiesa di Dio, che in questo modo diventa una spelonca di ladri, e la coscienza dell’uo­mo, che diventa una caverna di demoni. E perciò il Signore dice: “Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!”.

Su dunque, fratelli carissimi, umiliandoci e piangendo supplichiamo il Signore Gesù Cristo di scacciare dalla sua chiesa i venditori e i compratori simoniaci; di liberare la casa della nostra coscienza, che prima era sua dimora, dai vizi su descritti, e ne faccia una casa di fervente preghiera, affinché possiamo così giungere alla casa della Gerusalemme celeste.

Ce lo conceda egli stesso, che insieme al Padre e allo Spirito Santo vive e regna nei secoli eterni. E ogni coscienza pura risponda: Amen, alleluia!

 

 

 

DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE

Temi del sermone

 

– Vangelo della domenica XI dopo Pentecoste: “Due uomini salirono al tempio”; si divide in due parti.

– Anzitutto sermone sulla natività del Signore, sui quattro cavalli del sole e il loro significato: “Il sole brucia i monti tre volte tanto”.

– Parte I: Quattro specie di superbia: “Due uomini salirono al tempio”.

– Sermone contro il povero orgoglioso, contro il ricco bugiardo e contro l’anziano stolto: “Tre tipi di persone io detesto”.

– Sermone morale sulla misera condizione del nostro corpo: “Tre tipi di persone io detesto”.

– Sulla falsità del mondo: “Il ricco bugiardo”.

– La stoltezza del diavolo e l’obbedienza di Cristo: “L’anziano stolto”.

– Parte II: Sermone sulle sei disposizioni necessarie al penitente; “Il pubblicano, da lontano, non osava alzare gli occhi”.

– Sulla concordia, sui cinque sensi del corpo che sono cinque fratelli: “Di tre cose si compiace il mio spirito”.

– Sermone morale sull’umiltà: “Chi si esalta”.

– Sermone sul vero penitente e sulla natura delle api: “Il ricordo di Giosia è una mistura di vari profumi”.

– Sull’umiltà e sulla natura del cammello: “Chi si umilia”, e “Uscii di notte per la porta della Valle”.

 

esordio - sermone sulla natività del signore

 

1. In quel tempo: “Ad alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri, Gesù disse questa parabo­la: Due uomini salirono al tempio” (Lc 18,9-10).

Leggiamo nell’Ecclesiastico: “Il sole brucia i monti tre volte tanto, lanciando raggi infuocati, e facendo brillare i suoi raggi abbaglia gli occhi”(Eccli 43,4).

Il sole è chiamato così perché, dopo aver fatto scomparire con il suo fulgore tutte le altre stelle, appare solo nel cielo. Il sole è raffigurato con quattro cavalli, e cioè: Piroide, colui che splende; Eoo, colui che riscalda; Etone, colui che arde; Flegone, colui che tempera il calore. Il sole infatti ha queste quattro proprietà: splende al suo levarsi, riscalda quando sale nel cielo, arde a mezzogiorno ed è temperato al tramonto. Il sole è figura di Gesù Cristo, che abita in una luce inaccessibile (cf. 1Tm 6,16); alla sua luce ogni altra luce è tenebra; al paragone della sua giustizia, tutta la giustizia dei santi è come il panno di una donna immonda (cf. Is 64,6).

I quattro cavalli di questo Sole sono gli evangelisti Matteo, Marco, Giovanni e Luca. Matteo fu come un cavallo splendente e viene raffigurato con volto di uomo, perché incomincia il suo vangelo scrivendo dell’uomo: “Libro della genealogia di Gesù Cristo” (Mt 1,1). Marco è colui che riscalda: è raffigurato da un leone, che è di natura focosa, perché il suo vangelo incomincia con le parole: “Voce di uno che grida nel deserto”(Mc 1,3). Giovanni, colui che arde, è raffigurato da un’aquila perché con occhi non abbagliati, innalzato al di sopra di sé, quale aquila fissò lo sguardo sul Sole, quando disse: “In principio era il Verbo” (Gv 1,1). Luca, colui che tempera il calore, è raffigurato dal vitello, che viene immolato nel sacrificio.

Gesù Cristo fu sole splendente nella sua natività; fu sole che riscalda nella sua predicazione, con la quale ruggì come un leone: “Fate penitenza!” (Mt 3,2); fu sole ardente nel compimento dei miracoli, con i quali dimostrò di essere il vero Dio; temperò il calore nella sua passione, e come vittima immolata al Padre, tramontò nella morte.

Similmente questo sole, quando sorge per il peccatore, splende per fargli conoscere il suo peccato, lo riscalda nel dolore per il peccato commesso, lo brucia nel fervore della riparazione e lo tempera nella mortificazione e nel correggersi dei suoi vizi.

Di questo sole dice dunque l’Ecclesiastico: “Il sole brucia i monti tre volte tanto”. Il monte è chiamato così perché non ha movimento (in lat.mons, non motus). I monti sono figura dei superbi di questo mondo, dei quali dice il salmo: “I monti fondono come cera davanti al Signore”(Sal 96,5), e questo si avvera quando il sole li brucia tre volte tanto, cioè con la contrizione, con la confessione e con la riparazione. Con questo incendio desiderava essere bruciato il Profeta, quando diceva: “Brucia i miei reni e il mio cuore” (Sal 25,2). Il cuore si brucia con la contrizione, la lingua con la confessione e i reni con la riparazione.

“Il sole lancia raggi infuocati”, cioè li emette da se stesso. I raggi del sole sono la povertà e l’umiltà, la pa­zienza e l’obbedienza di Gesù Cristo. Tutti gli esempi che ci ha dato e tutte le parole di salvezza che ci ha rivolto sono tanti raggi infuocati che ha lanciato verso di noi per infiammarci di amore verso di lui.

E continua: “E con il fulgore dei suoi raggi abbaglia gli occhi”. Con i raggi della sua povertà e della sua umiltà acceca gli occhi dei superbi, affinché vedendo non comprendano (cf. Gv 12,40). Infatti è come un collirio che dapprima disturba l’occhio malato e quasi lo rende cieco, ma poi lo rischiara e lo rende luminoso. Perciò egli stesso dice con le parole di Giovanni: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi” (Gv 9,39). E ancora: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato” – perché cerchereste il collirio che toglie ogni peccato –; “ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41).

Da questo sole fu incendiato, bruciato e accecato quel pubblicano, vero penitente, del quale dice il vangelo di oggi: “Due uomini salirono al tempio”, ecc.

 

2. In questo vangelo sono posti in evidenza due atteggiamenti: l’arroganza del fariseo e il pentimento del pubblicano. Il primo, quando dice: “Due uomini salirono al tempio”, ecc. Il secondo, quando aggiunge: “Il pubblicano invece, in piedi da lontano”, ecc. In questa domenica, e nella prossima, vedremo di concordare alcuni passi del libro dell’Eccle­siastico con le parti di questo vangelo e di quello della domenica prossima.

Nell’introito della messa di oggi si canta: “O Dio, vieni in mio aiuto” (Sal 69,2). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Paolo ai Corinzi: “Fratelli, vi rendo noto il vangelo che vi ho annunziato”. Lo divideremo in due parti e ne vedremo la concordanza con le due parti del vangelo. Prima parte: “Fratelli, vi rendo noto”. Seconda parte: “Il sono l’infimo degli apostoli”.

 

I. l’arroganza del fariseo

 

3. “Due uomini salirono al tempio per pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo” (Lc 18,10-12).

Consideriamo anzitutto, come nota la Glossa, che ci sono quattro specie di superbia: quando uno attribuisce a se stesso il bene che ha; oppure, anche se pensa che questo bene è dato da Dio, crede che gli sia stato dato per i suoi meriti; oppure quando si vanta di avere ciò che non ha; e infine quando, pieno di disprezzo per gli altri, vuol essere ammirato lui solo per quello che ha. A lui si può applicare il detto: Si gonfiano da sé per i propri meriti, pensando, a torto, di averne più degli altri (autore ignoto).

Il fariseo era affetto da questa peste: uscì dal tempio non giustificato perché attribuì a se stesso il merito dei benefici divini, e si stimò migliore del pubblicano. Ecco il leone morto e il cane vivo, dei quali parla Salomone: “Meglio un cane vivo che un leone morto” (Eccle 9,4), vale a dire: meglio l’umile pubblicano che il superbo fariseo.

Osserva che l’osso del collo del leone è di un sol pezzo, non è frazionato o formato di anelli, e nelle sue ossa non c’è il midollo. Le ossa del leone sono di una particolare durezza, maggiore di quella di tutti gli altri animali, e quindi, quando si sbattono uno contro l’altro, sprizzano scintille. Parimenti il collo del superbo non è formato di anelli, non è cioè flessibile. Dice Giobbe: “Ha steso contro Dio la mano e ha osato farsi forte contro l’Onnipotente. Correva contro Dio con il collo eretto e armato della sua dura cervice” (Gb 15,25-26). “O alto albero, piega i tuoi rami, allenta le tue rigide fibre, si attenui quella durezza che ti ha dato la natura” (Breviario Romano, Inno delle Lodi del Tempo di Passione).

O superbo fariseo, “Che cos’è che ti riempie di orgoglio il cuore – come dice Giobbe – e hai gli occhi assorti come immerso in profondi pensieri? Che cosa insuperbisce il tuo spirito contro Dio, sì da proferire con la tua bocca tali parole?” (Gb 15,12-13). Ti fa dire cioè con il fariseo: “Non sono come gli altri uomini”. “Che cos’è l’uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato da donna? Ecco, neppure i cieli sono puri al suo cospetto. Quanto meno un essere abominevole e corrotto come l’uomo” (Gb 15,14-16). “Ecco, neppure coloro che lo servono sono sicuri, ed egli trova delle macchie anche nei suoi angeli. Quanto più chi abita in case di fango e nella polvere ha il fondamento” (Gb 4,18-19). E il superbo non ha neppure il midollo della compunzione e della misericordia: le sue parole sono in contrasto con le sue opere, si scontrano tra loro e da questo scontro sprizza il fuoco dell’arroganza, dell’ira e della vanaglo­ria.

Leggiamo infatti nel libro dei Giudici: “Esca un fuoco dal rovo, e divori i cedri del Libano” (Gdc 9,15). Il rovo è una specie di cespuglio spinoso, molto fitto e pericoloso, e raffigura il superbo, carico delle spine delle ricchezze e dei peccati: da esso proviene il fuoco della superbia, che divora tutti i cedri del Libano, cioè tutte le opere buone che compie, quelle appunto che elenca: “Digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo”, ecc. E Gregorio commenta: A che serve che tutta la città sia custodita, se poi si dimentica un’apertura per la quale entrano i nemici? Parimenti, quando siamo orgogliosi della perfezione della nostra vita, mostriamo con questo che non siamo neppure agli inizi del cammino verso la perfezione. Dice l’Ecclesiastico: “Non ti insuperbire quando compi il tuo lavoro” (Eccli 10,29). “Ogni superbo e arrogante è un abominio davanti al Signore” (Pro 16,5).

Giustamente, quindi, è detto del leone morto: “Il fari­seo, stava ritto in piedi”, con il collo eretto e rigido. Fariseo s’interpreta “separato”: infatti stimandosi giusto, si teneva separato dal pubblicano, dicendo: “Non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri”. Che cosa vuol di­re “gli altri uomini”, se non tutti, eccetto lui? Come dicesse: Io solo sono giusto, tutti gli altri sono peccatori.

 

4. Su questo abbiamo una concordanza nell’Ecclesiastico: “Tre tipi di persone detesta la mia anima, e la loro vita è per me un grande orrore: un povero superbo, un ricco bugiardo e un vecchio stolto e privo di senno” (Eccli 25,3-4). Si dice superbo, perché va al di sopra (lat. super vadens); bugiardo, in lat. mendax, è colui che inganna la mente altrui; vecchio, è colui che non conosce se stesso, in lat. senexse nesciens: infatti vaneggia a motivo della tarda età; oppure anche che soffre di una diminuzione di sentimenti, poiché per l’eccessiva vecchiaia diviene insipiente. I medici (lat. physici) affermano che l’età dei bambini e quella dei vecchi ha delle analogie: in quelli infatti il sangue non è ancora del tutto caldo, in questi è ormai freddo.

Considera che questi tre tipi, odiosi a Dio, si ritrovano in questo fariseo, e anche in tutti i superbi. Il fariseo era un povero superbo: povero, poiché attraverso l’apertura che aveva dimenticata, erano entrati i ladri e avevano rubato tutti i suoi beni; superbo, perché innalzandosi al di sopra di sé, si stimava migliore di quanto non fosse. Il superbo poi è povero perché manca delle ricchezze dell’umiltà, e chi manca di umiltà si trova nella più grande miseria.

Il fariseo era anche un ricco bugiardo. Ricco, quando diceva: “Digiuno due volte la settimana”; bugiardo quando premise: “Non sono come gli altri uomini”. La stessa cosa fanno i religiosi del nostro tempo, che sono ricchi per l’apparenza di santità, ma bugiardi nell’orgoglio del loro spirito: dicono con Elia: “Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, perché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti: sono rimasto solo, ed essi tentano di togliermi la vita” (3Re 19,10). Costoro, che sono convinti di essere i soli a servire il Signore e a prostrarsi davanti a lui, ascoltino che cosa risponde il Signore: “Io mi sono risparmiato in Israele settemila persone, le cui ginocchia non si sono piegate davanti a Baal” (3Re 19,18).

Fratello, da Nazaret può mai venire qualcosa di buono? (cf. Gv 1,46). Il nostro Dio non è soltanto il Dio dei monti, ma anche il Dio delle valli(cf. 3Re 20,28). Egli dice nel Cantico: “Io sono il fiore del campo e il giglio delle convalli” (Ct 2,1). Dio abita nel più alto dei cieli, e tuttavia volge il suo sguardo agli umili (cf. Sal 137,6).

Il fariseo era anche un vecchio stolto: vecchio, perché non conosceva se stesso (lat. senescit, invecchia; se nescit, ignora se stesso), aveva perduto i sentimenti, e non sapeva quello che diceva. Infatti era salito al tempio per pregare e non per lodare se stesso: incominciò dalla lode di sé, egli che doveva invece incominciare dalla preghiera al Signore. Alcuni fanno la stessa cosa con la loro predi­cazione: come prologo, incominciano a tessere le proprie lodi. La lode nella propria bocca insudicia (cf. Eccli 15,9). Sia la bocca degli altri a lodarti, e non la tua (cf. Pro 27,2).

 

5. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: “Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato; altrimenti avrete creduto invano” (1 Cor 15,1-2). Il vangelo che Cristo e gli Apostoli hanno predicato è l’umiltà. “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Questo insegnamento i discepoli l’hanno impara­to da lui e l’hanno trasmesso agli altri. Paolo, nome che s’interpreta “umile”, dice appunto: “Vi rendo noto il vangelo, nel quale restate saldi, e dal quale avete anche ricevuto la salvezza”. Dove c’è l’umiltà c’è anche la stabilità, la sicurezza e la salvezza; il fariseo che non aveva l’umiltà, andò in rovina, e mentre si giustificava si rese peccatore. Chi conserva l’umiltà si salva, chi non conserva l’umiltà, vana è la sua fede e fatica invano; e poiché è con l’umiltà che si arriva alla gloria, è proprio questa epistola, nella quale si ricorda la morte di Cristo e la sua risurrezione, che si legge oggi, insieme con il vangelo nel quale è detto: “Chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11; 18,14). Cristo si è umiliato fino alla morte (cf. Fil 2,8), e fu esaltato nella risurrezione.

Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il Signore nostro Gesù Cristo di tenere lontana da noi la superba presunzione del fariseo e di imprimere nei nostri cuori il vangelo della sua umiltà, perché possiamo così salire al tempio della gloria nella risurrezione finale, e meritiamo di essere collocati alla sua destra e partecipare alla sua felicità.

Ce lo conceda lui, che è morto e risorto, e che è degno di ogni onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

6. “Tre specie di persone ha avuto in odio il mio spirito: il povero superbo, il ricco bugiardo e il vecchio stolto e privo di senno”.

Dice l’Ecclesiastico: “L’Altissimo ha creato medicamenti dalla terra, e l’uomo assennato non li disprez­za” (Eccli 38,4). L’Altissimo, Gesù Cristo, dalla terra, cioè dalla sua carne, ha creato la medicina dell’umiltà, con la quale ha risanato il genere umano. O anche: viene creata la medicina dalla terra, quando per mezzo delle soffe­renze del corpo vengono guarite le ferite dello spirito. Così dalla nostra carne viene prodotta il medicina, come dal serpente velenoso viene ricavato anche il contravveleno.

La carne fu come il serpente nel momento della colpa, e dalla carne viene anche il rimedio, per mezzo della soffe­renza. Questo medicamento, cioè l’umiliazione di Cristo e la sofferenza della carne, il saggio non lo disprezza: solo il superbo bugiardo e lo stolto lo rifiutano. Di questi appunto è detto: “Tre tipi di persone ha in odio il mio spirito: il povero superbo, il ricco bugiardo e il vecchio stolto e privo di senno”.

 

7. Il povero superbo è questo nostro misero corpo; il ricco bugiardo è il mondo; il vecchio stolto è il diavolo. Corpo viene da corrompere, e suona quasi “pus del cuore” (lat. corpus, cordis pus). Si può dire anche “custodia del cuore”, o “che perisce nella corruzione”, o anche “esposto in pubblico”. È detto povero perché ha veramente poco e perché ha poco potere.

Il nostro corpo è povero perché entra in questo esilio terreno nudo, cieco, e piangente, e ne esce ancora nudo, cieco e in uno stato pietoso – e voglia il cielo che non sia destinato all’eterno supplizio –, sottoposto alle sofferenze della fame e del freddo, afflitto da malattie e pieno di brutture e di impurità. Che motivi hai dunque, povero infe­lice, di andare in superbia? Di che cosa puoi gloriarti? Se vuoi vantarti, vàntati della fogna di sterco che porti sempre con te. O misero, misero e povero, che cosa ti credi? Perché ti esalti? Non sei forse tu che sei stato procreato con redolente seme nella misteriosa cavità della madre tua? E lì non fosti nutrito per nove mesi di sangue mestruo, che se i cani lambissero subito diventerebbero rabbiosi? Di che cosa dunque puoi vantarti? Forse del sangue dei tuoi antenati? Se è così, ti vanti proprio dello sterco nel quale sei stato generato. Ti vanti forse delle ricchezze? Appartengono ad altri e non a te: a te sono date solo in prestito. Non è tuo ciò che non potrai portare con te. Il passaggio della morte è angustissimo e per esso puoi passare a mala pena povero e nudo, portando con te solo i tuoi peccati, che sono il nulla. Forse ti vuoi gloriare della tua sapienza e della tua eloquenza? Non a te, non a te la gloria, ma solo a colui che dà la bocca e la sapienza, che fa parlare i muti e udire i sordi (cf. Sal 113B,1; Lc 21,15; Mc 7,37).

O povero corpo, o misero corpo, vedendoti in così grande miseria e penuria, hai ancora il coraggio di essere tanto superbo e tanto vanaglorioso? Che cosa faresti allora se tu fossi ricco? Benedetto sia Dio, che ha umiliato il superbo come un ferito a morte (cf. Sal 88,11), che ha prosciugato il mare e l’acqua del profondo abisso, che ha colpito il drago, che ha deposto il potente dal trono, e che a te ha dato invece di profumo marciume, invece di cintura una corda, invece di capelli ricciuti la calvizie (cf. Is 3,24).

Umìliati, dunque, povero miserabile, e gemendo e piangendo ripeti con il profeta Geremia: “Io sono l’uomo che ha provato la miseria sotto la sferza dell’ira del Signore. Egli mi ha guidato e mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Egli ha fatto invecchiare la mia pelle e la mia carne e ha spezzato le mie ossa. Ha costruito intorno a me e mi ha circondato di fiele e di fatica; mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come i morti da gran tempo. Mi ha costruito un muro all’intorno perché non potessi più uscire e ha reso pesanti le mie catene. Mi ha riempito di amarezza e mi ha ubriacato di assenzio. Mi ha spezzato ad uno ad uno i denti e mi ha nutrito di cenere. Ricordati, Signore, della mia povertà anche troppo grande, dell’assenzio e del fiele” (Lam 3,1-2.4.7.15-16.19).

 

8. Un ricco bugiardo. Il ricco è il mondo, delle cui ricchezze il profeta Naum dice: “Ninive con le sue acque è come una pozzanghera: e tutti sono fuggiti. Fermatevi, fermatevi, ma nessuno si volge indietro. Saccheggiate l’argento, saccheggiate l’oro, ci sono tesori infiniti nei suoi vasi preziosi” (Na 2,8-9). Ninive s’interpreta “sedu­cente" e raffigura il mondo, bello di una bellezza falsa. Le sue acque, le ricchezze e i piaceri, sono come le pozzanghere che in estate si prosciugano. Quando infatti arriva la fiamma della morte, le ricchezze e i piaceri svaniscono. Dice l’Ecclesiastico: “Alla morte di un uomo si rivelano le sue opere” (Eccli 11,29).

Tutti fuggono, tutti devono pagare il tributo alla morte. E Ninive, bella prostituta, li deride dicendo: “Fermatevi, fermatevi, saccheggiate l’argento, saccheggiate l’oro”. Gli amanti del mondo devono lasciare ciò che non posso­no portare con sé: di essi non c’è nessuno che si volti indietro perché il giorno dell’uomo è come l’ombra, e la sua vita come il vento, che passa e non ritorna (cf. Gb 8,9; 7,7). Le ricchezze di Ninive sono infinite, e quindi anche le sue miserie sono senza fine, “nei suoi vasi preziosi”. I vasi, cioè il cuore dei mondani, sono così profondi nella loro cupidigia che per quanto grandi siano quelle ricchezze, non si possono mai saziare.

Parimenti, della falsità del mondo lo stesso profeta soggiunge: “Guai, città sanguinaria, piena di menzogne, colma di rapine, che non cessa di depredare” (Na 3,1). Minacce di pena e di colpa al mondo, che è città sanguina­ria, cioè di peccatori, nella quale non c’è verità ma che è tutta falsità. Perciò dice il salmo: “È scomparsa la verità tra i figli degli uomini” (Sal 11,2). Questa città è colma di rapina e di strage. Dice Gregorio: La vita presen­te non si può svolgere senza lacrime, eppure anche fra tante lacrime è amata. E della sua falsità, per bocca di Geremia, il Signore dice: “È divenuta per me come quelle acque infide che ingannano” (Ger 15,18). Acque infide sono le ricchezze, che non danno alcuna sicurezza a chi le possiede: molto promettono ma nulla mantengono: coloro che le amano, quando ne abbondano, proclamano la fede nel Signore: “Ti loderà finché lo avrai beneficato” (Sal 48,19). E Gregorio commenta: “È profes­sione di fede che ha poco valore, quella fatta nella prosperità; invece è di grande merito quella che non viene meno neppure sotto i colpi della sofferenza.

I carnali dunque, quando le ricchezze abbondano, professano il Signore; quando invece le ricchezze svaniscono, rinnegano anche il Signore.

 

9. Il vecchio stolto e privo di senno. Il vecchio stolto è il diavolo, del quale è detto nell’Ecclesiaste: “Meglio un ragazzo povero e saggio, che non un re vecchio e stolto, che non prevede il futuro” (Eccle 4,13). Il diavolo non seppe conservare la sapienza che gli era stata infusa quando dimorava tra gli angeli, perché rifiutò di sottomettersi al suo creatore. Diventano sue membra coloro che rifiutano di sottomettersi al giogo dell’ob­be­­dienza nel nome di colui che fu obbediente fino alla croce. Ogni volta che rifiuti ostinatamente di obbedire al tuo superiore, diventi simile all’angelo apostata. Non disprez­zi un uomo, ma Dio, che ha posto degli uomini sopra la testa di altri uomini.

Dice infatti Giobbe: “Egli è colui che ha dato un peso al vento” (Gb 28,25). Il vento si chiama così perché è veemente e violento. La natura umana, incline al male fin dal­l’ado­le­scenza, è lieve e impetuosa come il vento, e quindi Dio le ha dato un peso, cioè l’obbedienza ai superiori perché, frenata dal suo peso, non si esalti vanamente al di sopra di sé come il diavolo, per cadere poi miseramente al di sotto di sé. “È bene dunque per l’uomo – come dice Geremia nelle Lamentazioni – portare il giogo fin dalla sua adolescenza. Sederà solitario e resterà in silenzio, perché si è innalzato al di sopra di sé” (Lam 3,27-28). Quando ti sottometti umilmente ad un altro, allora ti innalzi mirabilmente al di sopra di te stesso.

Il giogo è così chiamato perché congiunge due cose (lat. iugum, duo iungit. O figlio, porta dunque il giogo dell’obbedienza insieme con Cristo, figlio di Dio. Il vitello giovane, figura di Gesù Cristo, costretto sotto il giogo dell’obbedienza, trascinò da solo il carico di tutti i nostri peccati. Dice infatti Isaia: “Il Signore caricò su di lui le iniquità di tutti noi” (Is 53,6). E i Giudei, come contadini con la frusta, lo pungolavano perché andasse più in fretta. Ecco come il nostro giovane vitello, tutto solo, porta un carico che né angeli né uomini sarebbero stati in grado di portare, e non c’è nessuno che comprenda e mediti nel suo cuore (cf. Ger 12,11).

O fratello, corri, ti scongiuro, unisciti a lui sotto quel giogo, portalo insieme con Gesù, sollevalo insieme con Gesù. “Mi guardai intorno”, dice per bocca di Isaia, “ma non c’era alcuno che porgesse una mano; cercai, ma non c’era nessuno che desse aiuto” (Is 63,5). Aiuta, dunque, o fratello, aiuta Gesù, perché se sarai stato partecipe delle sue sofferenze, lo sarai anche della consolazione (cf. 2Cor 1,7).

Ti preghiamo, Signore Gesù, di farci diventare poveri umili, ricchi sinceri, vecchi saggi, affinché meritiamo di giungere alle eterne ricchezze e alle eterne delizie. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. il pentimento del pubblicano

 

10. “Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore! In verità vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e che si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). In questo passo si devono considerare sei punti: il ricordo della propria iniquità, l’umiliazione della mente e del cuore, la contrizione, la confessione, la riparazione e la giustificazione dello stesso pubblicano.

Il ricordo della propria iniquità, dove dice: “Il pubblicano, fermatosi a distanza”. Conscio della propria iniquità, si fermò lontano, si reputò indegno anche solo di entrare nel tempio. Il fariseo si credeva vicino, e invece era lontano (cf. Ef 2,13). Il pubblicano si credeva lontano e invece era vicino. Il ramo è stato spezzato ed è stato innestato l’olea­­stro (cf. Rm 11,17). “Ciò che Israele cercava non l’ha conseguito; lo hanno ottenuto invece gli eletti” (Rm 11,7). O peccatore, fermati lontano, rèputati indegno e ripeti con Abramo: “Parlerò al mio Signore, benché io sia polvere e cenere” (Gn 18,27).

Umiltà della mente e del corpo, quando dice: “Non osava neppure alzare gli occhi al cielo”. Il segno dell’umiltà si vede generalmente dagli occhi: “O Signore – è detto nel libro dell’Ecclesiastico – non darmi l’insolenza dello sguardo” (Eccli 23,5). L’occhio impudico, dice Agostino, è segno dell’impudicizia del cuore.

Parimenti nell’atto di battersi il petto si devono considerare tre cose: nella percussione la contrizione, nella risonanza del torace la confessione, nella mano che batte l’opera di riparazione. “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, cioè, sii benigno verso di me. Il pubblicano, nella sua umiltà, non osa avvicinarsi a Dio, affinché Dio si avvicini a lui; non osa guardare, per essere da Dio guarda­to; si percuote il petto, si punisce da sé perché Dio lo risparmi; confessa il suo peccato perché Dio lo perdoni. E Dio lo perdona perché lui riconosce il suo peccato.

Vedi e considera attentamente quanta coerenza aveva in se stesso questo peccatore: nella sua mente predominava l’umiltà, cui corrispondeva l’umiltà degli sguardi; il cuore soffriva per il male commesso, la mano percuoteva il petto, la lingua proclamava: “Dio, abbi pietà di me pecca­tore!”.

 

11. E su questa coerenza abbiamo anche la concordanza del­l’Ecclesiastico: “Di tre cose si è sempre compiaciuto il mio animo, e sono gradite a Dio e agli uomini: la concordia tra fratelli, l’amore verso i vicini, l’armonia tra marito e moglie” (Eccli 25,1-2). Vediamo quale significato abbiano i fratelli, i vicini e marito e moglie.

I fratelli simboleggiano i cinque sensi del corpo, dei quali la Genesi dice: “Giuda, te loderanno i tuoi fratelli” (Gn 49,8), che sono: Ruben, Simeone, Levi, Issacar e Zabulon. Giuda è figura del penitente, e i cinque sensi del corpo, se tra di essi c’è concordia, lo lodano, vale a dire lo rendono degno di lode. Ruben s’interpreta “visione”, ecco la vista; Simeone s’interpreta “ascolto”, ecco l’udi­to; Levi s’interpreta “inalato” [con il naso], ecco l’ol­fatto: infatti con l’olfatto inaliamo l’aria per mezzo della quale viviamo; Issacar s’in­terpreta “che ricorda il Signore”, ecco la lingua, per mezzo della quale il peniten­te deve ricordarsi di lodare il Signore e di confessare il suo peccato; Zabulon s’inter­preta “dimora della fortezza”, ecco il tatto. La concordia tra questi fratelli è gradita a Dio e agli uomini. Concordia viene da “unione dei cuori” e concordare vuol dire formare un cuore solo.

“L’amore dei vicini”. I vicini sono gli affetti, i sentimenti del cuore, dei quali nulla ci è più vicino. Se tra di essi c’è l’amore di Dio, in modo da essere a lui orientati e amarlo, allora sono a Dio graditi.

“L’armonia tra marito e moglie”: il marito è figura della ragione, la moglie della sensualità: se sono concordi nel temere e nell’amare Dio, qualunque cosa chiederanno sarà loro accor­data. È detto infatti: “Se due di voi si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre ve la concederà” (cf. Mt 18,19).

Poiché nel pubblicano pentito c’era questa concordia, c’era l’amore e c’era l’armo­nia di sentimenti, disse di lui il Signore: “In verità vi dico: Questi tornò a casa sua giustificato, a differenza di quello”, nei confronti cioè del fariseo. E il beato Bernardo commenta: Il pubblicano che si umiliò e si presentò come un vaso vuoto, ricevette una grazia più grande. Ecco quanto è grande la grazia del Redentore: il pubblicano era salito al tempio macchiato, ne discese giustificato; era salito peccatore, ne discese santo.

Quindi nell’introito della messa di oggi, fiducioso nella misericordia di Dio, egli implora: “Dio, vieni in mio aiuto”; è lo stesso che dire: “Abbi pietà di me peccatore”, perdona cioè i miei peccati. “Signore, vieni presto ad aiutarmi” (Sal 69,2), e a infondermi la tua grazia, e così ritornerò a casa giustificato.

 

12. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: “Io sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana” (1Cor 15,9-10).

Si dice l’infimo, lett. “minimo”, dalla parola mònade, che in lat. indicava l’unità, cioè il numero più piccolo di tutti.

Ecco come Paolo, l’infimo, è in accordo con il pubblica­no, l’umilissimo. Questi, ritenendosi indegno, stava fermo a distanza; quello si riteneva l’infimo degli apostoli. Questi non osava alzare gli occhi al cielo perché aveva peccato contro il cielo e al cospetto di Dio; quello diceva: “Io non sono degno di essere chiamato apostolo”. Questi si accusava peccatore, quello si accusava di aver perseguitato la chiesa di Dio. Questi trovò la grazia, e anche quello trovò la grazia, e quindi dice: “Per grazia di Dio sono quello che sono”.

Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo affinché lui, che al pubblicano e a Saulo ha perdonato i peccati e conferito la grazia, perdoni anche a noi e ci infonda la sua grazia per meritare di giungere alla sua gloria.

Ce lo conceda egli stesso che è benedetto e glorioso, che è vita e salvezza, che è giusto e pietoso per i secoli eterni. E ogni anima umile risponda: Amen, alleluia!

 

13. “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Leggiamo nell’Eccle­siastico: “Il ricordo di Giosia è una mistura di vari profumi preparata da un profumiere: in ogni bocca è dolce come il miele, come musica in un banchetto rallegrato dal vino” (Eccli 49,1-2).

Giosia s’interpreta “in lui è il sacrificio”, ed è figura del penitente, o del giusto, nel quale il sacrificio offerto a Dio è il suo spirito contrito (cf. Sal 50,19), la cui vita viene paragonata all’opera del profumiere, alla dolcezza del miele e ad uno strumento musicale. Il vero penitente, come un profumiere, nel piccolo mortaio del suo cuore, battendovi sopra con il pestello della contrizione, pesta ogni specie di pensieri, di parole e di opere, riduce tutto in polvere finissima e la impasta con il balsamo delle lacrime. Questa è la mistura dal profumo soavissimo, e quest’opera di profumiere viene quindi paragonata alla dolcezza del miele.

Considera che le api raccolgono la cera dai fiori e la caricano nelle zampette anteriori, poi la passano a quelle di mezzo e in fine la appendono alle cosce di quelle poste­riori: poi la trasportano in volo e allora si scopre il suo peso. E l’ape, quando vola, non va in cerca di fiori diver­si, e non tralascia un fiore per passare ad un altro, ma raccoglie da una specie di fiori tutto quello che può e poi ritorna all’alveare; e lavora e vive del suo lavoro.

Anche il penitente è fornito, per così dire, di sei piedi: gli anteriori sono l’amore di Dio e del prossimo; quelli di mezzo la preghiera e l’astinenza e quelli poste­riori la pazienza e la perseveranza. I fiori sono gli esempi dei santi Padri, dai quali deve raccogliere la cera, cioè la purezza dell’anima e del corpo: e la raccoglie con questi sei piedi e quindi ritorna all’alveare della sua coscienza, portandola con sé, e subito incomincia il suo lavoro interiore e con questo lavoro si ristabilisce.

“Procuratevi – dice il Signore – non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna” (Gv 6,27). L’opera del giusto è la dolcezza del miele, cioè la purezza della coscienza, l’onestà della vita, il profumo della buona riputazione, la gioia della contemplazione di Dio.

curioso, che ti affanni e allarghi la tua attività in tante direzioni, va’, non dico dalla formica, ma dall’ape e impara la saggezza. L’ape non si posa su tante specie di fiori, ecc. Dal suo esempio impara a non dare ascolto ai vari fiori di parole, ai vari libercoli; e non lasciare un fiore per passare ad un altro, come fanno gli schizzinosi che sempre sfogliano libri, criticano le prediche, controllano le parole, ma non arrivano mai alla vera scienza; tu invece raccogli da un libro ciò che ti serve e collocalo nell’alveare della tua memoria. Dice il Filosofo: Non è rigogliosa la pianta che viene spesso spostata. Nulla è tanto utile da poter giovare anche con un solo fuggevole contatto (Seneca).

Parimenti la vita del giusto viene paragonata ad uno strumento musicale. Lo strumento musicale è la parola della predicazione del Signore, oppure anche la risonanza della buona riputazione, che armonizza con la santità della vita. Da una tale vita proviene quindi il ricordo profumato che procura dolcezza all’animo di quelli che ne sentono parlare, e risuona piacevolmente ai loro orecchi.

 

14. Quindi dell’umiltà di questo Giosia, cioè del peniten­te che si è umiliato come il pubblicano, il Signore dice: “Chi si umilia sarà esaltato”.

Si dice “umile” come a dire “abbassato verso terra” (lat. humi acclivus). La porta del cielo è bassa, e chi vuole entrare attraverso di essa è necessario che si abbas­si. Questo ci insegnò il Signore quando, “abbassato il capo, rese lo spirito” (Gv 19,30). Egli stesso del resto ha detto: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mc 10,25).

Letteralmente, “la cruna dell’ago” era una delle porte di Gerusalemme. Il cammello è in grado per sua natura di piegarsi quando deve entrare per un passaggio basso e può camminare sulle ginocchia: per questo la natura l’ha fornito di certi ingrossamenti alle ginocchia, che assomi­gliano a staffe, in modo che camminando sulle ginocchia non ne abbia danno. Quindi “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago” perché per sua natura può abbassar­si, ciò che non può fare il ricco se non per mezzo della grazia di Dio.

Per rappresentare questo abbassamento, una delle porte di Gerusalemme si chiamava “porta della Valle”, della quale Neemia dice: “Uscii di notte per la porta della Valle e andrai verso la fonte del Drago e alla porta del letame, osservando le mura di Gerusalemme, com’erano piene di brecce e come le sue porte erano consumate dal fuoco. Mi spinsi poi verso la porta della Fonte e l’acquedotto del Re; e non c’era un posto per cui potesse passare il giumen­to che cavalcavo. Ed allora risalii alla porta della Valle e tornai a casa” (2Esd 2,13-15).

La porta della Valle raffigura il nostro ingresso in questo mondo: valle verso la quale usciamo per vederla. La Fonte del Drago simboleggia la fonte delle lacrime. La porta del letame è la penitenza, per mezzo della quale viene rimosso il letame del peccato, e allora si può constatare la distruzione del muro spirituale, prodotta dal peccato.

Le porte consumate dal fuoco raffigurano i sensi, anch’essi corrotti dal peccato. La porta della fonte è la contemplazione, alla quale si giunge dopo fatta la penitenza. L’ac­que­dotto raffigura l’anima del contemplativo, sulla quale scorrono le acque delle intuizioni spirituali. Il giumento per il quale non c’è un posto per cui passare raffigura il corpo, il cui peso fa precipitare l’uomo dall’alto della contemplazione, perché “il corpo corruttibile appesantisce l’anima” (Sap 9,15). È necessario quindi ritornare alla porta della Valle, perché bisogna perseverare nell’umiltà. Dice infatti l’Ecclesiastico: “Umilia profondamente il tuo spirito, perché castigo della carne dell’empio sono i vermi e il fuoco” (Eccli 7,19): la carne dell’empio, cioè gli empi schiavi del loro corpo.

Dice infatti il Signore per bocca di Ezechiele: “Soffierò contro di te il furore della mia ira, poi ti abbandonerò nelle mani di uomini violenti, portatori di distruzione. E sarai preda del fuoco” (Ez 21,31-32). E nel libro di Giuditta: “Metterò nelle loro carni vermi e fuoco, perché brucino e soffrano in eterno” (Gdt 16,21). Umilia dunque il tuo spirito, perché “la preghiera di colui che si umilia penetra le nubi e finché non sia arrivata non si accontenta” (Eccli 35,21), cioè non è tran­quillo nel suo cuore.

Dice Origene: Ha più potere un unico santo con la sua preghiera che non peccatori senza numero che combattono. Infatti la preghiera del santo penetra i cieli: come potrà non vincere il nemico quaggiù in terra? E Agostino: Grande è la forza della preghiera innocente, perché ha accesso a Dio come una persona e assolve i suoi compiti: cosa a cui la carne non ha la possibilità di giungere. E Gregorio: Pregare veramente vuol dire far risuonare amari gemiti di pentimento, e non vane parole.

Umilia dunque il tuo spirito, perché chi si umilia sarà esaltato. Dice ancora l’Ecclesiastico: “Lo sollevò dalla sua umiliazione e lo fece stare a fronte alta” nella sua sofferenza, “sì che molti ne furono stupiti” (Eccli 11,13).

Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di imprimere in noi il sigillo della tua umiltà e di innalzarci alla tua destra nel momento della nostra ultima sofferenza.

Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

 

 

 

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE

Temi del sermone

 

 

– Vangelo della dodicesima domenica dopo Pentecoste: “Gesù uscì dalla regione di Tiro”; si divide in due parti.

– Anzitutto sermone sul predicatore e sul prelato della chiesa, sulla natura delle api e sulla proprietà del ferro: “Il fabbro ferraio”.

– Parte I: Il peccato di lussuria e di superbia; natura del serpente e le tre ruberie degli avari: “Figlio, hai peccato?”.

– Contro i prelati della chiesa: “I suoi piedi portavano Tiro lontano”.

– Sermone morale sulla vita del giusto, sulla proprietà della nebbia, del sole e dell’arcobaleno che si forma nei giorni di pioggia: “Simeone, figlio di Onia”.

– I cinque fiumi e il loro significato, e le tre parti di cui è composta la freccia: “Trabocca di sapienza come il Fison”.

– Parte II: Sermone sul cuore dell’uomo e sui sensi del corpo: “Il re che siede in trono”.

– I cinque atti di virtù richiamati questo passo: “Io ti ascoltai con le mie orecchie”; natura del cervo e suo significato.

– La confessione: “In mezzo al fuoco c’era un balenare di elettro incandescente”.

– Sermone morale sul disprezzo del mondo: “Due angeli presero Lot per mano”.

– Le cinque dita di Gesù Cristo e il loro significato.

– Sermone sulla natività del Signore: “Il vasaio seduto al suo lavoro”.

– Altro sermone sulla natività e sulle sei ali dei serafini: “Volò verso di me un serafino”.

– Sermone sul predicatore: “Molte labbra loderanno chi è generoso nel dare il pane”.

– Sermone sul testamento e sul suo simbolismo.

 

esordio - il predicatore e il prelato della chiesa

 

1. In quel tempo: “Uscito dalla regione di Tiro, Gesù passò per Sidone dirigendosi verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decapoli”(Mc 7,31).

Leggiamo nell’Ecclesiastico: “Il fabbro ferraio, seduto all’incudine, osserva il suo lavoro del ferro: la vampa di fuoco gli brucia le carni e deve lottare contro il calore del forno. Il rumore del martello gli rintrona gli orecchi, mentre i suoi occhi sono fissi sul modello del vaso. Appli­ca il suo cuore all’esecuzione dell’opera e sta attento per rifinirla alla perfezione” (Eccli 38,29-31).

Fabbro deriva da “fare”, ossia “lavorare” il ferro, ed è figura del santo predicatore della chiesa, che fabbrica le armi dello spirito. Egli deve sedere vicino all’incudine: deve cioè applicarsi allo studio e alla pratica della sacra Scrittura, appunto per praticare ciò che predica. L’incudine ha questo nome perché per mezzo di essa si fabbrica qualcosa, cioè si produce battendo: in lat. cùdere, che significa colpire e piegare.

Si legge nella Storia Naturale che “le api si alzano in volo nell’aria quasi per esercitarsi e poi ritornano agli alveari e si nutrono; così i predicatori devono prima eser­citarsi nell’aria della contemplazione, con il desiderio della beatitudine celeste, per poter poi cibare con maggior ardore se stessi e gli altri con il pane della parola di Dio.

Il predicatore deve anche osservare il lavoro del ferro, vale a dire la mente ferrea degli ascoltatori per fabbricare in essa le armi delle virtù, atte a sconfiggere le potenze dell’aria. Il ferro deriva il suo nome da ferire, perché con esso le altre cose vengono ferite o domate. Oppure, il ferro è così chiamato perché serve ad affondare nella terra le sementi delle messi, dette in lat. farra. Anche l’accia­io, per esempio, che in lat. si chiama chalybs, deriva il suo nome dal fiume Chalybs, nelle cui acque veniva temprato il ferro per ottenerne dell’ottimo acciaio.

E considera che il ferro non viene intaccato dalla ruggine se viene spalmato di biacca, gesso e pece liquida; o anche se viene unto con midollo di cervo, oppure con biacca mescolata ad olio di rosa. La biacca è una materia che ser­ve per dipingere ed è composta di stagno e piombo. Il gesso è un prodotto della Grecia, affine alla calce, adattissimo per fare rilievi, figure, sporti e cornicioni negli edifici. E considera ancora che il ferro, cioè la mente dell’uo­mo, riceve un’ottima tempra nel fiume delle lacrime. E la mente non viene mai intaccata dalla ruggine se viene spalmata di biacca e con le altre materie suddette. Vediamo quale sia il significato della biacca, del gesso, della pece, del midollo di cervo e dell’olio di rose.

La biacca si compone di stagno e di piombo. Nello stagno e nel piombo è simboleggiata l’umanità di Cristo, che fu di stagno nella natività. Dice Zaccaria: “Si rallegreranno e vedranno la pietra di stagno in mano a Zorobabele” (Zc 4,10). Nella pietra di stagno sono indicate la natura divina e la natura umana, che il nostro Zorobabele, Gesù Cristo, ebbe nella mano della sua potenza: coloro che ora si rallegrano con lui, lo contempleranno un giorno Dio e uomo, faccia a faccia, nella Gerusalemme celeste. E la sua umanità fu di piombo nella passione; dice Geremia: “Il mantice è venuto meno, il piombo si è consuma­to nel fuoco” (Ger 6,29).

Vedi su questo il sermone della quarta domenica dopo la Pasqua, prima parte, dove viene commentato il vangelo: “Ritorno a colui che mi ha mandato”.

Nel gesso è simboleggiata la vita innocente dei santi; nella pece l’umiltà e la povertà; nel midollo di cervo la compassione nei riguardi del prossimo; nell’olio di rose la castità del corpo. Chi proteggerà il ferro della sua mente con tutte queste virtù, senza alcun dubbio sarà sempre libero da ogni ruggine di peccato. Giustamente quindi è detto: “Osserva il lavoro del ferro”.

“La vampa di fuoco gli brucia le carni”. La vampa di fuoco è il santo fervore dello zelo, che deve bruciare le carni, cioè le tendenze carnali del predicatore o del prelato, perché possa dire con l’Apostolo: “Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non arda di zelo?”(2Cor 11,29). “E contro il fuoco del forno”, cioè contro le tentazioni della carne, “combatte”: combatte cioè contro i vizi.

“Il rumore del martello”, ecc. Il martello si chiama in lat. malleus perché batte e lavora ciò che è stato reso molle dal calore del fuoco. Il martello simboleggia la parola di Dio, della quale Geremia dice: “Le mie parole non sono forse come il fuoco e come il martello che spezza le pietre?” (Ger 23,29). Il predicatore infatti, quando percuote con il martello la massa di ferro, incute la paura dei tormenti, e con questi colpi deve far rintronare gli orecchi. Guai a colui che percuote gli altri, e percuotendoli li scuote, mentre egli stesso resta insensibile; dovrebbe dire con Isaia: Proprio io che faccio partorire gli altri, li faccio cioè prorompere in gemiti di compunzione, proprio io sarò sterile? (cf. Is 66,9). Non proromperò anch’io in gemiti? Oppure: “la voce” del martello potrebbe esse anche questa: Andate, maledetti!... (cf. Mt 25,41), che dovrebbe risuonare in continuazione agli orecchi del cuore. Per questo il lat. per dire “risuona” usa il verbo innovat, perché questa minaccia dovrebbe ritornare sempre e di nuovo davanti agli occhi.

“E il suo occhio è fisso sul modello del vaso”. Nell’occhio sono simboleggiati l’attenzione e il proposito del predicatore, che devono essere rivolti al modello del vaso, cioè alle anime elette, per riprodurne altre di uguali: per riprodurre la somiglianza si deve sempre partire dal modello.

“Applica tutto il cuore all’esecuzione dell’opera”, per poter dire con il Signore: “Padre, ho compiuto l’opera che mi hai dato da fare” (Gv 17,4).

“E sta’ attento per rifinirla alla perfezione”. Il predi­catore, con la sua perfezione, deve portare alla perfezione le anime, per curare l’anima sorda e muta con le dita delle sua opere sante e la saliva della predicazione divina. Per questo appunto è detto nel vangelo di oggi: “Uscito Gesù dal territorio di Tiro”, ecc.

 

2. Fa’ attenzione che in questo vangelo vengono messe in evidenza due fatti: L’uscita di Gesù Cristo dalla regione di Tiro e la guarigione del sordomuto. Il primo, quando dice: “Uscito Gesù dalla regione di Tiro”. Il secondo, quando soggiunge: “E gli condussero davanti un sordomuto”. Troveremo nel libro dell’Ecclesiastico dei passi che concordano con queste due parti del vangelo.

Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: “Guarda, Signore, alla tua alleanza” (Sal 73,20). Si legge quindi il brano della seconda lettera del beato Paolo ai Corinzi: “Questa è la fiducia che abbiamo” (2Cor 3,4); divideremo il brano in due parti facendone rilevare la concordan­za con le due parti del vangelo. Prima parte: “Questa è la fiducia che abbiamo”. Seconda parte: “Colui che ci ha resi ministri adatti”.

 

I. l’uscita di gesù cristo dal territorio di tiro

 

3. “Uscito dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decàpoli” (Mc 7,31).

Senso allegorico. Tiro s’interpreta “strettezza”, e sta ad indicare la Giudea, alla quale il Signore si rivolge con le parole di Isaia: “Troppo corto è il letto e troppo stretto è il tuo mantello, e non può coprire entrambi” (Is 28,20). “Alzatevi, dunque, e andiamo via di qui” (Gv 14,31). “E uscendo passò per Sidone”, che s’interpreta “caccia”, fatta per mezzo della predicazione degli Apostoli, dei quali dice in Geremia: “Manderò i miei cacciatori che daranno loro la caccia” (Ger 16,16).

“E arrivò al mare di Galilea”, nome che s’interpreta “ruota”, andò cioè tra i pagani che si trovavano nell’amarezza dei peccati ed erano schiavi della ruota, cioè dell’ingra­naggio delle cose temporali. “In pieno territorio della Decàpoli”. Decàpoli è la regione delle “dieci città” situate oltre il Giordano, e sta ad indicare i precetti del decàlogo, che il Signore ha dato da osservare anche ai pagani.

Alla lettera: Marco non dice che Gesù Cristo sia entrato nel territorio della Decàpoli, né che abbia attra­versato in barca il mare, ma dice che Gesù Cristo è arriva­to solo fino al mare, in un posto che guardava il territo­rio della Decàpoli, situato lontano, al di là del mare.

Vediamo che cosa significhino, in senso morale, Tiro e la sua regione, Sidone, il mare di Galilea e la Decàpoli. Si deve uscire dalla regione di Tiro e si deve andare al mare di Galilea attraverso Sidone. Questa è la via della vita, il sentiero della giustizia di cui parla Isaia: “Il sentiero del giusto è divenuto diritto; il viottolo del giusto è pianeggiante per il suo cammino” (Is 26,7). Tiro s’interpreta “strettezza” e Sidone “caccia alla tristezza”. Tiro è figura del mondo, sulla cui strettezza concordano le parole dell’Eccle­siastico: “Figlio, hai commesso qualche peccato? Non aggiungerne altri, e prega per quelli commessi in passato affinché ti vengano perdona­ti. Fuggi il peccato come alla vista del serpente, perché se ti avvicini ti morderà. I suoi denti sono come i denti del leone, capaci di distruggere le anime degli uomini. Ogni iniquità è come una spada a doppio taglio, e della sua ferita non c’è guarigione (Eccli 21,1­4). Fa’ attenzione a queste tre entità: il serpente, i denti del leone e la spada a doppio taglio. Nel serpente è raffigurata la lussuria, nei denti del leone l’avarizia e nella spada a doppio taglio la superbia.

Il serpente è chiamato in lat. còluber, perché colit umbras, ama le ombre, o anche perché è lubricosus, viscido e scivoloso; esso fugge dal cervo, uccide il leone, ed è simbolo della lussuria, la quale ama le ombre, dimora cioè in coloro che sono oscuri, vale a dire tiepidi e oziosi. Facilmente scivola dentro l’anima se questa non se ne schiaccia la testa: quindi “resisti subito all’inizio!”. Fugge dal cervo, cioè dall’umile penitente, perché egli stesso ne fugge, secondo il comando: “Fuggite la fornicazione!” (1Cor 6,18); invece uccide il leone, cioè il superbo. Prima della caduta nella lussuria il cuore dell’uo­mo si gonfia di superbia, la quale è il principio di ogni peccato (cf. Pro 18,12).

I denti devono il loro nome al fatto che spezzano, in lat. dividentes, i cibi; i denti davanti si chiamano incisivi (in lat. praecisores, che troncano), i seguenti sono i canini e gli ultimi i molari. Considera che la ladreria praticata dagli avari è triplice: alcuni troncano, perché non tolgono tutto ma solo una parte; altri sono come i denti canini, e sono i giuristi e i canonisti i quali nelle cause, nei tribunali, per denaro latrano come i cani; altri infine sono come i molari, e sono i potenti e gli usurai i quali macinano, cioè stritolano i poveri. Ma il Signore spezzerà i denti dei peccatori e i molari dei leoni (cf. Sal 57,7).

Parimenti la spada a doppio taglio (in lat. romphaea, ma il popolo la chiama spatha), raffigura la superbia che colpisce l’anima con una duplice morte. Fuggi dunque il serpente della lussuria, i denti dell’avarizia e la spada della superbia. Questa è “la regione” di Tiro, nella quale c’è la strettezza, cioè angoscia e afflizione di spirito, di cui dice Salomone: “Gli occhi degli stolti vagano in tutte le regioni della terra” (Pro 17,24). Le regioni, i territori sono detti in lat. fines, perché vengono fissati con la corda (lat. funis, funiculus) dell’agrimensore. Coloro che sono legati con le corde dei propri peccati, saranno separati, cioè esclusi, dall’eredità dei santi.

 

4. Perciò Isaia di questa Tiro dice: “I suoi piedi la condurranno a peregrinare lontano. Chi ha deciso questo contro Tiro, l’incoronata, i cui mercanti erano prìncipi, i cui trafficanti erano i più nobili della terra? Il Signore degli eserciti lo ha deciso per confondere la superbia di tutto il suo fasto e per umiliare tutti i più nobili della terra” (Is 23,7-9).

Tiro è figura del mondo, incoronato di superbia, di potere e di grandezza: i suoi mercanti sono i prìncipi, cioè i prelati della chiesa, dei quali sta scritto nell’A­pocalisse: “I tuoi mercanti erano i prìncipi della terra” (Ap 18,23). Essi sono i mercanti ismaeliti i quali, come si racconta nella Genesi, vendettero schiavo Giuseppe, in Egitto (cf. Gn 37, 28.36). Il vero Giuseppe, Gesù Cristo, oggi viene venduto da quei mercanti che sono gli arcivescovi, i vescovi e gli altri prelati della chiesa. Corrono e discor­rono; vendono e rivendono la verità per le menzogne, distruggono la giustizia con la simonia. E osserva che la parola “affare” suona in lat. negotium, e indica talvolta l’azione giudiziaria, che è un pretesto per litigare; talaltra l’esecuzione di qualche cosa, il cui contrario è l’ozio: in questo caso negotium è come dire negans otium, che rinnega l’ozio; quindi il negoziatore, l’affarista, è colui che esercita il commercio.

I trafficanti poi sono gli abati, i priori ipocriti e i falsi religiosi i quali, sotto il pretesto della religione, vendono nella piazza della mondana vanità le false merci di una santità che non hanno, per il denaro della lode umana. Ecco dunque che Tiro, con i suoi affaristi e traffican­ti, sarà condotta in schiavitù. Ma da chi? Senza dubbio “dai suoi piedi”, con i quali adesso corre qua e là. Essi stessi saranno la causa per cui sarà condotta a peregrinare nell’esilio della geenna. E chi mai ha potuto immaginare che i prìncipi e i nobili della terra, i prelati e i religiosi, che fanno le viste di parlare con Dio faccia a faccia, che detengono le chiavi del regno dei cieli, potessero essere condotti all’esilio della morte eterna? Per questo i dannati, sudditi e parroc­chiani, si rivolgono al prelato dannato nell’inferno, con le parole di Isaia: “Anche tu sei stato abbattuto come noi, sei diventato uguale a noi. Nell’inferno è stata sprofondata la tua superbia, nell’inferno è caduto il tuo cadavere; sotto di te c’è uno strato di marciume e tua coltre sono i vermi” (Is 14,10-11).

Proprio tale letto avranno i vescovi e i prelati, gli abati e i falsi religiosi, i quali ora dormono, come dice il profeta Amos, in letti d’avorio e se ne stanno sdraiati sui loro divani (cf. Am 6,4), come i cavalli nei prati con le loro giumente. Il Signore degli eserciti ha stabilito tutto questo per abbattere la superbia e tutto il fasto dei prelati, sprofondarli giù nell’inferno, ridurli all’infamia dell’eterna vergogna; ha stabilito di confondere tutti i grandi della terra, che si rivestono delle nobili penne dell’avvoltoio e della cicogna e incedono tronfi ed impet­titi, a pancia in fuori. Sui potenti incombe una condanna più severa, dice la Sapienza (cf. Sap 6,9). Il giusto, membro del corpo di Cristo, per non lasciarsi portare in giro con la sventurata Tiro, se ne esca, insieme con Gesù, dal territorio di quella città; dice infatti il vangelo: Gesù uscì dalla regione di Tiro.

“Passando per Sidone, andò verso il mare di Galilea”. Su Sidone, sul suo significato e interpretazione, vedi il secondo sermone della II domenica di quaresima, con il commento sul vangelo di Matteo: “Gesù, partito di là, si diresse verso le parti di Tiro e di Sidone” (Mt 15,21). Galilea s’interpreta “trasmigrazione”. Il mare di Galilea simboleggia l’amarezza della penitenza, per mezzo della quale si trasmigra, si passa dal vizio alla virtù, e poi si progredisce di virtù in virtù.

Sull’amarezza della penitenza vedi il sermone della IV domenica di Quaresima, sul vangelo della moltiplicazione dei pani.

“In pieno territorio della Decapoli”. Decàpoli è una parola greca che significa “dieci città”; quindi Gesù andò nella regione delle dieci città. Osserva che queste dieci città sono quelle dieci virtù che l’Ecclesiastico enumera nell’elogio di Simeone, figlio di Onia.

 

5. “Simeone, figlio di Onia, era sommo sacerdote. Come la stella del mattino fra le nebbie, come la luna nei giorni in cui è piena, come il sole sfolgorante, così egli rifulse nel tempio dell’Altissimo. Era come l’arcobaleno splendente fra nubi di gloria, come il fiore della rosa nella stagione di primavera, come un giglio lungo un corso d’acqua, come la pianta dell’incenso che spande il suo profumo nella stagione estiva; come un vaso d’oro massiccio ornato di ogni sorta di pietre preziose, come un ulivo verdeggiante pieno di frutti e come un cipresso svettante in altezza”(Eccli 50,1.6-8.10-11). Abbiamo tralasciato due espressioni: “come fuoco arden­te” e “come incenso che brucia nel fuoco” (Eccli 50,9), perché ci sembrano incluse nelle altre due: “come sole sfolgorante” e “come incenso che spande il suo profumo”.

Osserva che da questo passo si può ricavare un sermone per qualsiasi festa della Vergine Maria, e anche per la festa di un apostolo, di un martire, o di un confessore.

Simeone s’interpreta “che ascolta la tristezza”, ed è figura del giusto il quale, sia che mangi, sia che beva o faccia qualunque altra cosa, ascolta, nella tristezza del suo cuore, quella terribile tromba: Alzatevi, o morti, e venite al giudizio del Signore!

Qui il giusto è indicato come figlio di Onia, nome che s’inter­preta “afflitto nel Signore”. Infatti è figlio dell’affli­zione, nella quale si sforza di piacere solo al Signore. A ragione è detto sacerdote, che offre cioè le cose sacre (lat. sacra dans), perché offre se stesso al Signore in sacrificio di soave profumo. E considera attentamente che la vita dell’uomo santo viene paragonata alla stella del mattino, alla luna, al sole, all’arco­ba­leno, al fiore delle rose, al giglio, all’incenso profumato, al vaso d’oro, all’ulivo verdeggian­te e al cipresso. Ecco la Decàpoli, ecco la regione delle dieci città, delle quali è detto nel vangelo: “Abbi potere sopra dieci città” (cf. Lc 19,17).

La vita del giusto è come la stella del mattino tra le nebbie, cioè in mezzo alle vanità del mondo. Osserva che nella nebbia si ha paura del brigante; dissolta la nebbia splende più luminoso il sole; se tenti di toccarla non senti niente; quando si alza è segno di bufera, quando si dissolve è segno di bel tempo. Nella nebbia le cose sembra­no più grandi; si diffonde su tutta la terra e non si sa più per dove andare. Così tra le vanità del mondo, nel lusso del mondo si nasconde il brigante, cioè il diavolo; e il giusto nutre un grande timore quando gli arride il favore delle cose temporali. Fuggite, o giusti, perché tra l’erba si nasconde il serpente (Virgilio). Nella nebbia si nasconde il brigante.

Dissolta la nebbia, disprezzato cioè il lusso del mondo, più luminoso splende il sole della grazia. Dice il Profeta: Per voi che temete Dio, sorgerà il sole di giustizia (cf. Mal 4,2). Se si tenta di toccare la nebbia, non si sente niente. Dice il salmo: “Dormirono il loro sonno e poi nulla si trovarono in mano gli uomini delle ricchezze” (Sal 75,6). Sono chiamati “uomini delle ricchezze” e non “ricchezze degli uomini”, perché sono schiavi del denaro.

Quando la nebbia si alza è segno di bufera. Quando la gloria mondana ti innalza, è segno della tua dannazione. Dice Agostino: Non c’è segno più evidente di eterna danna­zione, come quando le cose temporali sembrano ubbidire ai nostri cenni, cioè alla nostra volontà. Quando la nebbia si dissolve è segno di bel tempo, segno cioè di vita perfetta: “Se vuoi esser perfetto”, va’ e vendi…, ecc. (Mt 19,21).

Nella nebbia le cose sembrano più grandi. Quando uno è circonfuso di gloria mondana, sembra più grande di quanto non sia in realtà. È come una vescica, gonfia di vento, che sembra più grande di quanto non sia, ma una puntura di spillo, cioè la morte, farà vedere quanto è meschino.

La nebbia copre tutta la terra. La nebbia è chiamata così da obnubilare, cioè offuscare o coprire. Le valli piene di umidità fanno salire le nebbie. Ahimè, tutta la terra è ricoperta di nebbia, e perciò gli uomini non vedono. Dice il salmo: “Sono coperti di iniquità”, nei riguardi di Dio, “e di empietà”, cioè di cattiveria nei riguardi del prossimo (Sal 72,6). E Giobbe: “La sua faccia la coprì il grasso”, cioè l’abbondanza delle cose temporali, “e dai suoi fianchi pende il lardo”, cioè l’adipe (Gb 15,27).

Tutt’ad un tratto la nebbia ricopre la terra, e non si sa più dove si sta andando. Dice Giobbe: “Anche se la sua superbia arrivasse fino al cielo e il suo capo toccasse le nubi, come lo sterco sarebbe spazzato via per sempre, e chi lo aveva visto direbbe: Dov’è? Svanirà come un sogno e non si troverà più, si dileguerà come una visione notturna. E l’occhio avvezzo a vederlo, non lo vedrà mai più” (Gb 20, 6-9). La gloria del peccatore, quindi, è come lo sterco (cf. 1Mac 2,62), invece la gloria del giusto è come la stella del mattino in mezzo alle nebbie, come Abramo a Ur dei Caldei, come Lot tra gli abitanti di Sodoma, come Giobbe, fratello dei draghi e degli struzzi (cf. Gb 30,29), come Daniele nella fossa dei leoni.

 

6. “Come la luna nei giorni in cui è piena”. Come la luna piena risplende tutta la notte, così il giusto rivolge la sua attenzione a tutte le specie di peccatori e ha compassione di tutti.

“Come sole che risplende”. Nei raggi del sole si vedono gli atomi: così alla luce della vita del giusto risaltano i nostri difetti. L’atomo è il finissimo pulviscolo, che diventa visibile se è attraversato dai raggi del sole (Isidoro). E perché noi ciechi non vediamo i nostri difet­ti? Per il solo motivo che non li guardiamo attraverso la luminosa vita dei santi. Giobbe li vedeva questi atomi, e diceva: Osserverò gli uomini e dirò: Ho peccato! (cf. Gb 33,27). Il sole attrae a sé anche le gocce d’acqua, e anche il giusto converte a Dio i piccoli, gli umili. Il sole è splendente, caldo e rotondo: il giusto è splendente verso il prossimo, ardente verso Dio e rotondo, cioè perfetto, in se stesso. E questo è anche ciò che dice l’Apo­stolo: “Viviamo in questo mondo con sobrietà, giustizia e pietà” (Tt 2,12).

“Come arcobaleno splendente fra nubi di gloria”. L’arcobaleno è originato dalla riflessione dei raggi del sole contro una nube carica d’acqua. La nube carica d’acqua è figura del giusto, sempre pieno di compassione e di com­pianto verso il prossimo. Egli, ricevendo su di sé i raggi del vero Sole, riversa da se stesso verso gli altri, come da una nuvola, la pioggia della dottrina. Nell’arcobaleno ci sono due colori: il rosso fuoco e l’azzurro (celeste). Il rosso fuoco è il simbolo dell’amore verso Dio, l’azzurro della compassione verso il prossimo. Quest’arcobaleno “risplende tra nubi di gloria”. Il giusto di fronte agli uomini appare nebbioso, cioè disprezzato; dice infatti l’Apocalisse: Il sole divenne nero come un sacco di crine (cf. Ap 6,12); ma al cospetto di Dio rifulge di gloria.

“Come il fiore delle rose nella stagione di primavera”. Nella rosa si notano due cose: la spina e il fiore, la spina che punge e il fiore che delizia. Così nella vita del giusto c’è la spina della compunzione e il profumo della gioia interiore; e questo nella stagione di primavera, perché nel tempo della prosperità si rallegra anche delle avversità.

“E come il giglio lungo un corso d’acqua”. Nel giglio è simboleggiata la purezza dell’anima e del corpo. Dice il Cantico: “Il mio diletto è sceso nel suo giardino a coglie­re i gigli. Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me: egli si pasce tra i gigli” (Ct 6,1-2). Il giardino si chiama in lat.hortus, da orior, nascere, perché in esso nasce sempre qualcosa. Infatti mentre la terra comune produce solo una volta all’anno, il giardino non resta mai senza qualche frutto. Il giardino è figura dell’anima del giusto che dà frutti in continuità e mai ne resta priva. Ad essa scende il Diletto, quando il Figlio di Dio infonde in lei la grazia e nella sua purezza interiore ed esteriore trova il suo riposo. Io, dice l’anima del giusto, appartengo al mio diletto, ed egli appartiene a me: “Il Signore è mia parte di eredità” (Sal 15,5). Egli è la mia eredità e io la sua. E questi gigli sono posti “lungo il corso d’ac­qua”, cioè in questo mondo che va in rovina. Il giusto, anche in mezzo all’abbondanza terrena, conserva illibata la sua vita.

“E come la pianta dell’incenso che spande il suo profumo nella stagione estiva”. L’albero dell’incenso viene inciso in estate per preparare la raccolta autunnale. Così il giusto soffre ed è tribolato nella vita presente, ma in quella futura raccoglierà il frutto della vita eterna.

Quest’argomento è trattato più a fondo nella terza parte del sermone della X domenica dopo Pentecoste, dove viene commentato il vangelo: “La mia casa si chiamerà casa di preghiera”.

“Come un vaso di oro massiccio”. La concavità del vaso, atta a contenere ciò che vi si versa, è figura dell’umiltà di cuore del giusto, atta a ricevere le grazie divine. La superbia infatti impedisce l’infusione della grazia. E ben a ragione il giusto viene detto “vaso d’oro massiccio”: vaso perché umile, d’oro perché limpido e prezioso, massiccio perché “la sua speranza è piena d’immortalità” (Sap 3,4), ornato di ogni sorta di pietre preziose, cioè di ogni genere di virtù.

“Come un ulivo verdeggiante”. Olivo perché misericordioso, verdeggiante perché il giusto si crede sempre agli inizi della sua conversione. Verdeggiante, cioè che germoglia, si dice in lat. pullulans, come dire pollens cum lætitia, virtuoso con gioia: perché “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7).

“Come un cipresso svettante in altezza”. Il cipresso deve il suo nome al fatto che la sua cima è tondeggiante o conica. Il capo del giusto, cioè la sua mente, si innalza verso la rotondità, cioè alla perfezione dell’amore divino e si spinge fino alle altezze della contemplazione.

Beato colui che abiterà in queste dieci città. Queste sono le “città rifugio”: chi si rifugia in esse è salvo (cf. Dt 19,2-3). Se dunque, insieme con Gesù, uscirai dalla regione di Tiro e, attraverso Sidone, giungerai al mare di Galilea, in pieno territorio della Decàpoli, potrai dire anche tu, con il beato Paolo, nell’epistola di oggi: “Questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Gesù Cristo davanti a Dio. Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio” (2Cor 3,4-5). Può nutrire fiducia in Dio per mezzo di Gesù Cristo solo chi esce insieme con lui dal territorio di Tiro. Infatti il disprezzo delle cose terrene determina la fiducia in quelle eterne. E siccome la grazia preveniente e cooperante viene solo da lui, aggiunge appunto: “Non però che siamo capaci di pensare qualcosa di buono”, da parte nostra, che ci difenda, come se provenisse da noi; “ma la nostra capacità viene solo da Dio”.

 

7. Su questo abbiamo la concordanza nell’Ecclesiastico: “Egli trabocca di sapienza come il Fison e come il Tigri nella stagione dei frutti nuovi. Fa traboccare il sentimen­to (l’intelligenza) come l’Eufrate e cresce come il Giorda­no nel tempo della mietitura; egli sparge la scienza come la luce e allaga come il Ghicon nel tempo della vendemmia” (Eccli 24,35-37). Osserva che qui vengono nominati cinque fiumi, nei quali è simboleggiata tutta la perfezione, sia della via che della patria. La perfezione della via comprende tre gradi: gli incipienti, i proficienti e i perfetti. Fison significa “cambiamento del volto”, Tigri “freccia”, Eufrate “fertile”.

Gesù Cristo è per gli incipienti come il Fison: coloro che poco prima parlavano la lingua egiziana, ora parlano la lingua di Canaan, e la loro faccia che era come bruciata dai peccati, adesso è risplendente. Come il fiume Fison si gonfia e inonda le terre, allo stesso modo Cristo fa abbondare la sapienza negli incipienti perché comprendano tutto ciò che riguarda Dio, essi che prima conoscevano solo le cose della carne (cf. Rm 8,5).

Similmente, per i proficienti Gesù Cristo è come il Tigri nei giorni dei frutti nuovi, cioè delle sementi: in quei giorni il Tigri inonda le terre. Considera che nella freccia ci sono tre componenti: il legno, il ferro, e la penna all’estremità posteriore della freccia, per imprimerle la giusta direzione. Cristo con il legno della sua passione, con il ferro del santo timore e la penna del suo amore colpisce e ferisce il cuore dei penitenti, i quali ogni giorno progrediscono e come la buona semente, ogni giorno crescono di virtù in virtù.

Parimenti, Cristo è per perfetti come l’Eufrate: i loro sentimenti e la loro intelligenza si riempiono di fecondi­tà. Di essi l’Apostolo, nella Lettera agli Ebrei, dice: “Il nutrimento solido è per i perfetti, per coloro che per la pratica hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo” (Eb 5,14).

E anche la perfezione della patria consiste in tre cose: nella glorificazione dell’anima, nella glorificazione del corpo e nella visione del Dio Uno e Trino. “Cresce come il Giordano nel tempo della mietitura”. Il Giordano ingrossa le sue acque ricevendole da due fiumi, e questo sta ad indicare la duplice stola di gloria che ci rivestirà. Il tempo della mietitura simboleggia la felicità eterna. È detto giustamente che il Giordano moltiplicherà le sue acque, perché nel tempo della mietitura si riempie di acque più abbondanti e moltiplica le sue acque proprio quando gli altri fiumi ne scarseggiano. Così sarà anche nell’eterna beatitudine: non essendoci più il piacere del male, sarà moltiplicata nei beati stola su stola, cioè gloria e felicità sempre maggiori.

E allora Dio sarà per noi come il Ghicon: egli illuminerà con la visione di sé la chiesa trionfante che sarà assisa di fronte a lui, la feconderà e la sazierà, e questo nel giorno della vendemmia. Giustamente quindi l’Apostolo dice: “La nostra capacità viene da Dio”.

Su questo argomento vedi il sermone della domenica II dopo Pentecoste, dove viene commentato il vangelo: “Un uomo imbandì una gran cena”.

Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di farci uscire dal territorio di Tiro e di farci arrivare, attra­verso Sidone, al mare della penitenza, in pieno territorio della Decàpoli e di farci crescere nella perfezione durante la vita, in modo che meritiamo di salire alla perfezione della gloria. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. la guarigione del sordomuto

 

8. “Gli condussero un sordomuto pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: Effatà!, cioè: àpriti! E subito gli si aprirono gli orecchi e si sciolse il nodo della sua lingua” (Mc 7,32-35).

Vediamo quale sia il significato morale del sordomuto, della mano di Gesù, del fatto di essere portato lontano dalla folla, delle dita, della saliva e del sospiro di Gesù. Il sordo è così chiamato dalle scorie (lat. sordes) che si sono formate nei fluidi degli orecchi. Il muto è chiamato così perché mùgola: la sua voce non si articola in parole ma è un mugolio di suoni indistinti; emette il soffio della voce per le narici, come se muggisse.

Nel cuore dell’uomo, secondo l’affermazione di Salomone, c’è la vita, c’è la fonte del calore che vivifica e alimen­ta le varie membra (cf. Pro 4,23). Il cuore è come il re, che dirige e governa quello “stato” che è il corpo: e dice l’Ecclesiastico: “Il re che siede in trono dissipa con il suo sguardo ogni male” (Pro 20,8). Il trono si chiama in lat. solium, che suona come solido. Quando il cuore dell’uomo si insedia, siede in solio, vale a dire è fermo e costante, allora dissipa ogni male, elimina cioè ogni malizia del corpo, con lo sguardo, vale a dire con il suo discernimento.

Questo re dispone di cinque ministri particolari, cioè dei cinque sensi del corpo, due dei quali gli sono partico­larmente vicini: gli orecchi e la lingua. Con gli orecchi percepisce le cose esteriori, con la lingua esprime quelle interiori. Infatti Rut disse a Booz: “Tu hai parlato al cuore della tua serva” (Rt 2,13); E Isaia: “Parlate al cuore di Gerusalemme” (Is 40,2); e nel salmo: “La bocca del giusto mediterà la sapienza” (Sal 36,30), cioè la proclame­rà dopo aver meditato. Ma se le orecchie vengono otturate dai sedimenti e la lingua si inceppa, che cosa potrà fare il re, che cosa potrà fare il cuore? Il suo regno viene distrutto perché sono distrutti i ministri, per mezzo dei quali venivano trattati gli affari, i segreti di stato, i diritti regali. Che cosa dunque rimane da fare? Rimane un solo e unico partito: condurre il sordomuto da Gesù, e pregarlo che gli imponga la mano.

Il re è lo spirito dell’uomo, gli orecchi simboleggiano l’obbedienza, la lingua la confessione. Dell’orecchio dell’obbedienza Giobbe dice: “Io ti ascoltai con le mie orecchie; ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne faccio penitenza in polvere e cenere” (Gb 42,5-6). Osserva che in questo passo sono posti in evidenza cinque atti: l’obbedienza, la contemplazione, la confessione, la riparazione e il ricordo dell’abie­zione e della fragilità.

 

9. L’obbedienza, quando dice: “Io ti ascoltai con le mie orecchie”. L’udito si chiama così perché raccoglie il suono che vibra nell’aria (in lat.auris, orecchio; haurit, raccoglie). Auris può significare anche àvide rapit, rapisce avidamente. Audio, ascolto, vuol dire percepisco con gli orecchi. L’obbedienza è in realtà obaudientia, un prestare attenzione. Quando la voce del tuo superiore, che è aria, e nulla infatti devi avere della terra, si ripercuote nei tuoi orecchi, devi ascoltarla non con l’orecchio, ma con l’udito dell’orecchio, vale a dire con il sentimento interiore del cuore, dicendo con Samuele: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1Re 3,10).

La contemplazione, quando dice: “Ma ora i miei occhi ti vedono”. Non vedrai se non sarai obbediente. Se sei sordo, sarai anche cieco. Obbedisci dunque con il sentimento del cuore, per vedere con l’occhio della contemplazione. Dice l’Ecclesiastico: Dio pose il loro occhio nel loro cuore (cf. Eccli 17,7). Dio pone l’occhio sul cuore, quando in colui che ubbidisce di cuore infonde la luce della contemplazione.

Dice Zaccaria: “Il Signore è l’occhio dell’uomo e di tutte le tribù d’Israele” (Zc 9,1). Finché il primo uomo nel paradiso terrestre fu obbediente, il Signore fu il suo occhio. Infatti dice la Genesi: “Il Signore, dopo aver plasmato tutti gli esseri animati della terra e gli uccelli del cielo, li condusse ad Adamo, per vedere”, cioè per farglieli vedere, “per vedere come li avrebbe chiamati” (Gn 2,19). Ma quando Adamo divenne disobbediente, non più Dio, ma il diavolo fu il suo occhio cieco. E infatti la Genesi soggiunge: “La donna vide che l’albero era buono da mangia­re, gradevole agli occhi e desiderabile all’aspetto: prese il suo frutto e ne mangiò” (Gn 3,6). Tutte le tribù d’Israele raffigurano i penitenti il quali, finché obbediscono di cuore ai loro superiori, allora sono veramente “Israele”, cioè persone che vedono Dio.

La confessione, quando dice: “Perciò mi ricredo”, vale a dire mi accuso nella confessione. Questi non era muto o sordo, perché sentiva chiaramente, e giusta­mente si rimproverava. E diceva in un altro passo: “Strazio le mie carni con i miei denti” (Gb 13,14). Queste sono le parole del vero penitente: mi lacero le carni, cioè la mia carnalità, con i miei denti, vale a dire con i miei rimpro­veri. Leggiamo in proposito nel Cantico dei Cantici: “I tuoi denti sono un gregge di pecore tosate che tornano dal lavatoio” (Ct 4,2). Il gregge di pecore tosate è figura di tutti i penitenti che si sono tosati delle cose temporali, delle tentazioni, e che progrediscono di virtù in virtù, che escono dal lavaggio delle lacrime con le quali diventano più bianchi della neve.

Fratello, siano i tuoi denti come un gregge di pecore tosate: accusati cioè, rimpròverati e fa’ penitenza, come fanno i veri penitenti.

La riparazione, quando dice: “E faccio penitenza”. Penitenza suona quasi come punientia, punizio­ne, perché l’uomo stesso si punisce per il male commesso. La penitenza deriva il suo nome da pena, con la quale l’anima si castiga nella sofferenza e la carne viene mortificata.

Il ricordo della propria abiezione e fragilità, quando dice: “In polvere e cenere”. Il testo latino dice: in favilla et cinere; “favilla” deriva il suo nome dalla parola greca fos, che significa luce, fuoco, perché è prodotta dal fuoco. Nella favilla è simboleggiato il ricor­do della nostra abiezione. Ahimè, l’eccelso cedro del para­diso terrestre è stato trasformato in favilla dal fuoco del diavolo. Dice Gioele: “A te, Signore, ho gridato perché il fuoco ha divorato tutto lo splendore della steppa e la vam­pa ha bruciato tutti gli alberi della regione” (Gl 1,19).

Vedi anche il secondo sermone della domenica II di quaresima, che commenta il vangelo: “Gesù, partito di lì, si avviò verso le parti di Tiro e Sidone”.

Nella cenere è simboleggiata la nostra fragilità e mortalità: Sei cenere, è stato detto, e in cenere ritorne­rai (cf. Gn 3,19). Chi dunque è privo del senso dell’obbedienza e della lingua della confessione, è veramente sordo e muto.

Abbiamo detto che “sordo” viene da sordes, sozzura. Dice Geremia: “La sozzura è nei suoi piedi” (Lam 1,9). I piedi raffigurano i sentimenti dell’anima, la quale diviene sorda quando i suoi sentimenti sono sopraffatti dalla sozzura dei vizi. Dice infatti Isaia: “Tutte le tavole sono talmente piene di vomito e di sozzure che non c’è più un posto puli­to (Is 28,8). Dove c’è il vomito, vale a dire il ritorno al peccato, c’è l’abiezione della sporcizia che ostruisce gli orecchi del cuore in modo tale che non c’è più posto, cioè non c’è più disposizione all’obbedienza. Di questo sordo si lamenta il Signore con le parole di Isaia: “Chi è sordo, se non colui al quale io mando i miei araldi? Tu che hai le orecchie aperte, non ascolterai?” (Is 42,19-20).

La Storia Naturale ci dice che il cervo, se tiene le orecchie dritte, ha un udito finissimo e subito individua il cacciatore che tenta di colpirlo; ma se tiene le orec­chie penzoloni non sente nulla e neppure si accorge che qualcuno cerca di ucciderlo. Dice perciò Isaia: “Drizzami ogni mattina, drizzami ogni mattina gli orecchi, affinché io ti ascolti come un maestro” (Is 50,4).

O sordo, drizza dunque gli orecchi come il cervo, e ascolta il tuo maestro: allora scoprirai gli agguati del diavolo cacciatore. Ma se hai le orecchie penzoloni, rifiuterai cioè di obbedire, credimi pure che sei destinato alla morte.

 

10. Parimenti ci sono dei muti, che nella confessione si limitano a mugolare, perché confessano i loro peccati balbettando: essi si vergognano di confessarli, i peccati, e non di commetterli. Dice Agostino: La vergogna è la componente maggiore della penitenza. Qui si tratta della vergogna giu­sta, quella che conduce alla gloria, quando uno si vergogna del suo peccato e vergognandosi lo rivela in confessione. Dice infatti Isaia: “Vergògnati, Sidone, dice il mare” (Is 23,4). Il mare, vale a dire l’amarezza interiore, fa sì che l’uomo, rivelando nella confessione il peccato, senta vergogna di averlo commesso.

Dice Ezechiele: “Nel mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente” (Ez 1,4). L’elettro è un metallo composto di oro e di argento. Nell’elettro è simboleggiata la confessione, che proviene dal centro del fuoco, cioè dalla contrizione. Il muto non ha questo elettro.

Dice dunque il vangelo: “Gli conducono davanti un sordo­muto e lo pregano di imporgli la mano”. La mano si chiama così perché è il come il dono (lat. manusmunus), il servizio e la difesa di tutto l’uomo. Infatti la mano porta il cibo alla bocca e assolve tutte le altre funzioni.

La mano è figura del Verbo Incarnato, che il Padre ha donato a tutto il corpo, cioè alla chiesa, come il massimo dei suoi doni. Dono, in lat.munus, viene da moneo, ammoni­re. E il dono così grande fattoci da Dio ci ammonisce e ci esorta ad amare sopra tutte le cose il Padre che l’ha dato a noi. E di questo dono dice anche Isaia: “Come i figli di Israele portano nella casa del Signore il loro dono in un vaso purissimo” (Is 66,20). Il figli d’Israele sono i fedeli, i quali devono portare il loro dono, cioè la fede nel Verbo Incarnato, nel vaso purissimo, cioè nel loro cuore purificato, alla casa del Signore, vale a dire alla santa chiesa.

Similmente, questa mano difende la chiesa, difende l’anima. Dice sempre Isaia: “Sion è la nostra città fortificata; il Salvatore sarà posto in essa come muro e baluardo” (Is 26,1). Muro deriva da munizione, difesa, perché difende tutto ciò che sta dentro la città. Sion, cioè la santa chiesa, è la nostra città fortificata, fuori della quale non c’è salvezza, e in cui il nostro Salvatore stesso è posto come muro e baluardo. Il muro simboleggia la sua divinità, il baluardo la sua umanità. Se la chiesa dunque è difesa dalla mano del Verbo incarnato, si mantiene sicura.

Parimenti questa mano somministra il cibo a tutta la chiesa. Dice il salmo: “Tu apri la tua mano e riempi di benedizione ogni vivente” (Sal 144,16). Quando Cristo stese le mani sulla croce e dopo averle stese le aprì ai chiodi, allora attraverso il foro dei chiodi effuse un tesoro di misericordia e riempì ogni vivente di benedizione. Vivente è detto in lat. animal, perché viene animato e mosso dallo spirito. Ogni vivente,animal, vuol dire ogni anima che viene stimolata dallo spirito di contrizione, e si muove progredendo ogni giorno di virtù in virtù.

Sempre questa mano compie tutte le opere: la creazio­ne, la redenzione, l’infusione della grazia, l’eterna beatitudine. Di essa perciò è detto: “E lo pregavano che gli imponesse la mano”.

 

11. “Gesù lo portò in disparte, lontano dalla turba”. Turba deriva da turbare, perché è confusa e discorde. Chi è degno della guarigione viene portato lontano dai pensieri agitati, dagli atti scomposti e dai discorsi sconvenienti. Racconta infatti la Genesi che due angeli, preso Lot per mano, lo guidarono e lo condussero fuori della città (cf. Gn 19,16-17). I due angeli sono il timore e l’amore di Dio, i quali prendono Lot per mano quando fermano l’azione del peccatore e lo conducono lontano dalla turba dei suoi pensieri e lo portano fuori dalla città delle cattive abitudini.

“Gesù mise le dita nei suoi orecchi”. Le dita si chiama­no in lat. digiti, perché decet, conviene siano unite. Il primo si chiama pollice perchépollet, vale e ha più forza delle altre dita; il secondo si chiama indice, perché serve a indicare, o anche in lat. salutaris, perché lo si alzava in segno di saluto o anche per chiedere la grazia per il condannato. Il terzo è il medio, che sta al centro. Il quarto l’anulare, perché in esso si porta l’anello; è detto anche medicinale, perché con esso i medici raccolgono l’unguento dopo averlo preparato. Il quinto si chiama auricolare,perché con esso ci grattiamo l’orecchio.

Considera che anche nella mano del Verbo Incarnato vi erano queste cinque dita. Egli fu pollice nell’Incarna­zione, indice o salutare nella natività, medio nella predicazione, medicinale o medico nel compiere i miracoli e auricolare nella passione. Il pollice, più corto ma più forte e importante di tutte le altre dita, simboleggia l’umiltà e l’umiliazione del Figlio di Dio, che si fece piccolo nel grembo della Vergi­ne. Per questo dice l’Ecclesiastico: “Piegò la sua forza davanti ai suoi piedi” (Eccli 38,33). Nei piedi è indicata l’umanità, nella forza la divinità; quindi davanti ai piedi dell’umanità ha piegato, cioè ha umiliato la potenza della divinità.

Nella natività l’angelo mostrò quasi con il dito la salvezza, dicendo: “Oggi è nato per voi il Salvatore, e questo sarà per voi il segno: Troverete un bambino” (Lc 2,11.12).

Nella predicazione fu medio, annunziando a tutti il regno dei cieli. Medio viene da modo, cioè da misura. Ed egli misurava la parola di vita ad ognuno secondo la sua capacità.

Egli fu medicinale, o medico nel compiere i miracoli. Dice l’Ecclesiastico: “Onora il medico perché ne hai necessità” (Eccli 38,1).

Nell’orecchio (nel dito che gratta l’orecchio) è indicata l’obbedienza: “Egli fu obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8), sulla quale portò a compimento l’opera che il Padre gli aveva affidata (cf. Gv 17,4).

Dice ancora l’Ecclesiastico: “Il vasaio, seduto al suo lavoro, fa girare con i piedi la ruota ed è sempre attento al suo lavoro” (Eccli 38,32) Il vasaio è figura di Gesù Cristo che si sedette, cioè si umiliò, al suo lavoro, vale a dire per la salvezza del genere umano, e con i piedi della sua umanità invertì la rotazione della natura umana affinché essa, che correva alla morte, si dirigesse verso la vita. E fu sempre pieno di sollecitudine, di attenzione nei nostri riguardi finché non ebbe portato a compimento la sua opera. Infatti alla fine disse: “Tutto è compiuto!”(Gv 19,30).

Con queste cinque dita, dunque, il Signore guarì la sordità del genere umano.

 

12. “E con la saliva toccò la sua lingua”. Il testo latino usa il verbo spùere, sputare, che significa emettere dalla bocca la saliva.

La saliva scende dalla testa ed è chiamata così perché è salata. Il serpente muore, se assaggia la saliva dell’uomo digiuno (Plinio). Finché è in bocca si chiama saliva, quando si emette si chiama sputo. La saliva del Signore è il sapore della sapienza, la quale dice: “Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo” (Eccli 24,5). Quindi il Signore emette la saliva, tocca con essa la lingua del muto per farlo parlare, quando con il contatto della sua pietà rende atte a pronunciare le parole della sapienza le bocche che per lungo tempo sono state mute al momento di confessare i loro peccati.

In riferimento a ciò leggiamo in Isaia: “Uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le mole dall’altare. Egli mi toccò la bocca e mi disse: Ecco, questo ha toccato le tue labbra per far scomparire la tua iniquità e purificarti dal tuo peccato” (Is 6,6-7). I due serafini sono figura del Figlio e dello Spirito Santo. Il Figlio volò a compiere la redenzione del genere umano. Egli, che era Figlio di Dio per la divinità, divenne figlio dell’uomo per l’umanità; ma anche così il Figlio restò uno solo, non due. Questo serafino, come scrive Isaia, aveva sei ali (cf. Is 6,2), figura di quelle sei qualità che lo stesso profeta enumera dicendo: “Il suo nome sarà: ammirabile, consigliere, Dio, potente, padre del secolo futuro, principe della pace” (Is 9,6).

Fu ammirabile nella natività; infatti dice Geremia: Il Signore farà una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l’uomo (Ger 31,22). Fuconsigliere nella predicazione: “Se vuoi essere perfetto, vendi ciò che possiedi e seguimi” (Mt 19,21). Fu Dio nel compimento dei miracoli: “Dio stesso verrà e ci salverà. Allora si apriranno gli occhi ai ciechi e le orecchie dei sordi; lo zoppo salterà come un cervo e si scioglierà la lingua dei muti” (Is 35,4-6). Fu potente nella passione, quando con le mani inchiodate sulla croce sbaragliò le potenze dell’aria; e ci può essere potenza più grande che sconfiggere il proprio nemico con le mani legate? Fu padre del secolo futuro nella risurrezione: risorgendo dai morti ha dato anche a noi la sicura speranza di risorgere alla vita futura, nella quale ci sarà padre per sempre perché ci accoglierà presso di sé come figli suoi. Sarà il nostro principe della pace nell’eterna beatitudine, nella quale ci farà sedere alla sua mensa e passerà a servirci (cf. Lc 12,37).

E su questo abbiamo la concordanza nell’Ecclesiastico, dove il Signore parla al Padre: “Rinnova i segni e compi altre meraviglie, glorifica la tua mano e il tuo braccio destro; eccita lo sdegno e riversa l’ira; innalza l’avver­sario e abbatti il nemico; affretta il tempo e ricordati di giungere alla conclusione” (Eccli 36,6-10).

Il Padre rinnovò i segni e compì altri prodigi nella natività del Figlio suo. Si ha il segno quando, da ciò che si vede, si capisce qualcos’altro che ha un significato diverso.

Il primo Adamo fu formato con la terra vergine; e questo indicava che il secondo Adamo sarebbe nato da quella terra benedetta che fu la Vergine Maria. Fece meraviglie quando il fuoco ardeva e il roveto non si consumava (cf. Es 3,2), quando la verga di Aronne senza rugiada produsse frutto (cf. Nm 17,8). Il roveto e la verga sono figura della Vergine Maria che, conservando intatto il candore della verginità, partorì senza dolore il Figlio di Dio.

Giustamente quindi è detto: “Rinnova i segni e compi altre meraviglie; glorifica la tua mano” nella predicazio­ne, “e il tuo braccio destro”, cioè lo stesso tuo Figlio, per mezzo del quale tutto hai creato: glorificalo con il compimento dei miracoli. Il Figlio stesso disse: “Glorificami, Padre” (Gv 17,5).

“Eccita il tuo furore e riversa la tua ira” sul diavolo, nella tua passione; “innalza” nella tua risurrezione “l’avversario”, cioè la natura umana, e così “distruggerai” il suo nemico, il diavolo. Mai il nemico tanto si abbatte, come quando vede il suo avversario circonfuso di gloria.

“Affretta il tempo” per venire presto al giudizio, dove renderai a ciascuno ciò che è giusto. Affretta il tempo di concedere la pace ai tuoi. “Signore, dice Isaia, tu ci darai la pace” (Is 26,12). “Ricordati di giungere alla conclu­sione”, quando ripagherai gli empi secondo le loro opere. Diciamo dunque: “Uno dei due serafini volò verso di me”.

“E nelle sue mani aveva un carbone ardente, che aveva preso con le molle dall’altare”. Il carbone è una specie di sasso misto a terra; è detto in lat. calculus, da calcare, pestare, perché è piccolo e viene pestato. In questo passo però il termine calculus è usato invece di carbone.

Questo carbone simboleggia l’umanità di Cristo che, con la sua umiltà e la sua umiliazione si mescolò alla terra, cioè ai peccatori, fu calpestato dai giudei, ma per noi fu un carbone ardente che ci liberò e ci purificò dai nostri vizi. Egli lo tenne in mano, cioè lo portò con la potenza della sua divinità, e con la molla del suo duplice amore l’ave­va preso dall’altare della gloriosa Vergine Maria.

Considera che la molla è chiamata in lat. forceps, fòrcipe, tenaglia del fabbro, perché afferra con forza; suona come ferricipes, che prende il ferro, o anche forcicapes, che afferra ciò che scotta. Quindi: il forcipe è usato dei fabbri; le forbici, in lat. forfices, da filo, sono adoperate dai sarti; le pinzette, in lat. forpices, da pelo, sono usate dai medici e dai barbieri.

Giustamente Maria è detta altare. Altare suona come alta ara. Alto può significare sia alto che profondo. L’ara, cioè l’altare, è così chiamata perché su di essa ardono (ardent), bruciano le vittime, i sacrifici. La beata Vergine Maria fu alta per la sublimità della contemplazione e profonda per la sua grande umiltà. Fu ara perché, ardente di divino amore, offrì se stessa a Dio in sacrificio di soave profumo (cf. Ef 5,2).

“E con il carbone ardente toccò la mia bocca”. E appunto ciò che dice il vangelo di oggi: “Con la saliva toccò la lingua del muto”. Il serafino con il carbone ardente tocca la bocca di Isaia e il peccato viene cancellato. Gesù Cristo tocca con la sua saliva la lingua del muto, e questi parla; tocca la bocca del peccatore con il carbone ardente della sua umanità e la sua lingua con la saliva della sua divinità affinché confessi il suo peccato, parli rettamente e venga da esso liberato e purificato.

 

13. “E guardando al cielo, sospirò e disse: Effetà!, cioè: àpriti!”. Commenta la Glossa: Ci insegnò a sospirare e a rivolgere verso il cielo il tesoro del nostro cuore, il quale per mezzo della compunzione viene purificato dal miserabile piacere della carne. Infatti sta scritto: “Ruggivo per il gemito del mio cuore” (Sal 37,9); “E gli disse: Effetà” (Mc 7,34); “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per ottenere la salvezza (Rm 10,10). “E subito gli si aprirono gli orecchi” all’ob­bedienza, “e si sciolse il nodo della sua lingua” per professare la sua fede. E fa’ attenzione che dice: “e parlava correttamente”. Parla correttamente colui che confessa integralmente i suoi peccati con le relative circostanze e fa il proposito di non più ricadervi.

Allo stesso modo, parla correttamente colui che testimonia con le opere ciò che predica con la bocca. E su questo abbiamo una concordanza nell’Ecclesiastico: “Le labbra di molti benediranno chi è splendido nel dare il pane, e vera è la sua testimonianza alla verità” (Eccli 31,28). Chi distribuisce fedelmente il pane della parola di Dio e non nasconde la testimonianza alla verità, sarà benedetto nel presente e nel futuro.

Quanti sono oggi splendidi a parole ma lebbrosi con i fatti. Si racconta nell’Esodo che la faccia di Mosè apparve cornuta (cf. Es 34,30). Commenta Origène: Come mai solo la faccia di Mosè apparve splendente, mentre la mano era lebbrosa e i piedi oscuri? Perché il Signore gli comandò di scalzarsi quando lo chiamò dal roveto.

Questo si può applicare a quei predicatori che hanno fama e splendore soltanto per la predicazione, ma poi sono corrotti nella loro condotta, e possono essere detti scalzi e non veri sposi della chiesa, meritevoli che si sputi loro in faccia, perché al fratello morto, Gesù Cristo, non vogliono suscitare figli (cf. Dt 25,5-10), anzi, se ce ne sono, li uccidono con il cattivo esempio della loro vita. È detto nel salmo: “Alzarono i fiumi, Signore, alzarono i fiumi la loro voce” (Sal 92,3). Prima dovrebbero alzare, elevare se stessi, e poi alzare la loro voce; per questo è detto: “Parlava correttamente”.

 

14. Con questa seconda parte del vangelo, concorda la seconda parte dell’epistola: “Dio ci ha resi ministri adatti del Nuovo Testamento (della Nuova Alleanza), non della lettera ma dello Spirito: perché la lettera uccide e invece lo Spirito dà vita” (2Cor 3,6). Ecco come l’epistola concorda con il vangelo, e con l’epistola concorda anche l’introito della messa. Nel vangelo si dice che il Signore mise le dita negli orecchi del sordo, e nell’epistola che la legge fu scritta sulla pietra dal dito di Dio; nell’in­troito si canta: “Guarda al tuo testamento” (Sal 73,20), e nell’epistola si legge: “Dio ci ha resi ministri adatti del Nuovo Testamento, di una Nuova Alleanza”.

Diciamo dunque: “Ci ha resi ministri adatti del Nuovo Testamento”. Si dice “ministro” come per dire “minore” in un posto, in un ufficio, o perché la sua incombenza la esegue con le mani. Il testamento poi si chiama così perché contiene una volontà espressa in scritto davanti a testimoni e conferma­ta dal testatore; o anche perché il testamento non ha valore se non dopo che il testatore è stato posto nel monumento, cioè il sepolcro. Dice infatti l’Apostolo: Il testamento ha valore soltanto dopo la morte di colui che lo ha fatto (cf. Eb 9,17).

Sono ministri adatti del Nuovo Testamento quelli, che poste le cinque dita di Gesù Cristo negli orecchi, prima ascoltano e poi dicono: Vieni!; coloro che parlano correttamente, che si ritengono minori nell’assemblea dei fedeli, che compiono il dovere assegnato con le mani e con le opere, per poter essere degni di distribuire il verbo del Nuovo Testamento, confermato nella morte di Gesù Cristo.

E a questo proposito, nell’in­troito della messa di oggi si canta: Guarda, Signore, al tuo testamento: non dimenti­care mai, sino alla fine, le anime dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, e difendi la tua causa, e non dimenticare la voce di coloro che ti cercano (cf. Sal 73,20.19.23).

O Signore Gesù, “guarda al tuo testamento”; tu, per non morire intestato, lo hai confermato ai tuoi figli con il tuo sangue: concedi loro di annunziare con fiducia la tua parola (cf. At 4,29). Guarda “le anime dei tuoi poveri” che hai redento, che non hanno alcuna eredità se non te; “non abbandonarle, sino alla fine”. Con il bastone della tua potenza sostieni, Signore, i poveri perché sono tuoi; conducili tu, non abbandonarli, affinché senza di te non vadano errando, ma guidali sino alla fine, perché in te realizzati, possano giungere a te che sei il loro fine.

“àlzati, Signore”, adesso che sembri addormentato, che sembri non accorgerti dei peccati degli uomini, perché attendi che facciano penitenza(cf. Sap 11,24), “e difendi la tua causa”, separala cioè dall’iniquità, dividi il grano dalla paglia; difendi le anime per le quali sei stato chiamato in giudi­zio davanti a Ponzio Pilato. Dice infatti il salmo: “Hai sostenuto il mio diritto e la mia causa” (Sal 9,5). “E non dimenticare le voci di quelli che ti cercano”.

È ciò che dice il vangelo: “Parlava”, ecco le voci, “correttamente”, ecco quelli che ti cercano. Certamente Dio non dimentica queste voci, anzi le conserva nel tesoro della sua gloria e un giorno le retribuirà con l’eterna ricompensa.

Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, che con le dita della tua incarnazione tu ci apra gli orecchi, e con la saporosa saliva della tua sapienza tocchi la nostra lingua, affinché possiamo obbedirti, lodarti, benedirti, e meritia­mo di giungere a te che sei benedetto e glorioso.

Accordacelo tu, che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli eterni. E ogni anima fedele risponda: amen, alleluia!

 

 

P R O L O G O

 

Rivolgiamo i sensi della nostra riconoscenza alla grazia settiforme, con il cui aiuto siamo giunti alla prima domenica del settimo mese.

C’è da notare che in questa prima domenica e nella seguente si legge nella chiesa il libro di Giobbe. Secondo quanto ci sembrerà meglio, e Dio ci concederà, vedremo di concordare alcuni passi di questo libro con le parti del vangelo di questa domenica e della prossima.

 

DOMENICA

XIII DOPO PENTECOSTE

Temi del sermone

 

– Vangelo della tredicesima domenica dopo Pentecoste: “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete”; lo divideremo in tre parti.

– Anzitutto sermone sull’utilità della predicazione: “Un torrente divide la pietra della caligine”.

– Parte I: La natività e la passione del Signore: “Beato io sarò”, e “Ho cucito un sacco sulla mia pelle”.

– Sermone sulla natività del Signore: “Se vi sarà un angelo presso di lui”, e “Come il granello di senape”.

– Parte II: Sermone sull’amore di Dio e sulla posizione del cuore nell’uomo: “Amerai il Signore, Dio tuo”.

– Sermone sulla passione: “Il mazzetto della mirra”.

– Sermone sull’anima e le sue potenze: “Con tutta la tua anima”.

– Sermone morale sulla vita del prelato o del predicatore “La lucerna di Dio brillava sul mio capo”.

– Sermone sulla vita del giusto: “Nella terra di Hus c’era un uomo di nome Giobbe”.

– Sermone contro coloro che bramano la lode degli uomini: “Se vedevo il sole risplendere”.

– Sermone ai penitenti: “Se ti rivolgi a Dio di buon mattino”.

– Parte III: Sermone sulla caduta del progenitore e la misericordia del Redentore: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”.

– Sermone morale sui sette figli di Giobbe, figura delle sette beatitudini: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”.

– Sermone sulla penitenza del giusto: “Perisca il giorno in cui nacqui”.

– Sermone contro gli ipocriti e coloro che bramano il prestigio delle dignità: “Avvenne che un sacerdote passasse di là”; e “Abimelech combatteva”; e “Sono come gli ònagri”, e tutto ciò che segue.

 

esordio - utilità della predicazione

 

1. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (Lc 10,23).

Dice Giobbe: “Un torrente divide la pietra della caligine e l’ombra della morte dal popolo che va peregrinando” (Gb 28,3-4). Vediamo quale significato abbiano la pietra della caligine, l’ombra della morte, il torrente e il popolo che va peregrinando.

Il torrente è la predicazione. Come il torrente abbonda di acqua in inverno e si prosciuga in estate, tanto che si dice che con la pioggia si gonfia e con la siccità si prosciuga, così la predicazione abbonda, e deve abbonda­re, nell’inverno della misera vita presente. A questo torrente, durante il cammino di questo esilio, l’anima, lonta­na dal volto e dagli occhi di Dio, deve dissetarsi e su di esso fermarsi e contemplare se stessa, come la colomba.

Ma contro l’anima infelice, sempre Giobbe inveisce dicendo: “Non vedrà più corrente di fiumi, torrenti di miele e di burro” (Gb 20,17). Nel fiume è simboleggiata l’acqua della compunzione che lava le brutture dei peccati; nel torrente di miele è simboleggiata la sacra Scrittura che consola e illumina: infatti il miele, come è scritto nel primo libro dei Re, rischiarò gli occhi a Gionata (cf. 1Re 14,27); nel torrente di burro è simboleggiata la devozione prodotta dalla grazia, che arricchisce la mente.

Quindi l’anima, dedita ai piaceri della carne, non vede più la corrente del fiume, perché non piange su se stessa, né vede i torrenti di miele e di burro perché non viene illuminata dalla dolcezza della predicazione né nutrita dalla devozione, prodotta dalla grazia. Questo torrente si prosciugherà nell’estate, cioè nella beatitudine della vita eterna. Dice infatti Geremia: Uno non dovrà più istruire il suo prossimo o il suo fratello, dicendogli: Riconosci il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande (cf. Ger 31,34).

Quanto grande però sia nel frattempo l’utilità della predicazione, lo afferma Giobbe dicendo: “Un torrente divide la pietra della caligine e l’ombra della morte dal popolo che va peregrinando”. La pietra si chiama in lat. lapis, lapide, perché ferisce il piede (in lat. laedit pedem). La caligine, prodotta dalla densità dell’aria, è chiamata così perché è prodotta soprattutto dal calore dell’aria. La pietra della caligine raffigura la tentazione del diavolo il quale, avendo la sua dimora in quest’aria caliginosa, insinua nella mente la caligine della sua rovente suggestione, proprio per ferire e sconvolgere i sentimenti.

L’ombra è l’aria senza sole, e si forma quando si pone un corpo davanti ai raggi del sole. La morte è così chiamata perché amara; e l’ombra della morte è la dimenticanza della mente. Il misero uomo mette davanti ai raggi del vero Sole l’impedimento, che sono le ricchezze, per trovare sotto di esse refrigerio come sotto un’ombra; ma quando è coperto da questa ombra, viene privato anche della conoscenza e del ricordo del Signore. Infatti le cose temporali fanno dimenticare Dio. Dice la Genesi: “Il capo dei coppieri del faraone, tornato alla prosperità, non si ricordò più di colui che gli aveva interpretato il sogno” (Gn 40,23).

Quindi il torrente, cioè la predicazione, separa la pietra della caligine, cioè la tentazione del diavolo, e l’ombra della morte, cioè la dimenticanza della mente, dal popolo che va peregrinando, vale a dire dai penitenti, dai poveri di spirito, dai seguaci degli apostoli, i quali si reputano miseri e pellegrini, esuli e ospiti in questo esilio; ad essi, nel vangelo di oggi, il Signore dice: “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete”.

 

2. Fa’ attenzione che in questo vangelo sono poste in evidenza tre fatti. Primo, la beatitudine di chi vede il Cristo, quando dice: “Beati gli occhi che vedono”. Secondo, l’amore di Dio e del prossimo, quando dice: “Un dottore della legge si alzò”. Terzo, la discesa dell’uomo da Gerusalemme a Gerico, quando dice: “Un uomo discendeva da Gerusalemme a Gerico”.

Nell’introito della messa di oggi si canta: “Guarda, o Dio nostra difesa” (Sal 83,10). Si legge quindi un brano della lettera del beato Paolo apostolo ai Galati: “Ad Abramo sono state fatte le promes­se” (Gal 3,16). Divideremo il brano il tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: “Ad Abramo sono state fatte le promesse”. Seconda parte: “Ora io dico: un testamento...”. Terza parte: “Ora, non si dà mediatore...”. E osserva che la ragione per cui questo brano della lettera viene letto insieme con questo vangelo è che il contenuto di entrambi concorda con legge data a Mosè.

 

I. beatitudine di chi vede cristo

 

3. “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono” (Lc 10,23-24).

Anche Tobia infatti diceva: “Beato sarò io se rimarrà un resto della mia discendenza, per vedere lo splendore di Gerusalemme” (Tb 13,20), vale a dire l’umanità di Gesù Cristo. La futura discendenza del beato Tobia furono gli apostoli, “stirpe che il Signore ha benedetto” (Is 61,9); e di esso sempre Isaia dice: “Progenie santa sarà quello che resterà di lei” (Is 6,13), cioè la chiesa.

Questa fu la discendenza di Tobia per mezzo della fede e della sofferenza, e perciò meritò di vedere il trionfo di Gerusalemme. E quindi viene loro detto: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete”. Vedevano un uomo, ma credevano che era Dio (cf. Gv 20,28). Beati gli occhi dei puri di cuore, che vedono Gesù Cristo. Dice infatti Giobbe: “Ora invece ti vedono i miei occhi” (Gb 42,5). Beati gli occhi che lo sterco delle ricchezze non acceca, e che la cisposità delle preoccupazioni terrene non offusca, perché essi vedono il Figlio Dio avvolto in miseri pannicelli, adagiato in una mangiatoia, fuggiasco in Egitto, seduto su di un asinello, appeso nudo sul patibolo della croce. Così lo videro gli apostoli. Così non lo possono vedere gli occhi cisposi. Dice il salmo: “Cadde su di loro il fuoco e non videro più il sole” (Sal 57,9). Gli occhi cisposi non sono in grado di vedere il sole.

 

4. Il sole è Cristo, il quale per poter essere veduto si avvolse in una nube. Infatti egli stesso dice: “Ho cucito un sacco sopra la mia pelle e ho coperto di cenere la mia carne. La mia faccia è gonfia per il pianto e le mie palpebre si sono oscurate. Ho sofferto tutto questo, benché le mie mani fossero senza peccato e le mie preghiere fossero pure davanti a Dio. O terra, non coprire il mio sangue, e non ci sia luogo in te dove resti soffocato il mio grido” (Gb 16,16-19).

Nel sacco e nella cenere sono indicate le tribolazioni e l’abiezione della natura umana. Gesù Cristo con il sacco della nostra natura si fece una tunica, che si confezionò con l’ago, cioè con il misterioso intervento dello Spirito Santo, e con il filo, vale a dire con la fede della beata Vergine, e se ne rivestì; quindi su questa tunica (sulla sua umanità) sparse la cenere del­l’umiltà e dell’abiezione. Questo gli occhi cisposi e maledetti non sono in grado di vederlo.

Ahimè! Il volto di Gesù Cristo fu gonfio di schiaffi e di lacrime, cosa che egli subì benché le sue mani fossero pure da iniquità: egli non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca (cf. Is 53,9); egli offrì a Dio Padre preghiere monde a favore degli immondi e degli scellerati; egli, come dice Isaia, pregò per i trasgressori della sua legge (cf. Is 53,12), dicendo: “Padre, perdona loro...” (Lc 23,34).

O terra, o peccatore, non coprire con l’amore delle cose terrene il mio sangue, che è il prezzo della tua redenzio­ne; permetti, ti prego, che questo sangue produca in te il suo frutto. Sulla tua fronte ho scritto con esso il segno Tau (T), affinché l’angelo mandato a colpire non colpisca anche te (cf. Ez 9,4-5). Ti scongiuro, non coprire di terra quel segno, non distruggere l’iscrizione del titolo, che Pilato stesso non volle cancellare, ma confermò dicendo: “Ciò che ho scritto, ho scritto!” (Gv 19,22).

“Non si trovi in te luogo dove resti soffocato il mio grido”. Il grido del nostro Redentore è il sangue della redenzione il quale, come dice l’Apostolo nella lettera agli Ebrei, ha la voce più eloquente di quella del sangue di Abele (cf. Eb 12,24); infatti il sangue di Abele chiedeva la morte del fratricida, mentre il sangue del Signore ottenne la vita per i suoi uccisori. Ma questo sangue trova in noi un luogo dove viene soffo­cato il suo grido, se la lingua tace ciò che la mente crede. Questo sacco, questa cenere, gli occhi cisposi non li vedono; questo grido gli orecchi sordi non lo sentono. E perciò il Signore soggiunge: “Io vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono”.

Nei profeti sono raffigurati i prelati della chiesa, nei re i potenti di questo mondo. Sia quelli che questi deside­rano vedere Cristo in cielo, ma non vogliono contemplarlo appeso al patibolo. Vogliono regnare con Cristo ma anche godere con il mondo. Tutti costoro dicono insieme con Balaam: “L’anima mia muoia della morte dei giusti” (Nm 23,10). Essi vogliono vedere la gloria della divinità, che gli apostoli videro, ma non vogliono accettare l’ignominia della passione, la povertà di Cristo che i suoi apostoli hanno sopportato, e quindi non lo vedranno insieme con gli apostoli, ma insieme con gli empi vedranno soltanto colui che hanno trafitto (cf. Gv 19,37). E non sentiranno il mormorio di una brezza leggera (cf. 3Re 19,12): “Venite, benedetti del Padre mio!”, ma il tuono terrificante della condanna: “Via da me, maledetti, al fuoco eterno...”(Mt 25, 34.41).

 

5. Dice in proposito Giobbe: “Il tuono della sua potenza chi può comprenderlo?” (Gb 26,14). E di nuovo: “Non hai afferrato e scosso i lembi della terra e non ne hai sbattuto via i malvagi?” (Gb 38,12-13). Il Signore ha afferrato i lembi della terra quando ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato, per confondere i potenti (cf. 1Cor 1,27).

Fa’ attenzione alle due parole “hai afferrato” e “hai scosso via”. Il padre afferra con una mano il figlio e con l’altra lo scrolla e lo picchia; lo afferra perché non cada nel precipizio, e lo picchia perché non diventi superbo e insolente. Così il Signore afferra con la mano della sua misericordia il giusto perché non cada nel peccato; lo col­pisce perché non si insuperbisca della grazia ricevuta dal Padre. Perciò dice l’Apostolo: “Affinché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne…”, ecc. (2Cor 12,7).

“E hai sbattuto via da essa i malvagi”. Nel giorno del giudizio il Signore scuoterà via i malvagi dalla nostra terra, nella quale hanno peccato, e li sbatterà all’infer­no, come si sbatte la polvere da un sacchetto. La terra stessa, oppressa dal peso dei loro peccati, si scuoterà di dosso i malvagi e li sbatterà all’inferno, nel quale ci sarà pianto degli occhi che si sono perduti dietro alle vanità, e stridore dei denti (cf. Mt 8,12) che hanno strappato ai poveri i loro beni. Gli occhi di tutti costoro non vedranno Gesù in cielo; vedranno invece la moltitudine dei demoni nell’inferno. Essi non sentiranno le melodie angeliche ma solo lo stridore dei denti.

 

6. Con questa parte del vangelo concorda l’introito della messa di oggi: “Guarda, o Dio, nostro protettore, guarda il volto del tuo Cristo. Vale più un sol giorno nei tuoi atri, che mille altrove” (Sal 83,10-11). Beati gli occhi che vedranno nell’amarezza del cuore il volto di Gesù Cristo, gonfio di schiaffi e di lacrime, coperto di sputi, perché quel volto nel quale gli angeli bramano fissare lo sguardo (cf. 1Pt 1,12), essi lo contempleranno splendente di gloria negli atri della Gerusalemme celeste.

Dice in proposito Giobbe: “Vedrà nel giubilo il suo volto” (Gb 33,26), come dicesse: Se prima l’uomo, nell’amarez­za del cuore, avrà veduto quaggiù il volto di Cristo, come lo ebbe nella passione, lo vedrà poi, come lo avrà nella beatitudine eterna, nel giubilo dello spirito, un giubilo che non si può né esprimere né tacere.

Questo splendore del volto di Cristo è quel “solo giorno” che illuminerà senza alcun impedimento la città di Gerusalemme, uno splendore superiore ad ogni altro; per essere degni di giungervi dobbiamo pregare il Padre dicen­do: “Vedi, o Dio, nostro protettore!”. La protezione di Dio ci sembra meno necessaria quando l’abbiamo in continuazio­ne; conviene che talvolta venga sottratta, perché così l’uomo si convinca che senza di essa è un nulla.

“Vedi, o Dio, nostro protettore, e guarda il volto del tuo Cristo”. Padre, non guardare ai nostri peccati; guarda il volto del tuo Cristo, che per i nostri peccati è stato coperto di sputi, fu gonfiato di schiaffi e di lacrime per riconciliare con te noi peccatori. Egli, per ottenerci il tuo perdono, ti mostrò il suo volto colpito dagli schiaffi perché tu lo guardassi e, guardandolo, rivolgessi la tua benevolenza a noi, che siamo stati la causa della sua passione.

 

7. Anche su questo abbiamo una concordanza nel libro di Giobbe: “Se ci sarà un angelo che parlerà in suo favore e mostrerà la sola cosa in cui gli è simile, per annunziare la giustizia dell’uomo, Dio avrà misericordia di lui e dirà: Lìberalo, che non scenda nella fossa: ho trovato un motivo per essere benigno con lui. La sua carne infatti si è consumata nei tormenti; ritorni ai giorni della sua adolescenza” (Gb 33,23-25).

In quest’angelo è raffigurato Cristo; egli mostra al Padre la sola somiglianza che ha con noi. Egli infatti è infinitamente superiore a noi in tutte le sue manifesta­zioni: in una sola cosa non è diverso da noi, nella realtà della sua condizione di servo (cf. Fil 2,7). Egli parla per noi al Padre proprio nella condizione per la quale si mostra simile a noi e parla al Padre per mezzo di ciò che lo rende a noi uguale. Il suo parlare è un mostrarsi uomo a nostro favore: al di fuori di lui non si troverebbe alcun giusto che, esente da peccato, intercedesse per i peccatori.

“Avrà misericordia di lui”. È mediatore, quindi ha pietà dell’uomo, perché dell’uomo ha assunto la condizio­ne. “E dice: Lìberalo, perché non scenda nella corruzione”. La sua parola è già liberazione dell’uomo: assumendo la natura umana, la dimostra libera, e per mezzo della carne che ha assunto, ha dimostrato libera anche quella che ha redento.

“Ho trovato in lui un motivo per essergli benigno”, come se dicesse apertamente: Poiché non c’era uomo alcuno che sembrasse degno di intercedere per gli uomini davanti a Dio, mi sono fatto uomo io stesso per intercedere a favore degli uomini. E presentandomi come uomo, nell’uomo stesso ho trovato il motivo per essere propizio agli uomini.

“La sua carne si è consumata nei tormenti”. Il genere umano infatti era oppresso da innumerevoli tormenti di vizi e di castighi ma, arrivato il Redentore, ritorna ai giorni della sua adolescenza, ritorna cioè all’integri­tà della sua primitiva vita, per non restare nella condizione in cui è caduto, ma con la redenzione ritorni a quello stato nel quale era stato creato.

 

8. Con questa prima parte del vangelo concorda anche la prima parte dell’epistola di oggi: “Ad Abramo sono state fatte le promesse e alla sua discendenza. Non dice: E ai suoi discendenti, come se trattasse di molti, ma: e alla sua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo” (Gal 3,16), il quale fu come il granellino di senape, seminato nel giardino della beata Vergine Maria: per la povertà e l’umiltà fu il più piccolo di tutti i semi, cioè di tutti gli uomini, nella sua natività; crebbe quindi nella sua predicazione e nel compimento dei miracoli: e in questo fu più grande di tutte le piante, cioè di tutti i patriarchi dell’Antico Testamento. Diventò poi un albero nella sua risurrezione e allargò i suoi rami con la predicazione degli Apostoli, e così gli uccelli del cielo, cioè i fedeli della chiesa, accorrono per mezzo della fede, e per mezzo della speranza e della carità prendono dimora tra i suoi rami (cf. Mt 13,31-32), cioè nel suo insegnamento e nei suoi esempi.

Beati quindi coloro che vedono ora, per mezzo della fede, colui nel quale sono benedette tutte le genti, e che lo vedranno poi di presenza nella gloria celeste e lo sentiranno dire: “Venite, benedetti del Padre mio” (Mt 25,34).

Cristo stesso si degni di condurci a questa visione e ad ascoltare questa voce, egli che è Dio benedetto nei secoli eterni. Amen.

 

II. amore di dio e amore del prossimo

 

9. “Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova e gli chiese: Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? Gesù gli disse: Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi? Quegli rispose: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso. Gesù gli disse: Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai” (Lc 10,25-28). Osserva che in questo brano del vangelo è racchiusa tutta la perfezione della via e della patria. Ogni parola di questo brano è di grande importanza e di grande utilità. Perciò tratteremo brevemente di ognuna di esse.

Amore viene detto in lat. dilectio, perché lega tra loro due persone (in lat. duos ligat). Infatti l’amore incomincia da due (persone); l’amore di Dio e l’amore del prossimo dev’essere inteso soltanto in senso buono. Amare, diligere, significa legare tra loro due per­sone. Il Signore è detto in lat. Dominus, perché domina su tutto il creato, oppure perché “comanda nella casa”, in lat. domui praeest, o anche perché “fa minacce”, in lat. dat minas.

Dio si dice in ebraico Eloe, che significa timore; in greco si dice Theòs, che viene da theorèo, vedo, perché Dio vede tutte le cose. Theo vuol dire anche corro, perché Dio tutto percorre, o perlustra.

L’amore, dilectio, lega Dio e il prossimo. Questa è la linea di cui dice il Signore nel libro di Giobbe: “Chi ha teso sulla terra la linea (la misura)? Su chi ha assicurato le sue basi? (Gb 38,5-6). Il Signore ha teso la linea, la misura del suo amore sull’anima, affinché essa si prolunghi fino all’amore del prossimo. “Su chi”, se non su Gesù Cristo, “sono assicurate le sue basi”, cioè le rette intenzioni dell’anima, sulle quali si sorregge tutto l’edificio delle virtù? Se la base di ogni intenzione non è assicurata su Cristo, tutta l’opera di costruzione minaccia di rovinare, e la sua rovina sarà grande (cf. Mt 7,27). “Ama dunque il Signore, Dio tuo!”

Fa’ attenzione ai due termini: Signore e Dio. Signore, Dominus, perché domina su tutto il creato; Dio, perché tutto vede e tutto perlustra. Per questo Zofar, il Naamatita, dice di lui: “Dio è più alto del cielo: che cosa puoi fare? È più profondo degli inferi: come potrai conoscerlo? Si estende più della terra ed è più ampio del mare. Se tutto sconvolge, o se tutto vuole restringere, chi potrà opporsi a lui? O chi potrà dirgli: Perché fai cosi?” (Gb 11,8-10; 9,12).

Osserva: gli angeli sono qui chiamati cieli, i demoni inferi, i giusti terra e i peccatori mare. Gli angeli dunque non arrivano alla sua altezza; giudica la malizia dei demoni molto più severamente di quanto pensino; la sua pazienza supera la longanimità dei giusti ed egli ha sempre presenti tutte le opere dei peccatori. Oppure: l’uomo diventa cielo con la contemplazione, inferno con l’offuscamento della tentazione, terra quando porta frutto, e mare quando si agita nella sua incostanza. Ma anche la contemplazione dell’uo­mo viene meno di fronte a Dio e se nelle tentazioni mette alla prova se stesso, teme i severi giudizi di Dio, e alla fine la ricompensa è superiore alle sue opere. E per quanto la mente si agiti nella ricerca, non arriverà mai a sapere quale sarà la severità del futuro giudizio.

Parimenti, Dio ha larghezza nell’amare, lunghezza nel tollerare, altezza nel superare i desideri dell’intelletto, profondità nel giudicare gli impulsi illeciti dei pensieri. Egli sconvolge il cielo quando vanifica la contemplazione dell’uomo; sconvolge l’inferno quando permette che nelle tentazioni il pauroso abbia la peggio; sconvolge la terra quando con le avversità impedisce il frutto delle buone opere; sconvolge il mare quando confonde la nostra irresolutezza con il terrore del giudizio. Il cielo e l’in­ferno vengono costretti insieme, quando lo stesso spirito viene innalzato con la contemplazione e oscurato con la tentazione. La terra e il mare vengono costretti insieme, quando lo stesso spirito viene rafforzato da una fede sicura nelle cose eterne e anche tormentato dal soffio mutevole di qualche dubbio. Questo Dio, così fatto e così grande dev’essere amato. “Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore”, ecc.

Dice “tuo”, e quindi da amare ancora di più: infatti amiamo più le cose nostre che quelle degli altri. È degno di essere da te amato perché, essendo egli il Signore, Dio tuo, si è fatto tuo servo, e così tu diventassi suo e non ti vergognassi di servirlo.

Dice con le parole di Isaia: “Mi hai fatto servire nei tuoi peccati” (Is 43,24). Per trentatré anni Dio si è fatto tuo servo per i tuoi peccati, per liberarti dalla schiavitù del diavolo. “Amerai dunque il Signore, Dio tuo” che ti ha creato, che ha fatto se stesso per te, che ha dato se stesso a te perché tu dessi tutto te stesso a lui. “Amerai dunque il Signore, Dio tuo”.

Nella creazione, quando tu non esistevi, ha dato te a te stesso; nella redenzione, quando esistevi nel male, ha dato se stesso a te perché fu fossi nel bene, e quando ha dato se stesso a te, ha anche restituito te a te stesso. Dato dunque e restituito, tu devi te stesso a lui, e ti devi due volte, e ti devi totalmente. “Amerai dunque il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore”. Colui che ha detto “tutto”, non ti ha lasciato una parte di te, ma ha comandato che tu offrissi a lui tutto te stesso. Infatti con tutto se stesso ha comprato tutto te stesso, per essere lui solo a possedere tutto te stesso. “Amerai dunque il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore”.

Non voler dunque, come Anania e Saffira, trattenere per te una parte di te stesso, per non perire totalmente insie­me con loro (cf. At 5,1-10). Ama dunque con tutto te stesso, e non con una sola parte di te. Dio infatti non ha parti, ma è tutto dovunque, e quindi non vuole soltanto una parte di ciò che è tuo, perché è tutto in ciò che è suo. Se tu riservi per te una parte di te, sei tuo e non suo. Vuoi avere tutto? Da’ tutto a lui, ed egli darà a te tutto ciò che è suo; e così nulla avrai di te stesso, perché avrai tutto lui con tutto te stesso. “Amerai dunque il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore”.

 

10. Fa’ attenzione a queste quattro entità: cuore, anima, forze, mente.

Il cuore è situato al centro del petto dell’uomo; tende un po’ verso sinistra: infatti si scosta un po’ dalla linea di divisione che separa le due mammelle; piega verso la mammella sinistra e sta nella parte superiore del petto; e non è grande e non è di forma allungata, ma tende piuttosto alla forma tondeggiante e la sua estremità è stretta e acuta.

O uomo, la posizione e la forma del tuo cuore ti insegnano in che modo tu debba amare il Signore, Dio tuo. Il tuo cuore è posto al centro del tuo petto, tra le due mammelle. Nelle due mammelle è simboleggiato un duplice ricordo: quello dell’incarna­zione del Signore e quello della sua passione, da cui l’anima prende il suo nutrimento come da due mammelle. Nella mammella destra è simboleggiato il ricordo dell’incarna­zione, nella sinistra quello della passione. Tra queste due mammelle dev’essere posto il tuo cuore, perché qualunque cosa tu pensi, qualunque cosa tu faccia di bene, tutto tu riferisca alla povertà e all’umil­tà dell’incarnazione e all’amarezza della passione del Signore. Dice in proposito la sposa del Cantico dei Cantici: “Il mio diletto è un sacchetto di mirra che riposerà tra le mie mammelle” (Ct 1,12).

L’anima, sposa di Gesù Cristo, Figlio amatissimo di Dio Padre, si confeziona un sacchetto di mirra con tutta la vita del suo diletto. Ripensa infatti come sia stato adagiato in una mangiatoia, avvolto in fasce e cacciato in Egitto, esule, povero e pellegrino; come spesso sia stato fatto oggetto di ingiurie e di bestemmie da parte dei Giudei; come sia stato tradito da un suo discepolo, incate­nato dalla coorte del preside, condotto da Anna e Caifa, legato alla colonna, flagellato da Ponzio Pilato, coronato di spine, colpito con schiaffi, coperto di sputi, e come sia stato infine crocifisso tra due ladroni omicidi. Da tutti questi eventi dolorosi insieme raccolti e saldamente riuniti dal vincolo della devozione, l’anima si confeziona un sacchetto di mirra, vale a dire di amarezza e di compa­timento, e lo pone tra le mammelle, dove ha sede il cuore. Sopra il cuore della sposa, cioè dell’anima, deve sempre stare il sacchetto della mirra.

E considera che come il cuore tende un po’ verso la mammella sinistra, così la compassione e la devozione del cuore deve volgersi all’amarezza della passione del Signore. Per questo la Maddalena versò le sue lacrime e il suo profumo prima di tutto sopra i piedi del Signore, nei quali è simboleggiata la sua passione. Piange sopra i piedi del Signore colui che prende parte al dolore di chi soffre; li unge colui che rende grazie per il dono della passione. Entrambi i sentimenti infatti dobbiamo rivolgere alla Passione del Signore: il dolore e la devozione.

E come il tuo cuore è posto nella parte superiore del petto, così le sue aspirazioni e i suoi desideri devono essere rivolti alla gloria del cielo. Dov’è il tuo tesoro, cioè Gesù Cristo – la manna nell’arca d’oro –, là dev’essere anche il tuo cuore (cf. Mt 6,21).

E come il tuo cuore non è grande e non è di forma allungata, ma tende leggermente alla forma rotonda, così anche tu non devi innalzarti verso la grandezza, o allungarti nella cupidigia, ma la tua vita dev’essere rotonda, cioè perfetta. Ciò che è rotondo infatti non subisce diminuzioni.

E come l’estremità del cuore è stretta ed acuta, così devi sempre pensare che la conclusione della tua vita sarà stretta ed acuta. Stretta, perché dovrai passare per lo strettissimo passaggio della morte, attraverso il quale nulla potrai portare con te, eccetto i peccati, che non sono sostanza materiale; acuta, perché il timore del giudice ti trapasserà e l’orrore del castigo di trafiggerà. Perciò, finché hai il cuore in tuo potere, “ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore”.

 

11. “E con tutta la tua anima”. L’anima è una sostanza incorporea, intellettuale, razionale, invisibile, di origine sconosciuta, che nulla di terreno ha in sé mescolato. Anima, è quasi come dire ànemos, termine greco che signifi­ca vento, o movimento, perché è sempre in movimento sponta­neo e muove i corpi; oppure è come dire anàmne, o anàmneia, che significa, sempre in greco, ricordo; oppure è composta da nemo, che, ancora in greco, significa conferire, perché conferisce la vita ai corpi; oppure anche anà, sopra, e àima, sangue, quindi sangue superiore. “Ama perciò il Signore, Dio tuo, con tutta la tua anima”, affinché la tua attività, il tuo pensiero, la tua vita, tutto, tu riferisca al suo amore.

“Con tutte le tue forze”. Ricorda che tre sono le “forze” dell’anima: la forza razionale, la concupiscibile e la irascibile. Con la forza razionale distinguiamo il bene dal male; con la concupiscibile desideriamo il bene, con la irascibile ripudiamo il male. Queste forze le hanno perdute gli effeminati, dei quali Giobbe dice: “Fu gradito alla ghiaia del Cocìto, e dietro a sé trae tutto l’uomo” (Gb 21,33). Sono ghiaia i sassi dei fiumi, che l’acqua trascina con la sua corrente. Cocìto, presso i greci, simboleggia il pianto delle donne e degli infermi. I letterati affermano che Cocìto è il fiume che scorre nelle regioni degli inferi e che laggiù c’è pianto e gemito per i malvagi. Gradito è dunque l’amore alla precipitosa ghiaia del Cocìto, cioè a coloro che non vogliono resi­stere energicamente ai piaceri e con le loro cadute di ogni giorno corrono vero l’eterno pianto. E il piacere dell’amore terreno trascina dietro a sé “tutto l’uomo”, cioè la forza razionale, quella concupiscibile e quella irascibile. La prudenza del mondo trascina la forza razionale; il piacere della carne trascina quella concupiscibile, e la vanagloria quella irascibile.

 

12. Questi sono anche i tre amici di Giobbe, cioè Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita (cf. Gb 2,11).

Elifaz s’interpreta “disprezzo del Signore”, e Temanita il vento “austro”. Egli simboleggia la prudenza mondana, la quale proviene dall’austro, cioè dal vento caldo, che è la cupidigia del mondo, poiché i figli di questo mondo, nel loro genere, sono più prudenti dei figli della luce (cf. Lc 16,8). Questa prudenza mondana disprezza la sapienza del Signore, e perciò dalla sapienza del Signore viene anch’essa disprezzata. Dice Isaia: “Allorché, stanco, finirai di disprezzare, sarai disprezzato (Is 33,1).

Bildad s’interpreta “sola vecchiezza” e Suchita “che parla”. Egli simboleggia il piacere della carne, che incominciò con i progenitori e di generazione in generazione rende vecchia la pelle dei figli. Questo patrimonio ce lo tramandò il vecchio Adamo; questa vecchiezza ebbe origine dal linguaggio del serpente. Dice infatti il penitente: “Dalla voce del mio gemito”, cioè dalla suggestione del piacere che è causa dei miei gemiti, “il mio osso”, cioè la mia ragione o la mia forza, “si attaccò alla mia carne” (Sal 101,6), vale a dire alla mia carnalità.

Zofar s’interpreta “distruzione dell’altezza” e Naamatita “decoro”. Egli simboleggia la vanagloria, che ha origine dal fatto di ammantarsi di una falsa religione, e a causa di ciò viene distrutta l’altezza della contemplazione e di ogni altra opera buona. “Hanno ricevuto la loro ricompensa”, dice il Signore (Mt 6,5).

Con questi tre peccati vengono distrutte le tre forze dell’anima, e quindi è necessario che il beato Giobbe che s’interpreta “dolente”, cioè il penitente che si duole, per liberarsi dal suo dolore non ascolti, non dia retta a questi tre amici, che egli stesso chiama “miei amici verbosi” (Gb 16,21), chiacchieroni, per poter amare il Signore, Dio suo, con tutte le sue forze.

 

13. “E con tutta la tua mente”. La mente è la parte dell’anima che comprende l’in­telligenza e la ragione. È chiamata mente perché è la parte piùeminente dell’anima, o anche perché “ricorda” (in lat. mèminit). La mente infatti non è l’anima, ma ciò che è superiore nell’anima, la parte più eccellente, più efficace dell’anima, dalla quale procede l’intelligenza. Infatti l’uomo stesso è detto “immagine di Dio” in ragione della mente. Però tutte queste qualità sono unite all’anima in modo tale che essa resta una entità unica. L’anima è indicata con nomi diversi a seconda degli atti dei quali è causa efficiente. Infatti quando vivifica il corpo, è anima; quando vuole, è animo; quando sa, è mente; quando giudica rettamente, è ragione; quando ispira, è spirito; quando avverte qualcosa, è senso. “Ama, dunque, il Signore Dio tuo, con tutta la tua mente”, affinché tutto ciò che ricordi, sai o comprendi, tu lo riferisca all’amore di Dio.

“Ama il tuo prossimo come te stesso”. E su questo argomento vedi il sermone della I domenica dopo Pentecoste, sul vangelo: “C’era un uomo ricco, vestito di porpora e bisso”. E sullo stesso argomento abbiamo anche una concordanza nel libro di Giobbe, dove dice: “Se visiterai la tua specie non peccherai” (Gb 5,24). Vedi l’esposizione di questo passo nella II parte del Sermone della domenica di Settuagesima, sul vangelo: “In principio Dio creò il cielo e la terra”.

 

14. Con questa seconda parte del vangelo concorda anche la seconda parte dell’epi­stola: “Questo io dico, un testamento confermato da Dio”(Gal 3,17).

Il testamento è così chiamato perché è una volontà scritta e confermata alla presenza di testimoni. La volontà di Dio è la volontà del suo amore e dell’amore del prossi­mo, che fu scritta nella legge della natura, delle tavole, e della grazia, confermata da testimoni, ai quali ha detto: “Questo è il mio comandamento, che vi amiate a vicenda” (Gv 15,12). Questo testamento fu confermato con la morte del testatore. Dice Giovanni: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1), cioè fino alla morte. Questo, non perché con la morte finisca il suo amore, ma perché li amò talmente che l’amore lo portò fino alla morte.

Ti preghiamo dunque, Signore Gesù, che tu ci leghi con l’amore verso di te e verso il prossimo in modo tale, da riuscire ad amarti “con tutto il cuore”, cioè così profon­damente da non essere mai distratti dal tuo amore; “con tutta l’anima”, cioè con sapienza, per non essere ingannati da altri amori; “con tutte le forze e con tutta la mente”, cioè con grande tenerezza per non essere mai indotti a separaci dal tuo amore; ed amare poi il prossimo come noi stessi. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

15. “Fa’ questo e vivrai”. Dice Giobbe: “La lampada di Dio splendeva sopra il mio capo. Mi lavavo i piedi nel latte e la roccia mi riversava ruscelli di olio” (Gb 29,3.6). Nella lampada è simboleggiata la predicazione, nel capo la mente, nel latte la compunzione delle lacrime, nei piedi gli affetti e i sentimenti del cuore, nella roccia Cristo e nell’olio la grazia dello Spirito Santo. Quando dunque la lampada della predicazione splende sopra la mente del peccatore, essa lava le sozzure dei piedi, cioè degli affetti disordinati del cuore, nel latte della compunzione che sgorga dall’intensità dell’amore; e così la roccia, cioè Cristo, gli versa ruscelli d’olio, cioè l’abbondanza della grazia dello Spirito Santo, dalla quale illuminato nella vita presente, avrà anche la vita futura nella gloria. Dice infatti il Signore: “Fa’ questo, e vivrai”.

Considera queste tre parole: “Fa’”, “questo”; “e vi­vrai”. In esse sono indicate tre cose: la dottrina, la vita e la gloria. “Questo”, ecco la dottrina; “fa’”, ecco la vita; “e vivrai”, ecco la gloria. O uomo, ciò che ascolti nella predicazione, eséguilo poi con le opere. Quando splende la lampada sopra il tuo capo, làvati i piedi nel latte, e così vivrai perché la roccia ti verserà ruscelli d’olio, cioè queste parole che senti: “Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente”.

Con questi quattro “modi di amare” concordano le quattro qualità di Giobbe, enumerate all’inizio della sua storia: “C’era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: semplice e retto, temeva Dio e rifuggiva dal male” (Gb 1,1). Nella terra di Uz, cioè “del consiglio”, dimora il giusto, che mette in pratica tanto i consigli del Signore come i suoi precetti. È semplice per la purezza del cuore, retto nell’affetto dell’anima, teme Dio con l’uso ordinato delle qualità naturali, e rifugge dal male con il fermo proposito della sua volontà.

“Fa’ questo” per essere semplice, cioè senza ripieghi o imbrogli, cercando non la tua lode, ma quella di Dio, e dicendo con Giobbe: “Se vedendo il sole risplendere e la luna chiara avanzare, si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore e con la bocca mi sono baciato la mano, questo sarebbe stato un gravissimo peccato e un rinnegare Dio, l’Altis­simo” (Gb 31,26-28). Il sole nel suo splendore è figura dell’opera buona che si manifesta. La luna chiara che avanza è figura della buona riputazione la quale, splendendo nella notte di questa vita, prende incremento dalle buone opere.

“E non si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore”. Ci sono infatti alcuni che si esaltano con i propri elogi e se ne compiacciono. “E con la mano alla bocca ho mandato un bacio”. Nella mano è raffigurata l’opera e nella bocca il discorso. Quindi si bacia la mano con la bocca colui che loda ciò che fa. “E questo è un gravissimo peccato e un rinnegare Dio, l’Altissimo”, perché chi attribuisce a se stesso il merito di ciò che fa, dimostra di rinnegare la grazia del suo creatore.

Fa’ questo, fa’ cioè in modo da non vedere il sole delle tue opere buone e la luna splendente della tua buona riputazione per non compiacertene, e non lodare ciò che dici o che fai, ma tutto attribuisci al tuo creatore.

 

16. “Fa’ questo”, per essere retto. Dice Bildad il Suchita: “Se ti alzerai sul far del giorno, ti rivolgerai a Dio e pregherai l’Onnipotente; se camminerai nella purezza e nella rettitudine, egli certamente veglierà su di te e renderà tranquilla la dimora della tua giusti­zia. Così che ben poca cosa sarà stata la tua precedente condizione, perché l’ultima sarà molto più splendida” (Gb 8,5-7).

“Se ti alzerai sul far del giorno”, cioè nella contrizione del tuo cuore, “e ti rivolgerai a Dio Onnipotente” con la mente e con il corpo, “e lo pregherai” confessando il tuo peccato e proclamando la sua lode; “se camminerai nella purezza e nella rettitudine” compiendo le opere penitenziali della riparazione, “subito egli veglierà su di te” appena vede il tuo pentimento, “e renderà tranquilla la dimora della tua giustizia” perché hai confessato il tuo peccato; infatti chi fa un giusto giudizio di sé accusando­si nella confessione, rientrerà nel tranquillo possesso del suo corpo, nella quiete della sua coscienza. “Così che ben poca cosa sarà stata la tua precedente condizione...” Ecco dunque che la penitenza aumenta la grazia nella vita presente e alla fine della vita accumula la gloria eterna. “Fa’ questo, dunque, e vivrai”.

“Fa’ questo”, per essere timorato di Dio e poter dire con Giobbe: “Ho sempre temuto Dio come flutti rigonfi incombenti su di me, e davanti alla sua maestà non potevo resistere” (Gb 31,23). Quando flutti tempestosi minacciano, ai naviganti non gli importa più nulla delle cose materiali, né tornano loro in mente i piaceri della carne; gettano fuori della nave anche quelle cose per le quali avevano intrapreso lunghe navigazioni.

Teme dunque Dio, come si temono i violenti marosi che incombono su di sé, colui che, aspirando solo alla vera vita, disprezza tutto ciò che ha e possiede quaggiù. E nei marosi rigonfi vede il simbolo della suprema potestà di Dio, quando tutti gli elementi naturali saranno sconvolti (cf. Mt 24,29), e il giudice supremo verrà e porterà tutto a quella conclu­sione, che i santi ogni giorno paventano.

“E davanti alla sua maestà non potevo resistere”, perché chi medita con serietà e attenzione l’avvento dell’ultimo giudizio, constata che veramente incombe su tutti tale spavento, quale non solo non è dato di provare, ma che ora non ci è dato neppure di minimamente immaginare. “Fa’ questo, dunque, e vivrai”.

 

17. E ancora: “Fa’ questo” per rifuggire dal male. Zofar il Naamatita dice a Giobbe: “Se allontanerai l’iniquità che è nella tua mano e non farai abitare l’ingiustizia nelle tue tende, allora potrai alzare il volto senza macchia e sarai saldo e non avrai timori. Dimenticherai anche la miseria, e te ne scorderai come di acqua passata. Alla sera ci sarà per te splendore come di mezzogiorno, e quando ti crederai distrutto sorgerai come stella del mattino. Ed avrai fede in quello che speri, e sepolto, dormirai tranquillo. Riposerai e non ci sarà chi ti spaventi” (Gb 11,14-19).

Commenta Gregorio: “L’iniquità nella mano raffigura il peccato nelle opere, l’opera peccaminosa; l’ingiustizia nella tenda è l’iniquità nella mente. La mente viene chiamata tenda, in quanto in essa ci nascondiamo dentro di noi quando all’esterno non siamo veduti nelle nostre opere. Alzare il volto vuol dire innalzare l’animo a Dio con gli esercizi di pietà: ma questo volto risulta macchiato se la coscienza ci accusa di peccato.

“E sarai saldo e non avrai timori”. Perché tanto meno avrà paura del giudizio, quanto più sarà stato saldo nel bene. “Ti dimenticherai della miseria”. Tanto più crudamente sentirai i mali della vita presente, quanto più trascurerai di pensare al bene che verrà. Ma se fisserai il tuo occhio alle cose che dureranno in eterno, ti sembrerà un nulla tutto ciò che devi soffrire, ma che ti aiuta a raggiungere il fine. “E come lo splendore del mezzogiorno”. Lo splendore del mezzo­giorno al tramonto, raffigura il risveglio delle forze contro la tentazione.

“E quando ti crederai distrutto...” Spesso infatti ci assalgono prove sì grandi da indurci alla disperazione e al crollo, ma il creatore guarda alla nostra oscurità e fa nuovamente brillare i raggi della luce che ci aveva tolto. E allora ti ritornerà la fiducia nella speranza che ti è data della misericordia divina.

“Anche sepolto dormirai sicuro”. Dormono sepolti al sicuro, coloro che si sottraggono agli onerosi impegni di questo mondo per esaminare attentamente il loro interno nella quiete e nella tranquillità. “Riposerai e non ci sarà chi ti spaventi”. Infatti chi fissa il suo desiderio nell’eternità, non essendoci nel mondo cosa alcuna che lo attiri, niente più teme di ciò che è del mondo. “Fa’ questo, dunque, e vivrai”: vivrai della vita della grazia in questo mondo, e della vita della gloria nell’al­tro.

A questa gloria si degni di guidarci colui che è Vita e Gloria e che è benedetto nei secoli eterni. Amen.

 

III. l’uomo che discende da gerusalemme a gerico

 

18. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto” (Lc 10,30). In quest’uomo va inteso Adamo, nella sua umanità, il quale, preso dalla superbia, con la sua caduta e la sua disobbedienza discese dalla beatitudine della Gerusalemme celeste alle miserie e alle privazioni di questa vita, instabile ed esposta all’errore. E proprio per questo “incappò nei briganti”, cadde cioè in potere degli angeli della notte, che si trasformano in angeli di luce, ma non sono in grado di mantenersi tali. E non vi sarebbe incappato se egli stesso, andando contro il celeste comandamento, non si fosse consegnato nelle loro mani. E i briganti gli tolgono anche le vesti della grazia spirituale, cioè l’immortalità e l’innocenza, e lo riem­piono talmente di ferite, cioè di peccati, da violare anche l’integrità della natura umana, e introdurre per così dire la morte attraverso le viscere aperte.

Chi conserva intatte le vesti che ha indossato, non può sentire le ferite dei briganti. “Se ne andarono”, non perché avessero cessato di insidiarlo, ma perché occultarono i loro attacchi. “Lasciandolo mezzo morto”, perché potevano sì spogliarlo dell’im­mor­talità, ma non privarlo del sentimento e della ragione, in modo che l’uomo non avesse più il senso di Dio e la capacità di conoscerlo.

Il sacerdote e il levita che passano, sono figura del sacerdozio e del ministero dell’an­tica Legge, o dell’Antico Testamento, quando le piaghe e le ferite del mondo languen­te si vedevano, ma non venivano curate.

Il Samaritano, nome che s’interpreta “custode”, è figura del Signore, il quale per noi si è fatto uomo, ha intrapre­so il cammino della vita terrena ed è venuto presso il ferito, “divenendo simile agli uomini e apparendo in forma umana” (Fil 2,7), affine a noi con l’assumere su di sé le nostre sofferenze, e vicino a noi con l’offrirci la sua misericordia.

“Fasciò le sue ferite”: condannando i peccati, pose ad essi un freno. “Versa sulle ferite olio” quando offre ai penitenti una speranza, dicendo: “Fate penitenza, perché è vicino il regno dei cieli” (Mt 4,17). “Versa vino” quando nei peccatori infonde il timore del castigo, dicendo: “Ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3,10).

La cavalcatura è figura della sua carne, nella quale si è presentato a noi; su di essa carica il ferito, perché sul suo corpo ha portato i nostri peccati (cf. 1Pt 2,24). Viene posto sul suo corpo chi crede nella sua incarnazione ed è convinto di essere protetto dai suoi misteri contro le incursioni del nemico.

“La locanda” è figura della chiesa militante, nella quale vengono ristorati i viaggiatori in cammino verso la patria eterna. Viene condotto alla locanda colui che è posto sulla cavalcatura, perché nessuno può entrare nella chiesa se non è battezzato, se non è “incorporato” al corpo di Cristo.

“E si prese cura di lui”, affinché l’ammalato non trascurasse le prescrizioni che aveva ricevuto. Ma non aveva tempo il Samaritano di restare a lungo sulla terra: doveva ritornare là da dove era disceso. E quindi il “secondo giorno”, cioè dopo la sua risurrezione, quando lo splendore della luce eterna rifulse sul mondo più luminoso che prima della passione, “diede due denari”, cioè i due Testamenti, nei quali sono racchiusi l’immagine e il nome del Re eterno, “all’albergatore”, cioè agli apostoli, perché allora “aprì loro la mente affinché capissero il senso delle Scritture” (Lc 24,45), e fossero così in grado di guidare il popolo.

“E tutto ciò che spenderai in più”. Spende di più l’Apostolo che dice: “Quanto alle vergini non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio”(1Cor 7,25); e dà di più anche quando non si avvale del diritto di avere uno stipendio (cf. 2Ts 3,9). Quando ritornerà per il giudizio, “rifonderà le spese”, dicendo: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt 25,21).

“Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo?”. Stando al racconto, è chiaro che quello straniero fu “più prossimo” per il cittadino di Gerusalemme, al quale usò miseri­cordia, che non il sacerdote e il levita che erano suoi concittadini. Nessuno ci è più vicino di colui che ha curato le nostre piaghe, perché il capo è una cosa sola con le membra. Amiamolo dunque come Dio e Signore, e amiamolo anche come prossimo; e amiamo anche colui che è imitatore di Cristo. Infatti il vangelo continua: “Fa’ anche tu lo stesso”. E per mostrare che veramente ami il prossimo come te stesso, fa’ con amore tutto ciò che è in tuo potere per alleviare le sue necessità corporali e spirituali.

 

19. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: “Ora non si dà mediatore per una sola persona, e Dio è uno solo. La legge è dunque contro le promesse di Dio? Impossibile! Se infatti fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge. La Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo” (Gal 3,20-22). Ecco che qui ti è detto apertamente che né il sacerdote, né il levita, cioè né il sacrificio né il ministero della antica legge avevano il potere di dare la vita e la giusti­ficazione; ma il solo mediatore, e nostro Samaritano, Gesù Cristo, curò il ferito, ridiede vita a colui che era mezzo morto e, prendendolo su se stesso, lo ricondusse alla locanda della chiesa perché gli fosse data, giacché credeva nello stesso Gesù Cristo, la promessa della vita eterna. Dunque non dal sacerdote o dal levita viene la giustificazione, ma dalla fede in Gesù Cristo.

“La Scrittura ha racchiuso ogni cosa sotto il peccato”. Questo è quanto lo stesso Apostolo dice anche ai Romani: “Dio infatti ha racchiuso tutti nella disobbedienza (nella incredulità), per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32), come dicesse: Conosciuti i peccati per mezzo della legge, tutti sono rinchiusi, perché non possano accampare scuse, ma implorino misericordia dal Samaritano, dal nostro mediatore.

E su questo abbiamo la concordanza in Giobbe: “Non c’è uno [tra noi due] che possa rimproverare entrambi e che ponga la sua mano su tutti e due” (Gb 9,33) sia cioè arbi­tro? Se due nemici con la spada in mano combattono tra loro, chi oserà frammettersi tra loro e trattenerli, se non uno che sia in buoni rapporti con tutti e due? Dio e l’uomo si avversavano a vicenda: Dio con la spada della pena, l’uomo con la spada della colpa. Nessuno fu in grado di ricomporre questa lite. Venne Cristo, che è imparentato con entrambi perché Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, e si pose tra loro e li trattenne. Rimproverò l’uomo perché non continuasse a peccare, e con la sua passione si oppose a Dio Padre perché non colpisse. Pose la sua mano su tutti e due perché diede all’uomo un esempio da praticare, e mostrò a Dio le sue opere, con le quali doveva ritenersi soddi­sfatto.

Fratelli carissimi, innalziamo la nostra preghiera a Dio perché guarisca le ferite dei nostri peccati, ci riconcili a sé affinché possiamo essere degni di ritornare, da questa Gerico, alla Gerusalemme celeste dalla quale siamo caduti.

Ci aiuti egli stesso che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

20. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e incappò nei briganti…”, ecc. (Lc 10,30).

Dice il Signore a Giobbe: “Dimmi, se lo sai, in quale via abita la luce, e dove hanno la loro dimora le tenebre” (Gb 38,18-19). Nella luce è simboleggiata la giustizia, nelle tenebre l’iniquità. La luce abita a Gerusalemme; Gerico è la dimora delle tenebre. Perciò chi scende da Gerusalemme a Gerico, passa dalla luce della giustizia alle tenebre dell’iniquità. Infatti sta scritto: “Un uomo scende­va da Gerusalemme a Gerico”, ecc.

Vedremo quale sia il significato morale dell’uomo, di Gerusalemme e di Gerico, dei briganti, del sacerdote e del levita, del samaritano, dell’olio e del vino, della caval­catura, della locanda, del locandiere e dei due denari. Per quanto il Signore ce lo concederà, vedremo di concordare con tutti questi elementi alcuni passi del libro di Giobbe.

Quest’uomo è figura del giusto il quale, quando è dedito alle opere di penitenza, e si mantiene nelle altezze della contemplazione, dicendo con Giobbe: “L’anima mia ha scelto le altezze” (Gb 7,15), senza dubbio abita a Gerusalemme. Allora diventa veramente come Giobbe, uomo semplice, retto, timorato di Dio e alieno dal male, che ha sette figli e tre figlie (cf. Gb 1,1-2).

I sette figli del giusto sono le sette beatitudini proclamate dal Signore, nel vangelo di Matteo (Mt 5,3-9).

“Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3). Questa beatitudine comprende due atti: la rinuncia alle cose materiali e la contri­zione dello spirito, perché anche chi è buono deve ritener­si inutile e inferiore agli altri. I poveri in spirito non cercano cose elevate, ma praticano ciò che porta al timore di Dio e alla vera umiltà. Dice infatti Giobbe: “Cambio il mio volto e mi tormento nel mio dolore. Io mi preoccupavo per tutte le mie opere, perché so che non perdoni al malvagio” (Gb 9,27-28). Cambia il suo volto colui che non ha di se stesso grande concetto, come faceva prima, ma ha nei propri riguardi pensieri umili e dimessi, e così si tormenta nel dolore di quanto ha fatto in precedenza. Il povero in spirito è preoccupato di tutte le sue opere perché ha paura della pigrizia e della malizia. Un amore di Dio piuttosto tiepido produce pigrizia; l’amor proprio, l’amore di sé produce slealtà, in quanto per il bene compiuto si desidera la tacita approvazione del cuore umano, il vento del plauso o qualsiasi altro vantaggio esteriore.

Beato invece colui “che scuote dalle sue mani ogni rega­lo” (Is 33,15). Osserva che il “regalo dalla bocca” è la gloria ottenuta per mezzo di appoggi; il “regalo dal cuore” è l’approvazione attesa dal pensiero; il “dono dalla mano” è la consegna materiale del premio. Contro tutto ciò si de­ve avere quel timore che difende e premunisce, sapendo che Dio non perdona al malvagio. Dio, infatti, anche se chiama i peccatori a penitenza, tuttavia non lascia mai impunito il peccato: o è l’uomo che castiga, o è Dio.

“Beati i miti perché possederanno la terra” (Mt 5,4). Mite è colui il cui animo non è affetto da asprezze o irritazione, ma che nella semplicità della sua fede è in grado di soppor­tare con pazienza ogni offesa. Perciò si dice mite, quasi a dire muto, perché non risponde all’offesa che viene fatta. Dice in proposito Giobbe: “Se la grande folla mi intimidì e il disprezzo dei vicini mi spaventò, io preferii starmene in silenzio senza uscire di casa mia” (Gb 31,34). Come se dicesse apertamente: Gli altri dal di fuori si agitavano contro di me, io invece nel mio interno me ne restai tranquillo.

“E il disprezzo dei vicini mi spaventò”. Ci sono quelli che hanno paura di essere disprezzati. Questi vengono costretti ad uscire dalla porta perché, spinti dalle ingiurie, mentre rivelano di sé cose che non si sapevano, vanno per così dire all’aperto attraverso la porta della bocca. Dice Gregorio: Il non desiderare nulla del mondo dà una grande sicurezza in quanto si è fissi nell’immutabile, e non c’è turbamento nello spirito per quanto tutti all’intorno siano sconvolti; e se c’è un turbamento esteriore, questo è dovuto alla fragilità della carne. Chi non ha paura del disprezzo non balza fuori con la lingua. E Agostino: Se coloro con i quali vivi non ti lodano per la tua vita onesta, essi sono in errore; se invece ti loda­no tu sei in pericolo.

“Beati quelli che piangono” (Mt 5,5). Dice Giobbe : “Il mio volto si è gonfiato per il pianto e le mie palpebre si sono annebbiate” (Gb 16,17). E ancora: “Avanzavo piangendo” (Gb 30, 28). Commenta Gregorio: Quell’uomo santo, famoso per ricchezze e onori, avanzava piangendo perché, anche se la gloria del potere lo metteva in evidenza davanti agli uomini, nel suo intimo, con il suo dolore, offriva al Signore il sacrifico di un cuore contrito.

“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia” (Mt 5,6). Dice Giobbe: “Mi ero rivestito di giustizia come di un manto, e del mio giudizio come di un diadema” (Gb 29,14). Si riveste di giustizia come di un manto colui che da ogni parte si riveste e si protegge con le opere buone, e nessun aspetto della sua attività lascia nuda con il peccato. Il giudizio dei giusti è detto “diadema”, perché desiderano essere premiati lassù con quello, e non con le meschine cose terrene.

“Beati i misericordiosi” (Mt 5,7). E Giobbe: “Mai ho rifiutato ai poveri quanto bramavano, né ho lasciato languire gli occhi della vedova. Mai da solo ho mangiato il mio tozzo di pane senza che ne mangiasse anche l’orfano. Perché dalla mia infanzia è cresciuta insieme con me la compassione, e uscì con me dal seno di mia madre. Mai ho disprezzato chi moriva perché privo di vesti e il povero che non aveva di che coprirsi, e hanno dovuto benedirmi i suoi fianchi e con la lana delle mie pecore si è riscaldato” (Gb 31,16-20).

“Beati i puri di cuore” (Mt 5,8). E Giobbe: “Il mio cuore non ha seguito i miei occhi e alla mia mano non si è attaccata sozzura. Il mio cuore non è stato mai sedotto da donna, e io mai ho insidiato la porta del mio vicino... Questa è una nefandezza e un grande delitto, e quello è un fuoco divorante fino allo sterminio, che estirpa tutti i germogli” (Gb 31,7.9.11-12). Come dicesse: Non ho mai voluto vedere nulla che accendesse la concupiscenza, né vedendolo ho voluto ciò a cui la concupiscenza mi spingeva. Né si attaccò macchia alle mie mani, cioè non c’è stata mai colpa nelle mie azioni. E se qualche volta ho avuto qualche pensiero illecito, non ho mai permesso che questo pensiero si traducesse nella realtà. “È un fuoco divorante fino allo sterminio”: perché il fuoco della lussuria non giunge solo a macchiare e contami­nare, ma divora fino alla distruzione. “Ed estirpa tutti i germogli”: i germogli raffigurano la santa attività dell’a­nima: se non si resiste al male della lussuria, vengono distrutte anche le opere che pur sembravano sante.

“Beati i pacifici” (Mt 5,9). Giobbe: “Mai mi sono sottratto al giudizio nei confronti del mio schiavo o della mia schiava, quando mi intentavano lite: che farei quando Dio si alzerà per giudicare me? E quando mi interrogherà, che cosa potrò rispondergli? Chi ha fatto me nel seno materno, non ha fatto anche lui? Non fu Uno solo a formarci nell’utero?” (Gb 31,13-15). Commenta Gregorio: Giobbe accetta di essere chiamato in giudizio con i suoi schiavi come un loro eguale, perché teme il giudizio di colui che sta al di sopra di tutto. Vede se stesso quale servo del vero Signore, e quin­di non si mette al di sopra dei suoi schiavi con la superbia del suo cuore. Chi non ha rifiutato di essere giudicato insieme con i suoi schiavi e le sue schiave, fa capire chiaramente di non essere mai stato arrogante e superbo con nessuno del suo prossimo. Per i potenti praticare la virtù dell’umiltà è una grande cosa, tenuto conto del loro stato e della loro situazione.

 

21. Queste sette beatitudini sono i sette figli del giusto, e la loro gloria lo rende nobile, potente e famoso. Le tre figlie poi sono la contrizione, la confessione e la riparazione, di cui si è già parlato abbastanza in molte parti [dei sermoni].

Ecco quanta luce, quanta gloria c’è in Gerusalemme, cioè nella vita santa. Ma quante tenebre e quanta miseria, quando da Gerusalemme si discende a Gerico, nome che s’inter­preta “luna” o anche “odore”, e sta ad indicare la corrotta prosperità temporale, della quale i figli di questo mondo dicono al predicatore, con le parole di Geremia: “Al discorso che tu hai fatto a noi nel nome del Signore, noi non daremo ascolto; anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che uscirà dalla nostra bocca (ciò che abbiamo promesso), cioè sacrificheremo alla regina del cielo e le offriremo libazioni. Da quando abbiamo cessato di offrirle sacrifici, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame” (Ger 44,16-17.18)Regina del cielo era chiamata la luna, nella quale è indicata la corrotta prosperità temporale, della quale i carnali sono schiavi, e se ne vengono privati, credono di morire di fame e di spada, e quindi non vogliono ascoltare la parola del Signore.

A questa luna non era disceso Giobbe, che diceva: “Mai ho considerato mia forza l’oro, né ho detto all’oro fino: tu sei la mia fiducia! Mai ho goduto perché grandi erano le mie ricchezze e perché molto aveva conquistato la mia mano: non ho contemplato il fulgore del sole, né la luna nella sua chiarità” (Gb 31,24-26). Certamente avrebbe dispera­to del creatore se avesse posto la sua speranza nelle creature. Nulla, all’infuori di Dio, può bastare allo spirito che sinceramente cerca Dio.

Scende da Gerusalemme a Gerico colui che, dalla luce della povertà, cade nelle tenebre delle ricchezze. Raccontano che un lupo, vedendo la luna nel pozzo, la credeva una forma di formaggio. Allora, su consiglio della volpe, scese nel pozzo, ma non vi trovò nulla e vi restò dentro deluso e avvilito. Quando i contadini ve lo trovarono, lo massacrarono con una tempesta di pietre.

C’è anche qualche religioso che nel pozzo della vanità mondana vede la luna procedere luminosa. Crede lo stolto, su consiglio della volpe, cioè della concupiscenza della carne, che ciò che è passeggero e instabile sia invece autentico e duraturo. E il povero illuso scende da Gerusalemme a Gerico, dall’altezza della contemplazione al pozzo della cupidigia, e così incappa nei briganti che lo spogliano, lo coprono di ferite e se ne vanno lasciandolo mezzo morto.

I briganti raffigurano i cinque sensi del corpo, sui quali abbiamo una concordanza in Giobbe: “Insieme sono venuti i briganti e si sono aperti la strada verso di me e hanno posto l’assedio attorno alla mia tenda” (Gb 19,12). Il brigante è chiamato in lat. latro, da làtito, nascondersi, perché sta nascosto quando tende i suoi agguati. I sensi del corpo, nascosti sotto l’apparenza della necessi­tà, tendono l’insidia del piacere; e per ingannare più facilmente, attaccano tutti insieme e alla misera anima aprono quella larga via che conduce alla morte. La tenda del nostro corpo viene tutt’all’intorno assediata dai sensi, affinché l’anima, da qualsiasi parte voglia uscire, cada in loro potere: allora essi la spo­gliano dei doni della grazia e la feriscono in quelli della natura. Infatti, dice ancora Giobbe: “Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre. Mi ha spogliato della mia gloria e mi ha tolto dal capo la corona. Mi ha rovinato sotto ogni aspetto e io perisco, ha sradicato come una pianta la mia speranza” (Gb 19,8-10).

All’anima sventurata viene sbarrata la strada, quando essa, schiava dei sensi del corpo, vede il bene che c’è da fare ma non riesce a compierlo. E le tenebre vengono diste­se sul suo sentiero quando non riesce nemmeno più a vedere quello che deve fare. Viene spogliata della gloria quando viene come denudata della grazia dello Spirito Santo; e le viene tolta dal capo la corona quando viene privata anche della retta intenzione della mente: così distrutta va verso la rovina ed è come un albero privo della radice dell’umil­tà, sradicato dalla terra dell’eterna stabilità dal vento della suggestione diabolica: ad essa non resta più neppure la speranza della misericordia divina.

 

22. Ecco a quale miseria si riduce colui che scende da Gerusalemme a Gerico! Deve perciò dolersene e piangere con Giobbe dicendo: “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: È stato concepito un uomo. Quel giorno si cambi in tenebra, non se ne curi Dio dall’alto, non venga mai ricordato; né brilli mai su di esso la luce. Lo oscurino le tenebre e le ombre della morte, lo copra una densa caligine e lo avvolga da ogni parte l’amarezza. Quella notte se la prenda un turbine tenebroso, non si aggiunga ai giorni dell’anno e non entri nel computo dei mesi. Quella notte sia isolata, nel silenzio, indegna di risuonare di canti di lode. La maledicano quelli che imprecano al giorno, gli esperti ad evocare il Leviatan. Le stelle vengano oscurate dalla sua caligine; attenda la luce ma senza mai vederla, e non veda il momento dell’aurora che sorge, perché essa non chiuse il varco del ventre che mi ha portato e non ha sottratto il male alla vista dei miei occhi. Perché non sono morto fin dal seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dal grembo? Perché sono stato accolto sulle ginocchia? Perché allattato alle mammelle?”(Gb 3,3-12).

Considera che il giorno simboleggia il piacere del peccato, la notte la cecità della mente. L’uomo può essere descritto sotto tre punti di vista: della sua natura, della sua colpa e della sua fragilità. È giorno quando l’uomo nasce, è notte quando viene concepito, perché non è travol­to dal piacere del peccato se prima non viene reso debole, fragile dalle tenebre che invadono la sua mente.

Ma “perisca il giorno”, cioè il piacere del peccato sia distrutto dalla forza della giustizia. “E perisca la notte”, cioè quello che la mente accecata compie dando il consenso, non avendo prima ponderato con cautela le lusinghe del piacere. E affinché la colpa, che incomincia con le lusinghe, non trascini alla morte, “il giorno si tramuti in tenebra”, vale a dire, all’inizio del piacere si deve vedere a quale mortale conclusione la colpa trascini, e quindi deve essere punita [la notte] con la penitenza. E se viene punita in questo modo “Dio più non la ricerchi” nel giudizio, per punirla, e non la illumini, non la metta in evidenza. Viene messo in luce, in evidenza, ciò che viene rinfacciato; invece ciò che dal giudice non viene ricordato, viene per così dire coperto e dimenticato. Infatti sta scritto: “Beati coloro i cui peccati sono stati coperti” (Sal 31,1; Rm 4,7), per non essere messi in mostra davanti agli uomini.

“Le tenebre non rischiarino, ma oscurino” il giorno del piacere, perché non venga visto da colui che tutto vede. “Le tenebre” sono i gemiti della penitenza o anche i giudizi misteriosi di Dio, con cui, prevenuti dalla sua grazia, veniamo assolti e che noi non siamo capaci di meritare. “L’ombra della morte” è la morte di Cristo secondo la carne, che ha distrutto la nostra duplice morte. Egli infatti restò nel sepolcro un giorno e due notti, perché unì la luce della sua unica morte alle tenebre della nostra duplice morte.

Viene detta “vera morte” quella che separa l’anima da Dio; invece è “ombra di morte” quella che separa l’anima dal corpo. In altro senso: è detta “ombra di morte” la dimenticanza, che fa in modo che qualcosa non sia più nella memoria, come la morte fa sì che non ci sia più ciò che ci tiene attaccati alla vita.

“Copra quel giorno una densa caligine”, cioè la confusione della mente che aspira alla gloria, “e da ogni parte sia avvolto dell’amarezza” della penitenza. “Quella notte se la prenda un turbine tenebroso”, come dicesse: Un turbine di tempesta, suscitato dallo spirito di amarezza, che offusca di tristezza la mente. Questo è lo spirito (il vento) che squarcia la navi di Tarsis (cf. Sal 47,8), è la forza della compunzione, che umilia le menti del mare, cioè quelle attaccate al mondo, irrorandole di salutare rugiada.

“Non venga aggiunto ai giorni dell’anno e non entri nel computo dei mesi”. L’anno della nostra luce si compie quando, all’arrivo del giudice, ha termine il nostro pellegrinaggio terreno. I giorni dell’anno sono le singole virtù; i mesi sono i vari atti di virtù. Il giusto teme che il giudice voglia compensare, mettere a confronto, con questi atti di virtù i peccati commessi; e allora prega che in quel momento ricompensi il bene fatto, senza tener troppo conto del male commesso. Infatti se questa notte (il male) fosse conteggiata con i giorni (il bene), tutto sarebbe oscurato. Perché dunque in quel momento non venga conteggiata, impugniamola adesso, perché nessuna colpa resti impunita, e nessuno difenda o giustifi­chi ciò che ha fatto, aggiungendo così malizia a malizia. Infatti soggiunge: “Quella notte sia isolata, nel silenzio, indegna di risuonare di canti di lode”. Ci sono quelli che approvano e difendono il male, e così il peccato non è uno solo, ma se ne commettono due. Contro costoro dice l’Ecclesiastico: “Hai peccato: non continuare” a peccare (Eccli 21,1), cioè a scusare e difendere il male fatto. Invece osteggia adeguatamente il male, colui che mai brama la prosperità di questo mondo.

Infatti prosegue: “La maledicano quelli che imprecano al giorno”. Colpiscono efficacemente la notte con la peniten­za, coloro che calpestano il luccichio della prosperità, che non hanno “il giorno” del piacere. Oppure: il giorno simboleggia la suggestione del nemico. E il senso è questo: espiano veramente i peccati passa­ti, coloro che sanno scoprire l’inganno del seduttore anche nella suggestione piacevole, provocando così ancor più contro di sé il Leviatan (il diavolo).

Su questo vedi il Sermone della III domenica di Quaresima, IV parte, sul vangelo: “Quando lo spirito immondo esce da un uomo”.

Ma poiché, debellati i vizi, resta sempre qualche macchia, se pur minima, che non può essere eliminata, perché il vincitore non vada in superbia, aggiunge: “Le stelle siano oscurate dalla sua caligine”, dalla caligine della notte, poiché anche quelli che risplendono per le loro virtù conservano qualche resto della notte, che resiste per un complesso di circostanze; e questo perché rifulgano ancor più, proprio a motivo di quelle imperfezioni che essi non vorrebbero, e dalle quali sono umiliati e posti in ombra. Si legge in proposito nel libro di Giosuè che, nella Terra Promessa, i Cananei non furono uccisi, ma divennero tributari della tribù di Efraim (cf. Gs 17,13); infatti quando con la speranza entriamo nella sfera delle cose celesti, pur in mezzo a opere perfette rimangono dei vizi: questi tuttavia sopravvivono perché ci esercitiamo nella virtù dell’umiltà, e perché non monti in superbia colui che non è in grado di eliminare ogni male, sia pur piccolo.

E anche nel libro dei Giudici: “Queste sono le nazioni che il Signore ha risparmiato, per mettere alla prova Israele per mezzo di esse” (Gdc 3,1); sono cioè i vizi, con i quali il giusto è sempre alle prese, e mentre ha paura di essere vinto, viene represso in lui l’orgoglio per le proprie virtù, e di fronte ai piccoli difetti impara a capire che non è stato lui a vincere i più gravi.

Altro senso: “Le stelle siano oscurate dalla caligine di quella notte”, perché la notte, cioè il consenso alla colpa, tramandataci da Adamo, confonde talmente la vista, che anche quelli che brillano come astri di fronte al mondo, non sono in grado di vedere la luce eterna com’è veramente. E soggiunge: “Attenda la luce e non la veda”, perché per quanto fervore abbiano in questo esilio, tutta­via finché sono in questa carne non vedranno mai quella luce com’è veramente, a motivo della condanna alla cecità, nella quale sono nati.

“Né vedano il sorgere dell’aurora”. Il sorgere dell’aurora simboleggia la nuova nascita della risurrezione finale, nella quale i santi nasceranno nella loro carne alla visione dell’eterna luce. Ma per quanto quaggiù gli eletti risplendano, non potranno mai comprendere come sarà la gloria della nuova nascita. Questa notte non chiuse, ma aprì le porte del ventre, perché all’uomo concepito al peccato, aprì le brame della concupiscenza. Aperte quindi queste porte, cioè le brame della concupiscenza carnale, siamo trascinati agli infiniti mali della corruzione. Perciò oppressi gemiamo, perché giustizia vuole che ciò che abbiamo fatto di nostra volontà, lo dobbiamo poi subire anche nolenti.

“Perché non sono morto nella matrice materna?”. La matrice, nella quale l’uomo viene concepito nel peccato, simboleggia la cattiva suggestione. Ah, fossi morto, mi fossi cioè ritenuto come morto in essa, in modo che la suggestione non mi trascinasse al piacere. “Perché non spirai appena uscito dal grembo?”. È uscito dal grembo colui che, concepito nel peccato, è trascinato fuori dal piacere: ma fossi almeno perito in quel piacere, per non giungere fino alla follia di dare il consenso .

“Perché sono stato accolto sulle ginocchia?”. Si è accolti sulle ginocchia, quando tutti sensi e le membra, a motivo del consenso dello spirito, si sottomettono, si piegano al compimento dell’opera cattiva, come le ginocchia si piegano ad accogliere il neonato. “Perché allattato alle mammelle?”. Si è allattati alle mammelle quando si è inco­raggiati (al male) con vana sicurezza e ridicole scuse.

Osserva anche che la colpa si commette dapprima di nascosto, e allora si è nella matrice; poi si commette apertamente, senza vergogna, davanti agli uomini, e allora esce nell’utero; in seguito diventa abitudine, e allora è come accolta sulle ginocchia; alla fine viene alimentata o da falsa speranza o dalla disperazione, e allora è come allattata alle mammelle.

 

23. Ecco, adesso vedi chiaramente quanto deve piangere e quanto deve pentirsi colui che discende da Gerusalemme a Gerico. E continua la parabola: “Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada, lo vide e passò oltre. Anche un levita, giuntogli accanto, lo vide e passò oltre” (Lc 10,31-32).

Nel sacerdote è raffigurata la passione del comando, nel levita l’ipocrisia. E su queste due passioni troviamo un riscontro nel libro dei Giudici, dove si legge che Abimelech combatteva valorosamente per conquistare una torre: “avvicinatosi alla porta, tentava di appiccarle il fuoco. Ma una donna gettò dall’alto un pezzo di màcina, colpì Abimelech alla testa e gli spaccò il cranio. Egli chiamò subito il suo armìgero e gli disse: Presto, tira fuori la spada e colpiscimi; perché non si dica di me che sono stato ucciso da una donna. Egli obbedì al comando del re, e lo uccise”(Gdc 9,52-54).

Vediamo che cosa significhino Abimelech e la torre, la porta e il fuoco, la donna e il pezzo di màcina, il cranio, e l’armìgero di Abimelech.

Abimelech s’interpreta “mio padre re”, e sta indicare colui che vuole comandare agli altri come padre e re. La torre raffigura l’altezza della dignità, o dell’autorità, alla quale si avvicina per conquistarla. Ma per poterla “bruciare” più facilmente, si serve di monete d’oro e d’argento, raffigurate nel fuoco – del quale dice il Profeta: “Il fuoco sta nella casa dell’empio” (Mic 6,10) –, e le mette sotto la porta della torre, le dà cioè a coloro che sembrano essere la porta della chiesa, e poter così per mezzo di essi, bruciati da questo fuoco, salire sulla torre.

Oppure anche: “appicca il fuoco alla porta”, cioè ai portieri e ai notai della loro curia, che sono degli infami scrocconi, che succhiano il sangue dei poveri, svuotano le borse dei ricchi, e distribuiscono tutto a nipoti e nipotine, e forse anche figli e figlie; ratificano petizioni in carta, e in cambio incassano somme d’oro e d’argento. Di costoro dice Giobbe: “Il fuoco divorerà le tende di coloro che volentieri accettano regali” (Gb 15,34). E sempre Giobbe: “Sono nell’abbondanza le tende dei predoni”, o ladroni, “ed essi provocano sfacciatamente Dio, che pure ha posto lui stesso tutte quelle cose nelle loro mani” (Gb 12,6). E ancora: “Sono come ònagri nel deserto: escono per il loro lavoro, braccano la preda, procurano il cibo ai figli”, e anche alle loro nipotine; “Lasciano nudi gli uomini privan­doli degli indumenti. Nelle città fecero gemere gli uomini, e le anime dei feriti chiameranno aiuto: ma Dio non lascerà tali cose impunite. Essi si ribellarono alla luce” (Gb 24,5.7.12-13), e quindi saranno privati della luce della grazia e di quella della gloria.

Lo sventurato Abimelech, che brama il potere, certamente non per essere utile, intraprende il viaggio senza temere gli imbrogli di chi lo ospita, il gelo delle Alpi, il caldo dell’Italia, i rischi e i pericoli della Toscana, i briganti di Roma. Gli basta avvicinarsi alla porta: appicca il fuoco, viene alleggerito dell’oro, viene caricato del piombo appeso al rescritto. E vediamo che cosa capita a questo disgraziato, bramoso di salire in alto.

“Ecco una donna”. La donna è questa nostra carne; il pezzo di màcina, con la quale gli viene rotto il cranio, raffigura la bramosia dell’ambizioso, per la quale le sue energie mentali si disperdono nelle cose di questo mondo, ed egli stesso sarà poi distrutto dalla condanna del severo giudizio. Dice Giobbe: “Sfuggirà alle armi di ferro, ma lo colpirà l’arco di bronzo. La spada, estratta e sguainata dal fodero, lo folgorerà nella sua amarezza” (Gb 20,24-25).

Commenta Gregorio: Le armi di ferro sono le necessità della vita presente, che pesano gravemente. Nel bronzo è raffigurata l’eterna sentenza la quale, essendo disattesa dal malvagio, è giustamente paragonata all’arco che colpi­sce a tradimento. “Sfuggirà perciò alle armi di ferro”, perché, preoccupato delle necessità presenti, ruberà molto con la sua avarizia, esponendosi però ai colpi dell’eterno giudizio.

“Estratta e sguainata”: il malvagio, mentre ordisce misfatti nel suo pensiero, è come una spada nel fodero; ma esce dal fodero quando si palesa nell’esecuzione del suo misfatto. Con la parola “folgorazione” viene indicato il lampeggio prodotto dalla spada mentre colpisce. Quindi, di colui che, investito di autorità e di potere, fa del male agli altri, si dice che folgora perché, mentre di fronte ai buoni si innalza come in una luce di gloria, poi dalla vita stessa dei buoni viene condannato e tormentato.

“Il re chiamò il suo armìgero”. L’armigero è l’aiutante che porta le armi, ma con esse non combatte: quindi raffi­gura l’ipocrita; e lo sventurato Abimelech vuole morire per mano dell’armìgero, piuttosto che per mano di una donna, cioè a motivo dei peccati carnali. Dice Giobbe a proposito: “Quando è il momento, lo struzzo stende in alto le sue ali” (Gb 39,18). Lo struzzo, le cui penne assomigliano a quelle della cicogna e dello spar­viero, raffigura l’ipocrita che con le penne di una falsa santità allunga le frange del suo vestito. Costui ha le ali chiuse, tiene cioè nascosti i suoi pensieri, ma quando è il momento, le spiega verso l’alto, vale a dire che quando si presenta l’occasione pro­pizia, rende palesi i suoi intenti con grande superbia. Ma per intanto si finge santo, e quindi tiene chiuse in se stesso le cose che pensa, e tiene per così dire le ali umilmente piegate sopra il corpo.

Adesso capisci chiaramente chi sia il sacerdote che offre agli dei, come sacrifici, le sacre monete d’oro e d’ar­gento: agli dèi, dei quali è detto: “Tutti gli dèi delle nazioni sono demoni” (Sal 95,5); e sai anche chi sia il levita, che è il suo ministro.



24. Ricordiamoci dunque che il sacerdote e il levita, pur vedendo quell’uomo spogliato di tutto, piagato e mezzo morto, passa­rono oltre senza curarsene.

Su questo abbiamo una concordanza in Giobbe: “Lo struzzo abbandona le sue uova alla terra: forse che tu le riscaldi nella polvere? Dimentica che un piede le schiaccerà, o che una fiera della campagna le stritolerà. Tratta duramente i suoi figli, come non fossero suoi” (Gb 39,14-16). Lo struzzo appunto è l’ipocrita che ambisce le grandezze temporali e abbandona le sue uova, cioè i figli che ha messo al mondo: non ne ha cura alcuna e non si preoccupa che, privi di amorevoli esortazioni, di istruzione e di vigilanza, vengano corrotti dai cattivi esempi, o portati alla rovina dalle fiere del campo. Il campo è il mondo e la fiera è il diavolo il quale, tendendo i suoi agguati con le ladrerie di questo mondo, spogliando e ferendo l’anima che discende da Gerusalemme a Gerico, si sazia ogni giorno della morte dell’uomo. E il senso è questo: anche se il diavolo, imperversando in questo mondo, assale coloro che sono stimati per la loro buona condotta, l’ipocrita non se ne preoccupa minimamente. Per questo è detto: “Tratta duramente i suoi figli”: chi non è ricolmo e animato dalla grazia e dall’amore, guarda il suo prossimo come un estraneo, anche se è stato lui a generarlo a Dio.

A ragione dunque è scritto: “Abbandona le sue uova alla terra”. Abbandonare le uova alla terra, vuol dire non offrire ai figli alcun esempio di vita santa. Però, siccome la provvidenza celeste non li abbandona, soggiunge: “Tu forse li riscalderai nella polvere?”. Come dicesse: Sono io che li riscaldo nella polvere, perché infiammo con il fuoco del mio amore le anime dei fanciulli, abbandonate in mezzo ai peccatori, i quali sono come “la polvere che il vento disperde dalla faccia della terra” (Sal 1,4).

 

25. E il vangelo giustamente continua: “Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compas­sione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi sopra olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente estrasse due denari e li diede al locandiere…”, ecc. (Lc 10,33-35).

Il samaritano, nome che s’interpreta “custode”, simboleggia la grazia dello Spirito Santo, della quale dice Giobbe: “Chi mi concederà di ritornare com’ero ai mesi passati, ai giorni nei quali Dio era il mio custode? Quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo e alla sua luce camminavo anche in mezzo alle tenebre. Com’ero ai giorni della mia giovinezza, quando Dio abitava nel segreto della mia tenda. Quando l’Onnipotente stava con me e attorno a me stavano i miei figli” (Gb 29,2-5).

L’anima che discende da Gerusalemme a Gerico e che incappa nei briganti, vedendosi spogliata di tutto e ferita, pensando alla sua innocenza battesimale, alla dolcezza della contemplazione, alla purezza della sua vita di un tempo, sospira e piange dicendo: “Chi mi concederà di ritornare come ero un tempo”, cioè alla vita santa; “ai giorni”, vale a dire alla coscienza piena di luce, alla luce del buon esempio, quando Dio custodiva il mio entrare e il mio uscire? (cf. Sal 120,8): il mio entrare nella contemplazione e il mio uscire all’attività; il mio entrare nella coscienza e il mio uscire nella stima del prossimo.

“Quando brillava la sua lucerna”, la sua grazia, “sopra il mio capo”, nella mia mente, “e alla sua luce camminavo” nei sentieri della giustizia, “anche in mezzo alle tenebre”, in mezzo cioè ai falsi fratelli.

Ahimè, ahimè, chi mi concederà che io ritorni com’ero nei giorni della mia giovinezza, cioè dell’innocenza battesimale e della vita intemerata; “quando Dio abitava nel segreto della mia tenda”, affinché nel segreto io progredissi nel bene: e con queste parole si pente anche della finzione di ostentare Dio in pubblico, ma poi non ricono­scerlo in segreto. Ma quando uscii dal segreto incappai nei briganti. Finché ero nel segreto “l’Onni­po­tente era con me e attorno a me c’erano i miei figli”, vale a dire i sensi del mio corpo, che mi obbedivano umilmente. Ma ahimè, ahimè, sventurato!, quando scesi da Gerusalemme uscii dal segreto e i miei figli sono diventati per me i briganti che mi spogliano e mi feriscono.

Vediamo però che cosa faccia all’anima ferita la grazia dello Spirito Santo “che prega”, cioè che fa pregare, con gemiti inesprimibili (cf. Rm 8,26), che è “padre dei poveri, datore di doni e luce dei cuori” (Sequenza della messa di Pentecoste).

“Fasciò le sue ferite versandovi sopra olio e vino”. Nell’olio che illumina è simboleggiato il riconoscimento del peccato, nel vino che inebria la compunzione delle lacrime: compunzione che inebria l’anima affinché si dimentichi delle cose temporali. L’eb­brezza poi provoca anche le lacrime. Su queste due cose abbiamo la concordanza in Giobbe che dice: “Per quali vie si diffonde la luce e il calore si divide (si spande) sulla terra? Chi segnò il corso alla pioggia torrenziale e la strada al tuono rumoreggiante, per far piovere sopra la terra?” (Gb 38,24-26).

La via è la grazia dello Spirito Santo, per mezzo della quale si diffonde la luce, si riconosce cioè il proprio peccato, e quindi anche il calore, cioè l’ardore della contrizione, si diffonde (si divide) sulla terra, vale a dire fa sì che il peccatore divida il corpo del peccato, distingua cioè punto per punto tra il peccato stesso e le sue circostanze; così dà corso a una pioggia torrenziale, ossia alla compun­zione delle lacrime, la cui violenza travolge gli ostacoli della colpa e della vergogna, dando il via al tuono frago­roso, aprendo cioè la via alla confessione, che come il tuono terrorizza i demoni.

Si legge infatti nel primo libro dei Re: “Il Signore fece scoppiare tuoni fragorosi sopra i filistei terrorizzandoli, e così furono sbaragliati dai figli d’Israele” (1Re 7,10). Con il tuono e con la spada i filistei, cioè i demoni, terrorizzati, sono colpiti dai figli d’Israele, cioè dai veri penitenti. Giustamente quindi è detto: “Versando olio e vino fasciò le sue ferite”. La grazia dello Spirito Santo fascia le ferite dell’anima, quando ripromette al penitente la speranza del perdono e la veste di gloria.

“Caricatolo sul suo giumento”, ecc. Il giumento, che suona come giovamento, è simbolo dell’obbedienza, la quale dice: “Stavo davanti a te come un giumento” (Sal 72,23). Infatti, finché l’anima si sottomette alla volontà altrui, è aiutata e trasportata: mentre porta, è portata. La locanda, in lat. stabulum (stalla), simboleggia il fetore del proprio peccato e il locandiere lo spirito di contrizione. I due denari sono le due specie di pentimento, cioè quello dei peccati commessi e quello dei peccati di omis­sione. Il penitente infatti deve piangere perché ha fatto ciò che è era proibito, ma anche perché ha omesso di fare ciò che era comandato.

L’anima ferita dal peccato, ma curata poi con il farmaco dello Spirito Santo, adagiata sul giumento dell’obbedienza viene portata ad stabulum, cioè al fetore della propria iniquità, per fermarsi lì insieme con Giobbe, del quale è detto appunto che “con un coccio si raschiava la marcia, seduto sopra un letamaio” (Gb 2,8).

Il coccio è un pezzo di vaso di terracotta; si chiama in lat. testa perché da molle che è, diventa duro con la cottura, quindi testa è come diretosta. Il coccio simboleggia la durezza della penitenza, con la quale il penitente, seduto sul letamaio, cioè umiliandosi nel fetore del suo peccato, deve raschiare la marcia delle sue iniquità. La marcia è detta in lat. sanies, perché è prodotta dal sangue il quale, alterato dal bruciore prodotto dalla ferita, si cambia in marcia. La marcia perciò è la putrefa­zione del sangue, e quindi il penitente deve raschiare la marcia della colpa con la durezza della penitenza.

E fa’ attenzione che nessuno è in grado di ritornare a Gerusalemme, se non viene caricato sopra il giumento dell’obbedienza. Per questo il Signore fece il suo ingresso in Gerusalemme seduto sopra un asinello. Di questo asinello dice Neemia: “Non c’era posto (per cui passare) per il giumento sul quale ero seduto” (2Esd 2,14). Il nostro corpo, che dev’essere come un umile giumento, obbediente e spregevole, sul quale deve stare seduta l’anima, non deve trovar posto in questo mondo, perché il posto dell’uomo è sopra tutte le cose. Sta scritto infatti: “Lo hai posto al di sopra di tutte le opere delle tue mani” (Sal 8,7).

Considera ancora ciò che si legge nella Storia Naturale: quando il giumento è nella fase dell’estro, se gli si taglia la criniera, si calma. Così dobbiamo fare anche con il nostro corpo: quando vuole godere dell’abbondanza delle cose temporali ed è portato alla lussuria dalla sfrontatezza della carne, allora dobbiamo sfigurarlo e tosargli la testa, come si fa con i pazzi. Per questo si legge di Giobbe che, rasatosi la testa, cadde a terra (cf. Gb 1,20). Anche a chi è affetto di scabbia o da altra grave malattia, viene di solito rasata la testa. A questo nostro corpo, scabbioso e malato, dobbiamo tagliare i capelli delle ricchezze e dei piaceri, affinché, come un animale mansueto, sia in grado di portarci alla città di Gerusalemme.

Fratelli carissimi, imploriamo dallo Spirito Santo la grazia, affinché versi sulle piaghe dell’anima nostra l’olio e il vino della sua misericordia, le fasci, ci carichi sul giumento dell’obbedienza, ci conduca alla locanda, cioè al ricordo delle nostre iniquità, ci affidi al locandiere, vale a dire allo spirito di contrizione, perché rimaniamo sotto le sue cure finché con i due denari, cioè con la duplice specie di compunzione, ricuperiamo il primitivo stato di salute che abbiamo perduto. Ci metta in grado, ricuperata la salute, di ritornare a Gerusalemme, dalla quale siamo caduti.

Ce lo conceda egli stesso che, Dio unico con il Padre e il Figlio, vive e regna nei secoli eterni. E ogni anima penitente risponda: Amen, alleluia!

 

 

DOMENICA XIV DOPO PENTECOSTE

Temi del sermone

 

– Vangelo della quattordicesima domenica dopo Pentecoste: “Andando a Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea”; si divide in tre parti.

– Anzitutto sermone sull’infusione della grazia: “La mia radice si protende verso le acque”.

– Parte I: L’edificio della vita spirituale: “Se ti rivolgerai all’Onnipotente”.

– Sermone contro i religiosi e i chierici: “La terra dalla quale si ricavava il pane”.

– Sermone sulla costanza della mente: “Invece di terra ti darà viva roccia”.

– Sermone ai contemplativi e sulla natura dell’aquila: “Forse che a un tuo comando si alzerà l’aquila?”; e sulla pietra ametista.

– Parte II: Le cinque specie di lebbra e il loro significato: “Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi”.

– Sermone contro la gloria della dignità: “Forse che la luce del malvagio non si spegnerà?”.

– Sermone contro la lussuria: “L’occhio dell’adultero spia nel buio”.

– Sermone contro la rapina: “I malvagi spostano i confini”.

– Sermone contro l’invidia: “L’iracondia uccide lo stolto”.

– Sermone sui cinque luoghi dove si trova la lebbra, e il loro significato.

– Sermone contro la discordia: “Se il sacerdote constaterà che la lebbra si è diffusa”.

– Sermone sulle cinque opere che il vero penitente deve compiere: “Porterà vesti strappate”.

– Sermone sulla giusta vergogna nella confessione e sul dovere di confessare le circostanze del peccato: “Ester con il volto del colore della rosa”.

– Parte III: Sermone sul dovere di rendere grazie a Dio per la misericordia concessa: “Uno di essi tornò indietro”.

– Sermone sulla rovina del giusto e sulle due specie di tentazione: “Il monte che frana”.

 

esordio - l’infusione della grazia

 

1. In quel tempo: “Gesù, andando verso Gerusalemme, attraversò la Samaria e la Galilea” (Lc 17,11).

Dice Giobbe: “La mia radice è protesa verso le acque e la rugiada si fermerà sulla mia mèsse (Gb 29,19). Fa’ attenzione a queste quattro cose: la radice, le acque, la rugiada e la mèsse. Nella radice è raffigurato il pensiero della mente pura, nelle acque l’infusione della grazia, nella rugiada la beatitudine della gloria e nella mèsse la separazione dell’anima dal corpo.

Quando il pensiero di una mente pura si apre per mezzo della devozione, allora viene infusa l’acqua della grazia celeste. Leggiamo nell’Apocalisse: “Ecco, sto alla porta e busso: se uno mi apre”, ecco “la radice aperta” (protesa), “io entrerò da lui” (Ap 3,20), ecco “verso le acque”. Infatti nel Cantico dei Cantici lo sposo parla alla sposa: “Aprimi, sorella mia, perché il mio capo è coperto di rugiada, e i miei riccioli delle gocce della notte” (Ct 5,2). Come dicesse: O anima, se mi aprirai la radice della tua mente, dal capo della mia divinità effonderò su di te la rugiada e le gocce della grazia celeste, che ti rinfrescheranno nella notte della tribolazione.

Giustamente le chiama gocce. Infatti la grazia, nella vita presente, è come una goccia rispetto al premio eterno. La goccia è quella che sta ferma, mentre la stilla è quella che cade (da stillare). Si dice goccia (gutta), come a dire glutinosa, viscosa, che non si sparge. Ha la goccia di grazia colui che non la perde; ha invece la stilla di grazia, colui che crede solo per un certo tempo e poi al momento della tentazione viene meno (cf. Lc 8,13). Su questo abbiamo anche un’altra concordanza sempre in Giobbe: “L’al­be­ro ha una speranza: se viene tagliato, rinverdisce di nuovo e i suoi rami riprendono a crescere. Se la sua radice invecchia sotto terra e il suo tronco muore nella polvere, al sentore dell’acqua riprende a germogliare e rifà la sua chioma come quando era stato piantato la prima volta” (Gb 14,7-9).

L’albero è chiamato in lat. lignum, perché bruciato si trasforma in luce (lat. lignumlumen); è figura del giusto il quale, quando si infiamma del fuoco dell’amore, si trasforma in luce di buon esempio. Egli, se è stato tagliato con la scure del peccato mortale, non deve disperare della misericordia di Dio, che è più grande della sua miseria, ma deve sperare, perché potrà di nuovo rinverdire per mezzo della penitenza; e i suoi rami, cioè le sue opere, ricresceranno. E anche se la radice, vale a dire l’attenzione del suo cuore, invecchierà nella terra, cioè nelle cose terrene, e il tronco, cioè le sue opere saranno morte nella polvere, vale a dire nella vanità del mondo, tuttavia se egli si convertirà a Dio, al sentore dell’acqua, cioè della grazia dello Spirito Santo, rigermoglierà nella confessione e rifarà la sua chioma nelle opere di riparazione. Giustamente quindi è detto: “La mia radice è aperta, cioè protesa verso l’acqua”.

“E la rugiada si fermerà sulla mia mèsse”. La mèsse si raccoglie quando le anime, separate definitivamente dai corpi, come le messi mature tagliate dalla terra, se ne andranno ai granai celesti; allora la rugiada si fermerà sulla mèsse, perché il gaudio dell’eterna visione sazierà le anime degli eletti.

E per conseguire il gaudio di questa rugiada, dobbiamo camminare con Gesù Cristo attraverso la Samaria e la Galilea, come dice il vangelo di oggi: “Gesù andò verso Gerusalemme, attraverso la Samaria e la Galilea”.

 

2. Fa’ attenzione che in questo vangelo vengono posti in evidenza tre momenti. Il primo, l’andata di Gesù Cristo a Gerusalemme attraverso la Samaria e la Galilea, quando dice appunto: “Gesù andando verso Gerusalemme attraversò... ”, ecc. Il secondo, la guarigione dei dieci lebbrosi, quando dice: “Mentre entrava in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi”. Il terzo, il ritorno del lebbroso straniero per glorificare Dio, quando dice: “Uno di essi, vedendosi guarito, tornò indietro”.

Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: “Tendi a me, Signore, il tuo orecchio” (Sal 85,1). Si legge quindi il brano della lettera del beato Paolo ai Galati: “Camminate secondo lo Spirito” (Gal 5,16), che divideremo in tre parti, mostrandone la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. La prima: “Camminate secondo lo Spirito”. La seconda: “Le opere della carne sono ben note”. La terza: “Il frutto dello Spirito invece è l’amore”. E osserva che questo brano della lettera viene letto insieme con questo vangelo, perché nella lettera sono segnalati appunto quei vizi che producono nell’anima la lebbra del peccato, e vengono quindi indicate quelle virtù per mezzo delle quali l’anima viene purificata da ogni lebbra.

 

I. il passaggio di gesù cristo attraverso la samaria e la galilea

 

3. “Gesù, andando verso Gerusalemme, passò attraverso la Samaria e la Galilea”. Tutte le parole di questa prima parte sono molto importanti. Chi vuole andare a Gerusalemme, è necessario che attraversi prima la Samaria e la Galilea.

Samaria s’interpreta “custodia”, Galilea “trasmigrazio­ne" e Gerusalemme “visione di pace”. Chi custodisce, chi osserva i comandamenti passa alle virtù, per poter poi giungere a Gerusalemme. Il beato Giobbe era passato per la Samaria, e perciò diceva: “Se ho camminato nella vanità e se il mio piede si è affrettato vero la frode, mi pesi Dio sulla sua giusta bilancia e riconoscerà così la mia integrità e la mia innocenza (Gb 31,5-6). Il riconoscere di Dio è la sua conoscenza di ciò che noi facciamo. Con il nome di bi­lancia viene indicato il mediatore tra Dio e l’uomo; in lui, come per mezzo di una giusta bilancia, vengono pesati i nostri meriti e, confrontandoci con i suoi precetti, siamo in grado di riconoscere ciò in cui siamo venuti meno nella nostra vita. E il senso è questo: Se ho fatto qualcosa con leggerezza, se ho fatto qualcosa di dannoso, si presenti il mediatore affinché confrontandomi con la sua vita io possa controllare se veramente sono stato integro.

Parimenti Giobbe aveva attraversato anche la Galilea, quando diceva: “Quello stesso che giudica scriva il libro di accusa perché io lo porti sulle mie spalle e me lo cinga come una corona. Lo proclamerei ad ogni gradino (passo) e glielo presenterei come a mio principe” (Gb 31,35-37). “Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio” (Gv 5,22). Il Figlio, venendo per la nostra redenzione, ha stabilito con noi la Nuova Alleanza: egli che ora è l’autore del documento, sarà a suo tempo artefice del giudizio, e allora esigerà inesorabilmente ciò che adesso comanda con dolcez­za.

Portare il libro sulle spalle significa mettere in pratica la sacra Scrittura. Prima infatti è detto: “portare sulle spalle”, e poi: “cingersene come di una corona”, perché i precetti della parola sacra, se si mettono in pratica con esattezza adesso, ci procureranno in cambio, nel giorno della retribuzione, la corona della vittoria.

“Ad ogni mio gradino” (passo). Il progresso nella virtù lo chiama gradino perché progredendo si sale per giunge­re alla conquista delle cose celesti. E quasi ad ogni suo gradino proclama il libro, colui che dimostra di averne conseguito la conoscenza non soltanto a parole, ma con le opere.

“E glielo presenterei come a mio principe”. Ciò che offriamo, lo teniamo in mano: quindi offrire il libro a colui che viene per il giudizio, vuol dire aver praticato con le opere le parole dei suoi comandi.

 

4. Considera che su queste tre parole: Samaria, Galilea e Gerusalemme, c’è una concordanza in Giobbe, dove Elifaz, il Temanita, dice: “Se ritornerai all’Onnipotente sarai “riedificato” (risorgerai) e terrai lontana dalla tua tenda l’iniquità. Invece di terra ti darà selce, e invece di selce ti darà torrenti d’oro. L’Onnipotente sarà con te contro i tuoi nemici e accumulerà per te l’argento. Allora nell’Onnipotente abbonderai di delizie e alzerai a Dio il tuo volto. Lo pregherai ed egli ti esaudirà e tu scioglierai i tuoi voti. Deciderai una cosa e ti riuscirà, e sul tuo cammino splenderà la luce” (Gb 22,23-28).

O peccatore, se allontanandoti da te stesso, in cui c’è la distruzione, ritornerai a Dio, in cui c’è la costruzione, sarai veramente ricostruito. Distruggi prima in te il tuo edificio, ed egli su di te edificherà il suo. Dice infatti con le parole di Isaia: “Io dico all’oceano: prosciù­gati! Faccio inaridire i tuoi fiumi. Dico a Gerusalemme: Sarai ricostruita! E al tempio: Sarai riedificato dalle fondamenta!” (Is 44,27-28).

In questo passo l’oceano è chiamato “il profondo”, cioè procul a fundo, lontano dall’aver un fondo; esso simboleg­gia l’abisso dei cattivi pensieri i quali, se saranno eliminati, e se i fiumi della concupiscenza che scorrono per i canali dei cinque sensi saranno prosciugati, allora il tempio, cioè la mente, avrà le fondamenta sui zaffiri. Dice infatti Isaia: “Avrai le tue fondamenta sui zaffiri” (Is 54,11), cioè sui desideri e sulle aspirazioni all’eterna vita; e Gerusalemme, cioè la vita spirituale, sarà riedificata con i suoi baluardi.

Continua infatti Isaia: “Farò di diaspro (topazio) i tuoi baluardi e le tue porte saranno di pietre scolpite” (Is 54,12). Il diaspro è una pietra color verde e si dice che scacci i sogni stravaganti; questa pietra è simbolo della povertà che mantiene l’uomo nel vigore della fede e mette in fuga i sogni stravaganti, cioè la brama delle ricchezze, che poi sono destinate a deludere l’uomo. La fede infatti disprezza le cose temporali, mentre chi le ama rifiuta la fede. Se l’edificio della nostra vita spirituale viene edificato con i baluardi della povertà, non c’è d’avere più alcun timore delle frecce dell’antico avversario.

Le porte sono i cinque sensi del corpo, che il Signore farà di pietre scolpite, quando i nostri occhi saranno “scolpiti” (lavorati) con l’effusione delle lacrime, la lingua con la condanna di sé, gli orecchi con la predicazione, le mani con l’elargizione di elemosine e i piedi con la visita agli ammalati. Di questa scolpitura dice il Signore per bocca di Zaccaria: “Ecco, io intaglierò la sua scultura (iscrizio­ne), e in un giorno solo rimuoverò l’iniquità dalla sua terra” (Zc 3,9). Intagliare o scolpire si dice in lat. cælare, da cælum, l’arnese di ferro che tutti chiamanoscalpello. Quando il Signore sulle porte dei sensi scolpisce questa iscrizione, allora rimuove dalla nostra terra, cioè dal nostro corpo, l’iniquità; e questo “in un sol giorno”, cioè con la “luce dell’unità” con la quale l’uomo esteriore si unisce a quello interiore nel servizio di Dio. Giustamente quindi è detto: “Se ritornerai all’Onnipo­tente sarai ricostruito, e così terrai lontana l’iniquità dalla tua tenda”. Il corpo è inteso come tenda dell’anima e la mente come tenda dei pensieri. E il senso è questo: Se ritornerai a Dio sarai purificato sia nei pensieri che nelle opere.

 

5. “Invece della terra ti darà roccia, invece della roccia torrenti d’oro”. Ecco Samaria, Galilea e Gerusalemme, cioè la custodia, la trasmigrazione e la visione di pace.

La terra, a motivo della sua stabilità, simboleggia la custodia, l’osservanza dei precetti, della quale dice Giobbe: “La terra, dalla quale si traeva il pane, nel suo interno fu sconvolta come dal fuoco. Le sue pietre conten­gono zaffiri e le sue zolle l’oro” (Gb 28,5­6). Questa terra raffigura l’osservanza dei precetti, dalla quale viene tratto il pane del celeste nutrimento. Infatti, se osservi i precetti, sarai ristorato con il pane del gaudio celeste. A chi fa la volontà del Signore e non la propria, il Signo­re stesso promette per bocca di Isaia: “Se non seguirai le tue vie e non farai la tua volontà, allora troverai la tua delizia nel Signore: io ti solleverò sulle altezze della terra e ti nutrirò con l’eredità di Giacobbe, tuo padre: la bocca del Signore ha parlato” (Is 58,13-14).

Il nostro meschino piacere consiste in due fatti: nella cattiva azione e nella cattiva volontà; se cessa questo piacere, allora troviamo le nostre delizie nel Signore. “Cerca le tue delizie nel Signore, ed egli esaudirà le tue richieste” (Sal 36,4). E allora ti innalzerà al di sopra di tutte le altezze terrene, affinché tu disprezzi le cose temporali, sottometta la tua carne e custodisca i suoi precetti; e così ti nutrirà dell’eredità di Giacobbe, tuo padre. L’eredità che Giacobbe, nostro padre, cioè Gesù Cristo, ci ha lasciato, fu la povertà e l’umiltà, l’obbedienza e le sofferenze della passione, delle quali ci nutriamo quando le abbracciamo con il gaudio dello spirito.

Dice Mosè nel Deuteronomio: “Succhieranno come latte le inondazioni del mare” (Dt 33,19). Come il bambino succhia il latte dalle mammelle della madre con avidità e grande piacere, così noi dobbiamo succhiare dalla vita di Gesù Cristo le inondazioni del mare, vale a dire le amarezze della sua passione e delle tribolazioni. E fa’ attenzione che dice “succhieranno”. Nessuno può succhiare qualcosa senza stringere le labbra. Se non stringiamo così le labbra, rifiutando l’amore alle cose temporali, non possiamo certo succhiare le sofferenze di Cristo. Diciamo dunque: “La terra, dalla quale si traeva il pane”.

“Nel suo luogo (nel suo interno) fu sconvolta dal fuoco”. Il luogo del precetto di Dio sono i prelati della chiesa, i chierici e i religiosi, nei quali la chiesa deve avere un luogo, occupare un posto speciale. Ma ahimè! Gli stessi comandamenti di Dio, nel loro luogo, cioè nei chierici e nei religiosi, sono sconvolti dal fuoco della lussuria e dell’avarizia: la carità, la castità, l’umiltà e la povertà, che sono precetti spirituali del Signore, nei chierici e nei religiosi sono distrutte. Essi infatti sono invidiosi, lussuriosi, superbi e avari.

“Le sue pietre sono luogo di zaffiri”. Gli zaffiri sono color cielo. I prelati, i chierici e i religiosi erano di solito pietre di zaffiro, per l’amore e la brama delle cose celesti: adesso invece sono divenuti come sterco, per l’im­mondezza del peccato. “Le sue zolle erano oro”. La zolla, detta anche gleba, da glebus, aratore dei campi, è un blocco di terra erbosa. Le zolle si formano quando la terra è impregnata di umidità. I pastori della chiesa e i professi di un Ordine religioso erano di solito delle zolle d’oro: zolle, perché per l’abbondante infusione di grazia sapevano mantenere l’armonia (la coerenza) tra professione e azione; d’oro, perché risplendevano per santità di vita e sapienza. Ma adesso, come deplora Geremia : “I figli di Sion, famosi e valutati come oro fino, sono reputati vasi di creta, ope­ra della mani di un vasaio” (Lam 4,2), cioè del diavolo, che da vasi pregiati li ha ridotti a volgari vasi di creta, da gettarsi nel letamaio della geenna.

E anche noi, dopo averli gettati nel letamaio, ritorniamo al nostro argomento.

 

6. “Invece di terra darà selce”, come dicesse: Chi osserva fedelmente, per quanto è nelle sue forze, i precetti, arriverà ad un’invitta costanza nella pratica delle virtù. La selce (silex) è una pietra dura, e deve il suo nome al fatto che da essa sprizza il fuoco (lat. silex, exilio); è figura della costanza nella virtù, da cui scaturisce un fuoco che illumina e infiamma il prossimo all’amore di Dio. Di questa selce, il Signore, per bocca di Ezechiele, dice: “Ti ho dato una faccia come il diamante (adamas) e come la selce: non li temere e non impaurirti davanti a loro, perché sono una genìa di ribelli” (Ez 3,9). Nel diamante e nella selce è simboleggiata la costanza, che il Signore mette nel volto del predicatore perché non abbia paura di fronte al peccatore, che fa irritare Dio stesso.

Infatti Dio dice del predicatore: “Egli si slancia coraggiosamente e con impeto va contro gli armati. Sprezza la paura e non retrocede davanti alla spada” (Gb 39,21-22). Commenta Gregorio: Il predicatore si slancia coraggiosamente perché non si lascia fermare dagli avversari. Va con impeto contro gli armati perché si mette contro coloro che fanno il male, in difesa della giustizia. Sprezza la paura e non retrocede davanti alla spada: nella paura si teme la sofferenza futura, nella spada si avverte già il colpo della sofferenza presente. E poiché il predicatore non teme i futuri avversari, sprezza la paura; e poiché non si lascia vincere neppure dai colpi che gli arrivano, non indietreggia neppure davanti alla spada.

Anche Giobbe, a proposito della selce, dice: “Contro la selce l’uomo porta la mano e sconvolge i monti dalla radice. Nella roccia scava ruscelli e posa il suo occhio su tutto ciò che è prezioso” (Gb 28,9-10). Porta la mano contro la selce colui che si sforza in tutti i modi di essere costante nella pratica delle virtù. Questo è ciò che leggiamo nei Proverbi: “A forti cose stende la sua mano” (Pro 31,19). E così distrugge in se stesso i monti, cioè la superbia del cuore; li distrugge dalle radici, cioè fino nei più reconditi pensieri, e scava ruscelli di compunzione nella roccia, vale a dire nella durezza del suo cuore. E allora, con l’occhio della sua mente illuminata, è in grado di vedere tutto ciò che è prezioso e al cui paragone tutte le altre cose perdono ogni valore.

E a proposito di ciò che è prezioso, il testo aggiunge: “E invece della selce ti darà torrenti d’oro”. Ecco Gerusalemme. Ecco tutte le cose preziose che vede l’occhio di colui che prima ha attraversato la Samaria e la Galilea!

 

7. E su questo abbiamo una concordanza, sempre nel libro di Giobbe, quando Dio stesso gli rivolge la parola: “Forse che a un tuo comando l’aquila si leverà in volo e porrà il nido sulle alture? Essa se ne sta sulle rocce e abita sulle selci scoscese e sui picchi inaccessibili: di lassù spia la preda e i suoi occhi vedono a grande distanza” (Gb 39,27-29). L’aquila deve il suo nome all’acutezza della sua vista, (lat. acies, acutezza), in quanto può fissare il sole senza restare abbagliata. La Storia Naturale dice dell’aquila che è di vista acutissima, e costringe anche i suoi piccoli a fissare il sole ancora prima che abbiano le ali completamente formate, e a questo scopo li urta e li costringe a voltarsi verso il sole. E se ad uno dei suoi piccoli lacrimano gli occhi, lo uccide davanti agli altri, e nutre solo gli altri. Inoltre si dice che depone tre uova, ma che il terzo lo elimina. Alcuni veramente hanno osservato anche aquile con tre piccoli: ma se ne ha tre, getta fuori dal nido il terzo, perché le riesce troppo gravoso nutrirli. Si dice anche che essa metta nel nido una pietra preziosa, l’ametista, insieme con i piccoli, perché, in virtù di quella pietra preziosa, vengano allontanati da essi i serpenti.

Nell’aquila è simboleggiata la sottile intelligenza e la sublime contemplazione dei santi, i quali rivolgono allo sguardo del vero Sole e alla luce della Sapienza i figli, cioè le loro opere, affinché allo splendore del sole sia manifesto se in esse si nasconde qualcosa di viziato o di estraneo alla loro condizione. Infatti ogni malvagità viene dalla luce condannata e le opere delle tenebre vengono dalla luce smascherate (cf. Ef 5,13). E i santi, se vedono che qualche loro opera non è rivolta direttamente al sole, e che ai suoi raggi si sfigura e versa lacrime, immediatamente la eliminano. Il raggio della grazia mostra chiaramente quale sia il figlio vero. L’opera buona fissa direttamente il sole e resiste alla fiamma della tribolazione senza venir meno. Invece l’opera adulterata guarda verso terra, viene meno nella tribolazione, versa lacrime quando le vengono a mancare le cose terrene, e quindi dev’essere eliminata, affinché possa così essere incrementata l’opera buona. Infatti quando in te stesso elimini il male, rafforzi in te il bene; e tanto più il bene si rafforza, quanto più il male viene meno.

Considera poi che le tre uova, o i tre piccoli dell’aquila, raffigurano i tre amori del giusto: cioè l’amore di Dio, l’amore del prossimo e l’amor proprio: quest’ultimo egli deve assolutamente scacciarlo dal nido della sua coscienza. L’amor proprio infatti è un grave ostacolo all’amore di Dio e del prossimo, e quindi dev’essere assolutamente eliminato.

E Giobbe aveva cacciato dal suo nido quel figlio, quando diceva: “Strazio le mie carni con i miei denti” (Gb 13,14). I denti sono così chiamati perché dividentes, cioè sminuzzano i cibi, e simboleggiano i sensi interni, che controllano ogni cosa e che, per così dire, masticano e sminuzzano le cose che pensano e quindi le passano al ventre della memoria. I santi, se scoprono in se stessi qualcosa di carnale, con questi denti (i sensi interiori) la combattono in se stessi con ogni energia e la eliminano dal nido della loro coscienza.

 

8. Osserva inoltre che l’ametista è una pietra preziosa molto singolare, color viola, che manda dei bagliori dorati e presenta dei puntini di color rosso vivo. Questa pietra simboleggia la vita di Gesù Cristo, che fu color viola per la povertà e l’umiltà, mandò fiamme e bagliori dorati nella sua predicazione e nel compimento dei miracoli, e presentò dei punti color rosso vivo nella sua passione. Questa ametista il giusto deve fissarla nel nido della sua coscienza, affinché dai nati, che sono le sue opere, vengano scacciati i serpenti, cioè le suggestioni diaboliche.

Diciamo dunque anche noi: “Forse che a un tuo comando l’aquila si leverà in volo?” Commenta Gregorio: Al comando di Dio l’aquila si leva in volo quando, nell’obbedienza ai divini comandi, la vita dei fedeli viene innalzata alle cose celesti. E nelle altezze colloca il suo nido, perché rifugge di fermare la sua mente, i suoi pensieri, nelle cose vili e basse di questo mondo.

“Dimora nelle rocce”. Nel vangelo, invece di roccia, viene usata la parola “pietra”: e quando è al singolare s’intende Cristo, quando è al plurale s’intendono i santi cristiani. Perciò Pietro dice: “Voi siete come pietre vive” (1Pt 2,5). È detto dunque che l’aquila si ferma sulla pietra (roccia), che cioè l’intelletto dei santi si ferma stabilmente nelle sentenze degli antichi e intrepidi Padri. Si possono intendere nelle pietre anche le potenze celesti, le quali, situate nelle altezze come le rocce, sono esenti ad ogni mutamento o instabilità, ciò che invece non avviene per le piante. Il santo dunque attende la gloria perenne degli angeli e, considerandosi ospite in questo mondo, bramando ardentemente ciò che contempla, è già fisso sulle altezze.

“Dimora nelle selci scoscese e sui picchi inaccessibi­li”. Che cosa sono le selci scoscese se non i potenti cori degli angeli? Sono “scoscesi”, cioè “precipitosi”, perché una parte di essi è precipitata, mentre un’altra parte è rimasta lassù. Essi stanno sì integri ed inviolati a motivo della natura del loro premio, ma sono anche scoscesi, precipitosi per ciò che riguarda la quantità del loro numero, e quindi li chiama anche “picchi inaccessibili”. Infatti per il cuore dell’uomo peccatore, è veramente inaccessibile lo splendore degli angeli. Ma chi è rapito nella contempla­zione in modo tale da ritrovarsi con la mente e l’intenzio­ne tra i cori angelici, altro non gli manca se non di poter contemplare anche colui che è al di sopra degli stessi angeli.

“Di lassù spia la preda”: da quei cori angelici spinge l’occhio della mente alla gloria della suprema Maestà, alla quale ardentemente aspira, non avendola ancora contemplata, ma quando la contemplerà, finalmente sarà saziato. E poiché non ci è possibile vedere Dio così com’egli è finché siamo oppressi da questa carne, il testo conclude: “I suoi occhi scrutano da lontano”. Come dicesse: i santi aumentano sempre più la forza del loro ardore, ma neppure così possono vedere più da vicino colui, il cui infinito splendore non possono penetrare.

Beata dunque quell’aquila che affonda il rostro nel torrente d’oro della Gerusalemme celeste, del quale è detto nel salmo: “Saranno inebriati dell’abbondanza della tua casa, e li disseterai al torrente delle tue delizie” (Sal 35,9). Dice infatti la Genesi che i fratelli di Giuseppe bevvero insieme con lui fino ad essere brilli (cf. Gn 43,34).

Considera che chi s’inebria (si ubriaca) cambia mente e lingua. E la mente dei beati, che saranno inebriati al torrente d’oro, sarà mutata, perché la loro fede e la loro speranza cesserà e in essi si compirà perfettamente il precetto: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore”(Lc 10,27), ecc., che adesso non si è ancora compiuto perfettamente. E anche la loro lingua sarà mutata. Infatti: “La mia bocca non parli più come è abitudine degli uomini” (Sal 16,4). Diciamo dunque: “Invece della terra darà selce, e invece della selce torrenti d’oro”.

Ecco che ti è chiaro finalmen­te che chi vuole andare a Gerusalemme e bere al torrente d’oro della beatitudine celeste, deve prima necessariamente passare attraverso la Samaria e la Galilea e possedere ter­ra e selce.

E poiché quando siamo giunti alla Samaria e di qui passiamo alla Galilea, incontriamo i nemici, cioè gli spiriti maligni, che ci attaccano, e che noi vinciamo per mezzo della grazia di Dio per poter giungere a Gerusalemme, il testo di Giobbe continua: “L’Onnipotente sarà con te contro i tuoi nemici e accumulerà per te l’argento”; come dicesse: Mentre scaccia da te gli spiriti maligni, ti riempie la coscienza di luce, “e allora nell’Onnipotente abbonderai di delizie”. Abbondare di delizie nell’Onnipotente significa essere saziati del suo amore al banchetto di una coscienza pura. Leggiamo in proposito nei Proverbi: “Una coscienza tran­quilla è come un perenne convito” (Pro 15,15). “E alzerai a Dio il tuo volto”; alzare il volto a Dio significa innal­zarsi alla ricerca delle verità superiori. “Lo pregherai, ed egli ti esaudirà”. Perciò il giusto, nell’introito della messa di oggi dice: “Tendi l’orecchio, Signore, ed esaudiscimi” (Sal 85,1).

“E tu scioglierai i tuoi voti”. Dice Gregorio: Chi ha fatto un voto, ma per la sua debolezza non è in grado di mantenerlo, in castigo del suo peccato viene privato della possibilità di fare il bene, anche se lo vuole. Se poi viene cancellata la colpa che era di ostacolo, subito riacqui­sta la possibilità di adempiere il voto.

“Deciderai una cosa e ti riuscirà”: Si decide una cosa e riesce, quando, per divino favore, si riesce nella pratica di una virtù, che ardentemente si bramava acquistare. “E sul tuo cammino splenderà la luce”: nel cammino dei giusti splende la luce, quando con le loro mirabili opere virtuose diffondono lo splendore della loro santità.

 

9. Con questa prima parte del vangelo, concorda la prima parte dell’epistola di oggi: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,16). Chi vuole andare a Gerusalemme insieme a Gesù, deve camminare secondo lo Spirito e non secondo la carne. Cammina secondo lo Spirito colui che passa attraverso la Samaria e la Galilea; e perciò dice: “Camminate secondo lo Spirito”, se volete andare a Gerusalemme; “e così non sarete portati a soddisfare i desideri della carne”, cioè eviterete di darvi a quei piaceri che la carne suggerisce. “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne”.

La carne è così chiamata perché è cara (amata); oppure il termine deriva da creare; infatti crementum (accrescimento) è il seme del maschio; infatti in greco la carne si chiama kreas. O carne cara e, perché cara, carente, priva di carità, e quindi piena di desideri contrari allo Spirito! O carne cara, che dopo un po’ diventerai odiosa, perché marcirai tra i vermi e puzzerai! La carne e lo spirito si combattono a vicenda, così che noi non riusciamo più a fare ciò che vogliamo (cf. Gal 5,17).

E su questo abbiamo la concordanza nel libro di Giobbe: “Un combattimento è la vita dell’uomo sulla terra” (Gb 7,1). La vita dell’uomo è un combattimento, cioè una conti­nua tentazione, perché la carne, già corrotta, si procura da sé i tormenti, e anche nel bene che compie sente sorgere il male, come per esempio la noia nella quiete della contemplazione, o la vanagloria nell’astinenza.

Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di farci passare attraverso la Samaria, vale a dire per l’osser­vanza dei tuoi precetti, e attraverso la Galilea, cioè nella pratica assidua delle virtù, per poter giungere a Gerusalemme e meritare di dissetarci al suo torrente d’oro. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

II. la guarigione dei dieci lebbrosi

 

10. “Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce dicendo: Gesù maestro, abbi pietà di noi! Appena li vide, Gesù disse: Andate e mostratevi ai sacerdoti. E mentre essi andavano, furono risanati” (Lc 17,12-14).

L’allegoria è chiara. Il villaggio (in lat. castellum) è il mondo, e quando il Signore vi entrò, gli corsero incontro dieci lebbrosi, nei quali vediamo raffigurato il genere umano che aveva peccato contro il decàlogo, non avendo amato né Dio né il prossimo, e perciò si era coperto della lebbra dell’infedeltà e dell’iniquità, e quindi gridava: “Gesù maestro!...” Invocò salvezza, implorò misericordia, il genere umano; e il Signore esaudì entrambe le richieste: con il sangue della redenzione e con l’acqua del battesimo lo purificò da ogni lebbra di infedeltà e di iniquità.

Significato morale. Considera che questi dieci lebbrosi raffigurano tutti i peccatori, coperti da cinque specie di lebbra, la quale si manifesta in cinque “posti”, che colpisce cioè cinque parti del corpo. Nel Levitico sono descritte le cinque specie di lebbra e i cinque posti che ne sono infetti. Le cinque specie di lebbra sono: la bianca, la lucida, l’oscura, la rossa e la pallida; c’è poi la lebbra nel capo, nella barba, nella pelle del corpo, nelle vesti e nella casa. Sta scritto dunque nel Levitico: “Chiunque sarà colpito da tale lebbra e che, a giudizio del sacerdote, verrà isolato, porterà vesti stracciate, il capo scoperto, il viso coperto da un panno, e griderà di essere contaminato e immondo. Per tutto il tempo che sarà lebbroso e immondo, starà isolato, fuori dell’accampamento” (Lv 13,44-46).

Vedremo il significato di tutto questo, esaminando ogni singolo termine. La lebbra bianca è figura dell’ipocrisia e della simulazione di religiosità; la lebbra lucida raffigu­ra l’ambizione, lo smodato desiderio delle dignità di questo mondo; la lebbra oscura simboleggia l’immondezza della fornicazione; la lebbra rossa raffigura la rapina e l’usura; infine la lebbra pallida rappresenta l’invidia dell’altrui felicità.

 

11. Della lebbra bianca dell’ipocrisia e della simulazione, dice Giobbe: “I simulatori e gli astuti provocano l’ira di Dio” (Gb 36,13). Simulatore viene da “simulacro”; i simulacri sono imitazioni. Il simulatore esibisce l’immagine di uno che non è lui. L’ipocrita è come un simulacro, in quanto esibisce l’imitazione della santità di un altro. E a questo simulacro si tributa onore perché si crede che vi sia in esso qualcosa di divino. Ma dice Giobbe: “La stirpe dell’i­pocrita è sterile” (Gb 15,34), perché non aspira a ricevere il frutto di ciò che fa, nel momento dell’eterna ricompensa. È detto sterile perché se ne sta lì arido e secco (lat. sterile, stat aridum). Infatti quando manca la retta intenzione, anche l’opera che sembra buona va perduta. Si infetta totalmente di lebbra bianca ciò che il giudizio umano stima retto, ma che non è fatto con retta intenzione.

Della lebbra lucida, che raffigura la dignità passeggera, parla Bildad, il Suchita: “Forse che non si spegnerà la luce del malvagio e più non arderà la fiamma del suo fuoco? La luce si oscurerà nella sua tenda e la lucerna che pende sopra di lui si estinguerà” (Gb 18,5-6). La luce del malvagio si spegnerà perché la prosperità di questa vita che passa finisce con lui. “E più non arderà la fiamma del suo fuoco”: è chiamato fuoco l’ardore dei desideri terreni, la cui fiamma, alimentata dalla brama interiore, è il fasto, o anche il potere esteriore; ma non arderà più, perché nel giorno della morte ogni fasto esteriore scomparirà. “La luce si oscurerà nella sua tenda”. Talvolta per tenebre si intende tristezza e per luce gioia. Quindi la luce si oscura nella tenda del malvagio, perché la gioia della sua coscienza, fondata sulle cose materiali, viene meno. “E la lucerna che sta sopra di lui si estinguerà”. La lucerna è un lume racchiuso in un vaso di creta, quindi la luce nella creta raffigura il piacere della carne. La lucerna che sta sopra di lui si estingue, perché quando sull’empio si abbatte la giusta punizione per i suoi misfatti, il piacere della carne scompare dalla sua mente. E giusta­mente è detto “la lucerna che sta sopra di lui”, e non quella che sta vicino a lui, perché è la mente dei malvagi che è posseduta dal piacere delle cose terrene.

Della lebbra oscura della fornicazione dice Giobbe: “L’occhio dell’adultero spia nel buio e dice: Nessun occhio mi osserva; e si copre la faccia”(Gb 24,15). Adultero è chi viola il tàlamo altrui, o anche chi opprime l’utero altrui (lat. uterum terens). La sozzura della fornicazione, che ottenebra l’occhio della ragione, cerca sempre il favore di un luogo nascosto, e con tanta maggiore sicurezza viene commessa, quanto minore è la paura di essere scoper­ta. Dice in proposito l’Ecclesiastico: “Per l’uomo dissoluto ogni pane è appetitoso. Chi è infedele al proprio letto, sprezza la sua anima e dice: Chi mi vede? Sono immerso nelle tenebre, i muri mi nascondono: nessuno mi vede, chi dovrei temere? Dei miei peccati non si ricorderà l’Altissi­mo. E non riflette che l’occhio di Dio vede tutte le cose” (Eccli 23,24-27). E quindi soggiunge: “E si copre, si vela il viso” proprio per non essere riconosciuto. Il “volto” del cuore umano è fatto a somiglianza di quello di Dio, e il malvagio lo copre per non essere riconosciuto dal severo giudice, quando avvilisce la sua vita con azioni disoneste.

Della lebbra rossa dei depredatori, dice Giobbe: “Hanno spostato i confini, rubato i greggi, portato via l’asino degli orfani, hanno preso in pegno il bue della vedova. Hanno distrutto la vita dei poveri e hanno oppresso tutti quelli che se ne stavano in pace a casa loro” (Gb 24,2-4). E la pazienza divina sopporta tutti costoro e aspetta che facciano penitenza; essi invece accumulano la collera su di sé per il giorno dell’ira (cf. Rm 2,5). E della fortuna dei malvagi dice ancora Giobbe: “Perché i malvagi vivono, sono stimati e sereni nelle loro ricchez­ze? La loro prole prospera con essi e hanno intorno una folla di parenti e di nipoti. Le loro case sono tranquille e senza preoccupazioni: il bastone di Dio non pesa su di loro. Il loro bestiame non è sterile e le loro mucche figliano e non abortiscono. I loro ragazzi vanno fuori come un gregge e i loro figli saltano festosamente. Cantano al suono di timpani e cetre e si divertono al suono di altri strumenti. Passano nel benessere i loro giorni, ma poi in un istante scendono nel sepolcro. Eppure dicevano a Dio: Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie. Chi è l’Onnipotente perché siamo obbligati a servirlo, e che cosa ci giova pregarlo? Tuttavia, poiché i loro beni non sono in loro potere, sia lontano da me il loro consiglio”(Gb 21,7-16).

Della lebbra pallida dell’invidia, dice sempre Giobbe: “L’ira uccide l’insensato e l’invidia uccide il meschino” (Gb 5,2). Meschino è chi ama le cose terrene, grande invece è chi aspira alle eterne. Quindi il meschino viene distrutto dall’invidia, in quanto nessuno muore di questa peste se non colui che muore dal desiderio delle cose di quaggiù. Dice Gregorio: Chi vuole essere preservato da quella peste che è l’invidia, tenda a quel­l’ere­dità che il numero degli eredi, per quanto grande, non fa diminuire: è un’ere­di­tà che è una per tutti, e tutta intera per ognuno.

 

12. Analogamente la lebbra sul capo raffigura l’impurità nel pensiero. La lebbra della barba raffigura la malvagità portata ad esecuzione. La lebbra della pelle è figura del comportamento disonesto. La lebbra nelle vesti è il dissen­tire dalla fede in Cristo, oppure l’im­pru­denza nella pratica delle virtù. La lebbra nella casa è la discordia nella comunità.

Dell’impurità nel pensiero, Giobbe dice: “Succhierà il capo (il veleno) dell’aspide e lo ucciderà la lingua della vipera” (Gb 20,16). L’aspide, un piccolo serpente, raffigura l’oscura tentazione dei demoni; il suo capo, cioè l’inizio della tentazione, parte dal cuore il quale, una volta preso, viene trascinato oltre con violenza. La vipera ha il corpo piuttosto lungo e nasce in modo tale che esce con violenza. Il peccatore dunque succhia il capo dell’aspi­de e poi lo uccide la lingua della vipera, quando egli accoglie con piacere l’inizio della suggestione segreta e poi si conse­gna sconfitto alla violenza delle altre tentazioni.

Parimenti sull’esecuzione dell’opera malvagia, dice Giobbe: “Ha steso la sua mano contro Dio e ha osato farsi forte contro l’Onnipotente. Correva contro Dio a testa alta, armato della sua grassa cervice. Il grasso copriva la sua faccia e la pinguedine pendeva dai suoi fianchi” (Gb 15,25-27). Stendere la mano contro Dio vuol dire persistere nelle opere cattive, sprezzando i suoi giudizi. E osa farsi forte contro l’Onnipotente, perché Dio gli permette di trarre anche vantaggio dal male che compie. E corre contro Dio a testa alta, quando compie con arroganza ciò che al Creatore dispiace. “Correva”, vale a dire non conosceva ostacolo o avversità nel suo iniquo operare. “Armato di grassa e dura cervice”, cioè della superbia che proviene dalla ricchezza, superbia fomentata dall’ab­bon­danza dei beni materiali come dalla grassezza del corpo. “Il grasso gli copre la faccia”, perché l’abbondanza, tanto bramata, delle cose terrene gli opprime e gli chiude gli occhi della mente. “La pinguedine gli pende dai fianchi”: i fianchi dei ricchi sono coloro che ad essi si appoggiano e si uniscono. Chi si unisce al malvagio potente, pende dai suoi fianchi come la sua pinguedine, perché anche lui va superbo della sua forza come della sua grassezza.

Similmente, della vita disonesta il Signore, parlando del diavolo, dice per bocca di Giobbe: “Stenderà sotto di sé l’oro come fosse fango. Come una pentola farà bollire il mare profondo” (Gb 41,21-22). L’oro simboleggia lo splendore della santità e il fango la sozzura dei piaceri carnali. Infatti molti che nella santa chiesa sembravano splendere del fulgore della santità, il diavolo se li è assoggettati con il contagio di un miserabile piacere e con la corruzione di una vita diso­nesta, e in questo modo ha steso sotto di sé l’oro, facendolo diventare fango. E fa anche bollire come una pentola il profondo del mare, cioè il cuore del peccatore, avvolgendolo con il fuoco della suggestione e facendogli sprizzare intorno a sé la schiuma della sua vita dissoluta.

Parimenti, la veste di Gesù Cristo, inconsutile e tessuta tutta d’un pezzo (cf. Gv 19,23), raffigura la fede in lui, l’unità della chiesa, che gli eretici, i falsi cristiani e i simoniaci vorrebbero spezzare. E questi sono raffigurati nei tre amici di Giobbe, cioè Elifaz, Bildad e Zofar, i quali fecero soffrire il beato Giobbe con le loro parole e lo offesero con le loro ingiurie. Elifaz s’interpreta “disprezzo del Signore”, ed è figura degli eretici, che si rifiutano di obbedire alla chiesa di Cristo. Bildad s’interpreta “sola vecchiezza”, ed è figura dei falsi cristiani i quali sono invecchiati solo nel male (cf. Dn 13,52). Zofar s’interpreta “distruzione della vedetta”, ed è figura dei simoniaci i quali distruggono la vedetta, la sentinella della dignità ecclesiastica, quando la comperano con il denaro.

Ancora, a proposito della lebbra della casa, si legge nel Levitico che “se il sacerdote, constaterà che (nella casa) la lebbra si è diffusa, ordinerà che vengano rimosse le pietre infette dalla lebbra, e le farà gettare in luogo immondo, fuori della città; farà raschiare tutto l’interno della casa, e anche i calcinacci saranno gettati in luogo immondo fuori della città; poi si prenderanno altre pietre per sostituirle a quelle tolte prima” (Lv 14,39-42). La lebbra della casa simboleggia la discordia nella congregazione, nella comunità. Se il sacerdote, o il prelato, constata che questa lebbra si diffonde e si aggrava, deve immediatamente ordinare che le pietre, cioè i frati della congregazione, nei quali alligna la lebbra della discordia, siano estromessi, affinché il compagno scabbioso non abbia la possibilità di strofinarsi contro il compagno semplice e puro e quel poco lievito non riesca a corrompere tutta la massa (cf. 1Cor 5,6; Gal 5,9) e quel poco veleno non riesca ad intossicare tutto il balsamo.

E anche la casa, cioè la congregazione stessa, affinché non vi rimangano dei resti di quella lebbra, deve raschiarla, deve cioè investigare attentamente e se ne trova qualche traccia, deve eliminarla senza pietà, e al posto delle pietre infette, nell’edificio della congregazione deve inserire delle pietre nuove, che siano in grado di servire il Signore in unione di spiriti e uniformità di comportamenti.

Chiunque fosse infetto da una di queste cinque specie di lebbra, se vuole ottenere misericordia dal Signore, deve assolutamente eseguire i cinque interventi su descritti: deve portare “vesti stracciate”, non deve cioè confidare nei suoi meriti né presumere di alcuna sua opera buona; le vesti stracciate raffigurano anche le membra del corpo, castigate con severa penitenza; deve avere “il capo scoperto”, manifestare cioè tutti i peccati commessi con i sensi del corpo; deve avere il “volto coperto con una tela”, sempre cioè vergognarsi di ciò che ha commesso; deve “proclamarsi in ogni momento e infetto e contaminato”; e ritenendosi immondo, e tenendosi appartato dal tumulto delle cose temporali e dei pensieri cattivi, “dimorerà fuori dell’accampamento”, si riterrà cioè indegno di rimanere nella comunità dei santi. Chi non applica questi cinque rimedi non può considerarsi un vero penitente.

Chi dunque vuole veramente pentirsi abbia le vesti stracciate, vale a dire non presuma di alcuna delle sue opere; nella confessione scopra il capo davanti a Dio e ai suoi angeli; si vergogni di aver commesso tanti peccati; e non solo si proclami immondo e infetto, ma accetti anche umilmente che gli altri gli rinfaccino le stesse cose: se si comporta diversamente, dimostra di non essere veramente pentito; come lebbroso deve ritenersi indegno della compa­gnia dei santi e con l’umiltà della mente deve prostrarsi umilmente ai loro piedi.

Per questo è d’uso che i pubblici penitenti sostino alla porta della chiesa, indossando il cilicio, e preghino i fedeli che entrano in chiesa e dicano loro: Noi, indegni peccatori, preghiamo voi, fedeli di Cristo, di implorare per noi la misericordia divina, perché siamo indegni di entrare in chiesa e di partecipare all’assemblea dei fedeli.

Questi penitenti possono dire coraggiosamente: “Gesù Maestro (praeceptor), abbi pietà di noi”. Fa’ attenzione a queste tre parole: Gesù, maestro, abbi pietà. Gesù s’inter­preta “salvatore”. Chi vuole la salvezza, osservi i comandamenti (praecepta) e così troverà misericordia. E osserva anche che “maestro” è posto tra “Gesù” e “abbi pietà”. Infatti dove c’è l’os­servanza dei precetti1, là, a destra e a sinistra, c’è la salvezza e la misericordia, che custodiscono quelli che li custodiscono (osservano). Dice infatti l’Ecclesia­stico: “Se tu vorrai custodire i comandamenti, essi custodiranno te” (Eccli 15,16).

 

13. “Gesù, vedendoli, disse: Andate e mostratevi ai sacer­doti”. Fa’ attenzione a queste tre parole: andate, mostratevi, ai sacerdoti. Nell’“andate” è indicata la contrizione del cuore, nel “mostratevi” la confessione della bocca, nelle parole “ai sacerdoti” l’opera di ripara­zione.

A proposito dell’“andate” della contrizione, il figlio prodigo dice: “Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te” (Lc 15,18). E fa’ attenzio­ne che prima dice “mi alzerò” e dopo “andrò”, perché se prima non ti rialzi dal tuo torpore non puoi “andare” con la contrizione. “Mi alzerò”, perché riconosco di giacere per terra; “andrò”, perché mi sono molto allontanato; “dal padre”, perché mi consumo nella più sordida miseria sotto il principe dei porci; “ho peccato contro il cielo”, cioè davanti agli angeli e alle anime sante, nelle quali Dio ha la sua dimora, “e contro di te”, cioè proprio nel segreto della coscienza, dove solo il tuo occhio può penetrare.

A proposito del “mostrarsi” nella confessione, dice lo sposo del Cantico dei Cantici: “Mostrami la tua faccia, suoni la tua voce ai miei orecchi; la tua voce è dolce e la tua faccia è leggiadra” (Ct 2,14). Si dice “faccia” in quanto “fa conoscere” l’uomo, e quindi giustamente nella faccia è raffigu­rata la confessione, perché questa rende l’uomo noto a Dio, il quale conosce il cammino dei giusti (cf. Sal 1,6). E il giusto è il primo ad accusare se stesso (cf. Pro 18,17). “Mostrami dunque la tua faccia” se vuoi che io ti mostri la mia, nella quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo (cf. 1Pt 1,12). “La tua faccia è leggiadra”. La faccia leggiadra è la confessione pudica. Gradita infatti a Dio è una confes­sione unita alla vergogna di aver peccato.

Troviamo scritto nel libro di Ester, che essa “soffusa il volto di roseo colore, con occhi graziosi e brillanti, nascondeva un animo afflitto e il cuore stretto da grande angoscia. Attraversate una dopo l’altra tutte le porte, si fermò alla presenza del re” (Est 15,8-9). Ester è figura dell’anima penitente, il cui volto nella confessione deve essere perfuso del colore rosso della vergogna. La vergogna è detta in lat. verecundia, perché vera timeat, teme le cose vere. Chi teme i giudizi veritieri di Dio, nella confessione prova senz’altro la vergogna che conduce alla gloria. Chi invece non sente vergogna dei suoi peccati, è segno che non ha paura. Dice Geremia: “Hai la sfrontatezza della prostituta: non vuoi arrossire” (Ger 3,3). Invece Ester aveva il cuore triste e attanagliato dall’ango­scia, perché il penitente è oppresso dalla tristezza nella contrizione e stretto dall’an­go­scia nella confessione; e nella confessione ha gli occhi riconoscenti e luminosi, a motivo della profusione delle lacrime; e così attraversa una dopo l’altra tutte le porte, enumerando tutti i peccati come li ha commessi: peccati che ci chiudono, come le porte, l’ingresso alla vita eterna.

Un’espressione importante per la confessione: “Attraversate una dopo l’altra tutte le porte, si fermò alla presenza del re”. Non potrai stare davanti a Gesù Cristo se non avrai prima aperte una dopo l’altra tutte le porte: solo così potrai mostrargli la tua faccia. E come sia questa faccia, lo spiega lui stesso quando dice: “Suoni la tua voce ai miei orecchi, la tua voce è dolce”. Lo sposo si compiace di ascoltare con gli orecchi della pietà la melodia della confessione. E osserva che dice “voce”. La voce è l’aria che colpisce, percuote la lingua, e rivela la volontà dell’animo. La vera confes­sione è quella dove c’è la “percussione”, cioè il rimprove­ro dei peccati, che svela tutto ciò che sta nascosto all’interno. Giustamente quindi è detto: “Mostratevi”. Mostratevi da voi stessi, non per mezzo di altri. Hai peccato in te stesso e con te stesso, è giusto che in te stesso e da stesso vada a mostrarti.

“Ai sacerdoti”: poiché dai sacerdoti viene imposta la penitenza; dicendo “ai sacerdoti”, richiama la necessità dell’opera riparatoria. Con questo capisci chiaramente che i peccatori devono, nella confessione, mostrarsi ai sacerdoti, ai quali soltanto è affidato il potere di legare e di sciogliere.

“E mentre vi andavano, furono mondati”. Ecco quanto grande è la misericordia di Dio, il quale con la sola contrizione purifica dai peccati, purché ci sia il fermo proposito di confessarli. Su questo abbiamo una concordanza in Giobbe, quando Dio rivolge la parola ai suo amici: “Prendete sette tori e sette montoni e andata dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi” (Gb 42,8). Il toro e il montone raffigurano la dura cervice e l’ostinazione della superbia: chi la uccide in se stesso, distrugge anche tutti i suoi vizi, indicati appunto nel numero sette. Nel vangelo il Signore dice: “Andate!”, e in Giobbe: “Andate!”. Nel vangelo: “Mostratevi!”, e in Giobbe: “Offri­te!”. Nel vangelo: “Ai sacerdoti”, e in Giobbe: “Al mio servo Giobbe”.

 

14. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: “Ben conosciute sono le opere della carne, che sono: la fornicazione” (Gal 5,19-21), cioè, in lat. formae necatio, la distruzione della forma, dell’immagine di Dio; l’impurità, che si commette con la profanazione della mente, senza l’azione; la lussuria, così chiamata per l’eccesso e la sontuosità dei cibi e delle bevande; l’avarizia, che è laschiavitù degli idoli (cf. Col 3,5) – avaro significa “avido di oro”, avidus auri, quindi avarizia –; i venefìci (stregonerie), da veleno, il quale è così chiamato (lat. venenum) perché va per le vene, e infatti non può nuocere se non viene a contatto con il sangue; il veleno è freddo, e perciò l’anima, che è ignea, fugge il veleno; i venefìci sono le suggestioni demoniache e le adulazioni dei peccatori, le quali non possono nuocere se non arrivano al sangue, cioè se non strappano all’anima il consenso; le inimicizie osti­nate; le contese nelle parole; le gelosie, quando due vogliono la stessa cosa; l’ira, l’improvvisa tempesta del­l’anima; le risse, così chiamate da rictus, aprire la bocca quasi in un ringhio, quando si picchiano travolti dall’ira; i dissensi, quando nella chiesa si formano delle fazioni; le sette, cioè le eresie, dette sette perché sono delle sezioni, cioè divisioni fatte con un taglio; le invidie dei beni altrui; gli omicidi, le ubriachezze e le orge (Gal 5,19-21). Da tutti questi vizi e peccati si origina nell’anima la lebbra, che la colpisce e la estromette dall’assemblea dei santi.

Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di mondarci dalla lebbra dei peccati, per poter essere riammessi nell’assemblea dei santi e meritare di salire con te alla celeste Gerusalemme. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen.

 

III. il forestiero ritorna a glorificare dio

 

15. “Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò con la faccia a terra ai piedi di Gesù per ringraziarlo: egli era un samaritano. Gesù osservò: Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero? E gli disse: àlzati e va’: la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,15-19). Osserva che questo straniero fece tre cose: ritornò, si gettò con la faccia a terra, e ringraziò Gesù.

Ritorna colui che non attribuisce a se stesso alcun merito: il bene che fa lo considera dono della misericordia di Dio. Per questo è chiamatosamaritano, cioè custode: egli attribuisce a Dio tutto il bene che riceve e così può dire con il salmista: “La mia forza la conserverò da te” (Sal 58,10), cioè attribuendola a te. Vuoi conservare ciò che ricevi? Attribuiscilo non a te, ma a Dio. Se attribui­sci a te ciò che non è tuo, sarai dichiarato reo di furto. E se non attribuisci a te ciò che è di altri, ciò che è di altri lo fai tuo.

A questo proposito abbiamo una concordanza in Giobbe, dove il Signore gli dice: “Forse che tu scaglierai fulmini ed essi partiranno, e poi ritornando ti diranno: Eccoci?” (Gb 38,35). I fulmini partono dalle nubi, e così anche dai santi predicatori si manifestano opere mirabili. Partono i fulmini quando i predicatori brillano con il fulgore dei miracoli. Però ritornando dicono: “Eccoci!”, quando attribuiscono a Dio, e non alle proprie capacità, qualunque cosa riconoscano di aver compiuto di grande. Oppure anche, vengono mandati e vanno, quando dal segreto della contemplazione escono per svolgere la loro missione in pubblico; poi ritornano e dicono a Dio: Eccoci!, perché dopo la missione pubblica tornano di nuovo alla contemplazione.

 

16. Inoltre: “si getta con la faccia a terra” chi si vergogna dei peccati commessi. L’uomo si getta faccia a terra quando si umilia. Chi si getta con la faccia a terra, vede dove cade; chi invece cade all’indietro, non vede dove cade. I buoni dunque si gettano con la faccia a terra perché si umiliano in queste cose visibili, quando vedono ciò che li attende, per innalzarsi così alle cose invisibili. Invece i cattivi cadono all’indietro, nelle cose invisibili, quando non vedono ciò che li attende. Su questi due modi di cadere, abbiamo una concordanza in Giobbe.

Primo modo di cadere: “Giobbe si strappò le vesti, si rase il capo e cadde a terra” (Gb 1,20). Le vesti raffigurano le opere, che ci coprono affinché non ci vergogniamo di essere nudi, e mentre la colpa ci fa piangere, le castighiamo duramente quasi con mano sdegnata. Allora infatti cade dall’animo ogni pensiero di orgoglio e di vanità; in questo appunto consiste radersi il capo: eliminare ogni pensiero di presunzione e riconoscere in se stessi quanto si è fragili. È difficile compiere grandi opere e non nutrire poi grande fiducia in se stessi.

Secondo modo di cadere: “I monte cadendo frana, e la roccia si stacca dal suo posto: le acque scavano le pietre e con l’alluvione a poco a poco la terra si disperde” (Gb 14,18-19). Osserva che ci sono due specie di tentazioni: quella che ci assalta all’improv­viso e quella che si insinua nella mente a poco a poco, e colpisce l’animo con subdole suggestioni. E il significato è questo: come queste cose inanimate a volte crollano all’im­prov­viso, a volte franano a poco a poco perché si sgretolano a motivo delle infiltrazioni d’acqua, così anche chi è posto in alto come il monte, o precipita all’improvviso come Davide quando guardò Betsabea, oppure si logora con una lenta e lunga tentazione, come Salomone il quale, per l’eccessiva familiarità e pratica di donne, fu trascinato a costruire un tempio agli idoli, lui che prima aveva costruito il tempio a Dio.

“La roccia”, cioè la mente del giusto, si stacca dal suo posto, cioè dalla giustizia passa al peccato per eccessiva impulsività; e “le pietre”, vale a dire le potenze dello spirito, vengono come scavate dalle acque, cioè dalle continue lusinghe del piacere. L’al­luvione è l’inondazione delle acque, e viene da alluo, bagnare.

 

17. Per la sua guarigione, per essere stato mondato, il Samaritano rese grazie; e di questo il Signore stesso lo lodò, dicendo: “Non sono dieci i guariti?”. Domanda dove sono gli ingrati, come fossero degli sconosciuti.

Questo fatto ci insegna a rendere grazie al Signore per i benefici elargiti. Se infatti Giobbe benedisse il nome del Signore e lo ringraziò anche in mezzo alle sventure, quanto più noi dobbiamo rendere grazie al Signore per tanti benefici elargitici. Il re Ezechia, per non aver elevato il cantico di grazie al Signore dopo la vittoria, fu colpito da malattia (cf. 4Re 20,1 ss). Leggiamo invece che Maria, sorella di Mosè, e Debora e Giuditta elevarono il cantico di ringraziamento al Signore per le loro vittorie sui nemici. E da tutto questo dobbiamo imparare ad innalzare canti di lode e a rendere grazie a Dio, datore di tutti i beni.

Fa’ attenzione che in questa parte del vangelo sono poste in evidenza tre parole molto importanti: uno solo, samaritano, e straniero: in esse sono indicate tre virtù. Uno solo, indica la concordia dell’unione; samaritano indica la pratica dell’umiltà; straniero indica il sapersi accontentare anche nelle privazioni della povertà. A queste tre parole corrispondono le tre parole del Signore: àlzati, va’, la tua fede ti ha salvato. àlzatiperché sei uno solo; va’ perché sei samaritano; la tua fede ti ha salvato perché sei straniero.

Chi vive nell’unità e nella concordia si alza per compiere le opere buone. Chi si premunisce con la pratica dell’umiltà va tranquillo e sicuro dovunque. Chi come straniero in questo mondo si orna del segno distintivo della povertà, la fede in Gesù Cristo che fu povero e ospite, lo farà salvo.

 

18. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza arte dell’epistola: “Invece i frutti dello Spirito sono: la carità” (Gal 5,22), che Agostino definisce “desi­derio dell’anima di fruire del Signore per lui stesso, e fruire di sé e del prossimo in ordine a Dio”; il gaudio, cioè la purezza della coscienza; la pace, così chiamata da patto, che è la libertà nella tranquillità; e la pazienza.

Considera che la virtù della pazienza si pratica in tre modi: sopportando alcune cose da Dio, come i castighi; alcune cose dal nemico, come le tentazioni; alcune cose dal prossimo, come le persecuzioni, i danni e le ingiurie; in tutte queste circostanze dobbiamo stare molto attenti a non lamentarci troppo dei castighi e dei flagelli permessi dal creatore, per non essere indotti ad acconsentire al peccato, per non reagire malamente.

Altri frutti dello Spirito sono: la longanimità nell’at­tendere; la bontà, cioè la dolcezza dell’animo; la benigni­tà, vale a dire la generosità nelle cose: benigno vuol dire disposto a fare il bene, o bene infiammato (lat. bene ignitus) di zelo; la mansuetudine, che a nessuno rivolge ingiurie; mansueto vuol dire “avvezzo alla mano” (lat. manui assuetus); la fede, per la quale crediamo con semplicità a ciò che in nessun modo siamo in grado di vedere: per la precisione infatti, e come la parola suona, si dice fede quando si avvera a puntino ciò che è stato detto (fedeltà); lamodestia, che osserva la giusta misura sia nel parlare che nell’ope­rare; la continenza, che si astiene anche dalle cose lecite; la castità, che usa rettamente di ciò che è lecito (cf. Gal 5,22­23).

Fortunato quell’albero che produce tali frutti! Fortu­nata quell’anima che si nutre di tali frutti! Non potrai mai avere questi frutti se non tornerai indietro con quell’unico samaritano e straniero, se non cadrai con la faccia a terra, se non renderai grazie. Allora soltanto meriterai di sentirti dire: “àlzati, va’ in pace, la tua fede ti ha salvato”.

Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di mantenerci nell’unità e nella concordia, di custodirci nell’umiltà e nella povertà, in modo che possiamo cogliere dall’al­bero della penitenza i frutti dello spirito, e nutrici così dell’albero della vita nella gloria celeste. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

 

 

 

 In questo sermone la parabola del fattore infedele vie­ne commentata due volte (nn. 4 e 7), come pure due volte viene indicata la concordanza presa dal libro dei Proverbi: “Per tre cose freme la terra”, ecc. (30,21-23). Nel primo commento il fattore è chiunque, e il commento si sviluppa e si conclude nel modo solito, concordando la citazione con la prima parte dell’epistola. Nel secondo commento, il fat­tore è il prelato della chiesa, e il commento inizia senza alcun preambolo, si sviluppa piuttosto ampiamente e si con­clude concordando la citazione con l’introito della messa.

 Non è provato che l’espressione sia di sant’Agostino.

 Allude all’orgogliosa rivolta di Lucifero contro Dio.

 Come il faraone, credendosi ingannato dagli ebrei, uscì in escandescenze e imprecazioni, e li inseguì con il suo esercito per riportarli in Egitto, così il diavolo, vedendosi disprezzato da coloro che decidono di mutar vita, gli incipienti, aumenta contro di essi le sue tentazioni.

 Presso i latini erano esseri fantastici che tormentavano durante i sogni.

 Curioso, vedi nota alla domenica V dopo Pentecoste, n. 4.

 Non si conosce la fonte di ciò che il Santo scrive sul cammello.

 Il termine lat. adamas (indomabile) significa acciaio, il ferro più duro, e diamante, la pietra più dura (di­zio­na­rio latino del Georges).

 Sant’Antonio mette qui in relazione i due termini praeceptor, maestro, e praecepta, comandamenti o precetti, cosa che in italiano sarebbe possibile solo traducendo praeceptor con “precettore”, nel senso di uno che dà precetti.